Dec. 6, 2018
By Paul Krugman
Are we going to have a full-blown trade war with China, and maybe the rest of the world? Nobody knows — because it all depends on the whims of one man. And Tariff Man is ignorant, volatile and delusional.
Why do I say that it’s all about one man? After all, after the 2016 U.S. election and the Brexit vote in Britain, there was a lot of talk about a broad popular backlash against globalization. Over the past two years, however, it has become clear that this backlash was both smaller and shallower than advertised.
Where, after all, is the major constituency supporting Donald Trump’s tariffs and threats to exit international agreements? Big business hates the prospect of a trade war, and stocks plunge whenever that prospect becomes more likely. Labor hasn’t rallied behind Trumpist protectionism either.
Meanwhile, the percentage of Americans believing that foreign trade is good for the economy is near a record high. Even those who criticize trade seem to be motivated by loyalty to Trump, not by deep policy convictions: During the 2016 campaign self-identified Republicans swung wildly from the view that trade agreements are good to the view that they’re bad, then swung back again once Trump seemed to be negotiating agreements of his own. (We have always been in a trade war with Eastasia.)
But if there’s no strong constituency for protectionism, why are we teetering on the brink of a trade war? Blame U.S. trade law.
Once upon a time, Congress used to write detailed tariff bills that were stuffed full of giveaways to special interests, with destructive effects on both the economy and American diplomacy. So in the 1930s F.D.R. established a new system in which the executive branch negotiates trade deals with other countries, and Congress simply votes these deals up or down. The U.S. system then became the template for global negotiations that culminated in the creation of the World Trade Organization.
The creators of the U.S. trade policy system realized, however, that it couldn’t be too rigid or it would shatter in times of stress; there had to be ways to relieve pressure when necessary. So trade law gives the executive the right to impose tariffs without new legislation under certain circumstances, mainly to protect national security, to retaliate against unfair foreign practices, or to give industries facing sudden surges in foreign competition time to adjust.
In other words, U.S. trade law gives the president a lot of discretionary power over trade, as part of a system that curbs the destructive influence of corrupt, irresponsible members of Congress. And that setup worked very well for more than 80 years.
Unfortunately, it wasn’t intended to handle the problem of a corrupt, irresponsible president. Trump is pretty much all alone in lusting for a trade war, but he has virtually dictatorial authority over trade.
What’s he doing with that power? He’s trying to negotiate deals. Unfortunately, he really, really doesn’t know what he’s doing. On trade, he’s a rebel without a clue.
Even as he declared himself Tariff Man, Trump revealed that he doesn’t understand how tariffs work. No, they aren’t taxes on foreigners, they’re taxes on our own consumers.
When trying to make deals, he seems to care only about whether he can claim a “win,” not about substance. He has been touting the “U.S. Mexico Canada Trade Agreement” as a repudiation of NAFTA, when it’s actually just a fairly minor modification. (Nancy Pelosi calls it “the trade agreement formerly known as Prince.”)
Most important, his inability to do international diplomacy, which we’ve seen on many fronts, carries over to trade talks. Remember, he claimed to have “solved” the North Korean nuclear crisis, but Kim Jong-un is still expanding his ballistic missile capacity. Well, last weekend he claimed to have reached a major trade understanding with China; but as J.P. Morgan soon reported in a note to its clients, his claims “seem if not completely fabricated then grossly exaggerated.”
Markets plunged earlier this week as investors realized that they’d been had. As I said, business really doesn’t want a trade war.
Let’s be clear: China is not a good actor in the world economy. It engages in real misbehavior, especially with regard to intellectual property: The Chinese essentially rip off technology. So there is a case for toughening our stance on trade.
But that toughening should be undertaken in concert with other nations that also suffer from Chinese misbehavior, and it should have clear objectives. The last person you want to play hardball here is someone who doesn’t grasp the basics of trade policy, who directs his aggressiveness at everyone — tariffs on Canadian aluminum to protect our national security? Really? — and who can’t even give an honest account of what went down in a meeting.
Unfortunately, that’s the person who’s now in charge, and it’s hard to see how he can be restrained. So the future of world trade, with all it implies for the world economy, now hinges largely on Donald Trump’s mental processes. That is not a comforting thought.
L’arte dell’accordo immaginario,
di Paul Krugman
Stiamo andando verso una guerra commerciale senza limiti con la Cina e magari con il resto del mondo? Nessuno lo sa – perché dipende tutto dai capricci di un solo uomo. E l’Uomo delle Tariffe è un incompetente, instabile e facile alle illusioni.
Perché dico che riguarda tutto un solo uomo? Dopo tutto, dopo le elezioni negli Stati Uniti del 2016 e il voto della Brexit in Inghilterra, si parlava molto di un generale contraccolpo popolare contro la globalizzazione. Nei due anni passati, tuttavia, è diventato chiaro che il contraccolpo era più piccolo e più superficiale di quanto era stato propagandato.
Dov’è, in fin dei conti, l’importante base elettorale che sostiene le tariffe di Donald Trump e le minacce di uscita dagli accordi internazionali? La grande impresa odia la prospettiva di una guerra commerciale, e le azioni crollano ogni volta che quella prospettiva diventa più probabile. Anche il lavoro non si è schierato dietro il protezionismo trumpista.
Nel frattempo, la percentuale degli americani che credono che il commercio estero sia una cosa positiva per l’economia è vicina ai massimi storici. Persino coloro che criticano il commercio sembrano motivati dalla fedeltà a Trump, non da profonde convinzioni politiche: durante la campagna elettorale del 2016 coloro che si definivano repubblicani oscillavano paurosamente dal punto di vista secondo il quale gli accordi sono buoni a quello secondo il quale sono cattivi, poi tornare ad oscillare una volta che apparve che Trump negoziava gli accordi per conto suo (siamo già stati in una guerra commerciale con l’Asia Orientale).
