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Alla fine Trump ha perso la credibilità? Di Paul Krugman (dalla sua newsletter sul NYT, 4 giugno 2019)

 

 

June 4 2019

Has Trump finally jumped the shark?

Paul Krugman

Life isn’t fair, and politics is even less fair than the rest of life. Donald Trump has done and is doing many terrible things — inviting foreign influence into U.S. elections, ripping children from their parents and putting them in cages, poisoning the environment, praising murderous dictators and more. In terms of sheer awfulness, his protectionist trade policies are way down the list — and I say that despite being someone whose career was based largely on the study of international trade, and has every incentive to inflate the issue’s importance.
Yet Trump’s tariff obsession seems to be causing him more political trouble than anything else he’s doing. It might even be enough to provoke a break with his otherwise slavish followers in Congress. Trump’s famous boast that he could shoot someone on Fifth Avenue and his supporters wouldn’t care may or may not be true of Republican voters, but it’s clearly true of G.O.P. members of Congress. Yet there seems to be a real possibility of legislative action to block the new tariffs he threatened to impose on Mexico last week.
So why is this particular vileness the point at which his party’s invertebrates show signs of developing rudimentary spines? There are two key points.
First, Trump’s confrontational trade policy — unlike his racism, his determination to weaken workers’ rights, his efforts to degrade the environment, and so on — doesn’t have any important constituency behind it. Neither big-money donors nor guys with Tiki torches chanting “Jews will not replace us” are clamoring for tariffs. The tariff thing is basically Trump’s personal obsession.
Second, there are important constituencies — important parts of the Trump coalition — that really, really don’t like the prospect of trade war. Farmers have already been hurt badly by the confrontation with China, which has sent prices for crops like soybeans plunging. U.S. industry, which has invested huge sums in a supply chain that sprawls across both our northern and southern borders, is horrified at the thought of a confrontation that disrupts trade with Mexico.
Until recently, business and investors were, in effect, betting that with so much money at stake, even Trump would rein in his impulses, that on trade he would talk loudly but carry a small stick. That’s pretty much what seemed to have happened on Nafta, the North American Free Trade Agreement: after denouncing Nafta as the worst trade deal ever made, Trump negotiated a new deal so similar to the existing one that you need a magnifying glass to see the differences.
But now he’s effectively reneging on his own deal, threatening tariffs unless Mexico does something, he knows not what, to prevent asylum-seekers from seeking asylum.
Will he really do it? The various newsletters I receive can’t seem to believe it. Citibank, for example, writes that “the consequences of this policy could be so extreme we see it as unlikely to happen.”
But Trump has a thing about tariffs, and he really hates looking like a loser. So yes, this may really be about to happen. And even the G.O.P. may finally reach a breaking point.

 

Alla fine Trump ha perso la credibilità?

Di Paul Krugman [1]

 

La vita non è giusta, e la politica è anche meno giusta del resto della vita. Trump ha fatto e sta facendo molte cose terribili – sollecitando influenze straniere nelle elezioni statunitensi, strappando i figli ai loro genitori e mettendoli in gabbie, avvelenando l’ambiente, elogiando dittatori assassini e altro ancora. In termini di mera sgradevolezza, le sue politiche commerciali protezionistiche sono in fondo alla lista – e lo dico nonostante che la mia carriera sia basata in gran parte sullo studio del commercio internazionale, ed abbia tutte le ragioni per enfatizzare l’importanza di quel tema.

Tuttavia l’ossessione per le tariffe di Trump sembra gli provochi guai politici superiori a tutto il resto che sta facendo. Potrebbe essere sufficiente a provocare una rottura con i suoi seguaci nel Congresso, solitamente servili. La famosa vanteria di Trump secondo la quale egli potrebbe sparare a qualcuno sulla Quinta Strada e i suoi sostenitori non se ne curerebbero, che sia o meno vera nel caso degli elettori repubblicani, è chiaramente vera nel caso dei membri repubblicani del Congresso. Sembra tuttavia esserci la reale possibilità di una iniziativa legislativa per bloccare le nuove tariffe che ha minacciato di imporre al Messico la scorsa settimana.

Perché, dunque, è questa particolare meschinità l’occasione nella quale gli invertebrati del suo partito mostrano di sviluppare una apparente spina dorsale? Ci sono due aspetti fondamentali.

