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Il razzismo è uscito dall’armadio, di Paul Krugman (New York Times, 15 luglio 2019)

 

July 15, 2019

Racism Comes Out of the Closet

By Paul Krugman

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In 1981 Lee Atwater, the famed Republican political operative, explained to an interviewer how his party had learned to exploit racial antagonism using dog whistles. “You start out in 1954 by saying ‘Nigger, nigger, nigger.’” But by the late 1960s, “that hurts you, backfires. So you say stuff like, uh, ‘forced busing,’ ‘states’ rights,’ and all that stuff, and you’re getting so abstract. Now, you’re talking about cutting taxes, and all these things you’re talking about are totally economic things and a byproduct of them is, blacks get hurt worse than whites.”

Well, the dog whistle days are over. Republicans are pretty much back to saying “Nigger, nigger, nigger.”

As everyone knows, on Sunday Donald Trump attacked four progressive members of Congress, saying that they should “go back and help fix the totally broken and crime infested places from which they came.” As it happens, three of the four were born in the U.S., and the fourth is a duly naturalized citizen. All are, however, women of color.

Sorry, there’s no way to both sides this, or claim that Trump didn’t say what he said. This is racism, plain and simple — nothing abstract about it. And Trump obviously isn’t worried that it will backfire.

This should be a moment of truth for anyone who describes Trump as a “populist” or asserts that his support is based on “economic anxiety.” He’s not a populist, he’s a white supremacist. His support rests not on economic anxiety, but on racism.

And since we’re having this moment of clarity, there are several other points we should address.

First, this isn’t just about Trump; it’s about his whole party.

I don’t just mean the almost complete absence of condemnation of Trump’s racism on the part of prominent Republicans, although this cowardice was utterly predictable. I mean that Trump isn’t alone in deciding that this is a good time to bring raw racism out of the closet.

Last week Bill Lee, the Republican governor of Tennessee, signed a proclamation ordering a day to honor the Confederate general Nathan Bedford Forrest, whom he described as a “recognized military figure.” Indeed, Forrest was a talented military commander. He was also a traitor, a war criminal who massacred African-American prisoners, and a terrorist who helped found the Ku Klux Klan.

Put it this way: The Nazis had some very good generals, too. But the world would be horrified if Germany announced plans to start celebrating Erich von Manstein Day. There are, no doubt, some Germans who would like to honor Nazi heroes. But they aren’t in positions of power; their American counterparts are.

Second, although most of the commentary focuses on Trump’s demand that native-born Americans “go back” to their home countries, his description of their imaginary homelands as “crime infested” deserves some attention, too. For his fixation on crime is another manifestation of his racism.

I’m not sure how many people remember Trump’s inaugural address, which was all about “American carnage” — an alleged epidemic of violent crime sweeping our nation’s cities. He didn’t explicitly say, but clearly implied, that this supposed crime wave was being perpetrated by people with dark skins. And, of course, both Trump and the Trumpist media go on all the time about immigrant criminality.

In reality, violent crime in America’s big cities is near historical lows, and all the available evidence suggests that immigrants are, if anything, less likely than the native-born to commit crimes. But the association between nonwhites and crime is a deeply held tenet among white racists, and no amount of evidence will shake their belief.

Oh, and the real “American carnage” is the surge in “deaths of despair” from drugs, suicide and alcohol among less-educated whites. But this doesn’t fit the racist narrative.

Finally, the G.O.P.’s new comfort level with open racism should serve as a wake-up call to Democrats, both centrists and progressives, who sometimes seem to forget who and what they’re confronting.

On one side, Joe Biden’s celebration of the good relations he used to have with segregationist senators sounds even more tone-deaf than it did a month ago. Biden clearly isn’t a racist, but he needs to get a clue about how important it is to confront the racism sweeping the G.O.P.

On the other side, Democrats need to be very careful about doing anything that even hints at playing the race card against their own party. I understand progressive frustration over Nancy Pelosi’s caution and exasperation at moderate Democrats who may be causing that caution; many of us share their frustration. But there’s no equivalence between even the most foot-dragging Democrats and the G.O.P.’s raw racial incitement, and anyone who suggests otherwise is acting destructively.

It’s tempting to say that Republican claims to support racial equality were always hypocritical; it’s even tempting to welcome the move from dog whistles to open racism. But if hypocrisy is the tribute vice pays to virtue, what we’re seeing now is a party that no longer feels the need to pay that tribute. And that’s deeply frightening.

 

Il razzismo è uscito dall’armadio,

di Paul Krugman

 

Nel 1981 Lee Atwater, il noto stratega politico repubblicano, spiegò ad un intervistatore come il suo partito avesse imparato a sfruttare l’antagonismo razziale utilizzando dei richiami. “Si comincia dal 1954 con il dire ‘Negro, negro, negro’”. Ma sulla fine degli anni ’60 “questo vi danneggia, si ritorce contro di voi. Così parlate di cose come i ‘trasporti obbligati”, i ‘diritti degli Stati’ e roba del genere, che vi fanno diventare tanto astratti. Adesso si parla di tagliare le tasse, e tutte queste cose di cui si parla sono faccende interamente economiche e un effetto secondario di esse è che i neri vengono colpiti più dei bianchi”.

Ebbene, i giorni dei richiami allusivi sono finiti. I repubblicani sono tornati praticamente a dire “Negro, negro, negro”.

