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Trump sta perdendo le sue guerre commerciali, di Paul Krugman (New York Times, 4 luglio 2019)

 

July 4, 2019

Trump Is Losing His Trade Wars

By Paul Krugman

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Donald Trump’s declaration that “trade wars are good, and easy to win” will surely go down in the history books as a classic utterance — but not in a good way. Instead it will go alongside Dick Cheney’s prediction, on the eve of the Iraq war, that “we will, in fact, be welcomed as liberators.” That is, it will be used to illustrate the arrogance and ignorance that so often drives crucial policy decisions.

For the reality is that Trump isn’t winning his trade wars. True, his tariffs have hurt China and other foreign economies. But they’ve hurt America too; economists at the New York Fed estimate that the average household will end up paying more than $1,000 a year in higher prices.

And there’s no hint that the tariffs are achieving Trump’s presumed goal, which is to pressure other countries into making significant policy changes.

What, after all, is a trade war? Neither economists nor historians use the term for situations in which a country imposes tariffs for domestic political reasons, as the United States routinely did until the 1930s. No, it’s only a “trade war” if the goal of the tariffs is coercion — imposing pain on other countries to force them to change their policies in our favor.

And while the pain is real, the coercion just isn’t happening.

All the tariffs Trump imposed on Canada and Mexico in an attempt to force a renegotiation of the North American Free Trade Agreement led to a new agreement so similar to the old one that you need a magnifying glass to see the differences. (And the new one may not even make it through Congress.)

And at the recent G20 summit, Trump agreed to a pause in the China trade war, holding off on new tariffs, in return, as far as we can tell, for some vaguely conciliatory language.

But why are Trump’s trade wars failing? Mexico is a small economy next to a giant, so you might think — Trump almost certainly did think — that it would be easy to browbeat. China is an economic superpower in its own right, but it sells far more to us than it buys in return, which you might imagine makes it vulnerable to U.S. pressure. So why can’t Trump impose his economic will?

There are, I’d argue, three reasons.

First, belief that we can easily win trade wars reflects the same kind of solipsism that has so disastrously warped our Iran policy. Too many Americans in positions of power seem unable to grasp the reality that we’re not the only country with a distinctive culture, history and identity, proud of our independence and extremely unwilling to make concessions that feel like giving in to foreign bullies. “Millions for defense, but not one cent for tribute” isn’t a uniquely American sentiment.

In particular, the idea that China of all nations will agree to a deal that looks like a humiliating capitulation to America is just crazy.

Second, Trump’s “tariff men” are living in the past, out of touch with the realities of the modern economy. They talk nostalgically about the policies of William McKinley. But back then the question, “Where was this thing made?” generally had a simple answer. These days, almost every manufactured good is the product of a global value chain that crosses multiple national borders.

This raises the stakes: U.S. business was hysterical at the prospect of disrupting Nafta, because so much of its production relies on Mexican inputs. It also scrambles the effects of tariffs: when you tax goods assembled in China but with many of the components from Korea or Japan, assembly doesn’t shift to America, it just moves to other Asian countries like Vietnam.

Finally, Trump’s trade war is unpopular — in fact, it polls remarkably poorly — and so is he.

This leaves him politically vulnerable to foreign retaliation. China may not buy as much from America as it sells, but its agricultural market is crucial to farm-state voters Trump desperately needs to hold on to. So Trump’s vision of an easy trade victory is turning into a political war of attrition that he, personally, is probably less able to sustain than China’s leadership, even though China’s economy is feeling the pain.

So how will this end? Trade wars almost never have clear victors, but they often leave long-lasting scars on the world economy. The light-truck tariffs America imposed in 1964 in an unsuccessful effort to force Europe to buy our frozen chickens are still in place, 55 years later.

Trump’s trade wars are vastly bigger than the trade wars of the past, but they’ll probably have the same result. No doubt Trump will try to spin some trivial foreign concessions as a great victory, but the actual result will just be to make everyone poorer. At the same time, Trump’s casual trashing of past trade agreements has badly damaged American credibility, and weakened the international rule of law.

Oh, and did I mention that McKinley’s tariffs were deeply unpopular, even at the time? In fact, in his final speech on the subject, McKinley offered what sounds like a direct response to — and rejection of — Trumpism, declaring that “commercial wars are unprofitable,” and calling for “good will and friendly trade relations.”

 

 

Trump sta perdendo le sue guerre commerciali,

di Paul Krugman

 

La dichiarazione di Donald Trump secondo la quale “le guerre commerciali sono una buona cosa, e facili da vincere” sicuramente finirà nei libri di storia come una affermazione storica – ma non in senso positivo. Piuttosto farà il paio con la previsione di Dick Cheney, all’epoca della guerra in Iraq, secondo la quale “in sostanza, saremo salutati come liberatori”. Ovvero, sarà utilizzata per illustrare l’arroganza e l’ignoranza che tanto spesso guida le decisioni politiche cruciali.

Perché la verità è che Trump non sta vincendo le sue guerre commerciali. È vero, le sue tariffe hanno fatto un danno alla Cina e ad altre economie straniere. Ma hanno danneggiato anche l’America; gli economisti alla Fed di New York stimano che una famiglia media alla fine pagherà più di 1.000 dollari all’anno per i prezzi più alti.

E non c’è alcun cenno che le tariffe stiano realizzando il presunto obbiettivo di Trump, che è fare pressioni sugli altri paesi per introdurre significativi cambiamenti politici.

Dopo tutto, cosa è una guerra commerciale? Né gli economisti né gli storici usano il termine per le situazioni nelle quali un paese impone le tariffe per ragioni politiche interne, come gli Stati Uniti facevano normalmente sino agli anni ’30. No, c’è una “guerra commerciale” solo se l’obbiettivo delle tariffe è una coercizione – provocare sofferenza in altri paesi per costringerli a cambiare le loro politiche a nostro favore.

