July 29, 2019
By Paul Krugman
Let’s get the obvious stuff out of the way. Yes, Donald Trump is a vile racist. He regularly uses dehumanizing language about nonwhites, including members of Congress. And while some argue that this is a cynical strategy designed to turn out Trump’s base, it is at most a strategy that builds on Trump’s pre-existing bigotry. He would be saying these things regardless (and was saying such things long before he ran for president); his team is simply trying to turn bigoted lemons into political lemonade.
What I haven’t seen pointed out much, however, is that Trump’s racism rests on a vision of America that is decades out of date. In his mind it’s always 1989. And that’s not an accident: The ways America has changed over the past three decades, both good and bad, are utterly inconsistent with Trump-style racism.
Why 1989? That was the year he demanded bringing back the death penalty in response to the case of the Central Park Five, black and Latino teenagers convicted of raping a white jogger in Central Park. They were, in fact, innocent; their convictions were vacated in 2002. Trump, nevertheless, has refused to apologize or admit that he was wrong.
His behavior then and later was vicious, and it is no excuse to acknowledge that at the time America was suffering from a crime wave. Still, there was indeed such a wave, and it was fairly common to talk about social collapse in inner-city urban communities.
But Trump doesn’t seem to be aware that times have changed. His vision of “American carnage” is one of a nation whose principal social problem is inner-city violence, perpetrated by nonwhites. That’s a comfortable vision if you’re a racist who considers nonwhites inferior. But it’s completely wrong as a picture of America today.
For one thing, violent crime has fallen drastically since the early 1990s, especially in big cities. Our cities certainly aren’t perfectly safe, and some cities — like Baltimore — haven’t shared in the progress. But the social state of urban America is vastly better than it was.
On the other hand, the social state of rural America — white rural America — is deteriorating. To the extent that there really is such a thing as American carnage — and we are in fact seeing rising age-adjusted mortality and declining life expectancy — it’s concentrated among less-educated whites, especially in rural areas, who are suffering from a surge in “deaths of despair” from opioids, suicide and alcohol that has pushed their mortality rates above those of African-Americans.
And indicators of social collapse, like the percentage of prime-age men not working, have also surged in the small town and rural areas of the “eastern heartland,” with its mostly white population.
What this says to me is that the racists, and even those who claimed that there was some peculiar problem with black culture, were wrong, and the sociologist William Julius Wilson was right.
When social collapse seemed to be basically a problem for inner-city blacks, it was possible to argue that its roots lay in some unique cultural dysfunction, and quite a few commentators hinted — or in some cases declared openly — that there was something about being nonwhite that predisposed people toward antisocial behavior.
What Wilson argued, however, was that social dysfunction was an effect, not a cause. His work, culminating in the justly celebrated book “When Work Disappears,” made the case that declining job opportunities for urban workers, rather than some underlying cultural or racial disposition, explained the decline in prime-age employment, the decline of the traditional family, and more.
How might one test Wilson’s hypothesis? Well, you could destroy job opportunities for a number of white people, and see if they experienced a decline in propensity to work, stopped forming stable families, and so on. And sure enough, that’s exactly what has happened to parts of nonmetropolitan America effectively stranded by a changing economy.
I’m not saying that there’s something wrong or inferior about the inhabitants of, say, eastern Kentucky (and no American politician would dare suggest such a thing). On the contrary: What the changing face of American social problems shows is that people are pretty much the same, whatever the color of their skin. Give them reasonable opportunities for economic and personal advancement, and they will thrive; deprive them of those opportunities, and they won’t.
Which brings us back to Trump and his attack on Representative Elijah Cummings, whom he accused of representing a district that is a “mess” where “no human being would want to live.” Actually, part of the district is quite affluent and well educated, and in any case, Trump is debasing his office by, in effect, asserting that some Americans don’t deserve political representation.
But the real irony is that if you ask which congressional districts really are “messes” in the sense of suffering from severe social problems, many — probably most — strongly supported Trump in 2016. And Trump is, of course, doing nothing to help those districts. All he has to offer is hate.