Ma se non c’è un forte consenso per il protezionismo, perché stiamo vacillando sull’orlo di una guerra commerciale? La colpa è della legge statunitense sul commercio.
Un tempo, il Congresso era solito scrivere dettagliate proposte di legge sulle tariffe piene di regali verso interessi particolari, con effetti distruttivi sia sull’economia che sulla diplomazia americana. Così negli anni ’30 Franklin Delano Roosevelt stabilì un nuovo sistema secondo il quale l’esecutivo negozia accordi commerciali con altri paesi, e il Congresso semplicemente approva o boccia tali accordi. Il sistema degli Stati Uniti divenne allora il modello di negoziazioni globali che culminarono nella creazione della Organizzazione Mondiale del Commercio.
I creatori del sistema della politica commerciale statunitense, tuttavia, compresero che esso non poteva essere troppo rigido se non voleva andare in mille pezzi in epoche di tensione; ci dovevano essere modi per attenuare la pressione, quando necessario. Dunque la legge sul commercio diede all’esecutivo, sotto determinate circostanze, il diritto di imporre tariffe senza nuove leggi, principalmente per proteggere la sicurezza nazionale, per applicare ritorsioni contro scorrette pratiche straniere, oppure per consentire alle industrie il tempo di attuare correzioni, quando affrontavano improvvisi incrementi nella competizione estera.
In altre parole, la legge commerciale degli Stati Uniti dà al Presidente molto potere discrezionale sul commercio, come un aspetto di un sistema che contiene l’influenza distruttiva di membri del Congresso corrotti e irresponsabili. E quello schema funzionò egregiamente per più di 80 anni.
Sfortunatamente, non era stato congegnato per gestire il problema di un Presidente corrotto e irresponsabile. Trump è praticamente tutto solo nel desiderare ardentemente una guerra commerciale, ma ha in pratica una autorità dittatoriale sul commercio.
Cosa sta facendo con quel potere? Sta cercando di negoziare accordi. Sfortunatamente, nemmeno lui sa davvero cosa stia facendo. Quanto al commercio, è un anticonformista senza idee.
Persino quando si è definito l’Uomo delle Tariffe, ha rivelato di non avere idea di come le tariffe funzionino. Perché esse non sono tasse sugli stranieri, sono tasse sui nostri stessi consumatori.
Quando cerca di fare accordi, sembra preoccuparsi soltanto del fatto che possa sostenere di aver “vinto”, non della sostanza. Ha cercato di rivendere l’accordo commerciale tra Stati Uniti, Messico e Canada come un ripudio del NAFTA, quando in realtà ne costituisce appena una modesta modifica (Nancy Pelosi lo definisce “l’accordo commerciale originariamente noto come ‘Prince’ [1]).
Ancora più importante, la sua inettitudine nella diplomazia internazionale, che abbiamo constatato su molti fronti, si estende ai dibattiti sul commercio. Si ricordi: sosteneva di aver “risolto” la crisi nucleare nord coreana, ma Kim Jong-un sta ancora aumentando la potenza del suo missile balistico. Ebbene, la scorsa settimana ha sostenuto di aver raggiunto una importante reciproca comprensione con la Cina sul commercio; ma come J.P. Morgan ha prontamente riferito ai suoi clienti, le sue pretese “sembrano se non completamente inventate, almeno chiaramente esagerate”.
Agli inizi di questa settimana, quando hanno compreso quello che avrebbero ottenuto, i mercati sono crollati. Come ho detto, l’impresa proprio non vuole una guerra commerciale.
Siamo chiari: la Cina non è un irreprensibile protagonista nell’economia mondiale, in particolare rispetto alla proprietà intellettuale: in sostanza i cinesi sottraggono tecnologie. Dunque è una situazione per rendere la nostra posizione sul commercio più dura.
Ma quella posizione più forte dovrebbe essere presa di concerto con le altre nazioni le quali anch’esse subiscono i cattivi comportamenti cinesi, e dovrebbe conseguire ad obbiettivi chiari. L’ultima persona con la quale vorreste fare un gioco duro è qualcuno che non afferra i fondamenti della politica commerciale, che indirizza la sua aggressività verso chiunque – le tariffe sull’alluminio del Canada per proteggere la nostra sicurezza nazionale? Davvero? – e che non può neppure fornire un onesto resoconto di quello che è successo in un incontro.
Sfortunatamente, è quella la persona che adesso è in carica, ed è difficile capire come possa essere contenuta. Dunque, il futuro del commercio mondiale, con tutto ciò che esso implica per l’economia del mondo, adesso dipende largamente dai processi mentali di Donald Trump. E questo non è un pensiero confortante.
[1] Non riesco a venire a capo di questa presunta ironia della Pelosi. Dai giornali si capisce che all’origine lo scherzo è nato per la sua insistenza a continuare a chiamarlo NAFTA, che ovviamente è una sigla che Trump aborre, anche perché l’accordo passato lo ha più volte definito come il peggiore accordo mai sottoscritto dagli americani (la nuova sigla è USMCA). La frase pronunciata dalla Pelosi, dopo aver nuovamente chiamato l’intesa NAFTA, aggiungeva “intendevo dire Prince”. Era un riferimento a Trump, che in materia di commercio opera come un “Principe”? O, meno probabile, alle traversie del suo amico, il Principe saudita? Oppure – l’indizio viene dallo speciale dizionario Urban – ha il significato non facilmente traducibile di “qualcuno realmente attraente, che per i suoi estimatori ha proprio tutto, soprattutto un grande carisma”? In pratica, un aggettivo, come “un gioiello”, “un portento”? Altro ancora?
By mm
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