Oct. 24, 2019
By Paul Krugman
Last spring Donald Trump and the people around him probably thought they had a relatively clear path to re-election.
On one side, it looked as if Trump had weathered the threat of politically fatal scandal. The much-awaited Mueller report on Russian election intervention had landed with a dull thud; the details were damning, but it had basically no political impact.
At the same time, Trump was convinced that he could run on the basis of a booming economy. Never mind that his claims to have run up the best economic record in human history were easily refuted; the reality seemed good enough to sell as a big success story.
What a difference a few months make.
Everyone is following the impeachment story, and I don’t have much to add, except a warning: At every stage of this process, Republicans have proved willing to engage in stunningly bad behavior. Did anyone foresee Wednesday’s physical attempt to disrupt the House inquiry? The point is that as the net closes in, the G.O.P. response is likely to be uglier than you can possibly imagine.
What’s getting less attention, understandably, is the way the Trump economic narrative is falling apart.
To be fair, the overall state of the economy is still pretty good. Unemployment is very low and job growth is continuing. And while there will eventually be a nationwide recession — the business cycle has not been abolished — it’s not at all clear that we’ll have one before next year’s election.
However, important parts of the economy are lagging. Manufacturing production is down over the past year; combined with weakness in shipping and very hard times in agriculture, around a fifth of the economy is effectively in recession. In particular, manufacturing employment has been falling in Michigan, Wisconsin and Pennsylvania, states that chose Trump by tiny margins in 2016, giving him a win in the Electoral College despite losing the popular vote.
And overall growth, while still positive, is definitely slowing: “nowcasts,” which use partial data to estimate what official economic data will say when it’s eventually released, suggest an economy growing at an unimpressive annual rate of less than 2 percent. Since elections turn more on the economy’s growth rate than on things like the level of unemployment — unemployment was still more than 7 percent when Ronald Reagan won his 1984 landslide — this is not good news for Republicans.
Probably even more significant, there has been a dramatic decline, almost a collapse, in business confidence.
You can see this collapse several ways. One is through surveys of business executives, who spent Trump’s first two years being very bullish, but have now become remarkably pessimistic.
You can also see it in the bond market, a much better indicator of economic expectations than the stock market. Long-term interest rates tend to be high when investors expect a booming economy, in which the Fed will tighten money to head off inflation; they tend to be low when investors expect protracted economic weakness and easy money as far as the eye can see.
And 10-year bond rates have plunged, from more than 3 percent last year to 1.75 percent as I write this. The last time we saw this kind of plunge was 2010-11, when investors finally realized that recovery from the Great Recession was going to be slow and painful, not a repeat of “morning in America.”
So what happened to the Trump boom? The collapse in confidence began late last year, when it became clear that Trump was serious about waging trade war on China; it continued as evidence accumulated that the 2017 tax cut was a big fizzle, doing basically nothing to boost business investment and providing at most a brief sugar high to overall growth.
But the truth is that even pessimists expected the tax cut to do more good, and the trade war less harm, than they did. Why have things turned out so poorly? One answer, to which I’ve subscribed, is that in addition to its direct impacts on U.S. exports and businesses that rely on Chinese suppliers, the trade war has created damaging uncertainty. Businesses that rely on global supply chains won’t invest for fear that the trade war will get even worse; but businesses that might move in to replace imports also won’t invest for fear that Trump will eventually back down.
I suspect, however, that there’s even more to the story. Business interests spent a long time in denial, but now even they are facing up to the reality that Trump and his team are very strange people who have no idea what they’re doing — and the uncertainty that reality implies.
I mean, considering that trade confrontation with China is the centerpiece of Trump’s economic policy, it’s not reassuring to learn that his trade war czar, Peter Navarro, has an imaginary friend — a source named “Ron Vara” whom he has repeatedly cited in his books, but who doesn’t exist, and whose name is in fact just an anagram of “Navarro.”
Next year’s election should be about Trump’s betrayal of his oath of office. Realistically, however, it also matters that the economy probably won’t be his friend.
Il giorno che è finito il boom di Trump,
di Paul Krugman
La scorsa primavera Donald Trump e la gente attorno a lui probabilmente pensavano di avere una prospettiva di rielezione abbastanza chiara.
Da una parte, sembrava che Trump avesse resistito alla minaccia di uno scandalo fatale. Il molto atteso rapporto Mueller sull’intervento russo sulle elezioni sembrava fosse atterrato con un rumore sordo; i dettagli erano scabrosi, ma non aveva avuto sostanzialmente alcun impatto politico.
Nello stesso tempo, Trump era stato convinto che avrebbe potuto competere sulla base di una economia in forte espansione. Non era importante che la sua pretesa di aver gestito la migliore prestazione economica nella storia umana fosse facilmente confutabile; la realtà sembrava abbastanza positiva da essere rivenduta come una grande storia di successo.
Quanta differenza hanno provocato pochi mesi.
Stiamo tutti seguendo la storia della messa in stato di accusa, ed io non ho granché da aggiungere, se non un ammonimento: ad ogni stadio di questa vicenda, i repubblicani si sono dimostrati disponibili in modo sbalorditivo a dar prova di un pessimo comportamento. Qualcuno aveva previsto il tentativo messo in atto mercoledì di arrestare fisicamente l’indagine della Camera? Il punto è che allorché le reti si chiudono, è probabile che la risposta del Partito Repubblicano divenga più minacciosa di quello che si può immaginare.
Si può capire che quello che sta ottenendo minore attenzione è il modo in cui la narrazione economica di Trump sta cadendo a pezzi.
