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La trumpizzazione della Federal Reserve, di Paul Krugman (New York Times, 20 giugno 2019)

 

June 20, 2019

The Trumpification of the Federal Reserve

By Paul Krugman

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In late 2015 then-candidate Donald Trump accused Janet Yellen, chair of the Federal Reserve, of being part of a political conspiracy. Yellen, he insisted, was keeping interest rates unjustifiably low in an attempt to help Hillary Clinton win the presidency.

As it happens, there were very good reasons for the Fed to keep rates low at the time. Some measures of the job market, notably prime-age employment, were still well below precrisis levels, and business investment was going through a significant slump — a sort of mini-recession.

Fast forward to the present. The employment picture is much stronger now than it was then. There are hints of an economic slowdown, partly because of the uncertainty created by Trump’s trade war, but they’re considerably fainter than those of 2015-16. And Trump himself keeps boasting about the economy’s strength.

Yet he is openly pressuring the Fed to cut rates, and is reportedly looking for ways to demote Jay Powell, the man he himself chose to replace Yellen — declining to reappoint Yellen, according to some reports, because he didn’t think she was tall enough.

But wait, there’s more. While there are, as I said, hints of a slowdown here, there are much stronger warning signs in Europe, where manufacturing is slumping and recession worries are on the rise. Yet even as he tries to bully the Fed into cutting rates, Trump flew into a rage over reports that the European Central Bank, Europe’s counterpart to the Fed, is considering rate cuts of its own, which would weaken the euro and make U.S. industry less competitive.

If these various positions sound inconsistent to you, you’re just not thinking about them in the right way. The common principle is simple: Monetary policy should be whatever serves Donald Trump’s interests. Nothing else matters.

And Trump’s current rage at the Fed should be understood mainly as an expression of frustration over the failure of his 2017 tax cut.

Yes, the tax cut gave the economy a boost, as you’d expect from policies that widened the annual full-employment budget deficit by about $400 billion. (Imagine what the Obama economy would have looked like if Congress had let him spend $400 billion a year on, say, infrastructure.) But it was a pretty modest boost, considering, with much of the tax cut being used just to buy back corporate stock.

More to the point, the tax cut was a political bust: Trump isn’t getting much credit for good economic numbers, and a plurality of the white working-class voters on whom the tweeter in chief depends believe (correctly) that his policies mainly benefit people richer than themselves.

So Trump is, in effect, demanding that the Fed bail him out of the consequences of his own policy failures. And if that were the whole story, the appropriate response would be some polite, Fedspeak version of “Go to hell.”

But as it happens, Trump and his tantrums aren’t the whole story. There is, in fact, a strong case that the Fed was too quick to raise interest rates from 2015 to 2019 — that it underestimated how much slack there still was in the U.S. economy and overestimated the economy’s underlying strength (which it has done consistently over the past decade).

And there is correspondingly a case for partially reversing recent Fed rate hikes, and cutting rates now as insurance against a possible future slump — getting ahead of the curve. Donald Trump is the worst possible person to be making this argument, but that doesn’t mean that the argument is wrong.

So what should the Fed do?

Central bankers, like those running the Fed, try to portray themselves as apolitical and technocratic. This is never quite true in practice, but it’s an ideal toward which they strive. Thanks to Trump, however, whatever the Fed does next will be seen as deeply political. If it does cut rates despite low unemployment, this will be seen as giving up its independence and letting Trump dictate policy. If it doesn’t, Trump will lash out even harder.

And if I were Powell, I’d be worried about an even worse scenario. Suppose the Fed were to cut rates, and growth and inflation end up being higher than expected. Conventional policy would then call for reversing the rate cut — right on the eve of the 2020 election. The political firestorm would be horrific.

And I’m sorry, but in Trump’s America no institution can ignore the political ramifications of its actions, if only because these ramifications will affect its ability to do its job in the future.

What this means for monetary policy, I think, is that while straight economics says that the Fed should try to get ahead of the curve, the political trap Trump has created argues that it should hold off — that it should insist that its policy is “data-dependent,” and wait for clear evidence of a serious slowdown before acting.

Now, this might mean that if the Fed does eventually cut rates, whatever boost this gives the economy (which would be limited in any case, since rates are already quite low) will come too late to help Trump in the 2020 election. But if that’s what happens, Trump will have only himself to blame.

 

 

La trumpizzazione della Federal Reserve,

di Paul Krugman

 

Nel passato 2015, l’allora candidato Donald Trump accusava Janet Yellen, Presidente della Federal Reserve, di partecipare ad una cospirazione politica. La Yellen, disse più volte, stava tenendo i tassi di interesse ingiustificatamente bassi nel tentativo di aiutare Hillary Clinton a vincere le elezioni.

Si dà il caso che, a quel tempo, ci fossero molte buone ragioni per tenere bassi i tassi da parte della Fed. Alcuni dati del mercato del lavoro, in particolare l’occupazione durante la principale età lavorativa, erano ancora assai più bassi dei livelli precedenti alla crisi, e gli investimenti delle imprese erano significativamente depressi – una sorta di mini recessione.

Veniamo velocemente all’oggi. Il quadro dell’occupazione è molto più solido di quanto era allora. Ci sono cenni di un rallentamento economico, in parte a causa dell’incertezza provocata dalla guerra commerciale di Trump, ma sono considerevolmente più tenui di quelli del 2015-2016. E Trump stesso continua a vantarsi della forza dell’economia.