Il primo, la politica commerciale di scontro di Trump – diversamente dal suo razzismo, dalla sua determinazione a indebolire i diritti dei lavoratori, dai suoi sforzi per degradare l’ambiente, e via dicendo – non ha alcun particolare sostegno elettorale alle spalle. Neppure coloro che sottoscrivono molti soldi in donazioni o gli individui con le fiaccole che lanciano slogan come “Gli ebrei non prenderanno il nostro posto” stanno strepitando per le tariffe. La faccenda delle tariffe è fondamentalmente una ossessione personale di Trump.

Il secondo, ci sono importanti gruppi di sostenitori – componenti importanti della coalizione di Trump – che proprio non gradiscono la prospettiva di una guerra commerciale. Gli agricoltori sono già pesantemente colpiti dallo scontro con la Cina, che ha fatto crollare i prezzi dei raccolti come la soia. Le industrie statunitensi, che hanno investito vaste somme in una catena dell’offerta che si estende oltre i nostri confini sia a nord che a sud, sono terrorizzate al pensiero di uno scontro che metta nel caos il commercio con il Messico.

Sino al periodo più recente, in effetti, le imprese e gli investitori scommettevano che con tanti soldi in ballo, persino Trump avrebbe controllato i suoi impulsi, che sul commercio egli avrebbe parlato con durezza ma agitando un piccolo bastone. Era grosso modo quello che sembrava fosse successo con il NAFTA, l’Accordo sul Libero Commercio dell’America del Nord: dopo aver denunciato il NAFTA come il peggior accordo commerciale mai fatto, Trump aveva negoziato un nuovo accordo talmente simile al precedente che si dovevano usare occhiali ingrandenti per vedere qualche differenza.

Ma adesso egli sta in sostanza rinnegando il suo stesso accordo, minacciando tariffe senza che il Messico abbia fatto alcunché, neanche lui sa che cosa, per impedire ai richiedenti asilo di chiedere asilo.

Lo farà davvero? Le varie newsletter che ricevo sembrano crederci. Ad esempio, Citibank scrive che “le conseguenze di questa politica potrebbero essere così radicali che ci appare improbabile che accada”.

Ma Trump ha un problema con le tariffe, e odia per davvero di apparire un perdente. Dunque, in effetti questo potrebbe sul serio accadere. E persino il Partito Repubblicano potrebbe alla fine arrivare ad un punto di rottura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Questo articolo compare su una nuova “newsletter” di Krugman che è a disposizione dei lettori del New York Times da alcune settimane.

Dunque adesso i suoi scritti – a parte i saggi, le recensioni o la sua attività varia come docente universitario – si dividono in tre categorie: a) gli articoli sul NYT, due volte alla settimana, con l’eccezione dei periodi di ferie; b) i post sul suo blog (che nel frattempo si è trasferito sul blog del NYT); c) la newsletter, in genere con interventi più brevi e meno specialistici. Come i lettori più affezionati hanno compreso, le opinioni che appaiono due volte alla settimana sul NYT sono in generale interventi che hanno per oggetto la politica e la società americana; i post sono di solito riflessioni con maggiore spessore tecnico e di ricerca (ad esempio, contengono statistiche che non possono apparire per ragioni editoriali sugli articoli che appaiono effettivamente sul giornale); la newsletter, che adesso talora traduciamo, nella speranza di aver quasi superato iniziali problemi banalmente tecnici di ‘editing’. Gli interventi più lunghi, in genere connessi con la sua attività universitaria, continuiamo a tradurli, anche se sono diventati un po’ più rari. In pratica, la sua produzione è diventata maggiormente ‘politica’ – più caratteristica di quella che gli americani definiscono come attività di un “pubblic intellectual”, che non di un economista “professional”.

Le novità nella attività di Krugman sono avvenute grosso modo nel corso dell’ultimo anno, quando ha peraltro avuto inizio la sua produzione di sintetici messaggi su Twitter, con indici di ascolto elevatissimi. Anche questi ultimi sono interessanti – ad esempio talora contengono vari riferimenti statistici e diagrammi, oppure rimandano ad analisi di altri politologi ed economisti. Ma essendo molto brevi (Krugman ‘aggira’ il problema della obbligata stringatezza dei messaggi su Twitter, ricorrendo alla tecnica della ‘ripetizione’ di vari messaggi su un unico argomento) si prestano male ad essere tradotti.

Aggiungo, per chi se lo fosse chiesto, che Krugman non scrive mai su una rivista come Project Syndicate, dalla quale noi traiamo il materiale di altri economisti (come Stiglitz, Brad DeLong, Turner, Spence, Eichengreen, Frenkel e vari altri). La sua produzione si concentra sugli strumenti di comunicazione del NYT, oppure – anche attraverso video – su quelli della sua Università pubblica (CUNY).

 

 

 

 

 

 

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