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Di nuovo corrompere con le tariffe, di Paul Krugman (New York Times, 20 settembre 2018)

 

Sept. 20, 2018

Making Tariffs Corrupt Again

By Paul Krugman

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In normal times, Donald Trump’s announcement of tariffs on $200 billion worth of Chinese goods, bringing us closer to an all-out trade war, would have dominated headlines for days. Things being as they are, it was a below-the-fold story, drowned out by all the other scandals underway.

Yet Trump’s tariffs really are a big, bad deal. Their direct economic impact will be modest, although hardly trivial. But the numbers aren’t the whole story. Trumpian trade policy has, almost casually, torn up rules America itself created more than 80 years ago — rules intended to ensure that tariffs reflected national priorities, not the power of special interests.

You could say that Trump is making tariffs corrupt again. And the damage will be lasting.

Until the 1930s, U.S. trade policy was both dirty and dysfunctional. It wasn’t just that overall tariffs were high; who got how much tariff protection was determined through a free-for-all of horse-trading among special interests.

The costs of this free-for-all went beyond economics: They undermined U.S. influence and damaged the world as a whole. Most notably, in the years after World War I, America demanded that European nations repay their war debts, which meant that they had to earn dollars through exports — and at the same time America imposed high tariffs to block those necessary exports.

But the game changed in 1934, when F.D.R. introduced the Reciprocal Trade Agreements Act. Henceforth, tariffs would be negotiated via deals with foreign governments, giving export industries a stake in open markets. And these deals would be subject to up-or-down votes, reducing the ability of interest groups to buy themselves special treatment.

This U.S. innovation became the template for a global trading system, culminating in the creation of the World Trade Organization. And tariff policy went from being famously dirty to remarkably clean.

Now, the creators of this trading system knew that it needed some flexibility to remain politically viable. So governments were given the right to impose tariffs under a limited set of circumstances: to give industries time to cope with import surges, to respond to unfair foreign practices, to protect national security. And in the U.S. the power to impose these special-case tariffs was vested in the executive branch, on the understanding that this power would be used sparingly and judiciously.

Then came Trump.

So far, Trump has imposed tariffs on about $300 billion worth of U.S.imports, with tariff rates set to rise as high as 25 percent. Although Trump and his officials keep claiming that this is a tax on foreigners, it’s actually a tax hike on America. And since most of the tariffs are on raw materials and other inputs into business, the policy will probably have a chilling effect on investment and innovation.

But the pure economic impact is only part of the story. The other part is the perversion of the process. There are rules about when a president may impose tariffs; Trump has obeyed the letter of these rules, barely, but made a mockery of their spirit. Blocking imports from Canada in the name of national security? Really?

Even the big China announcement, supposedly a response to unfair Chinese trade practices, was basically a put-up job. China is often a bad actor in the international economy. But this kind of retaliatory tariff is supposed to be a response to specific policies, and offer the targeted government a clear way to satisfy U.S. demands. What Trump did was instead to lash out based mainly on a vague sense of grievance, with no end game in sight.

In other words, when it comes to tariffs, as with so many other things, Trump has basically abrogated the rule of law and replaced it with his personal whims. And this will have a couple of nasty consequences.

First, it opens the door for old-fashioned corruption. As I said, most of the tariffs are on inputs into business — and some businesses are getting special treatment. Thus, there are now substantial tariffs on imported steel, but some steel users — including the U.S. subsidiary of a sanctioned Russian company — were granted the right to import steel tariff-free. (The Russian subsidiary’s exemption was reversed after it became public knowledge, with officials claiming that it was a “clerical error.”)

So what are the criteria for these exemptions? Nobody knows, but there is every reason to believe that political favoritism is running wild.

Beyond that, America has thrown away its negotiating credibility. In the past, countries signing trade agreements with the United States believed that a deal was a deal. Now they know that whatever documents the U.S. may sign supposedly guaranteeing access to its market, the president will still feel free to block their exports, on specious grounds, whenever he feels like it.

In short, while the Trump tariffs may not be that big (yet), they have already turned us into an unreliable partner, a nation whose trade policy is driven by political cronyism, and which is all too likely to default on its promises whenever it’s convenient. Somehow, I don’t think that’s making America great again.

 

 

Di nuovo corrompere con le tariffe,

di Paul Krugman

In tempi normali, l’annuncio di Trump di tariffe sui prodotti cinesi del valore di 200 miliardi di dollari, portandoci più vicini ad una guerra commerciale indiscriminata, avrebbe dominato i titoli dei giornali per giorni. Per come vanno le cose, è diventato un racconto sotto le righe, affogato da tutti gli altri scandali in corso.

Tuttavia, le tariffe di Trump sono una gran brutta cosa. Il loro impatto economico diretto sarà modesto, per quanto niente affatto secondario. Ma i numeri non dicono tutto. La politica commerciale di Trump ha, quasi inavvertitamente, fatto a pezzi le regole che l’America aveva stabilito più di 80 anni fa – regole rivolte ad assicurare che le tariffe riflettessero priorità nazionali, e non la forza di interessi particolari.

Si potrebbe dire che Trump sta rendendo ancora una volta le tariffe un terreno di corruzione. E il danno sarà duraturo.

Sino agli anni ’30, la politica commerciale degli Stati Uniti era sia fonte di corruzione che di disordine. Non era solo il fatto che le tariffe fossero elevate: si sceglievano coloro a cui toccava una grande protezione commerciale attraverso la bolgia di un mercato delle vacche tra interessi particolari.

