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Il grande capitale e il decennio perduto dell’America, di Paul Krugman (New York Times, 26 dicembre 2019)

 

Dec.26, 2019

Big Money and America’s Lost Decade

By Paul Krugman

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Elizabeth Warren has been getting a lot of grief in the news media lately. Some of it, no doubt, reflects campaign missteps. But much of it is a sort of visceral negative reaction to her criticisms of the excessive influence of big money in politics — a reaction that actually vindicates her point.

It’s true that earlier in her career Warren, like just about everyone else, did fund-raisers with wealthy donors. So? Charges of inconsistency — “you said X, now you say Y” — are all too often a journalistic dodge, a way to avoid dealing with the substance of what a candidate says. Politicians should, after all, change their minds when there’s good reason to do so.

The question should be, was Warren right to announce, back in February, that she would halt high-dollar fund-raisers? More broadly, is she right that the wealthy have too much political influence?

And the answer to the second question is surely yes.

The first thing you need to know about the very rich is that they are, politically, different from you and me. Don’t be fooled by the handful of prominent liberal or liberal-ish billionaires; systematic studies of the politics of the ultrawealthy show that they are very conservative, obsessed with tax cuts, opposed to environmental and financial regulation, eager to cut social programs.

The second thing you need to know is that the rich often get what they want, even when most of the public want the opposite. For example, a vast majority of voters — including a majority of self-identified Republicans — believe that corporations pay too little in taxes. Yet the signature domestic policy of the Trump administration was a huge corporate tax cut.

Or to take an issue close to Warren’s heart — and her signature policy achievements — most Americans, including a plurality of Republicans, favor tougher regulation of big banks; yet even before Donald Trump took office, the relatively mild regulations put into effect after the 2008 financial crisis were under sustained political assault.

Why do a small number of rich people exert so much influence in what is supposed to be a democracy? Campaign contributions are only part of the story. Equally if not more important is the network of billionaire-financed think tanks, lobbying groups and so on that shapes public discourse. And then there’s the revolving door: It’s depressingly normal for former officials from both parties to take jobs with big banks, corporations and consulting firms, and the prospect of such employment can’t help but influence policy while they’re still in office.

Last but not least, media coverage of policy issues all too often seems to reflect the views of the wealthy. Take, for example, the issue of policies to combat unemployment.

Unemployment in the United States is currently at a historical low, just 3.5 percent — and we’re achieving that low unemployment without any sign of runaway inflation, which tells us that we were capable of this kind of performance all along. Remember when people like Jamie Dimon, the chief executive of JPMorgan Chase, told us that high unemployment was inevitable because of a “skills gap”? They were wrong.

But it took us a very long time to get here, because unemployment receded only slowly from its post-crisis peak. The average unemployment rate over the past decade was 6.3 percent, which translates into millions of person-years of gratuitous joblessness.

Why didn’t we recover faster? The most important reason was fiscal austerity — spending cuts, supposedly to reduce the budget deficit, that exerted a steady drag on the economy from 2010 onward. But who was obsessed with budget deficits? Voters in general weren’t — but surveys indicate that even when the unemployment rate was above 8 percent the wealthy considered budget deficits a bigger problem than lack of jobs.

And the news media echoed these priorities, treating them not as the preferences of one small group of voters but as the only responsible position. As Vox’s Ezra Klein noted at the time, when it came to budget deficits it seemed that “the usual rules of reportorial neutrality” didn’t apply; reporters openly advocated policy views that were at best controversial, not widely shared by the general public and, we now know, substantively wrong.

But they were the policy views of the wealthy. And when it comes to treatment of differing policy views, the media often treats some Americans as more equal than others.

Which brings me back to the 2020 campaign. You may disagree with progressive ideas coming from Elizabeth Warren or Bernie Sanders, which is fine. But the news media owes the public a serious discussion of these ideas, not dismissal shaped by a combination of reflexive “centrist bias” and the conscious or unconscious assumption that any policy rich people dislike must be irresponsible.

And when candidates talk about the excessive influence of the wealthy, that subject also deserves serious discussion, not the cheap shots we’ve been seeing lately. I know that this kind of discussion makes many journalists uncomfortable. That’s exactly why we need to have it.

 

Il grande capitale e il decennio perduto dell’America,

di Paul Krugman

 

Elizabeth Warren ha ricevuto una gran quantità di dispiaceri di recente, sui media dell’informazione. In parte, senza dubbio, ciò è dipeso da passi falsi nella campagna elettorale. Ma in gran parte è una sorta di viscerale reazione negativa alle sue critiche sull’eccessiva influenza del grande capitale nella politica – una reazione che in realtà giustifica i suoi argomenti.

È vero che agli inizi della sua carriera la Warren, come quasi tutti gli altri, aveva finanziatori tra i grandi donatori. E allora?  Le accuse di incoerenza – “avevi detto x e ora dici y” – sono anche troppo spesso un espediente giornalistico, un modo per evitare di misurarsi con la sostanza di ciò che un candidato sostiene. Dopo tutto, i politici dovrebbero cambiare i loro punti di vista quando ci sono buone ragioni per farlo. La domanda dovrebbe essere: ha avuto ragione la Warren ad annunciare, lo scorso febbraio, che avrebbe interrotto le raccolte di fondi da contribuenti danarosi? Più in generale, ha ragione nel sostenere che i ricchi hanno troppa influenza politica?

E la risposta alla seconda domanda è sicuramente affermativa.

