Feb 13, 2019
NEW YORK – In the last few years, globalization has come under renewed attack. Some of the criticisms may be misplaced, but one is spot on: globalization has enabled large multinationals, like Apple, Google, and Starbucks, to avoid paying tax.
Apple has become the poster child for corporate tax avoidance, with its legal claim that a few hundred people working in Ireland were the real source of its profits, and then striking a deal with that country’s government that resulted in its paying a tax amounting to .005% of its profit. Apple, Google, Starbucks, and companies like them all claim to be socially responsible, but the first element of social responsibility should be paying your fair share of tax. If everyone avoided and evaded taxes like these companies, society could not function, much less make the public investments that led to the Internet, on which Apple and Google depend.
For years, multinational corporations have encouraged a race to the bottom, telling each country that it must lower its taxes below that of its competitors. US President Donald Trump’s 2017 tax cut culminated that race. A year later, we can see the results: the sugar high it brought to the US economy is quickly fading, leaving behind a mountain of debt (the US deficit passed the trillion dollar mark last year).
Spurred on by the threat that the digital economy will deprive governments of the revenues to fund function (as well as distorting the economy away from traditional ways of selling), the international community is at long last recognizing that something is wrong. But the flaws in the current framework of multinational taxation – based on so-called transfer pricing – have long been known.
Transfer pricing relies on the well-accepted principle that taxes should reflect where an economic activity occurs. But how is that determined? In a globalized economy, products move repeatedly across borders, typically in an unfinished state: a shirt without buttons, a car without a transmission, a wafer without a chip. The transfer price system assumes that we can establish arms-length values for each stage of production, and thereby assess the value added within a country. But we can’t.
The growing role of intellectual property and intangibles makes matters even worse, because ownership claims can easily be moved around the world. That’s why the United States long ago abandoned using the transfer price system within the US, in favor of a formula that attributes companies’ total profits to each state in proportion to the share of sales, employment, and capital there. We need to move toward such a system at the global level.
How that is actually done, however, makes a great deal of difference. If the formula is based largely on final sales, which occur disproportionately in developed countries, developing countries will be deprived of needed revenues, which will be increasingly missed as fiscal constraints diminish aid flows. Final sales may be appropriate for taxation of digital transactions, but not for manufacturing or other sectors, where it is vital to include employment as well.
Some worry that including employment might exacerbate tax competition, as governments seek to encourage multinationals to create jobs in their jurisdictions. The appropriate response to this concern is to impose a global minimum corporate-income tax. The US and the European Union could – and should – do this on their own. If they did, others would follow, preventing a race in which only the multinationals win.
Since its inception, the OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project has made an important contribution to rethinking the taxation of multinationals by advancing understanding of some of the fundamental issues. For example, if there is true value in multinationals, the whole is greater than the sum of the parts. Standard tax principles of simplicity, efficiency, and equity should guide our thinking in allocating the “residual value,” as the Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation (of which I am a member) advocates. But these principles are inconsistent either with retaining the transfer price system or with basing taxes primarily on sales.
Politics matters: the multinationals’ objective is to gain support for reforms that continue the race to the bottom and maintain opportunities for tax avoidance. Governments in some advanced countries where these companies have significant political influence will support these efforts – even if doing so disadvantages the rest of the country. Other advanced countries, focusing on their own budgets, will simply see this as another opportunity to benefit at the expense of developing countries.
The OECD/G20 initiative refers to its efforts as providing an “Inclusive Framework.” Such a framework must be guided by principles, not just politics. If the goal is genuine inclusiveness, the top priority must be the wellbeing of the more than six billion people living in developing countries and emerging markets.
Come possiamo tassare le multinazionali che non hanno vincoli?
Di Joseph E. Stiglitz
NEW YORK – Negli anni passati, la globalizzazione è finita nuovamente sotto attacco. Alcune delle critiche possono essere inappropriate, ma una è azzeccata: la globalizzazione ha consentito a grandi multinazionali, come Apple, Google e Starbuks, di eludere il pagamento delle tasse.
Apple è diventato il ragazzo prodigio della elusione fiscale delle società, con la sua tesi legale secondo la quale poche centinaia di persone che lavorano in Irlanda siano la fonte reale dei suoi profitti, e poi trovando un accordo con il Governo di quel paese che si è concluso con un pagamento di tasse che corrisponde allo 0,005 per cento dei suoi profitti. Apple, Google, Starbucks e società come quelle pretendono tutte di essere socialmente responsabili, ma il primo elemento della responsabilità sociale dovrebbe essere quello di pagare la propria giusta quota di tasse. Se tutti eludessero ed evadesserro le tasse come queste imprese, la società non potrebbe funzionare, farebbe molti meno investimenti pubblici, compresi quelli che hanno portato a Internet, da cui Apple e Google dipendono.
