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Perché il taglio delle tasse di Trump ha fatto cilecca? Di Paul Krugman (New York Times, 15 novembre 2018)

 

Nov. 15, 2018

Why Was Trump’s Tax Cut a Fizzle?

By Paul Krugman

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Last week’s blue wave means that Donald Trump will go into the 2020 election with only one major legislative achievement: a big tax cut for corporations and the wealthy. Still, that tax cut was supposed to accomplish big things. Republicans thought it would give them a big electoral boost, and they predicted dramatic economic gains. What they got instead, however, was a big fizzle.

The political payoff, of course, never arrived. And the economic results have been disappointing. True, we’ve had two quarters of fairly fast economic growth, but such growth spurts are fairly common — there was a substantially bigger spurt in 2014, and hardly anyone noticed. And this growth was driven largely by consumer spending and, surprise, government spending, which wasn’t what the tax cutters promised.

Meanwhile, there’s no sign of the vast investment boom the law’s backers promised. Corporations have used the tax cut’s proceeds largely to buy back their own stock rather than to add jobs and expand capacity.

But why have the tax cut’s impacts been so minimal? Leave aside the glitch-filled changes in individual taxes, which will keep accountants busy for years; the core of the bill was a huge cut in corporate taxes. Why hasn’t this done more to increase investment?

The answer, I’d argue, is that business decisions are a lot less sensitive to financial incentives — including tax rates — than conservatives claim. And appreciating that reality doesn’t just undermine the case for the Trump tax cut. It undermines Republican economic doctrine as a whole.

About business decisions: It’s a dirty little secret of monetary analysis that changes in interest rates affect the economy mainly through their effect on the housing market and the international value of the dollar (which in turn affects the competitiveness of U.S. goods on world markets). Any direct effect on business investment is so small that it’s hard even to see it in the data. What drives such investment is, instead, perceptions about market demand.

Why is this the case? One main reason is that business investments have relatively short working lives. If you’re considering whether to take out a mortgage to buy a house that will stand for many decades, the interest rate matters a lot. But if you’re thinking about taking out a loan to buy, say, a work computer that will either break down or become obsolescent in a few years, the interest rate on the loan will be a minor consideration in deciding whether to make the purchase.

And the same logic applies to tax rates: There aren’t many potential business investments that will be worth doing with a 21 percent profits tax, the current rate, but weren’t worth doing at 35 percent, the rate before the Trump tax cut.

Also, a substantial fraction of corporate profits really represents rewards to monopoly power, not returns on investment — and cutting taxes on monopoly profits is a pure giveaway, offering no reason to invest or hire.

Now, proponents of the tax cut, including Trump’s own economists, made a big deal about how we now have a global capital market, in which money flows to wherever it gets the highest after-tax return. And they pointed to countries with low corporate taxes, like Ireland, which appear to attract lots of foreign investment.

The key word here is, however, “appear.” Corporations do have a strong incentive to cook their books — I’m sorry, manage their internal pricing — in such a way that reported profits pop up in low-tax jurisdictions, and this in turn leads on paper to large overseas investments.

But there’s much less to these investments than meets the eye. For example, the vast sums corporations have supposedly invested in Ireland have yielded remarkably few jobs and remarkably little income for the Irish themselves — because most of that huge investment in Ireland is nothing more than an accounting fiction.

Now you know why the money U.S. companies reported moving home after taxes were cut hasn’t shown up in jobs, wages and investment: Nothing really moved. Overseas subsidiaries transferred some assets back to their parent companies, but this was just an accounting maneuver, with almost no impact on anything real.

So the basic result of lower taxes on corporations is that corporations pay less in taxes — full stop. Which brings me to the problem with conservative economic doctrine.

That doctrine is all about the supposed need to give the already privileged incentives to do nice things for the rest of us. We must, the right says, cut taxes on the wealthy to induce them to work hard, and cut taxes on corporations to induce them to invest in America.

But this doctrine keeps failing in practice. President George W. Bush’s tax cuts didn’t produce a boom; President Barack Obama’s tax hike didn’t cause a depression. Tax cuts in Kansas didn’t jump-start the state’s economy; tax hikes in California didn’t slow growth.

And with the Trump tax cut, the doctrine has failed again. Unfortunately, it’s difficult to get politicians to understand something when their campaign contributions depend on their not understanding it.

 

 

Perché il taglio delle tasse di Trump ha fatto cilecca?

Di Paul Krugman

L’ondata blu della settimana scorsa comporta che Donald Trump andrà alle elezioni del 2020 con un’unica importante realizzazione legislativa: un grande taglio delle tasse per le società e i ricchi. Eppure, si supponeva che quel taglio delle tasse realizzasse grandi cose. I repubblicani pensavano che avrebbe dato loro una grande spinta elettorale, e prevedevano spettacolari vantaggi economici. Quello che invece hanno ottenuto è stata una grande cilecca.

Il vantaggio politico, ovviamente, non è mai arrivato. E i risultati economici sono stati deludenti. È vero, ci sono stati due trimestri di crescita economica abbastanza rapida, ma tali scatti della crescita sono abbastanza comuni – ce ne fu uno sostanzialmente più grande nel 2014, e non fu notato quasi da nessuno. Inoltre, questa crescita è stata guidata principalmente dalla spesa dei consumatori e, sorpresa, dalla spesa pubblica, che non era quello che chi tagliò le tasse aveva promesso.

