Nov, 18, 2019
By Paul Krugman
Recent state elections — the Democratic landslide in Virginia, followed by Democratic gubernatorial victories in Kentucky and Louisiana — have been bad news for Donald Trump.
Among other things, the election results vindicate polls indicating that Trump is historically unpopular. All of these races were in part referendums on Trump, who put a lot of effort into backing his preferred candidates. And in each case voters gave him a clear thumbs down.
Beyond offering a verdict on Trump, however, I’d argue that the state elections offered some guidance on an issue that has divided Democrats, namely health care. What the results suggested to me was the virtue of medium-size reform: incremental enough to have a good chance of being enacted, big enough to provide tangible benefits that voters don’t want taken away.
Remember, there was a third governor’s race, in Mississippi, in which the G.O.P. held on. True, Mississippi is a very red state, which Trump won by 18 points in 2016. But Louisiana and Kentucky are or were, if anything, even redder, with Trump margins of 20 and 30 points respectively. So what made the difference?
Personalities surely mattered. Louisiana’s re-elected John Bel Edwards was widely liked, Kentucky’s defeated Matt Bevin widely disliked. Demography probably also mattered. Urban and especially suburban voters have turned hard against Trump, but rural voters haven’t, at least so far — and Mississippi is one of the few states left with a majority-rural population.
But there’s another difference among the three states. Kentucky and Louisiana took advantage of the Affordable Care Act to expand Medicaid, leading to steep drops in the number of uninsured residents; Mississippi hasn’t. This meant that voting Democratic in Kentucky and Louisiana meant voting to preserve past policy success, while the same vote in Mississippi was at best about hope for future reform — a much less powerful motivator.
Back in 2010, as Obamacare was about to squeak through Congress, Nancy Pelosi famously declared, “We have to pass the bill so that you can find out what is in it.” This line was willfully misrepresented by Republicans (and some reporters who should have known better) as an admission that there was something underhanded about the way the legislation was enacted. What she meant, however, was that voters wouldn’t fully appreciate the A.C.A. until they experienced its benefits in real life.
It took years to get there, but in the end Pelosi was proved right, as health care became a winning issue for Democrats. In the 2018 midterms and in subsequent state elections, voters punished politicians whom they suspected of wanting to undermine key achievements like protection for pre-existing conditions and, yes, Medicaid expansion.
And this political reality has arguably set the stage for further action. At this point, as far as I can tell, all of the contenders for the Democratic presidential nomination are calling for a significant expansion of the government’s role in health care, although they differ about how far and how fast to go.
Which brings me to the latest development in intra-Democratic policy disputes: Elizabeth Warren’s proposal for a two-step approach to health reform. Her idea is to start with actions — some requiring no legislation at all, others requiring only a simple Senate majority — that would greatly expand health insurance coverage. These actions would, if successful, deliver tangible benefits to millions.
They would not, however, amount to the full Bernie, eliminating private insurance and going full single-payer. Warren still says that this is her eventual intention, and has laid out a plan to pay for such a system. But any legislative push would wait three years, giving time for voters to see the benefits of the initial changes.
Sanders supporters are, predictably, crying betrayal. For them it’s all or nothing: a commitment to single-payer has to be in the legislation from Day 1.
The trouble with such demands, aside from the strong probability that proposing elimination of private insurance would be a liability in the general election, is that such legislation would almost certainly fail to pass even a Democratic Senate. So all or nothing would, in practice, mean nothing.
But is Warren giving up on Medicare for All? After all, what she’s offering isn’t really a transition plan in the usual sense, since there’s no guarantee that Step 2 would ever happen.
The lesson I take from the politics of Obamacare, however, is that successful health reform, even if incomplete, creates the preconditions for further reform. What looks impossible now might look very different once tens of millions of additional people have actual experience with expanded Medicare, and can compare it with private insurance.
Although I’ve long argued against making Medicare for All a purity test, there is a good case for eventually going single-payer. But the only way that’s going to happen is via something like Warren’s approach: initial reforms that deliver concrete benefits, and maybe provide a steppingstone to something even bigger.
Fare l’assistenza sanitaria in due passi,
di Paul Krugman
Le recenti elezioni negli Stati – la vittoria schiacciante dei democratici in Virginia, seguita dalle vittorie democratiche per le cariche di Governatore in Kentucky e Lousiana – sono state pessime notizie per Trump.
Tra le altre cose, le elezioni risultano dar ragione ai sondaggi secondo i quali Trump è impopolare, sulla base dei confronti storici. Tutte queste competizioni sono in parte dei referendum su Trump, che si è impegnato molto nel sostenere i suoi candidati preferiti. E in ogni caso gli elettori gli hanno mostrato un netto pollice verso.
Tuttavia, oltre a presentare un verdetto su Trump, direi che le elezioni negli Stati hanno offerto qualche indicazione su un tema che ha diviso i democratici, precisamente quello dell’assistenza sanitaria. Quello che i risultati secondo me hanno indicato è stato il valore di una riforma di media entità: abbastanza graduale da avere buone possibilità di venire approvata, ma sufficiente a fornire benefici tangibili che gli elettori non vogliono perdere.