Per anni, le società multinazionali hanno incoraggiato una gara al ribasso, raccontando a ciascun paese che doveva abbassare le tasse al di sotto di quelle dei suoi competitori. Il taglio delle tasse del 2017 del Presidente egli Stati uniti Donald Trump ha raggiunto il culmine di quella gara. Un anno dopo possiamo vedere i risultati: l’euforia che ha portato all’economia degli Stati Uniti sta velocemente svanendo, lasciandosi dietro una montagna di debiti (il deficit degli Stati Uniti ha superato il limite di un migliaio di dollari l’anno passato).
Spinta dalla minaccia che l’economia digitale tolga ai Governi le entrate che ne finanziano il funzionamento (anche alterando l’economia dai tradizionali modi di vendere), la comunità internazionale sta alla fine riconoscendo che qualcosa è sbagliato. Ma i difetti nel modello attuale di tassazione delle multinazionali – basato sui cosiddetti prezzi di trasferimento – sono noti da tempo.
I prezzi di trasferimento di basano sul principio comunemente accettato secondo il quale le tasse dovrebbero applicarsi laddove interviene una attività economica. Ma come è determinata quest’ultima? In una economia globalizzata, i prodotti attraversano ripetutamente i confini, normalmente in una condizione incompiuta: camicie senza bottoni, macchine senza cambi, wafer senza sfoglie. Il sistema dei prezzi di trasferimento considera che possiamo stabilire valori a reciproca indipendenza per ciascuno stadio della produzione, e di conseguenza fissare il valore aggiunto all’interno di ogni paese. Ma non possiamo.
Il ruolo crescente della proprietà intellettuale e dei beni immateriali rende la faccenda persino peggiore, giacché la proprietà sostiene di poter facilmente essere spostata a giro per il mondo. Quella è la ragione per la quale gli Stati Uniti hanno da lungo tempo smesso di utilizzare il sistema dei prezzi di trasferimento all’interno del paese, a favore di una formula che attribuisce i profitti totali delle società a ciascuno Stato in ragione della quota delle vendite, dell’occupazione e del capitale in quel posto. Abbiamo bisogno di muoverci verso un tale sistema a livello globale.
A seconda di come questo viene effettivamente attuato, tuttavia, si produce una gran quantità di differenze. Se la formula è basata in gran parte sulle vendite finali, la qual cosa avverrà in modo sproporzionato nei paesi sviluppati, i paesi in via di sviluppo saranno privati delle entrate necessarie, che saranno perse in modo crescente quando i limiti della finanza pubblica diminuiscono i flussi degli aiuti. Le vendite finali possono essere appropriate per la tassazione delle transazioni digitali, ma non per il settore manifatturiero o altri settori, dove è vitale includere anche il criterio dell’occupazione.
Alcuni si preoccupano che includere l’occupazione potrebbe esacerbare la competizione fiscale, con i Governi che cercano di incoraggiare le multinazionali a creare posti di lavoro nelle loro giurisdizioni. La risposta appropriata a questa preoccupazione è quella di creare una tassa minima globale sui redditi delle società. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea potrebbero – e dovrebbero – farlo per conto proprio. Se lo facessero, altri li seguirebbero, impedendo una gara nella quale soltanto le multinazionali sarebbero vincenti.
Sin dal suo avvio, il Progetto sulla Erosione della Base Fiscale e sullo Spostamento dei Profitti dell’OCSE e del G20 ha reso un importante contributo al ripensamento della tassazione delle multinazionali promuovendo la comprensione di alcuni dei suoi temi fondamentali. Per esempio, se c’è vero valore nelle multinazionali, esso nel suo complesso è più grande della somma delle sue parti. I comuni principi della semplicità della efficienza e dell’equità dovrebbero guidare la nostra riflessione nell’allocare il “valore residuale”, come sostiene la Commissione Indipendente per la Riforma della Tassazione Internazionale Societaria (della quale faccio parte). Ma questi principi sono discordanti sia con il mantenimento del sistema dei prezzi di trasferimento che con il basare le tasse principalmente sulle vendite.
La politica è importante: l’obbiettivo delle multinazionali è ottenere il sostegno a riforme che consentano la prosecuzione di una gara al ribasso e mantengano le opportunità della elusione fiscale. I Governi in alcuni paesi avanzati nei quali queste società hanno una significativa influenza politica sosterranno questi sforzi – anche se così facendo svantaggeranno il resto di quei paesi. Altri paesi avanzati, concentrandosi sui loro bilanci, considereranno questa semplicemente come un’altra opportunità per ottenere vantaggi a danno dei paesi in via di sviluppo.
L’iniziativa dell’OCSE e del G20 si riferisce ai suoi sforzi di fornire un “modello inclusivo”. Un tale modello deve essere guidato da principi, non solo dalla politica. Se l’obbiettivo è la genuina inclusività, la massima priorità deve andare al benessere di più di sei miliardi di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo e nei mercati emergenti.
By mm
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