Ad esser giusti, lo stato complessivo dell’economia è ancora abbastanza buono. La disoccupazione è molto bassa e la crescita dei posti di lavoro sta continuando. E se alla fine ci sarà una recessione di dimensioni nazionali – il ciclo economico non è stato abolito – non è affatto chiaro se ne avremo una prima delle elezioni del prossimo anno.
Tuttavia, parti importanti dell’economia stanno ristagnando. Durante l’anno passato la produzione manifatturiera è calata; in aggiunta ad una debolezza nei trasporti marittimi e a tempi molto difficili in agricoltura, circa un quinto dell’economia è effettivamente in recessione. L’occupazione manifatturiera è in calo nel Michigan, nel Wisconsin e in Pennsylvania, Stati che avevano scelto di misura Trump nel 2016, consegnandogli la vittoria nel Collegio Elettorale nonostante la sconfitta nel voto popolare.
E la crescita più complessiva, nonostante sia ancora positiva, sta chiaramente rallentando: le “previsioni in tempo reale”, che utilizzano dati parziali per stimare quello che i dati economici ufficiali diranno quando saranno alla fine pubblicati, indica un’economia che cresce ad un non impressionante tasso annuale minore del 2 per cento. Dal momento che le elezioni si concentrano più sul tasso di crescita dell’economia che su cose come il livello della disoccupazione – la disoccupazione era ancor superiore al 7 per cento quando Ronald Reagan ottenne il suo successo schiacciante nel 1984 – questa non è una buona notizia per i repubblicani.
Probabilmente ancora più significativo, c’è stato uno spettacolare declino, quasi un collasso, nella fiducia delle imprese.
Si può constatare questo collasso in vari modi. Uno è attraverso i sondaggi tra i dirigenti esecutivi delle imprese, che avevano passato i primi due anni di Trump in un clima di grande euforia, ma adesso sono diventati considerevolmente pessimisti.
Si può anche osservare il mercato dei bond, un indicatore delle aspettative molto migliore del mercato azionario. I tassi di interesse a lungo termine tendono ad essere elevati quando gli investitori si aspettano un’economia in espansione, nella quale la Fed opererà una restrizione di denaro per bloccare la strada all’inflazione; tendono ad essere bassi quando gli investitori si aspettano una prolungata debolezza economica e denaro facile su un orizzonte percepibile.
E i tassi di interesse sui bond decennali sono crollati, nel momento in cui scrivo, dal 3 per cento dell’anno passato all’1,75 per cento. L’ultima volta che osservammo un calo del genere fu nel 2010-11, quando gli investitori finalmente compresero che la ripresa dalla Grande Recessione era destinata ad essere lenta e dolorosa, piuttosto che una riedizione del “Buongiorno America” [1].
Dunque, cosa è accaduto al boom di Trump? Il collasso della fiducia è cominciato sulla fine dell’anno passato, quando divenne chiaro che Trump stava sul serio lanciandosi in una guerra commerciale con la Cina; è proseguito quando si sono accumulate le prove che il taglio delle tasse del 2017 era stato un gran fiasco, non facendo sostanzialmente niente per incoraggiare gli investimenti delle imprese e fornendo nel migliore dei casi una breve euforia alla crescita complessiva.
Ma la verità è che persino i pessimisti si aspettavano che il taglio delle tasse fosse più positivo e la guerra commerciale meno dannosa di quanto non siano stati. Perché tutto è andato a finire così miseramente? Una risposta, che ho fatto mia, è che in aggiunta ai suoi impatti diretti sulle esportazioni statunitensi e sulle imprese che si basano su fornitori cinesi, la guerra commerciale ha creato una incertezza dannosa. Le imprese che si basano sulle catene globali dell’offerta non investono per il timore che la guerra commerciale diventi persino peggiore; ma anche le imprese che potrebbero muoversi per rimpiazzare le importazioni non investono, per il timore che alla fine Trump torni indietro.
Ho il sospetto, tuttavia, che ci sia anche di più in questa storia. Le imprese interessate hanno speso molto tempo nel negarlo, ma adesso anch’esse si stanno misurando con il fatto che Trump e la sua squadra sono gente strana che non ha alcuna idea di quello che sta facendo – e con l’incertezza che quel dato di fatto comporta.
Voglio dire, considerando che lo scontro commerciale con la Cina è il punto forte della politica economica di Trump, non è rassicurante apprendere che lo zar della guerra commerciale, Peter Navarro, ha un amico immaginario – un fonte dal nome “Ron Vara” ripetutamente citata nei suoi libri che non esiste, e il cui nome è di fatto solo un anagramma di “Navarro” [2].
[1] Era lo slogan di un programma radiotelevisivo di successo che portò fortuna a Ronald Reagan nella rielezione del 1984. Consisteva in un montaggio di americani comuni che andavano al lavoro al mattino, sullo sfondo un commento calmo ed ottimistico sui risultati delle politiche di Reagan, che si concludeva con la frase “È di nuovo giorno in America”.
[2] Da un articolo di Alan Rappaport sul New York Times, si apprende (link nel testo inglese) che Navarro ha l’abitudine di attribuire nei suoi libri le informazioni ad una misteriosa “fonte” che si chiama Ron Vara, e che in realtà non esiste, essendo solo un anagramma di sé stesso. La scoperta è stata fatta da un professore emerito della Università Nazionale Australiana, Morris-Suzuki, che era curioso di leggere il curriculum di questo Ron Vara, ed ha scoperto che è in realtà un fantasma. Pratica molto curiosa per un accademico come Navarro, che ha studiato ad Harvard e si presenta come il Rasputin della politica commerciale trumpiana.
By mm
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