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L’astorica Federal Reserve, Di J. Bradford DeLong (da Project Syndicate, 8 agosto 2018)

 

The ahistorical Federal Reserve

BRADFORD DELONG

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BERKELEY – Economic developments over the past 20 years have taught – or ought to have taught – the US Federal Reserve four lessons. Yet the Fed’s current policy posture raises the question of whether it has internalized any of them.

The first lesson is that, at least as long as the current interest-rate configuration is sustained, the proper inflation target for the Fed should be 4% per year, rather than 2%. A higher target is essential in order to have enough room to make the cuts in short-term safe nominal interest rates of five percentage points or more that are usually called for to cushion the effects of a recession when it hits the economy.

The Fed protests that to change its inflation target even once would erode the credibility of its commitment to ensuring price stability. But the Fed can pay now or it can pay later. After all, what good is credibility today when it means sticking tenaciously to a policy that deprives you of the ability to do your job properly tomorrow?

The second lesson is that the two slope coefficients in the algebraic equation that is the Phillips curve – the link between expected inflation and current inflation, and the responsiveness of future inflation to current unemployment – are both much smaller than they were back in the 1970s or even in the 1980s. Then-Fed Chair Alan Greenspan recognized this in the 1990s. He rightly judged that pushing for faster growth and lower unemployment was not taking excessive risks, but rather harvesting low-hanging fruit. The current Fed appears to have a different view.

The third lesson is that yield-curve inversion in the bond market is not just a sign that the market prt psrticolari thinks that monetary policy is too tight; it is a sign that monetary policy really is too tight. The people who bid up the prices of long-term US Treasury bills in anticipation of interest-rate cuts when the Fed overshoots and triggers a recession are the same people who are now on tenterhooks wondering when to start cutting back on investment plans because a recession will soon produce overcapacity.

The Fed today has a “habitat theory” about why this time is different – that is, why the preferences of investors for particular maturity lengths imply that a yield-curve inversion would not mean what it has always meant. But 2006, just before the financial crisis hit, was supposed to be different, too. (And there were plenty of times before then that were supposed to be different, too.) History suggests that this time is highly unlikely to be different – and that it will not end well if the Fed continues to believe and behave otherwise.

The fourth lesson similarly reflects developments extending back further than 20 years. Back in the 1980s, it was not unreasonable to argue that the next large shock to the US macroeconomy was likely to be inflationary. It is much more difficult to reasonably argue that today. For the past three and a half decades, the principal shocks have not been inflationary, like the 1973 and 1979 oil crises, but rather deflationary, like the US savings and loan crisis in the 1980s and 1990s, the 1997 Asian crisis, the 2000 dot-com bust, the terrorist attacks of September 11, 2001, the 2007 subprime collapse that began in the US, and the 2010 European debt crash.

Former Fed Chair Janet Yellen told me back in the 1990s that, in her view, conducting the Fed’s internal debate within the framework of interest-rate rules had greatly increased the ease of getting from agreement about the structure and state of the economy to a rough consensus on appropriate policy.

But, at least as I see it, right now the Fed’s process of getting from a realistic view of the economy to an appropriate monetary policy does not seem to be functioning well at all. Perhaps it is time for the Fed to place its internal discussions in a more explicit framework. One can imagine, for example, the Fed adopting an “optimal control” method, whereby monetary-policy settings are established by running multiple simulations of a macroeconomic model using different combinations of interest rates and balance-sheet tools to project future inflation and unemployment.

The problem for optimal control methods is that the real world is not some closed system where economic relationships never change, or where they change in fully predictable ways. The most effective – and thus the most credible – monetary policy is one that reflects not only the lessons of history, but also a willingness to reconsider long-held assumptions.

 

L’astorica Federal Reserve,

Di J. Bradford DeLong

BERKELEY – Gli sviluppi economici degli ultimi 20 anni hanno insegnato – o dovrebbero avere insegnato – quattro lezioni alla Federal Reserve degli Stati Uniti. Tuttavia l’attuale atteggiamento politico solleva la domanda se essa le abbia fatte proprie, almeno in parte.

La prima lezione è, almeno sinché dura l’attuale configurazione del tasso di interesse, il corretto obbiettivo di inflazione della Fed dovrebbe essere al 4 per cento all’anno, anziché al 2 per cento. Un obbiettivo più elevato è essenziale al fine di avere sufficiente spazio per rendere sicuri i tagli ai tassi di interesse nominali a breve termine di cinque punti percentuali o di più ancora, che sono normalmente richiesti per attenuare gli effetti di una recessione, quando essa colpisce l’economia.