E se la sofferenza è reale, la coercizione proprio non sta avvenendo.

Tutte le tariffe imposta da Trump al Canada e al Messico nel tentativo di costringere alla rinegoziazione dell’Accordo di Libero Commercio Nordamericano ha portato ad un nuovo accordo talmente simile al precedente che ci vorrebbe un microscopio per vedere le differenze (e quello nuovo potrebbe anche non essere approvato dal Congresso).

E al Summit recente del G20, Trump ha concordato una pausa nella guerra commerciale con la Cina, astenendosi da nuove tariffe, in cambio, per quello che si comprende, di un qualche linguaggio vagamente conciliante.

Ma perché stanno fallendo le guerre commerciali di Trump? Il Messico è una piccola economia a confronto di un gigante – quasi certamente era quello che Trump pensava – che sarebbe stato facile tiranneggiare. La Cina è per suo conto una superpotenza economica, ma vende a noi molto di più di quanto acquista in cambio, con il che la si potrebbe ritenere vulnerabile alle pressioni statunitensi. Dunque, perché Trump non riesce ad imporre la sua volontà economica?

Direi che ci sono tre ragioni.

La prima, il convincimento di poter vincere facilmente le guerre commerciali riflette lo stesso tipo di solipsismo che distorse così disastrosamente la nostra politica verso l’Iran. Troppi americani in posizioni di potere sembrano incapaci di afferrare le realtà per la quale non siamo l’unico paese con una cultura, una storia e un’identità distinte, orgogliosi della nostra indipendenza ed estremamente indisponibili a fare concessioni che possano essere interpretate come cedimenti alle prepotenze straniere. “Milioni per la difesa, ma neanche un centesimo come ossequio agli altri” non è un sentimento unicamente americano.

In particolare, l’idea che la Cina tra tutte le nazioni accetterà un accordo che assomigli ad una umiliante capitolazione all’America è proprio pazzesca.

La seconda, gli “uomini delle tariffe” hanno la testa nel passato, senza alcuna sintonia con le realtà dell’economia odierna. Parlano nostalgicamente delle politiche di William McKinley [1]. Ma a quell’epoca la domanda “Dove è stato realizzato questo oggetto?”, in generale aveva una risposta semplice. Di questi tempi, quasi tutti i beni manifatturieri sono il prodotto di una catena globale dell’offerta che attraversa vari confini nazionali.

Questo moltiplica gli interessi: le imprese statunitensi erano fuori di sé alla prospettiva di arrestare il NAFTA, perché una buona parte della loro produzione si basa su contributi messicani. Questo rimescola anche gli effetti delle tariffe: quando si tassano prodotti assemblati in Cina ma con molte componenti che vengono dalla Corea o dal Giappone, l’assemblaggio non si sposta in America, si muove soltanto verso altri paesi asiatici come il Vietnam.

Infine, la guerra commerciale di Trump è impopolare – di fatto, ha adesioni nei sondaggi considerevolmente modeste – e altrettanti ne ha lui.

È questo che lo lascia politicamente vulnerabile alle ritorsioni straniere. La Cina può non acquistare dall’America quanto le vende, ma il suo mercato agricolo è cruciale per gli elettori degli Stati agricoli dei quali Trump ha disperatamente bisogno per tenersi a galla. Dunque la visione di Trump di una facile vittoria commerciale si sta trasformando in una guerra politica di logoramento che lui, personalmente, è probabilmente meno capace di sostenere del gruppo dirigente cinese, anche se l’economia della Cina ne patisce le conseguenze.

Come andrà a finire? Le guerre commerciali non hanno quasi mai chiare vittorie, ma lasciano spesso cicatrici di lunga durata sull’economia mondiale. Le tariffe sugli autocarri leggeri che l’America impose nel 1964 nello sforzo inutile di costringere l’Europa ad acquistare i nostri polli congelati sono ancora in funzione, 55 anni dopo.

Le guerre commerciali di Trump sono enormemente più grandi delle guerre commerciali del passato, ma probabilmente avranno gli stessi risultati. Non c’è dubbio che Trump cercherà di manipolare qualche banale concessione straniera come una grande vittoria, ma il risultato effettivo sarà soltanto di rendere tutti più poveri. Contemporaneamente, il disinvolto gettare nell’immondizia da parte di Trump dei passati accordi commerciali ha danneggiato negativamente la credibilità americana, e indebolito lo stato di diritto internazionale.

Inoltre, non ho ancora ricordato che le tariffe di McKinley, anche a quel tempo, furono profondamente impopolari. Di fatto, nel suo discorso finale su quel tema, McKinley fornì quella che sembra una risposta diretta – e un rigetto – del trumpismo, dichiarando che “le guerre commerciali non sono convenienti”, e pronunciandosi per “la buona volontà e le amichevoli relazioni commerciali”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] William McKinley (Niles29 gennaio 1843 – Buffalo14 settembre 1901) è stato un politico statunitense, 25º presidente degli Stati Uniti d’America. È noto soprattutto per aver vinto una campagna elettorale (sostenendo gli alti tassi protezionistici e il sistema aureo contro il bimetallismo) rimasta memorabile per l’asprezza e l’intensità con cui venne combattuta e per aver condotto vittoriosamente la guerra ispano-americana per la conquista di Cuba. Ultimo veterano della guerra di secessione ad entrare alla Casa Bianca, è con la sua candidatura del 1896 che gli storici fanno coincidere l’inizio del “quarto sistema bipartitico” statunitense, quando guidò con mano salda una coalizione repubblicana che, salvo un’unica interruzione, dominò la politica statunitense fino agli anni trenta. (Wikipedia)

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