I costi di quel mercato delle vacche andavano oltre l’economia: indebolivano l’influenza degli Stati Uniti e danneggiavano il mondo nel suo complesso. Ancora più importante, negli anni dopo la Prima Guerra Mondiale l’America chiese alle nazioni europee di pagare i debiti di guerra, il che significava che dovevano fare profitti con le esportazioni – e nello stesso tempo impose alte tariffe per bloccare quelle necessarie esportazioni.

Ma il gioco cambiò nel 1934, quando Franklin Delano Roosevelt introdusse la Legge sugli Accordi Commerciali Reciproci. Da allora, le tariffe sarebbero state negoziate attraverso accordi con i governi stranieri, dando alle industrie dell’esportazione un interesse ai mercati aperti. E questi accordi sarebbero stati soggetti a votazioni mutevoli, riducendo la possibilità dei gruppi di interesse di comprarsi un trattamento particolare.

Questa innovazione degli Stati Uniti divenne il modello di un sistema commerciale globale, che culminò nella creazione della Organizzazione Mondiale del Commercio. E la politica tariffaria, un tempo famigerata per la sua corruzione, divenne considerevolmente pulita.

Ora, i creatori di questo sistema commerciale sapevano che essa aveva bisogno di una qualche flessibilità per restare politicamente gestibile. Dunque ai Governi venne concesso il diritto di imporre tariffe in un complesso delimitato di circostanze: per dare alle industrie il tempo per fare i conti con crescite delle importazioni, per rispondere a ingiuste pratiche straniere, per proteggere la sicurezza nazionale. E negli Stati Uniti il potere di imporre queste tariffe per casi particolari venne conferito al ramo esecutivo del Governo, nella comprensione che questo potere sarebbe stato utilizzato con moderazione e con giudizio.

Poi è arrivato Trump.

Sino a questo punto, Trump ha imposto tariffe su importazioni negli Stati Uniti di un valore di circa 200 miliardi di dollari, con aumenti dei tassi tariffari sino al 25 per cento. Sebbene Trump e i suoi dirigenti continuino a sostenere che si tratta di una tassa sugli stranieri, in realtà si tratta di un aumento fiscale a carico dell’America. E dal momento che la maggioranza delle tariffe sono su materiali grezzi e su altri beni acquistati dalle imprese, tale scelta avrà probabilmente un effetto dissuasivo sugli investimenti e sull’innovazione.

Ma il semplice impatto economico è solo una parte del racconto. L’altra parte è la perversione del meccanismo. Ci sono regole che stabiliscono quando un Presidente può imporre tariffe; Trump ha a malapena obbedito alla lettera di queste regole, ma si è preso gioco del loro spirito. Bloccare le importazioni dal Canada in nome della sicurezza nazionale? Ma davvero?

Anche il grande annuncio sulla Cina, presentato come una risposta alle scorrette pratiche commerciali cinesi, è stato fondamentalmente una fregatura. Spesso la Cina è un cattivo soggetto nell’economia internazionale. Ma questo genere di tariffe di ritorsione si suppone siano una risposta a politiche specifiche, e offrano ai Governi presi di mira un modo chiaro per soddisfare le richieste degli Stati Uniti. Quello che ha fatto Trump è stato invece un attacco basato principalmente su una vaga somiglianza con una vertenza legale, senza che sia in vista alcuna fine del gioco.

In altre parole, quando passa alle tariffe, come per molte altre cose, Trump fondamentalmente abroga lo stato di diritto e lo sostituisce con i suoi capricci personali. E questo ha un paio di sgradevoli conseguenze.

In primo luogo, apre la porta alla corruzione dei tempi andati. Come ho detto, la maggioranza delle tariffe sono su beni acquistati dalle imprese – e alcune imprese stanno ricevendo un trattamento speciale. Quindi, adesso ci sono tariffe rilevanti sull’acciaio che si importa, ma ad alcuni utilizzatori dell’acciaio – inclusa una società russa oggetto di sanzioni, sussidiaria degli Stati Uniti – è stato garantito il diritto di importare acciaio senza tariffe (l’esenzione della società russa è stata annullata dopo che è diventata di pubblico dominio, con i dirigenti che hanno sostenuto che si era trattato di “un errore degli uffici”).

Dunque, quali sono i criteri di queste esenzioni? Nessuno lo sa, ma ci sono tutte le ragioni per credere che il favoritismo politico la faccia da padrone.

Oltre a ciò, l’America ha buttato via la sua credibilità negoziale. Nel passato, i paesi che sottoscrivevano un accordo con gli Stati Uniti credevano che un patto fosse un patto. Ora sanno che qualsiasi documento gli Stati Uniti sottoscrivano che garantisca l’accesso al loro mercato, il Presidente si sentirà comunque libero di bloccare le loro esportazioni, su basi speciose, ogni volta che gli aggrada.

In breve, mentre le tariffe di Trump possono non essere (ancora) così importanti, ci hanno già trasformati in un partner inaffidabile, una nazione la cui politica commerciale è guidata da clientelismo politico, e che è anche troppo probabile che smentisca le sue promesse tutte le volte che gli conviene. In ogni modo, non penso che stia rendendo l’America di nuovo grande.

 

 

 

 

 

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