Non frattempo, non c’è alcun segno dell’ampia espansione degli investimenti che i sostenitori della legge avevano promesso. Le società hanno in gran parte utilizzato i ricavi degli sgravi fiscali per ricomprare le loro azioni piuttosto che per aggiungere posti di lavoro e potenziare la capacità produttiva.

Ma perché gli impatti degli sgravi fiscali sono stati così modesti? A parte i cambiamenti pieni di intoppi nelle tasse individuali, che terranno i commercialisti occupati per anni; il cuore della legge era un ampio taglio alle tasse delle società. Perché non ha provocato effetti maggiori nell’aumentare gli investimenti?

Direi che la risposta è che le decisioni delle imprese sono molto meno sensibili agli incentivi finanziari – inclusi quelli derivanti dalle aliquote fiscali – di quello che ritengono i conservatori. E considerare la realtà non mette soltanto in crisi l’argomento a favore del taglio delle tasse di Trump. Mette a repentaglio la dottrina economica dei repubblicani nel suo complesso.

A proposito delle decisioni delle imprese: c’è un piccolo segreto sporco dell’analisi monetaria secondo il quale i cambiamenti nei tassi di interesse influenzano l’economia soprattutto per i loro effetti sul mercato abitativo e sul valore internazionale del dollaro (che a sua volta influenza la competitività dei prodotti statunitensi sui mercati mondiali). Ogni effetto diretto sugli investimenti di impresa è così piccolo che è persino difficile apprezzarlo nelle statistiche. Quello che guida tali investimenti sono, piuttosto, le percezioni sulla domanda del mercato.

Perché le cose vanno in questo modo? Una ragione principale è che gli investimenti delle imprese hanno tempi di funzionamento relativamente brevi. Se state considerando di fare un mutuo per acquistare una abitazione che resterà in piedi per molti decenni, il tasso di interesse ha molta importanza. Ma se state pensando di fare un mutuo per acquistare, ad esempio, un computer per lavorare che in pochi anni si romperà o diventerà obsolescente, il tasso di interesse sul prestito sarà una considerazione secondaria nel decidere se fare l’acquisto.

E la stessa logica si applica alle aliquote fiscali: non ci sono molti potenziali investimenti di impresa che varrà la pena di fare con una tassa del 21 per cento sui profitti, l’aliquota attuale, ma che non valeva la pena di fare con l’aliquota al 35 per cento, quella precedente agli sgravi fiscali di Trump.

Inoltre, una parte sostanziale dei profitti delle società rappresentano premi al potere di monopolio, non rendimenti dell’investimento – e tagliare le tasse sui profitti di monopolio è un regalo puro, che non dà alcuna ragione per investire o assumere.

Ora, i proponenti dei tagli alle tasse, inclusi gli stessi economisti di Trump, avevano presentato come una questione decisiva il fatto che adesso abbiamo un mercato globale dei capitali, nel quale i soldi si spostano dovunque ottengano il più alto rendimento dopo le tasse. E indicavano paesi con una bassa tassazione sulle società, come l’Irlanda, che sembra attraggano grandi quantità di investimenti stranieri.

Tuttavia, in questo caso la parola chiave è “sembra”. Le società hanno davvero un forte incentivo a falsificare i loro conti – mi scuso, a gestire i loro prezzi interni – in modo tale che i profitti resocontati vengano allo scoperto in giurisdizioni con bassa tassazione, e questo a sua volta porta sulla carta a ampi investimenti all’estero.

Ma gli investimenti effettivamente visibili sono molto inferiori. Ad esempio, le grandi somme che le società per azioni si suppone abbiano investito in Irlanda hanno prodotto considerevolmente pochi posti di lavoro e modesti redditi per gli irlandesi stessi – giacché quegli ampi investimenti in Irlanda non sono altro che finzioni contabili.

A questo punto sapete perché il denaro che le società americane hanno dichiarato di aver riportato in patria dopo i tagli alle tasse non si sono manifestati in posti di lavoro, in salari e in investimenti: in realtà non si è mosso niente. Le sussidiarie oltreoceano hanno restituito alcuni asset alle loro società madri, ma sono state soltanto manovre contabili, senza praticamente alcun impatto su niente di reale.

Dunque il risultato fondamentale delle tasse più basse sulle società per azioni è che esse pagano meno tasse – punto. Il che mi riporta alla questione della dottrina economica dei conservatori.

Quella dottrina riguarda la presunta necessità di dare, a chi gode già di privilegi, incentivi perché facciano qualcosa di grazioso per noi tutti. Dobbiamo, dice la destra, tagliare le tasse sui ricchi per indurli a lavorare duramente, e tagliare le tasse sulle società per indurle a investire in America.

Ma questa dottrina, in pratica, non si realizza mai. I tagli alle tasse del Presidente George W. Bush non produssero un boom; il rialzo delle tasse del Presidente Obama non provocò una depressione. I tagli alle tasse in Kansas non hanno dato un impulso all’economia dello Stato; i rialzi delle tasse in California non hanno rallentato la crescita.

E, con i tagli alle tasse di Trump, quella dottrina ha fatto ancora fallimento. Sfortunatamente, è difficile far capire ai politici qualcosa, quando i loro contributi elettorali dipendono dal non capirlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

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