Articoli sul NYT

Non date la colpa i robot per i bassi salari, di Paul Krugman (New York Times, 14 marzo 2019)

 

March 14, 2019

Don’t Blame Robots for Low Wages 

By Paul Krugman

zz 516

The other day I found myself, as I often do, at a conference discussing lagging wages and soaring inequality. There was a lot of interesting discussion. But one thing that struck me was how many of the participants just assumed that robots are a big part of the problem — that machines are taking away the good jobs, or even jobs in general. For the most part this wasn’t even presented as a hypothesis, just as part of what everyone knows.

And this assumption has real implications for policy discussion. For example, a lot of the agitation for a universal basic income comes from the belief that jobs will become ever scarcer as the robot apocalypse overtakes the economy.

So it seems like a good idea to point out that in this case what everyone knows isn’t true. Predictions are hard, especially about the future, and maybe the robots really will come for all our jobs one of these days. But automation just isn’t a big part of the story of what happened to American workers over the past 40 years.

We do have a big problem — but it has very little to do with technology, and a lot to do with politics and power.

Let’s back up for a minute, and ask: What is a robot, anyway? Clearly, it doesn’t have to be something that looks like C-3PO, or rolls around saying “Exterminate! Exterminate!” From an economic point of view, a robot is anything that uses technology to do work formerly done by human beings.

And robots in that sense have been transforming our economy literally for centuries. David Ricardo, one of the founding fathers of economics, wrote about the disruptive effects of machinery in 1821!

These days, when people talk about the robot apocalypse, they don’t usually think of things like strip mining and mountaintop removal. Yet these technologies utterly transformed coal mining: Coal production almost doubled between 1950 and 2000 (it only began falling a few years ago), yet the number of coal miners fell from 470,000 to fewer than 80,000.

Or consider freight containerization. Longshoremen used to be a big part of the scene in major port cities. But while global trade has soared since the 1970s, the share of U.S. workers engaged in “marine cargo handling” has fallen by two-thirds.

Technological disruption, then, isn’t a new phenomenon. Still, is it accelerating? Not according to the data. If robots really were replacing workers en masse, we’d expect to see the amount of stuff produced by each remaining worker — labor productivity — soaring. In fact, productivity grew a lot faster from the mid-1990s to the mid-2000s than it has since.

So technological change is an old story. What’s new is the failure of workers to share in the fruits of that technological change.

I’m not saying that coping with change was ever easy. The decline of coal employment had devastating effects on many families, and much of what used to be coal country has never recovered. The loss of manual jobs in port cities surely contributed to the urban social crisis of the ’70s and ’80s.

But while there have always been some victims of technological progress, until the 1970s rising productivity translated into rising wages for a great majority of workers. Then the connection was broken. And it wasn’t the robots that did it.

What did? There is a growing though incomplete consensus among economists that a key factor in wage stagnation has been workers’ declining bargaining power — a decline whose roots are ultimately political.

Most obviously, the federal minimum wage, adjusted for inflation, has fallen by a third over the past half century, even as worker productivity has risen 150 percent. That divergence was politics, pure and simple.

The decline of unions, which covered a quarter of private-sector workers in 1973 but only 6 percent now, may not be as obviously political. But other countries haven’t seen the same kind of decline. Canada is as unionized now as the U.S. was in 1973; in the Nordic nations unions cover two-thirds of the work force. What made America exceptional was a political environment deeply hostile to labor organizing and friendly toward union-busting employers.

And the decline of unions has made a huge difference. Consider the case of trucking, which used to be a good job but now pays a third less than it did in the 1970s, with terrible working conditions. What made the difference? De-unionization was a big part of the story.

And these easily quantifiable factors are just indicators of a sustained, across-the-board anti-worker bias in our politics.

Which brings me back to the question of why we’re talking so much about robots. The answer, I’d argue, is that it’s a diversionary tactic — a way to avoid facing up to the way our system is rigged against workers, similar to the way talk of a “skills gap” was a way to divert attention from bad policies that kept unemployment high.

And progressives, above all, shouldn’t fall for this facile fatalism. American workers can and should be getting a much better deal than they are. And to the extent that they aren’t, the fault lies not in our robots, but in our political leaders.

 

Non date la colpa i robot per i bassi salari,

di Paul Krugman

L’altro giorno mi sono ritrovato, come capita spesso, ad una conferenza a discutere di salari che restano indietro e dell’ineguaglianza che vola in alto. C’era un dibattito molto interessante. Ma una cosa che mi colpiva era come molti dei partecipanti davano proprio per scontato che i robot fossero una gran parte del problema – che le macchine stiano portando via i buoni posti di lavoro, o addirittura i posti di lavoro in generale. Per la maggioranza degli interventi questa non era neppure presentata come una ipotesi, solo come un aspetto che tutti conoscono.

E questo assunto ha implicazioni effettive per il dibattito politico. Ad esempio, gran parte del movimento per un reddito di base per tutti deriva dal convincimento che i posti di lavoro diverranno persino più scarsi quando l’apocalisse dei robot si imporrà all’economia.

Sembra dunque una buona idea mettere in evidenza che in questo caso quello che tutti conoscono non è vero. Le previsioni sono ardue, in particolare sul futuro, e forse per davvero i robot un giorno a l’altro prenderanno il posto di tutti i nostri posti di lavoro. Ma l’automazione non è proprio una parte rilevante della storia che ha interessato i lavoratori americani negli ultimi 40 anni.

