Dec 14, 2018
BERKELEY – It has now been one year since US President Donald Trump and his fellow Republicans rammed their massive corporate tax cut through Congress. At the time, critics of the “Tax Cuts and Jobs Act” described it as a cynical handout for wealthy shareholders. But a substantial number of economists came out in support of it.
For example, one prominent group, most of whom served in previous Republican administrations, predicted in The Wall Street Journal that the tax cuts would boost long-run GDP by 3-4%, with an “associated increase” of about 0.4% “in the annual rate of GDP growth” over the next decade. And in an open letterto Congress, a coterie of over 100 economists asserted that “the macroeconomic feedback generated by the [tax cuts]” would be “more than enough to compensate for the static revenue loss,” implying that the bill would be deficit-neutral over time.
Likewise, in a commentary for Project Syndicate, Robert J. Barro of Harvard University argued that the tax cuts would increase long-run real (inflation-adjusted) per capita GDP by an improbable 7%. And Michael J. Boskin of the Hoover Institution endorsed his analysis in a follow-up commentary.
Finally, Kevin Hassett, Chairman of the White House Council of Economic Advisers, and Greg Mankiw of Harvard University claimed that the productivity gains stemming from the tax package would primarily boost wages, rather than profits, because foreign savers would pour investment into the US.
To be sure, these were primarily long-run predictions. But proponents of the bill nonetheless claimed that we would see enough additional investment to boost growth by 0.4% per year. That implies an annual GDP increase of roughly $800 billion, which would require annual investment to rise from 17.5% to about 21.5% of GDP. We cannot know how much the US economy would grow in the absence of the tax cuts. But, as the chart below shows, investment has not jumped to that level, nor does it show signs of doing so anytime soon.
This comes as no surprise. Back when all the aforementioned economists were issuing their sanguine predictions about the tax package’s likely effects, neutral scorekeepers such as the Tax Policy Center were painting a more realistic picture. And unlike most proponents of the cuts, the Tax Policy Center’s raison d’être is not to please donors or support a particular political party, but rather to make the best forecasts that it can.
The deep disagreement last year over the tax bill’s potential effects anguished Binyamin Applebaum of The New York Times. “What does it mean to produce the signatures of 100 economists in favor of a given proposition when another 100 will sign their names to the opposite statement?” Applebaum asked on Twitter at the time. “How does Harvard, for example, justify granting tenure to people who purport to work in the same discipline and publicly condemn each other as charlatans? How are ordinary people, let alone members of Congress, supposed to figure out which tenured professors are the serious economists?”
We can now answer that last question. Scholarship is about the pursuit of truth. When scholars find that they have gotten something wrong, they ask themselves why, in order to improve their methodology and possibly get it less wrong in the future. The economists who predicted that tax cuts would spur a rapid increase in investment and sustained growth have now been proven wrong. If they were serious academics committed to their discipline, they would take this as a sign that they have something to learn. Sadly, they have not. They have remained silent, which suggests that they are not surprised to see investment fall far short of what they promised.
But why should they be surprised? After all, it would be specious to assume, as their models do, that investment can rapidly rise (or fall) as foreign investors flood into (or flee) the US. Individuals and firms do not suddenly ratchet up their savings just because the after-tax profit rate has increased. While a higher profit rate does make saving more profitable, it also increases the income from one’s past savings, thus reducing the need to save. Generally speaking, the two balance out.
All of those who published op-eds and released studies supporting the corporate tax cuts last year knew (or should have known) this to begin with. That is why they have not bothered to investigate their flawed forecasts to determine what they may have missed. It is as if they knew all along that their predictions were wrong.
For reporters still wondering which economists to listen to, the answer should now be clear. If there is one message to take from the past year, it is: “Fool me once, shame on you; fool me twice, shame on me.”
Il primo anno del gran colpo americano sulle tasse,
di J. Bradford DeLong
BERKELEY – È adesso passato un anno da quando il Presidente degli Stati Uniti e i suoi colleghi repubblicani fecero approvare al Congresso il loro massiccio taglio delle tasse. A quel tempo, i critici della “Legge sul taglio delle tasse e sui posti di lavoro” la descrissero come un cinico omaggio ai ricchi possessori di azioni. Ma un numero sostanziale di economisti si dichiararono favorevoli.
Ad esempio, un gruppo importante, all’interno del quale molti avevano prestato servizio in precedenti amministrazioni repubblicane, aveva previsto nel Wall Street Journal che i tagli alle tasse avrebbero spinto il PIL di lungo periodo di un 3-4%, con un “aumento connesso” di circa lo 0,4% “nel tasso annuale di crescita del PIL” nel prossimo decennio. E in una lettera aperta al Congresso, un assortimento di più di 100 economisti aveva asserito che “la ricaduta macroeconomica del [taglio delle tasse]” sarebbe stata “più che sufficiente per compensare la perdita stazionaria delle entrate”, significando in tal modo che la legge sarebbe stata nel tempo neutrale dal punto di vista del deficit.
