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Sgonfiare la bolla del miliardario, di Paul Krugman (New York Times, 11 novembre 2019)

 

Nov. 11, 2019

Bursting the Billionaire Bubble

By Paul Krugman

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Immense wealth isn’t good for your reality sense.

Billionaires aren’t necessarily bad people, and most of them probably aren’t. However, some are, and my unscientific sense is that billionaires are more likely than the rest of us to exhibit bad judgment warped by runaway egos, especially in the political sphere.

It’s not hard to see why: Great wealth attracts people eager to tell an extremely rich man (or woman, but political egotism is mainly a male thing) what he wants to hear. In the political arena this means telling billionaires both that their lavish financial rewards are a mere fraction of the vast contribution they have made to society, and that the public is clamoring for them to take their rightful role as leaders.

Put it this way: These days, many political factions are accused, with varying degrees of justice, of living in some kind of bubble, out of touch with American reality. But few live as thoroughly in a bubble as the billionaire class and its hangers-on.

And now the billionaires in the bubble find themselves in an environment in which concerns about soaring inequality, about the extraordinary concentration of wealth in the hands of the few, finally seem to be getting political traction. And they’re not handling it well.

Obviously I’m going to get to Michael Bloomberg in a minute. First, however, let me talk about the economics and politics of billionaires in general.

So, do billionaires in general make vast contributions to society? To make that case, you don’t just have to argue that they’ve earned their wealth by doing productive things. You have to argue that their wealth is just part of what they’ve added to national income.

And that’s a hard argument to make when you look at how most billionaires have made their money. After all, many of them struck it rich in finance and real estate.

Now, not that long ago the world economy was brought to its knees by the collapse of a huge real estate bubble, which destabilized a financial system that had been drastically weakened by “innovations” that supposedly made us richer — and that certainly enriched some wheeler-dealers — but that had, it turned out, greatly increased the risk of crisis. Do you really want to make the case that financial industry billionaires have been great benefactors?

The next biggest group of billionaires, by the way, made their money in fashion and retailing. Technology comes in only fourth — and as anyone following the news knows, some serious questions exist about the extent to which big fortunes in tech are modern versions of the monopoly spoils grabbed by old-fashioned robber barons.

It’s also worth noting that the U.S. economy used to get along fine without nearly as many billionaires as it has now.

American economic history since World War II falls fairly neatly into two halves: a first era, ending roughly in 1980, during which progressive taxation, strong unions and social norms limited extreme wealth accumulation at the top, and the era of soaring inequality since them. Did the new prosperity of plutocrats “trickle down” to the nation as a whole? Not according to any measure I know. For example, “multifactor productivity,” the standard economic measure of technological progress (don’t ask), has risen only half as much since the 1980 turning point as it did in the previous era.

What about politics? Many people on Wall Street and a significant part of the punditocracy are socially liberal but economically conservative, or at least leaning that way. That is, they are for racial equality and LGBTQ rights, but against major tax increases on the wealthy and big expansion in social programs. And that’s a perfectly coherent point of view.

Inside the billionaire bubble, however, people also imagine that it’s a view with broad popular appeal. Well, it isn’t. Most people, including many self-identified Republicans, want to see higher taxes on the rich and increased spending on social programs; however, quite a few people combine these sentiments with racial hostility and social illiberalism, which is why they seem to vote against their own economic interests.

As best we can tell, the constituency for social liberalism plus fiscal conservatism comprises only a few percent of the electorate. When Howard Schultz — remember him? — ran that combination up the flagpole to see if anyone saluted, only about 4 percent of voters approved. And early indications don’t show Bloomberg doing much better, even though as someone who successfully ran New York he has a much better case to offer.

I’m not saying that the U.S. public is necessarily ready for the likes of Elizabeth Warren or Bernie Sanders. I worry in particular about the politics of Medicare for All, not because of the cost, but because proposing the abolition of private insurance could unnerve tens of millions of middle-class voters.

But the idea that America is just waiting for a billionaire businessman to save the day by riding in on a white horse — or, actually, being driven over in a black limo — is just silly. It is, in fact, the kind of thing only a billionaire could believe.

 

Sgonfiare la bolla del miliardario,

di Paul Krugman

 

Una immensa ricchezza non fa bene al vostro senso della realtà.

I miliardari non sono necessariamente cattive persone, e nella maggioranza probabilmente non lo sono. Tuttavia, alcuni lo sono, e la mia sensazione non scientifica è che sia più probabile che i miliardari, rispetto a tutti gli altri, diano prova di cattivi giudizi distorti da ego fuori controllo, particolarmente nella sfera politica.

Non è difficile capire il perché: la grande ricchezza attrae persone ansiose di dire a un uomo ricco quello che vuole sentirsi dire (anche ad una donna, ma l’egocentrismo politico è principalmente una faccenda maschile). Nello scenario della politica questo significa dire ai miliardari sia che le loro sontuose remunerazioni finanziarie sono una semplice frazione dei grandi contributi che essi hanno fornito alla società, sia che l’opinione pubblica strepita perché essi si prendano il ruolo di dirigenti che gli spetta di diritto.

Diciamo così: di questi tempi, molte fazioni politiche sono accusate, con vari gradi di fondamento, di vivere in una sorta di bolla, senza contatto con la realtà americana. Ma pochi vivono in una bolla in modo così completo come la classe dei miliardari e i loro interessati seguaci.

E adesso i miliardari nella bolla si ritrovano in un contesto nel quale le preoccupazioni sulla dilagante ineguaglianza, sulla straordinaria concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, finalmente paiono ottenere un seguito politico. E loro non stanno reagendo nel migliore dei modi.