Si rammenti che c’è stata una terza competizione per Governatore, nel Mississippi, nella quale il Partito Repubblicano ha resistito. È vero, il Mississippi è uno Stato a forte maggioranza repubblicana, dove Trump aveva vinto con 18 punti di scarto nel 2016. Ma la Louisiana ed il Kentucky sono, o erano, semmai, persino più repubblicani, con margini per Trump di 20 e 30 punti rispettivamente. Cosa ha fatto, dunque, la differenza?
Hanno certamente pesato le personalità. Il rieletto John Bel Edwards in Louisiana aveva un ampio gradimento, mentre lo sconfitto Matt Bevin nel Kentucky era generalmente sgradito. Anche la demografia ha probabilmente avuto il suo peso. Gli elettori urbani e suburbani si sono rivoltati contro Trump, mentre ciò non è accaduto per gli elettori rurali, almeno non sino a quel punto – e il Mississippi è uno dei pochi stati rimasti con una popolazione a maggioranza rurale.
Ma c’è un’altra differenza tra i tre Stati. Il Kentucky e la Lousiana hanno tratto vantaggio dalla Legge sulla Assistenza Sostenibile (ACA) che, ampliando il ruolo di Medicaid, ha portato a vistose cadute nel numero dei residenti non assicurati; nel Mississippi non è accaduto. Questo ha comportato che votare democratico nel Kentucky e nella Lousiana significava votare per conservare il successo della politica passata, mentre lo stesso voto nel Mississippi nel migliore dei casi era una speranza per una riforma futura – una motiovazione assai meno potente.
È noto che, nel passato 2010, quando la riforma di Obama stava per essere approvata a stento al Congresso, Nancy Pelosi dichiarò: “Dobbiamo approvare la proposta di legge in modo che si possa scoprire cosa c’è dentro”. Questa linea venne testardamente falsificata dai repubblicani (e da qualche cronista che avrebbe dovuto saperne di più), come una ammissione che ci fosse qualcosa di subdolo nel modo in cui la legge veniva promulgata. Ciò che ella voleva dire, tuttavia, era che gli elettori non avrebbero pienamente apprezzato l’ACA finché non avessero sperimentato nella vita reale i suoi benefici.
Ci vollero anni per arrivare a quel punto, ma alla fine la Pelosi si dimostrò nel giusto, e l’assistenza sanitaria divenne un tema vincente per i democratici. Nelle elezioni di medio termine del 2018 e nelle successive elezioni negli Stati, gli elettori hanno punito i politici che sospettavano volessero mettere a repentaglio realizzazioni fondamentali come la protezione delle patologie preesistenti e, senza dubbio, la espansione di Medicaid.
Questa realtà politica ha probabilmente creato le condizioni per una iniziativa più avanzata. A questo punto, per quanto posso comprendere, tutti i contendenti alla nomination presidenziale democratica sono a favore di una significativa espansione del ruolo del Governo nella assistenza sanitaria, sebbene differiscano su quanto spingersi lontano e su quanto farlo velocemente.
Il che mi porta agli ultimi sviluppi dei dibattiti politici tra i democratici: la proposta di Elizabeth Warren per un approccio in due tempi alla riforma sanitaria. La sua idea è partire con iniziative – alcune delle quali che non richiedono alcuna legge, altre che richiedono una semplice maggioranza al Senato – che ampierebbe grandemente la copertura delle assicurazioni sanitarie. Queste azioni, se avessero successo, porterebbero benefici tangibili a milioni di persone.
Esse, tuttavia, non corrisponderebbero alla piena eliminazione delle assicurazioni private e ad un sistema di pagamenti pienamente centralizzato, come chiede Sanders. La Warren continua a dire che questa è la sua intenzione finale, ed ha reso noto un piano per finanziare tale sistema. Ma ogni proposta legislativa aspetterebbe tre anni, dando il tempo agli elettori di constatare i benefici dei cambiamenti iniziali.
I sostenitori di Sanders, come era prevedibile, urlano al tradimento. Per essi l’alternativa è tra tutto o niente: l’impegno ad un sistema centralizzato deve diventare legge dal primo giorno.
Il guaio con tali richieste, a parte la forte probabilità che proporre la eliminazione delle assicurazioni private sarebbe un ostacolo nelle elezioni generali, è che una tale legge quasi certamente non riuscirebbe ad essere approvata neppure in un Senato democratico. Dunque, o tutto o niente, in pratica, significa niente.
Ma la Warren sta rinunciando a Medicare-per-tutti? Dopo tutto, quello che ella sta offrendo non è in realtà un piano di transizione nel senso consueto, dal momento che non c’è la garanzia che il secondo passo verrebbe mai fatto.
La lezione che io traggo dalla politica di Obama, è che una riforma sanitaria di successo, anche se incompleta, crea le precondizioni per una riforma ulteriore. Quello che sembra impossibile adesso potrebbe apparire molto diversamente una volta che decine di milioni di persone in più avessero una effettiva esperienza di un Medicare potenziato, e potessero confrontarlo con le assicurazioni private.
Sebbene da molto tempo io mi pronuncio contro il far diventare Medicare-per-tutti un test di purezza, c’è un buon argomento per giungere alla fine ad un sistema centralizzato di pagamenti. Ma il solo modo in cui può accadere è tramite qualcosa come la proposta della Warren: riforme iniziali che offrono benifici concreti, e magari forniscono un trampolino per qualcosa che sia persino più grande.
By mm
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