Abbiamo un gran problema – ma esso ha molto poco a che fare con la tecnologia, e molto a che fare con la politica e il potere.

Facciamo un passo indietro e chiediamoci: che cos’è un robot, in fin dei conti? Chiaramente, non si tratta di qualcosa che assomiglia al C-3PO [1], o che barcolla dicendo “Sterminate! Sterminate!” Da un punto di vista economico, un robot è qualcosa che utilizza la tecnologia per fare un lavoro che in precedenza era fatto da esseri umani.

E in quel senso i robot stanno trasformando la nostra economia letteralmente da secoli. David Ricardo, uno dei padri fondatori dell’economia, scrisse sugli effetti dirompenti delle macchine nel 1821!

Di questi tempi, quando le persone parlano della apocalisse dei robot, normalmente non pensano a cose come l’estrazione di minerali a cielo aperto e la rimozione delle cime delle montagne. Tuttavia queste tecnologie hanno completamente trasformato l’estrazione del carbone: la produzione di carbone è quasi raddoppiata tra il 1950 e il 2000 (ha cominciato a ridursi solo da pochi anni), eppure il numero dei minatori di carbone è sceso da 470.000 a meno di 80.000.

Oppure si consideri l’uso dei container per il trasporto delle merci. Gli scaricatori di porto un tempo erano una gran parte del paesaggio nelle importanti città portuali. Ma mentre, a partire dagli anni ’70, il commercio globale è schizzato in alto, la quota dei lavoratori americani impegnata nella “gestione marittima del trasporto merci” è caduta di due terzi.

Il turbamento tecnologico, dunque, non è un fenomeno nuovo. Eppure, si sta accelerando?  Non secondo i dati. Se i robot stessero davvero rimpiazzando in massa i lavoratori, dovremmo aspettarci di vedere la quantità di merci prodotta da ciascun lavoratore rimanente – la produttività del lavoro – crescere fortemente. Di fatto, la produttività è cresciuta molto più velocemente dalla metà degli anni ’90 alla metà del primo decennio del 2000, rispetto a quanto è cresciuta da allora.

Dunque il cambiamento tecnologico è una storia vecchia. Quello che è nuovo è la mancanza di condivisione dei frutti di quel cambiamento tecnologico da parte dei lavoratori.

Non sto dicendo che fare i conti col cambiamento sia mai stato facile. Il calo dell’occupazione nel carbone ha avuto effetti devastanti per molte famiglie, e una gran parte di quello che era un tempo il ‘paese del carbone’ non si è mai ripreso. La perdita dei posti di lavoro manuali nelle città portuali ha sicuramente contribuito alla crisi sociale urbana negli anni ’70 e ’80.

Ma mentre ci sono sempre state le vittime del progresso tecnologico, sino agli anni ’70 la crescente produttività si traduceva in crescenti salari per una grande maggioranza di lavoratori. Poi quella connessione si è spezzata. E non sono stati i robot a provocarlo.

Cosa è stato? C’è un crescente, per quanto non unanime, consenso tra gli economisti che un fattore fondamentale nella stagnazione salariale sia stata la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori – un declino le cui radici sono in definitiva politiche.

Con la massima evidenza, il salario minimo federale, corretto per l’inflazione, è caduto di un terzo nel corso del mezzo secolo passato, anche se la produttività per lavoratore è cresciuta del 150 per cento. Quella divergenza è, puramente e semplicemente, attribuibile alla politica.

Il declino dei sindacati, che rappresentavano un quarto dei lavoratori del settore privato nel 1973 ma solo il 6 per cento oggi, può non essere così evidentemente dipendente dalla politica. Ma altri paesi non hanno conosciuto lo stesso tipo di declino. Il Canada è altrettanto sindacalizzato oggi di quanto gli Stati Uniti erano nel 1973; nelle nazioni nordiche ai sindacati aderiscono i due terzi della forza lavoro. Quello che ha reso l’America eccezionale è stato un ambiente politico profondamente ostile alla organizzazione del lavoro e favorevole a datori di lavoro che spaccano i sindacati.

E il declino dei sindacati ha fatto una grande differenza. Si consideri il caso del trasporto delle merci, che un tempo era un buon posto di lavoro ma oggi paga un terzo di meno di quanto pagava negli anni ’70, con condizioni di lavoro terribili. Che cosa ha fatto la differenza? La desindacalizzazione è stata una componente importante di quella storia.

E questi facilmente quantificabili fattori sono solo indicatori di un perdurante, indiscriminato orientamento ostile ai lavoratori nella nostra politica.

Il che mi riporta alla domanda del perché stiamo parlando così tanto di robot. Direi che la risposta è che si tratta di una tattica diversiva – una maniera per evitare di guardare in faccia il modo in cui il nostro sistema è manipolato contro i lavoratori, così come il parlare di “divario di competenze professionali” spostava l’attenzione dalle cattive politiche che tenevano la disoccupazione elevata.

E anzitutto i progressisti non dovrebbero cadere in questo superficiale fatalismo. I lavoratori americani possono e dovrebbero ricevere un trattamento molto migliore di quello che hanno. E nella misura in cui non ce l’hanno, la responsabilità non sta nei nostri robot, ma nei nostri dirigenti politici.       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Uno dei robot di Guerre Stellari.

 

 

 

 

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"