Un razzista impantanato nel passato,
di Paul Krugman
Non vi perdete con ciò che è anche troppo chiaro. Sì, Donald Trump è un razzista indegno. Con i non bianchi egli adopera regolarmente un linguaggio che offende la loro umanità, inclusi i membri del Congresso. E se c’è chi sostiene che questa sia una strategia cinica rivolta a favorire la partecipazione della base di Trump, è soprattutto una strategia che opera sulla base di un preesistente fanatismo di Trump. Egli direbbe cose del genere a prescindere (e le ha dette molto tempo prima che corresse per la Presidenza); la sua squadra sta semplicemente cercando di trasformare limoni faziosi in una limonata politica.
Quello che non ho visto granché mettere in evidenza, tuttavia, è che il razzismo di Trump si basa su una visione dell’America che è superata da decenni. E non è un caso: i modi nei quali l’America è cambiata nel corso dei tre decenni passati, sia nel bene che nel male, è del tutto incoerente con il razzismo del genere di Trump.
Perché il 1989? Quello fu l’anno nel quale egli chiese di tornare alla pena di morte in risposta al caso dei “cinque di Central Park” [1], adolescenti di colore e latini condannati per uno stupro nei confronti di una jogger a Central Park. In realtà, erano innocenti; le loro condanne vennero revocate nel 2002. Cionostante, Trump ha rifiutato di scusarsi o di ammettere che aveva avuto torto.
Il suo comportamento allora e in seguito fu feroce, e non è una scusante riconoscere che a quel tempo l’America stava soffrendo un’ondata di crimini. Eppure, una tale ondata ci fu davvero, ed era quasi un luogo comune parlare di un collasso sociale nelle comunità urbane dei quartieri poveri.
Ma Trump non sembra consapevole che quei tempi sono cambiati. La sua visione della “carneficina americana” è quella di una nazione il cui principale problema sociale è la violenza nei quartieri poveri, perpetrata da non bianchi. È un’idea confortevole, se si è razzisti che si considerano inferiori i non appartenenti alla razza bianca. Ma è un quadro completamente distorto dell’America odierna.
Da una parte, il crimine violento è drasticamente diminuito sin dai primi anni ’90, particolarmente nelle grandi città [2]. Le nostre città non sono certamente perfettamente sicure, ed alcune – come Baltimora – non hanno condiviso quel progresso. Ma la condizione sociale dell’America urbana è enormemente migliore di quello che era.
D’altra parte, la condizione sociale dell’America rurale – l’America rurale bianca – si sta deteriorando. Nella misura nella quale c’è realmente qualcosa come una ‘carneficina americana’ – e di fatto stiamo assistendo ad una mortalità crescente in riferimento all’età ed a una aspettativa di vita declinante – essa è concentrata tra i bianchi meno istruiti, particolarmente nelle aree rurali, che stanno soffrendo una crescita delle “morti per disperazione” da oppioidi, da suicidi e da alcool, che hanno spinto i loro tassi di mortalità sopra quelli degli afroamericani.
Ed anche gli indicatori del collasso sociale come le percentuali di uomini nella principale età lavorativa che non lavorano, sono cresciuti nelle piccole città e nelle aree rurali del “cuore orientale del paese”, con la sua popolazione a maggioranza bianca.
Quello che questo mi conferma è che i razzisti, ed anche coloro che sostenevano che ci fosse qualche peculiare problema con la cultura della gente di colore, avevano torto, e che aveva ragione il sociologo William Julius Wilson [3].
Quando il collasso sociale sembrava essere fondamentalmente un problema per i neri dei quartieri poveri, era possibile sostenere che le sue radici consistessero in una qualche particolare disfunzione culturale, e numerosi commentatori facevano cenno – o in alcuni casi dichiaravano apertamente – che c’era qualcosa nella condizione dei non bianchi che predisponeva le persone a comportamenti antisociali.
Ma quello che Wilson sosteneva, tuttavia, era che la disfunzione sociale era un effetto, non una causa. Il suo lavoro, che culminò nel giustamente celebrato libro “Quando scompare il lavoro”, avanzò la tesi che le declinanti opportunità di lavoro per i lavoratori urbani, anziché qualche sottostante disposizione culturale o razziale, spiegava il declino dell’occupazione nella principale età di lavoro, il declino della famiglia tradizionale, ed altro ancora.
