May 21, 2019
BERKELEY – Will the imminent “rise of the robots” threaten all future human employment? The most thoughtful discussion of that question can be found in MIT economist David H. Autor’s 2015 paper, “Why Are There Still so Many Jobs?”, which considers the problem in the context of Polanyi’s Paradox. Given that “we can know more than we can tell,” the twentieth-century philosopher Michael Polanyi observed, we shouldn’t assume that technology can replicate the function of human knowledge itself. Just because a computer can know everything there is to know about a car doesn’t mean it can drive it.
This distinction between tacit knowledge and information bears directly on the question of what humans will be doing to produce economic value in the future. Historically, the tasks that humans have performed have fallen into ten broad categories. The first, and most basic, is using one’s body to move physical objects, which is followed by using one’s eyes and fingers to create discrete material goods. The third category involves feeding materials into machine-driven production processes – that is, serving as a human robot – which is followed by actually guiding the operations of a machine (acting as a human microprocessor).
In the fifth and sixth categories, one is elevated from microprocessor to software, performing accounting-and-control tasks or facilitating communication and the exchange of information. In the seventh category, one actually writes the software, translating tasks into code (here, one encounters the old joke that every computer needs an additional “Do” command: “Do What I Mean”). In the eighth category, one provides a human connection, whereas in the ninth, one acts as cheerleader, manager, or arbiter for other humans. Finally, in the tenth category, one thinks critically about complex problems, and then devises novel inventions or solutions to them.
For the past 6,000 years, tasks in the first category have gradually been offloaded, first to draft animals and then to machines. For the past 300 years, tasks in the second category have also been offloaded to machines. In both cases, jobs in categories three through six – all of which augmented the increasing power of the machines – became far more prevalent, and wages grew enormously.
But we have since developed machines that are better than humans at performing tasks in categories three and four – where we behave like robots and microprocessors – which is why manufacturing as a share of total employment in advanced economies has been declining for two generations, even as the productivity of manufacturing has increased. This trend, combined with monetary policymakers’ excessive anti-inflationary zeal, is a major factor contributing to the recent rise of neofascism in the United States and other Western countries.
Worse, we have now reached the point where robots are also better than humans at performing the “software” tasks in categories five and six, particularly when it comes to managing the flow of information and, it must be said, misinformation. Nonetheless, over the next few generations, this process of technological development will work itself out, leaving humans with just four categories of things to do: thinking critically, overseeing other humans, providing a human connection, and translating human whims into a language the machines can understand.
The problem is that very few of us have the genius to produce genuine economic value with our own creativity. The wealthy can employ only so many personal assistants. And many cheerleaders, managers, and dispute-settlers are already unnecessary. That leaves category eight: as long as livelihoods are tied to remunerative employment, the prospect of preserving a middle-class society will depend on enormous demand for human connection.
Here, Polanyi’s Paradox gives us cause for hope. The task of providing “human connection” is not just inherently emotional and psychological; it also requires tacit knowledge of social and cultural circumstances that cannot be codified into concrete, routine commands for computers to follow. Moreover, each advance in technology creates new domains in which tacit knowledge matters, even when it comes to interacting with the new technologies themselves.
As Autor observes, though auto manufacturers “employ industrial robots to install windshields … aftermarket windshield replacement companies employ technicians, not robots.” It turns out that “removing a broken windshield, preparing the windshield frame to accept a replacement, and fitting a replacement into that frame demand more real-time adaptability than any contemporary robot can cost-effectively approach.” In other words, automation depends on fully controlled conditions, and humans will never achieve full control of the entire environment.
Some might counter that artificial-intelligence applications could develop a capacity to absorb “tacit knowledge.” Yet even if machine-learning algorithms could communicate back to us why they have made certain decisions, they will only ever work in restricted environmental domains. The wide range of specific conditions that they need in order to function properly renders them brittle and fragile, particularly when compared to the robust adaptability of human beings.
At any rate, if the “rise of the robots” represents a threat, it won’t be salient within the next two generations. For now, we should worry less about technological unemployment, and more about the role of technology in spreading disinformation. Without a properly functioning public sphere, why bother debating economics in the first place?
L’apocalisse dei robot? Non nella vostra esistenza.
Di J. Bradford DeLong
BERKELEY – L’imminente “avvento dei robot” minaccerà l’intera futura occupazione degli esseri umani? La più meditata discussione attorno a questa domanda può essere trovata nel saggio dell’economista del MIT David H. Autor del 2015, “Perché ci sono così tanti posti di lavoro?”, che considera il problema nell’ambito del Paradosso di Polany. Dato che “sappiamo più di quanto possiamo dire”, il filosofo del ventesimo secolo Michael Polany osservò che non dovremmo assumere che la tecnologia possa replicare le funzioni della conoscenza umana stessa. Solo perché un computer può conoscere tutto quello che c’è da sapere su una macchina, non significa che possa guidarla.
La distinzione tra la conoscenza implicita e l’informazione attiene in modo diretto alla domanda di cosa faranno gli essere umani per produrre valore economico nel futuro. Storicamente, i compiti che gli esseri umani hanno eseguito sono ricaduti in dieci generali categorie. La prima, e la più fondamentale, è utilizzare il proprio corpo per muovere oggetti fisici, seguita dall’utilizzare i propri occhi e le proprie dita per creare distinti beni materiali. La terza categoria riguarda l’alimentazione con i materiali dei processi di produzione guidati da macchine – ovvero, funzionare come un robot umano – che è seguita dal guidare effettivamente le operazioni di una macchina (agendo come un microprocessore umano).