La Fed obbietta che modificare il suo obbiettivo di inflazione persino una volta sola eroderebbe la credibilità del suo impegno ad assicurare la stabilità dei prezzi. Ma la Fed può pagare adesso o può pagare in seguito. Dopo tutto, che vantaggio è una credibilità odierna quando essa comporta di restare tenacemente attaccati ad una politica che vi priva della possibilità di fare correttamente il vostro lavoro domani?

La seconda lezione è che i due coefficienti di inclinazione nella equazione algebrica che è la curva di Phillips – il nesso tra l’inflazione attesa e quella attuale e la reattività della inflazione futura alla disoccupazione attuale – sono entrambi molto più piccoli di quanto non fossero nei passati anni ’70 e persino negli anni ’80. Questo venne riconosciuto negli anni ’90 dall’allora Presidente della Fed Alan Greenspan. Egli giudicò giustamente che spingere per una crescita più veloce e per una disoccupazione più bassa non era un gran rischio, ma semmai un raccogliere l’opzione più facile. L’attuale Fed sembra avere un punto di vista diverso.

La terza lezione è che l’inversione della curva dei rendimenti nel mercato delle obbligazioni non è solo il segno che il mercato giudica troppo stretta la politica monetaria; è il segno che la politica monetaria è effettivamente troppo stretta. Le persone che rilanciano i prezzi dei buoni del Tesoro a lungo termine degli Stati Uniti in anticipo sui tagli ai tassi di interesse quando la Fed manca il bersaglio ed innesca una recessione, sono le stesse che adesso sono sulle spine e si chiedono quando dovranno cominciare a tagliare i programmi di investimento perché una recessione produrrà tra poco una sovracapacità produttiva.

La Fed oggi ha una “teoria dell’habitat” [1] secondo la quale questa volta è diverso – vale a dire, perché le preferenze degli investitori per diverse durate della scadenza comportano che una inversione della curva dei rendimenti non significherebbe oggi quello che ha sempre significato. Ma anche nel 2006, appena prima del colpo della crisi finanziaria, si pensava che fosse diverso (e c’erano anche stati in precedenza molti periodi nei quali si pensava che le cose fossero diverse). La storia indica che è altamente improbabile che questo periodo sia diverso – e che non andrà a finir bene se la Fed continua a crederci e a comportarsi altrimenti.

In modo simile, la quarta lezione riflette sviluppi che si estendono a più di vent’anni passati. Nei passati anni ’80 non era irragionevole sostenere che il prossimo ampio colpo alla macroeconoma statunitense sarebbe stato probabilmente inflazionistico. Nei passati tre decenni e mezzo, i principali shock non sono stati inflazionistici, come nelle crisi del petrolio del 1973 e del 1979, ma semmai deflazionistici, come la crisi delle banche locali di risparmio degli anni ’80 e ’90, la crisi asiatica del 1997, lo scoppio della bolla delle imprese che operano su Internet nel 2000, il collasso dei subprime che prese avvio nel 2007 negli Stati Uniti e il crollo per il debito europeo nel 2010.

La passata Presidente della Fed Janet Yellen mi disse negli anni ’90 che, secondo la sua opinione, condurre il dibattito interno della Fed entro lo schema delle regole dei tassi di interesse aveva reso assai più facile passare da un accordo sulla struttura e le condizioni dell’economia ad un semplice consenso su una appropriata politica.

Ma, almeno per come la vedo io, in questo momento il metodo di passare da un punto di vista realistico sull’economia ad una appropriata politica monetaria non sembra stia funzionando nel migliore dei modi. Forse è il momento per la Fed di collocare la sua discussione interna in uno schema più esplicito. Si può immaginare, ad esempio, l’adozione da parte della Fed di un metodo di “controllo ottimale”, con il quale le disposizioni della politica monetaria sono stabilite dalla gestione di svariate simulazioni di un modello macroeconomico che utilizza diverse combinazioni di tassi di interesse e di equilibri patrimoniali come strumenti per prevedere l’inflazione e la disoccupazione future.

Il problema con i metodi del controllo ottimale è che il mondo reale non è una sorta di sistema chiuso dove le relazioni economiche non cambiano mai, o dove cambiano in modi prevedibili. La politica monetaria più efficace – e dunque più credibile – è quella che riflette non soltanto le lezioni della storia, ma anche la disponibilità a rimettere in discussione i giudizi tradizionali.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] La “teoria dell’habitat (preferito)” indica che diversi investitori di bond preferiscono una lunghezza della durata dell’obbligazione su un’altra e sono soltanto disponibili ad acquistare bond, a prescindere dalla loro durata, se è disponibile un premio al rischio in relazione alla categoria della scadenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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