Naturalmente, tra un attimo arriverò a Michael Bloomberg. Tuttavia, consentitemi di parlare prima della economia e della politica dei miliardari in generale.

Dunque, i miliardari in generale danno grandi contributi alla soecietà? Per sostenerlo, non solo dovreste usare l’argomento che si siano guadagnati la loro ricchezza facendo cose produttive. Dovreste usare l’argomento che la loro ricchezza è solo una parte di quello che hanno aggiunto al reddito nazionale.

Ed è una tesi difficile da avanzare quando si guarda a come la maggioranza dei miliardari ha acquisito la loro ricchezza. Dopo tutto, molti di loro hanno fatto fortuna nella finanza e nel mercato immobiliare.

Ora, non molto tempo fa l’economia mondiale è stata messa in ginocchio dal collasso di una grande bolla immobiliare, che ha destabilizzato un sistema finanziario che era stato drasticamente indebolito da “innovazioni” che si supponeva ci rendessero più ricchi – e che certamente resero ricchi vari maneggioni – ma che, come si scoprì, aveva enormemente aumentato il rischio di crisi. Si vuole sul serio avanzare la tesi che i miliardari del settore delle finanze siano stati grandi benefattori?

Per inciso, il successivo più grande gruppo di miliardari ha fatto le sue fortune nella moda e nel commercio. Il settore tecnologico si colloca soltanto al quarto posto –  e come sanno tutti coloro che seguono le notizie, esistono alcuni seri dubbi sulla misura nella quale le grandi fortune nella tecnologia siano una versione moderna dei bottini monopolistici strappati dai ‘padroni del vapore’ dei tempi andati.

È anche degno di nota che l’economia degli Stati Uniti di solito se la cavava bene senza avere neanche lontanamente tanti miliardari come ha oggi.

La storia economica americana a partire dalla Seconda Guerra Mondiale si distingue abbastanza nettamente in due metà: una prima epoca, che finisce grosso modo nel 1980, durante la quale tassazione progressiva, sindacati forti e regole sociali limitavano l’estrema accumulazione della ricchezza al vertice, e a partire da allora l’epoca della crescente ineguaglianza. La nuova prosperità dei plutocrati si è riversata sulla nazione nel suo complesso? No, secondo ogni metro di misura che io conosco. Ad esempio, la “produttività multifattoriale”, la misura economica standard del progresso tecnologico (non chiedetemi di spiegare il termine [1]), è cresciuta a partire dal punto di svolta del 1980 solo la metà di quanto era cresciuta nell’epoca precedente.

Che dire della politica? Molte persone a Wall Street e in una parte significativa dei commentatori sono socialmente progressisti ma economicamente conservatori, o almeno tendono ad esserlo. Ovvero, sono per l’eguaglianza razziale e per i diritti di lesbiche, gay, bisesuali e transgender, ma si oppongono ad aumenti importanti delle tasse sulla ricchezza e ad una grande espansione dei programmi sociali. E quello è un punto di vista perfettamente coerente.

All’interno della bolla dei miliardari, tuttavia, le persone di immaginano anche che quello sia un punto di vista con un ampio seguito popolare. Ebbene, non è così. La maggioranza delle persone, inclusi molti che si dichiarano republicani, vogliono tasse più elevate sui ricchi e un aumento della spesa sui programmi sociali; tuttavia, un buon numero di persone combinano questi sentimenti con l’ostilità razziale e l’illiberalismo, e quella è la ragione per la quale sembra che votino contro i loro stessi interessi economici.

Nella interpretazione più ottimistica, la base per il liberalismo sociale combinato con il conservatorismo economico riguarda soltanto pochi punti percentuali di elettorato. Quando Howard Schultz – ve lo ricordate? [2] – chiese un parere a proposito per capire quanti aderivano a quella combinazione, soltanto il 4 per cento degli elettori rispose positivamente. E le prime indicazioni non mostrano che Bloomberg farebbe molto meglio, anche se come una persona che ha amministrato con successo New York, egli ha un bagaglio molto migliore da offrire.

Non sto dicendo che l’opinione pubblica statunitense sia necessariamente pronta a gradire Elizabeth Warren o Bernie Sanders. Sono in particolare preoccupato per il Medicare-per-tutti, non per i costi, ma perché proporre l’abolizione delle assicurazioni private potrebbe innervosire decine di milioni di elettori degli elettori di classe media.

Ma l’idea che l’America sia precisamente in attesa di un imprenditore miliardario per uscire dai guai cavalcando un cavallo bianco – o, in effetti, venendo imbarcata su una limousine nera – è proprio sciocca. È, in sostanza, il genere di cosa alla quale potrebbe credere solo un miliardario.

 

 

 

 

 

 

[1] La produttività multifattoriale (MFP) anche nota come produttività totale dei fattori (TFP), è una misura delle prestazioni economiche che confronta la quantità dei beni e dei servizi prodotti (produzione) con la quantità di un complesso di fattori utilizzati per produrre quei beni e quei servizi. I fattori possono includere il lavoro, il capitale, l’energia, le materie prime e i servizi acquistati (Ufficio delle Statistiche del Lavoro, Dipartimento del Lavoro degli USA).

[2] Howard Schultz (New York19 luglio 1953) è un imprenditore statunitense. È noto per essere stato amministratore delegato di Starbucks. È considerato come il soggetto che diede un significativo incremento agli utili di Starbucks, nonché alla sua internazionalizzazione. L’idea di come strutturare ogni singolo punto di vendita di Starbucks, gli venne durante un viaggio effettuato a Milano in cui entrò in contatto con la tradizione del bar italiano come punto di incontro.

 

 

 

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