Nella quinta e sesta categoria, si passa dal microprocessore al software, eseguendo funzioni di contabilità e controllo o facilitando la comunicazione e lo scambio di informazioni. Nella settima categoria, si scrive effettivamente il software, traducendo i compiti in numeri di codice (in questo caso, ci si imbatte con la vecchia battuta per la quale ogni computer ha bisogno del comando aggiuntivo del “Fare”: “Fai quello che intendo”). Nell’ottava categoria, si fornisce una connessione umana, mentre nella nona si agisce come sostenitore, dirigente o arbitro per altri esseri umani. Infine, nella decima categoria si pensa criticamente su problemi complessi, e si concepiscono nuove invenzioni o soluzioni per quei problemi stessi.
Nei passati 6 mila anni, i compiti della prima categoria sono stati gradualmente scaricati, in primo luogo per selezionare animali e poi alle macchine. Negli ultimi 300 anni, anche gli obbiettivi della seconda categoria sono stati scaricati alle macchine. In entrambi i casi, i posti di lavoro nella categoria dalla terza alla sesta – che hanno tutti aumentato il potere crescente delle macchine – sono diventati di gran lunga prevalenti, e i salari sono cresciuti enormemente.
Ma da allora abbiamo sviluppato macchine che sono migliori degli umani nell’eseguire i compiti delle categorie terza e quarta – laddove noi ci comportiamo come robot e microprocessori – che è la ragione per la quale la manifattura come quota della occupazione totale è venuta calando per due generazioni, anche se la produttività della manifattura è aumentata. Questa tendenza, assieme all’eccessivo zelo antiinflazionistico delle autorità monetarie, è un importante fattore che ha contribuito alla recente crescita del neofascismo negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali.
Peggio ancora, abbiamo adesso raggiunto il punto in cui i robot sono migliori degli umani nell’eseguire i compiti di “software” nelle categorie quinta e sesta, in particolare quando si giunge a gestire il flusso delle informazioni e, si deve aggiungere, delle disinformazioni. Ciononostante, nel corso delle prossime generazioni, questo processo di sviluppo tecnologico funzionerà per suo conto, lasciando gli esseri umani con solo quattro categorie di cose da fare: pensare criticamente, sorvegliare gli altri umani, fornire una connessione umana e tradurre i capricci umani in un linguaggio che le macchine possano intendere.
Il problema è che sono molto pochi quelli che hanno la genialità per produrre un effettivo valore economico con la loro stessa creatività. Solo i ricchi possono dar lavoro a così numerosi assistenti personali. E molti sostenitori, imprenditori e arbitri già ora non sono necessari. Questo ci lascia la categoria ottava: finché i mezzi di sostentamento sono legati ad una occupazione remunerativa, la prospettiva di difendere una società da classe media dipenderà da una enorme domanda nella categoria della connessione umana.
In questo caso, il Paradosso di Polany ci dà un motivo di speranza. L’obbiettivo di fornire “connessioni umane” non è soltanto intrinsecamente emozionale e psicologico; richiede anche una conoscenza implicita di circostanze sociali e culturali che non possono essere codificate in comandi concreti e ordinari da impartire ai computer. Inoltre, ogni avanzamento nella tecnologia determina nuove competenze nelle quali la conoscenza implicita è importante, persino nella forma di una interazione con le nuove tecnologie stesse.
Come osserva Autor, anche se le manifatture delle automobili “occupano robot industriali per installare i parabrezza … le società del mercato secondario della sostituzione dei parabrezza occupano tecnici, non robot”. Si scopre che “rimuovere un parabrezza rotto, predisporre un telaio del parabrezza ad accogliere una sostituzione e inserire una sostituzione in quel telaio richiede una adattabilità in tempo reale superiore a quella che un qualsiasi robot odierno può permettersi efficacemente sul lato dei costi”. In altre parole, l’automazione dipende da condizioni pienamente controllate, e gli esseri umani non realizzeranno mai un pieno controllo dell’intero contesto.
Alcuni potrebbero replicare che le applicazioni dell’intelligenza artificiale potrebbero sviluppare una capacità di assorbimento di quella “conoscenza implicita”. Tuttavia, anche se gli algoritmi potrebbero restituirci il motivo per il quale hanno preso alcune decisioni, essi non funzioneranno mai soltanto in ambiti ambientali ristretti. L’ampia gamma di specifiche condizioni di cui hanno bisogno allo scopo di funzionare in modo appropriato li rende precari e fragili, particolarmente quando li si confrontano con la solida adattabilità degli esseri umani.
In ogni caso, se “l’avvento dei robot” rappresenta una minaccia, essa non sarà significativa nel corso delle due prossime generazioni. Per adesso, dovremmo preoccuparci meno della disoccupazione tecnologica e più nel ruolo della tecnologia nel diffondere le disinformazioni. Senza un appropriato funzionamento della sfera pubblica, perché dovremmo preoccuparci di discutere anzitutto di economia?
By mm
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