Aug 12, 2019
SINGAPORE – There are now scores of efforts to psychoanalyze US President Donald Trump’s nomination of Judy Shelton to the Federal Reserve Board. Some emphasize Shelton’s fidelity as an early adviser to the Trump campaign. Others point to her conversion into “a low-interest-rate person.” Still others highlight her advocacy of the gold standard as insulating US monetary policy from an unreliable Fed.
These interpretations all miss the point, which is that Shelton is a proponent of fixed exchange rates. Her belief in fixed rates is catnip to an administration that sees currency manipulation as a threat to winning its trade war.
Team Trump wants to compress the United States trade deficit and enhance the competitiveness of domestic manufactures by using tariffs to raise the price of imported goods. But a 10% tariff that is offset by a 10% depreciation of foreign currencies against the dollar leaves the relative prices of US imports unchanged.
Countries seeking to maintain the competitiveness of their exports have an obvious interest in encouraging such currency adjustments, or at least in not resisting them. In fact, they don’t actually have to do anything in order for their currencies to fall when the US applies tariffs. The US current-account deficit is just the difference between US investment and US saving, which tariffs do nothing to change. If the current account doesn’t change, then neither can the relative price of domestic and foreign goods. So the exchange rate must move, of its own accord, to offset the tariff.
Thus, the challenge for Team Trump is to get other countries to change their policies to prevent their currencies from moving. That’s what the demand for stable exchange rates and an end to “currency manipulation” is all about.
Consider Shelton’s call last year for a new Bretton Woods system. The goal, as she described it, would be to establish a “coherent mechanism for maintaining exchange-rate stability among national currencies,” the same goal as the one that was set at the original 1944 Bretton Woods Conference.
But in the absence of a global conference – something that would be anathema to Trump – the way to get there is the same as under the nineteenth-century gold standard. Then, the leading power, Great Britain, unilaterally fixed the domestic currency price of gold. Other countries, seeing the advantages accruing to Britain, followed its example. Once multiple countries had pegged the domestic price of gold, the exchange rates between their currencies were effectively fixed. Today, the idea evidently is that if the US moves first, “preemptively” as Shelton puts it, other countries will follow.
Behind this presumption, however, lie a number of logical non-sequiturs. First, other countries show little desire to stabilize their exchange rates, restored gold standard or not. They understand that different economic conditions justify the adoption of different monetary policies, which in turn requires exchange rates to move.
Second, gold is no longer a stable anchor. The dollar price of gold has fluctuated from $900 in 2009 to $1,900 in 2011 and back to $1,500 today. Having the Fed peg the price of gold in dollars would do nothing to peg its relative price – that is, the price of gold relative to the prices of other goods and services. For the relative price of gold to double, as it did between 2009 and 2011, consumer prices would have to fall by half, in a catastrophic deflation.
The price of gold relative to CPI inflation was less volatile in the nineteenth century, but this reflected the importance of gold mining. When the price of gold rose relative to the prices of other commodities, more resources were allocated to mining. Additional gold was extracted as a result, causing its relative price to fall. More precisely, other prices rose, as that additional gold backed an inflationary increase in money supplies.
Today, after a century-long increase in the production of other goods and services, gold mining accounts for a much smaller share of global GDP. The stabilizing capacity of the mining industry is weaker, rendering the price of gold more volatile.
It might be argued that the volatility of the gold price reflects financial instability, which induces investors to rush into gold as a safe haven, and that the gold standard will produce a more stable financial environment. But there is no historical basis for this notion. Financial crises were a recurrent phenomenon under the gold standard. That is no mystery: having to stabilize the price of gold severely limited the ability of central banks to act as lenders of last resort to distressed financial systems. Instability regularly followed.
In short, arguments for a gold standard and pegged exchange rates are deeply flawed. But there is a silver lining, as it were: nothing along these lines is going to happen, Governor Shelton or not.
La croce d’oro di Trump, [1]
di Barry Eichengreen
SINGAPORE – C’è adesso un gran quantità di sforzi di psicoanalizzare la nomina di Judy Shelton alla Federal Reserve da parte del Presidente Donald Trump [2]. Alcuni mettono l’accento sulla fedeltà della Shelton come iniziale consigliera della campagna elettorale di Trump. Altri indicano la sua trasformazione come “persona favorevole a un basso tasso di interesse”. Altri ancora mettono in luce la sua difesa del gold standard al fine di isolare la politica monetaria statunitense da una Fed inaffidabile.
A tutte queste interpretazioni sfugge il punto che la stessa Shelton è una sostenitrice di tassi di cambio fissi. La sua fede nei tassi fissi è come una calamita [3] per una Amministrazione che considera la manipolazione valutaria come una minaccia alle sue possibilità di vincere la sua guerra commerciale.
La squadra di Trump vuole comprimere il deficit commerciale degli Stati Uniti ed aumentare la competitività delle manifatture nazionali utilizzando le tariffe per accrescere il prezzo dei beni importati. Ma una tariffa del 10% che è compensata da una svalutazione del 10% delle valute straniere nei confonti del dollaro, lascia immutati i prezzi relativi delle importazioni statunitensi.
I paesi che cercano di mantenere la competitività delle loro esportazioni hanno un interesse evidente nell’incoraggiare tali aggiustamenti delle valute, o almeno nel non opporsi ad essi. Di fatto, in realtà essi non devono far niente perché le loro valute cadano quando gli Stati Uniti applicano le tariffe. Il deficit di conto corrente è solo la differenza tra gli investimenti e i risparmi statunitensi, che le tariffe non possono modificare. Se il conto corrente non cambia, allora neppure possono cambiare i prezzi relativi dei prodotti nazionali o stranieri. Dunque il tasso di cambio deve muoversi per suo conto per compensare le tariffe.