Come si poteva verificare l’ipotesi di Wilson? Ebbene, si potevano distruggere opportunità di lavoro per un certo numero di persone bianche, e vedere se avessero sperimentato un declino nella propensione a lavorare, se avessero interrotto la formazione di nuclei familiari stabili, e così via. E senza dubbio questo è quanto è accaduto a parti dell’America non metropolitana effettivamente abbandonata da un’economia in mutamento.
Non sto dicendo che c’è qualcosa di sbagliato o di inferiore tra gli abitanti, ad esempio, del Kentucky orientale (e nessun politico americano oserebbe suggerire una cosa del genere). Al contrario: quello che mostra la faccia in cambiamento dei problemi sociali americani è che le persone sono grosso modo le stesse, qualsiasi sia il colore della loro pelle. Date loro possibilità ragionevoli di avanzamento economico e sociale, e loro prospereranno; privateli di quelle opportunità, e non lo faranno.
Il che mi riporta a Trump e al suo attacco e al suo attacco al congressista Elijah Cummings, che ha accusato di rappresentare un distretto che è un “disastro” nel quale “nessun essere umano vorrebbe vivere”. In realtà, una parte del distretto è abbastanza benestante e ben istruita, e in ogni caso, Trump sta disonorando la sua carica, sostenendo, in sostanza, che alcuni americani non meritano una rappresentanza politica.
Ma la reale ironia è che se vi chiedete quali distretti congressuali siano realmente dei “disastri”, nel senso di patire gravi problemi sociali, molti – probabilmente la maggioranza – hanno sostenuto fortemente Trump nel 2016. E Trump, evidentemente, non sta facendo niente per aiutare quei distretti. Tutto quello che ha da offrire è l’odio.
[1] Il caso della jogger di Central Park riguardò l’aggressione e lo stupro di Trisha Meili, una donna di 28 anni che stava praticando jogging e altri attacchi a persone, avvenuti a New York, in Central Park, il 19 aprile 1989. L’aggressione lasciò la jogger in coma per 12 giorni. La serie di aggressioni di quella notte, a giudizio del New York Times, furono “uno dei crimini di più ampia risonanza degli anni ottanta”. Per i dettagli vedi Wikipedia; il caso si concluse, dopo la condanna, con la scoperta del vero colpevole, l’assoluzione e da ultimo il risarcimento.
[2] Lo studio presentato nella connessione nel testo inglese mostra questa evoluzione dei crimini violenti dal 1960 al 2016 (i dati si riferiscono al ‘tasso’ dei crimini violenti per ogni 100.000 persone): da circa 160 episodi nel 1960, a circa 740 episodi nel 1990, a circa 400 episodi nel 2014. Il tasso degli omicidi ogni 100.000 persone, è passato da circa 5 nel 1960, a circa 10 negli anni ’80 e nei primi anni ‘90, a circa 4 nel 2014. La Tabella 5 dello studio, che non riesco a riprodurre, mostra che il calo dei crimini violenti si è registrato soprattutto nelle città con più di un milione di abitanti, che sono passate da circa 2.300 crimini nei primi anni ’90 a circa 700 nel 2014.
[3] William Julius Wilson è un sociologo statunitense nato nel 1935, che ha insegnato all’Università di Chicago, dal 1972 al 1996, e poi a quella di Harvard. I suoi studi sulla povertà, particolarmente sulle condizioni degli afroamericani, hanno contribuito in particolare a mettere in evidenza la complessa interazione di fenomeni politici e culturali – la cultura dei ghetti e l’intera storia dei diritti civili – e di fenomeni socioeconomici, quali quelli della evoluzione di molte metropoli americane, che hanno conosciuto grandi fenomeni di decentramento dell’occupazione. Tra l’altro mostrò come il fenomeno delle donne afroamericane sole e con figli spesso derivasse semplicemente dalla resistenza delle donne di colore a riconoscere i padri dei loro figli attraverso regolari matrimoni, sinché i padri non potevano mantenere una famiglia con redditi almeno paragonabili agli aiuti delle famiglie di origine.
By mm
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