Tuttavia egli sta apertamente facendo pressioni sulla Fed per un taglio dei tassi, e sta cercando, secondo vari resoconti, di ridimensionare Jay Powell, l’uomo da lui stesso scelto per sostituire la Yellen – rinunciando a rinominare la Yellen, secondo alcuni di quei resoconti, perché pensava che fosse troppo bassa.

Ma aspettate, c’è di più. Mentre, come ho detto, ci sono cenni di rallentamento, in Europa ci sono segni molto più forti, con un settore manifatturiero in declino e i timori di una recessione in crescita. Tuttavia, anche se cerca di intimidire la Fed a tagliare i tassi, Trump è entrato in una crisi di nervi per le notizie secondo le quali la Banca Centrale Europea, la controparte europea della Fed, sta esaminando essa stessa di tagliare i tassi, la qual cosa indebolirebbe l’euro e renderebbe l’industria statunitense meno competitiva.

Se questa varie posizioni vi sembrano incoerenti, dipende dal fatto che non le state considerando nella giusta prospettiva. Il principio comune è semplice: la politica monetaria dovrebbe consistere in tutto quello che fa gli interessi di Donald Trump. Tutto il resto non conta.

E la rabbia attuale di Trump con la Fed deve essere intesa come una espressione di frustrazione per il fallimento del suo taglio delle tasse del 2017.

È vero, il taglio delle tasse ha dato una spinta all’economia, come ci si poteva aspettare da politiche che hanno ampliato il deficit di bilancio annuale in condizioni di piena occupazione per circa 400 miliardi di dollari (si pensi a quello che sarebbe stata l’economia con Obama se il Congresso gli avesse permesso di spendere 400 miliardi all’anno, ad esempio, sulle infrastrutture). Ma la spinta è stata abbastanza modesta, considerando che una buona parte del taglio delle tasse viene usata soltanto per riacquistare le azioni delle società.

Venendo maggiormente al punto, il taglio delle tasse è stato un disastro politico: Trump non sta ottenendo molto credito dai dati positivi dell’economia, e un certo numero di elettori della classe lavoratrice bianca, dai quali il cinguettatore in capo dipende, credono (correttamente) che le sue politiche principalmente avvantaggino le persone più ricche di loro.

Dunque, in effetti Trump sta chiedendo che la Fed lo metta in salvo dalle conseguenze dei fallimenti della sua stessa politica. E se quella fosse l’intera storia, la risposta appropriata sarebbe, nel linguaggio della Fed, una qualche educata versione di un “Vai al diavolo!”.

Ma come al solito, Trump e i suoi scatti d’ira non sono l’intera storia. C’è, infatti, un forte probabilità che la Fed sia stata troppo veloce ad elevare i tassi di interesse dal 2015 al 2019 – che essa abbia sottostimato quanta fiacchezza ci fosse ancora nell’economia statunitense ed abbia sovrastimato la forza sottostante dell’economia (cosa che essa ha fatto costantemente nel decennio passato).

E c’è un argomento corrispondente a favore di una parziale inversione dei recenti rialzi dei tassi da parte della Fed, ed a favore in questo momento di un loro taglio come assicurazione contro una futura possibile recessione – anticipando gli eventi. Donald Trump è l’ultima persona che dovrebbe usare questo argomento, ma questo non significa che esso sia sbagliato. Dunque, cosa dovrebbe fare la Fed?

I banchieri centrali, come coloro che governano la Fed, cercano di presentarsi come apolitici e tecnocratici. In pratica questo non è quasi mai vero, ma è un ideale a cui aspirano. Grazie a Trump, tuttavia, qualsiasi cosa faccia prossimamente la Fed verrà considerata profondamente politica. Se essa taglia davvero i tassi nonostante la bassa disoccupazione, si penserà che abbia rinunciato alla sua indipendenza e permesso a Trump di dettare la politica. Se non lo fa, Trump la attaccherà persino più duramente.

E se io fossi Powell, sarei preoccupato di uno scenario anche peggiore. Supponiamo che la Fed tagli i tassi, e che la crescita e l’inflazione finiscano col diventare più elevate di quello che ci si aspettava. Una politica convenzionale, in quel caso, indicherebbe una inversione del taglio dei tassi – proprio nell’epoca delle elezioni del 2020. La tempesta politica sarebbe terribile.

E sono spiacente, ma nell’America di Trump nessuna istituzione può ignorare le conseguenze politiche delle sue azioni, se non altro perché queste conseguenze influiranno sulla sua capacità di fare il suo lavoro nel futuro.

Cosa questo significhi per la politica monetaria, suppongo, è che mentre la normale economia dice che la Fed dovrebbe cercare di anticipare gli eventi, la trappola politica creata da Trump suggerisce che essa dovrebbe astenersene – che dovrebbe ribadire che la sua politica è dipendente solo dai dati, e attendere una chiara prova di un serio rallentamento prima di agire.

Ora, questo potrebbe comportare che se la Fed alla fine tagli i tassi, qualsiasi incoraggiamento potrebbe fornire all’economia (che sarebbe limitato in ogni caso, dato che i tassi sono già piuttosto bassi), esso arriverebbe troppo tardi per aiutare Trump nelle elezioni del 2010. Ma se accade ciò, Trump dovrà soltanto incolpare sé stesso.

 

 

 

 

 

 

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