Analogamente, in un commento per Project Syndicate Robert J. Barro dell’Università di Harvard sostenne che il taglio delle tasse avrebbe aumentato il PIL procapite reale di lungo periodo (corretto per l’inflazione) di un improbabile 7%. E Michael J. Boskin dell’Hoover Institution appoggiò questa analisi in un commento successivo.
Infine, Kevin Hassett, Presidente del Comitato dei Consulenti Economici della Casa Bianca, e Greg Mankiw della Università di Harvard sostennero che i vantaggi di produttività derivanti dal pacchetto fiscale avrebbero principalmente sostenuto i salari, anziché i profitti, giacché gli investitori stranieri avrebbero riversato investimenti negli Stati Uniti.
Va detto che queste furono principalmente previsioni di lungo periodo. Ma i proponenti della proposta di legge sostennero nondimeno che che avremmo visto investimenti aggiuntivi sufficienti a sostenere una crescita dello 0,4% all’anno. Il che comporterebbe un incremento annuale del PIL grosso modo di 800 miliardi di dollari, il che avrebbe richiesto che l’investimento annuale crescesse dal 17,5% a circa il 21,5% del PIL. Non possiamo sapere quanto sarebbe cresciuta l’economia statunitense in assenza dei tagli al fisco. Ma, come dimostra il diagramma qua sotto, gli investimenti non sono balzati a quel livello, né ci sono segni che lo faranno prossimamente.
Questo non sorprende. In passato, quando tutti i sopracitati economisti pubblicavano le loro ottimistiche previsioni sui probabili effetti del pacchetto fiscale, analisti indipendenti come quelli del Tax Policy Center venivano dipingendo un quadro più realistico. E, diversamente dalla maggioranza dei proponenti gli sgravi fiscali, la raison d’être del Tax Policy Center non è compiacere i finanziatori o sostenere un particolare partito politico, bensì fare le migliori previsioni possibili.
Il profondo disaccordo dell’anno passato sugli ffetti potenziali della porposta di legge sul fisco ha angosciato Binyamin Applebaum del New York Times: “Cosa può significare produrre le firme di 100 economisti a favore di una posizione data, quando altri 100 metteranno la loro firma sulla posizione opposta?”, si è chiesto Applebaum su Twitter a quel tempo. “Come fa Harvard a giustificare l’assegnazione di incarichi di ruolo a persone che sostengono di lavorare nella stessa disciplina e si accusano l’uno con l’altro pubblicamente di ciarlataneria? Come si sentono le persone comuni, non dico i membri del Congresso, che ritenevano di potersi immaginare che quei professori di ruolo fossero seri economisti?”
A questo punto possiamo rispondere all’ultima domanda. Lo studio accademico riguarda il perseguimento della verità. Quando uno studioso scopre di aver commesso qualche sbaglio, si chiede come sia successo, allo scopo di migliorare la propria metodologia e possibilmente compiere meno sbagli in futuro. Gli economisti che avevano previsto che i tagli alle tasse avrebbero sostenuto un rapido incremento degli investimenti e una crescita prolungata hanno dimostrato di essere in errore. Se fossero studiosi seri impegnati nella loro disciplina, lo considererebbero un segno del fatto che hanno qualcosa da imparare. È triste, ma non è quello che hanno fatto. Sono rimasti in silenzio, il che suggerisce che non sono rimasti sorpresi dal vedere gli investimenti non all’altezza di quello che avevano promesso.
Ma perché dovevano restare sorpresi? Dopo tutto, sarebbe pretestuoso assumere, come i loro modelli fanno, che gli investimenti possano rapidamente salire (o scendere) quando gli investitori stranieri si riversano negli Stati Uniti (o ne fuggono). Gli individui e le imprese non aumentano all’improvviso i loro risparmi solo perché il tasso di profitto dopo le tasse è aumentato. Se un elevato tasso di profitto rende i risparmi più profittevoli, esso aumenta anche il reddito derivante dai risparmi passati di ciascuno, quindi riduce il bisogno di risparmiare. Generalmente parlando, sono due cose che stanno in equilibrio.
Tutti coloro che hanno pubblicato commenti e pubblicato studi a sostegno dei tagli alle tasse dell’anno passato, per cominciare, lo sapevano (o avrebbero dovuto saperlo). Questa è la ragione per la quale non si sono dati pena a fare indagini sulle loro sbagliate previsioni, per determinare cosa potevano avere trascurato. È come se sapessero da sempre che le loro previsioni erano sbagliate.
Per i cronisti che ancora si chiedono a quali economisti dare ascolto, adesso la risposta dovrebbe essere chiara. Se ci fosse un messaggio da recepire dall’anno passato, esso è: “Se mi prendi per scemo una volta, è colpa tua; se lo fai due volte, è colpa mia”.
By mm
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