La prima cosa che occorre sapere sui molto ricchi è che essi sono, politicamente, assai diversi dalle persone comuni. Non fatevi ingannare dalla manciata di miliardari liberali o liberaloidi; studi sistematici sulle opinioni politiche degli ultraricchi mostrano che sono molto conservatori, ossessionati dai tagli alle tasse, avversari dei regolamenti ambientali e finanziari, avidi di tagli ai programmi sociali.

La seconda cosa che occorre sapere è che i ricchi di solito ottengono ciò che vogliono, persino quando l’opinione pubblica vuole l’opposto. Per esempio, una grande maggioranza di elettori – compresa una maggioranza di persone che si definiscono repubblicane – credono che le grandi società paghino poche tasse. Tuttavia il tratto distintivo della politica interna della Amministrazione Trump è stato una grande taglio alle tasse sulle società.

Oppure considerate un tema al quale la Warren è molto sensibile, ed uno dei risultati politici che l’hanno contraddistinta: la maggioranza degli americani, compresa una maggioranza relativa di repubblicani, è a favore di regole più severe sulle grandi banche; tuttavia, anche dopo che Donald Trump è entrato in carica, i regolamenti relativamente tenui messi in funzione dopo la crisi finanziaria del 2008 sono stati oggetto di attacchi politici prolungati.

Perché un piccolo numero di persone ricche esercita una così grande influenza in quella che si presume sia una democrazia? I contributi alle campagne elettorali sono solo una parte della spiegazione. Egualmente importante, seppure non di più, è la rete di gruppi di ricerca finanziata dai miliardari, i gruppi lobbistici e tutto il resto che dà forma al dibattito politico. E poi ci sono i meccanismi delle ‘porte girevoli’: è deprimente quanto sia normale per i passati dirigenti di entrambi i partiti aggiudicarsi posti di lavoro nelle grandi banche, nelle società e nelle imprese di consulenza, e la prospettiva di tali incarichi non può non contribuire ad influenzare la politica quando essi sono ancora in carica.

Da ultimo ma non per ultimo, i resoconti sui temi politici dei media paiono anche troppo spesso riflettere i punti di vista dei ricchi. Si prenda, ad esempio, il tema delle politiche per combattere la disoccupazione.

La disoccupazione negli Stati Uniti è attualmente ad un minimo storico, solo il 3,5 per cento – e stiamo ottenendo quella bassa disoccupazione senza alcun segno di inflazione fuori controllo, il che ci dice che eravamo capaci di questa prestazione da lungo tempo. Vi ricordate quando Jamie Dimon, l’amministratore delegato della JPMorgan Chase, ci raccontava che una alta disoccupazione era inevitabile a causa di un “divario di competenze”? Sbagliavano.

Ma c’è voluto un tempo molto lungo per arrivare a questo punto, perché la disoccupazione è diminuita molto lentamente dal suo picco successivo alla crisi. Il tasso di disoccupazione media nel corso del decennio passato è stato del 6,3 per cento, che si è tradotto in milioni di anni-persona [1] di mancanza di lavoro non necessaria.

Perché non ci siamo ripresi più rapidamente? La ragione più importante è stata l’austerità della finanza pubblica – i tagli alle spese, allo scopo presunto di ridurre il deficit di bilancio, hanno esercitato una sorta di costante drenaggio sull’economia dal 2010 in avanti. Ma chi aveva l’ossessione dei deficit del bilancio? Non gli elettori in generale – ma i sondaggi indicano che persino quando il tasso di disoccupazione era sopra l’8 per cento, i ricchi consideravano i deficit di bilancio come un problema più grande della mancanza di posti di lavoro.

E i media dell’informazione echeggiavano queste priorità, considerandole non come le preferenze di un piccolo gruppo di elettori, ma come l’unica posizione responsabile. Come osservò a quel tempo Ezra Klein di Vox, quando si arrivava ai deficit di bilancio le “normali regole della neutralità nei resoconti” non si applicavano; i giornalisti sostenevano apertamente punti di vista politici che erano nel migliore dei casi controversi, generalmente non condivisi dall’opinione pubblica e, come sappiamo oggi, sostanzialmente sbagliati.

Però erano i punti di vista politici dei ricchi. E quando si arriva ai modi di presentare i diversi punti di vista politici, i media di solito considerano alcuni americani più uguali degli altri.

Il che mi riporta alla campagna elettorale del 2020. Si può non essere d’accordo con le idee progressiste che sostengono Bernie Sanders o Elizabeth Warren, il che è corretto. Ma i media dell’informazione hanno il dovere verso l’opinione pubblica di una seria discussione di queste idee, non di una loro liquidazione composta da un misto di “inclinazione centrista” autoreferenziale e da un assunto, consapevole o inconsapevole, secondo il quale ciò che non gradiscono le persone ricche deve essere irresponsabile.

E quando i candidati parlano di una influenza eccessiva dei ricchi, anche quel tema merita una seria discussione, non le frecciatine che stiamo osservando recentemente. So che questo genere di dibattito mette a disagio molti giornalisti. È esattamente la ragione per la quale ne abbiamo bisogno.

 

 

 

 

 

 

[1] Gli anni-persona sono una tecnica di misurazione che considera sia il numero di persone che la quantità di tempo che ciascuna persona impiega in una ricerca.  Ad esempio, una ricerca che segue 1000 persone per un anno, conterrebbe 1000 anni-persona di dati.

 

 

 

 

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