Come tutti sanno, domenica Donald Trump ha attaccato quattro componenti progressiste del Congresso, dicendo che dovrebbero “tornare nei posti da dove vengono, a dare una mano a risanare quei posti completamente falliti e infestati dal crimine”. Si dà il caso che tre di loro su quattro siano nate negli Stati Uniti, e la quarta sia una cittadina regolarmente naturalizzata. Tuttavia, sono tutte donne di colore.

Spiacente, non c’è modo di attribuire questa condotta a entrambi gli schieramenti, o di sostenere che Trump non sapeva quello che diceva. Questo è razzismo, puramente e semplicemente – in esso non c’è niente di astratto. E Trump, ovviamente, non è preoccupato che gli si ritorca contro.

Questo dovrebbe essere un momento della verità per tutti quelli che descrivono Trump come un populista o sostengono che il suo sostegno è basato sulla “ansietà economica”. Non è un populista, è un suprematista bianco. Il suo sostegno non si basa sulla ansietà economica, ma sul razzismo.

E dal momento che ci troviamo in questo momento di chiarezza, ci sono vari altri aspetti che dovremmo affrontare.

Il primo è che la questione non riguarda soltanto Trump; riguarda tutto il suo partito.

Non mi riferisco soltanto alla quasi completa assenza di condanne del razzismo di Trump da parte di eminenti repubblicani, sebbene questa viltà fosse completamente prevedibile. Intendo dire che Trump non è l’unico a decidere che questo è un periodo adatto per tirar fuori dagli armadi il razzismo più rozzo.

La scorsa settimana Bill Lee, Governatore repubblicano del Tennessee, ha sottoscritto un proclama che stabilisce un giorno per onorare il generale confederato Nathan Bedford Forrest, che ha descritto come una “riconosciuta personalità militare”. In effetti Forrest fu un comandante militare di talento. Fu anche un traditore, un criminale di guerra che massacrò prigionieri afro-americani, e un terrorista che contribuì a fondare il Ku Klux Klan.

Mettiamola in questo modo: anche i nazisti ebbero qualche ottimo generale. Ma il mondo troverebbe orribile se la Germania annunciasse l’intenzione di cominciare a celebrare il Giorno di Erich von Manstein. Non c’è dubbio, ci sono alcuni tedeschi ai quali farebbe piacere onorare gli eroi nazisti. Ma costoro non sono al potere, mentre i loro omologhi americani ci sono.

In secondo luogo, sebbene la maggioranza dei commenti si concentri sulla richiesta di Trump che americani nati nel nostro paese “tornino” ai loro paesi di origine, la sua descrizione delle loro patrie immaginarie come “infestate dal crimine” merita anch’essa qualche attenzione. Perché quella fissazione sul crimine è un’altra manifestazione del suo razzismo.

Non so quante persone ricordino il discorso inaugurale di Trump, che verteva tutto sulla “carneficina americana” – la pretesa epidemia di crimini violenti che starebbe imperversando nelle città della nostra nazione. Non lo disse esplicitamente, ma chiaramente intendeva che di questa presunta ondata di criminalità fossero responsabili persone di colore. E, ovviamente, sia Trump che i media trumpisti hanno proseguito per tutto il tempo sulla criminalità degli emigrati.

In realtà, i crimini violenti nelle grandi città americane sono ai minimi storici, e tutte le prove disponibili indicano che, semmai, è meno probabile che gli emigranti commettano crimini di coloro che sono nati nel paese. Ma l’associazione tra non bianchi e crimini è un dogma che resiste profondamente tra i razzisti bianchi, e nessuna quantità di prove smuoverà il loro convincimento.

E inoltre, la vera “carneficina americana” è la crescita delle “morti per disperazione” a seguito delle droghe, dei suicidi e dell’alcol tra i bianchi meno istruiti. Ma questa non rientra nella narrazione razzista.

Infine, il nuovo livello di disinvoltura del Partito Repubblicano con l’aperto razzismo dovrebbe funzionare come una sveglia per i democratici, sia centristi che progressisti, che talvolta sembrano scordarsi con chi e con che cosa si stanno confrontando.

Da una parte, la celebrazione di Joe Biden delle buone relazioni che era solito avere con i senatori segregazionisti, sembra anche più stonata di quella che fece un mese fa. Chiaramente Biden non è un razzista, ma ha bisogno di avere un’idea di quanto sia importante combattere il razzismo che imperversa nel Partito Repubblicano.

D’altra parte, i democratici hanno bisogno di essere molto scrupolosi nel fare qualcosa che persino accenni a giocare la certa della razza contro il loro stesso partito. Capisco la frustrazione progressista nei confronti della cautela di Nancy Pelosi e l’esasperazione nei confronti dei democratici moderati che possono essere la causa di tale cautela; in molti condividiamo quella frustrazione. Ma non c’è alcuna equivalenza tra persino tra i più esitanti democratici e l’incitamento al rozzo razzismo del partito Repubblicano, e chiunque sostenga qualcosa di diverso sta comportandosi in modo distruttivo.

Si è tentati di dire che le pretese repubblicane di essere a favore dell’eguaglianza razziale siano sempre state ipocrite; si è persino tentati di salutare positivamente il passaggio dalla politica dei richiami allusivi al razzismo aperto. Ma se l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù, quello a cui stiamo adesso assistendo è un partito che non sente più il bisogno di pagare quel tributo. Ed è profondamente inquietante.

 

 

 

 

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