Quindi la sfida per la squadra di Trump è di convincre gli altri paesi a cambiare le loro politiche per impedire che le loro valute si muovano. È questo a cui si riferisce la richiesta di tassi di cambio stabili e di porre fine alla “manipolazione valutaria”.
Si consideri la richiesta della Shelton dell’anno passato di un nuovo sistema di Bretton Woods. L’obbiettivo, per come lo aveva descritto, sarebbe stato stabilire “un meccanismo coerente di mantenimento della stabilità del tasso di cambio tra le valute nazionali”, lo stesso obbiettivo di quello che fu stabilito alla originaria Conferenza di Bretton Woods del 1944.
Ma in assenza di una conferenza globale – qualcosa che per Trump sarebbe una bestemmia – il modo di arrivarci sarebbe lo stesso che sotto il gold standard del diciannovesimo secolo. Allora la potenza guida, la Gran Bretagna, stabilì in modo unilaterale il prezzo in oro della valuta nazionale. Altri paesi, osservando i vantaggi che ne derivavano per l’Inghilterra, seguirono il suo esempio. Una volta che vari paesi ebbero ancorato il valore nazionale all’oro, i tassi di cambio tra le loro valute furono efficacemente fissati. Oggi l’idea è evidentemente che se gli Stati Uniti si muovono per primi, “preventivamente” come si esprime la Shelton, gli altri paesi li seguiranno.
Tuttavia, dietro questa presunzione, si collocano un certo numero di incoerenze logiche. La prima, gli altri paesi non mostrano un gran desiderio di stabilizzare i loro tassi di cambio, che sia restaurato o meno il gold standard. Essi capiscono che differenti condizioni economiche giustificano differenti politiche monetarie, il che a sua volta richiede che i tassi di cambio si muovano.
La seconda, il gold standard non è un ancoraggio stabile. Il prezzo in oro del dollaro ha fluttuato dai 900 dollari nel 2009 ai 1.900 dollari nel 2011, per tornare ai 1.500 dollari di oggi. Ancorare da parte della Fed il prezzo dell’oro in dollari non comporterebbe affatto ancorare il suo prezzo relativo – ovvero, il prezzo dell’oro in rapporto ai prezzi degli altri beni e servizi. Perché il prezzo relativo dell’oro raddoppiasse, i prezzi al consumo avrebbero dovuto dimezzarsi, in una deflazione catastrofica.
Il prezzo dell’oro in relazione alla inflazione dei prezzi al consumo nel diciannovesimo secolo era meno volatile, ma questo rifletteva l’importanza della estrazione dell’oro. Quando il prezzo dell’oro cresceva in relazione ai prezzi delle altre materie prime, venivano allocate più risorse nella attività estrattiva. Di conseguenza veniva estratto più oro, provocando la caduta del suo prezzo relativo. Più precisamente, gli altri prezzi salivano, al momento in cui l’oro aggiuntivo sosteneva un incremento inflazionistico nell’offerta di moneta.
Oggi, dopo un aumento secolare nella produzione di altri beni e servizi, l’estrazione dell’oro vale una quota molto minore del PIL globale. La capacità di stabilizzazione dell’industria mineraria è più debole, il che rende il prezzo dell’oro più volatile.
Si potrebbe sostenere che la volatilità del prezzo dell’oro riflette l’instabilità finanziaria, che induce gli investitori a precipitarsi sull’oro come bene rifugio, e che il gold standard produrrebbe un contesto finanziario più stabile. Ma non c’è alcun fondamento storico per un’idea del genere. Le crisi finanziarie erano un fenomeno ricorrente con il gold standard. Questo non per cause misteriose: il dover stabilizzare il prezzo dell’oro limitava gravemente la possibilità delle banche centrali di agire come prestatrici di ultima istanza per sistemi finanziari arretrati. L’instabilità era una conseguenza regolare.
In breve, gli argomenti a favore del gold standard e di tassi di cambio ancorati sono profondamente difettosi. Ma c’è, per così dire, un rivolto postivo: niente del genere è destinato ad accadere, che lo voglia o no la Governatrice Shelton.
[1] Il discorso sulla “croce d’oro” venne pronunciato da William Jennings Bryan alla Convenzione nazionale del Partito Democratico americano nel 1896. In quegli anni il tema negli USA era quello se aderire al gold standard o alla soluzione del cosiddetto “bimetallismo”. Bryan era a favore di quest’ultima soluzione (anche definita del “free silver”) e chiese alla Convenzione se ci si dovesse “crocifiggere ad una croce d’oro”. Egli vinse le primarie anche per effetto di quel discorso, che passò alla storia come uno dei più efficaci. Ma il discorso non fu sufficientemente efficace da fargli vincere le elezioni successive, che videro il successo di William Mc Kinley. Il gold standard fu adottato nel 1900.
[2] Il presidente americano Donald Trump è intervenuto ancora una volta nel board della Federal Reserve, inserendo Judy Stelton, già consulente economica dello stesso tycoon. A preoccupare il numero uno della Fed, Jerome Powell, sono le posizioni apertamente critiche della Shelton nei confronti della banca centrale americana, di cui ha contestato perfino il potere di fissare i tassi di interesse.
[3] “Catnip” letteralmente è “erba gattaria”, ovvero la nepitella o la mentuccia, che sarebbe un’erba che esercita grande attrazione sui gatti. Ma io non credo di aver mai conosciuto un gatto particolarmente attratto da un’erba, quindi la traduco con un riferimento al suo generico potere attrattivo. Eppure, addestrare un gatto a scoprire la nepitella sarebbe prezioso.
By mm
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