Jan. 6, 2020
By Paul Krugman
International crises often lead, at least initially, to surging support for a country’s leadership. And that’s clearly happening now. Just weeks ago the nation’s leader faced public discontent so intense that his grip on power seemed at risk. Now the assassination of Qassim Suleimani has transformed the situation, generating a wave of patriotism that has greatly bolstered the people in charge.
Unfortunately, this patriotic rallying around the flag is happening not in America, where many are (with good reason) deeply suspicious of Donald Trump’s motives, but in Iran.
In other words, Trump’s latest attempt to bully another country has backfired — just like all his previous attempts.
From his first days in office, Trump has acted on the apparent belief that he could easily intimidate foreign governments — that they would quickly fold and allow themselves to be humiliated. That is, he imagined that he faced a world of Lindsey Grahams, willing to abandon all dignity at the first hint of a challenge.
But this strategy keeps failing; the regimes he threatens are strengthened rather than weakened, and Trump is the one who ends up making humiliating concessions.
Remember, for example, when Trump promised “fire and fury” unless North Korea halted its nuclear weapons program? He claimed triumph after a 2018 summit meeting with Kim Jong-un, North Korea’s leader. But Kim made no real concessions, and North Korea recently announced that it might resume tests of nuclear weapons and long-range missiles.
Or consider the trade war with China, which was supposed to bring the Chinese to their knees. A deal has supposedly been reached, although details remain scarce; what’s clear is that it falls far short of U.S. aims, and that Chinese officials are jubilant about their success in facing Trump down.
Why does Trump’s international strategy, which might be described as winning through intimidation, keep failing? And why does he keep pursuing it anyway?
One answer, I suspect, is that like all too many Americans, Trump has a hard time grasping the fact that other countries are real — that is, that we’re not the only country whose citizens would rather pay a heavy price, in money and even in blood, than make what they see as humiliating concessions.
Ask yourself, how would Americans have reacted if a foreign power had assassinated Dick Cheney, claiming that he had the blood of hundreds of thousands of Iraqis on his hands? Don’t answer that Suleimani was worse. That’s beside the point. The point is that we don’t accept the right of foreign governments to kill our officials. Why imagine that other countries are different?
Of course, we have many people in the diplomatic corps with a deep knowledge of other nations and their motivations, who understand the limits of intimidation. But anyone with that kind of understanding has been excluded from Trump’s inner circle.
Now, it’s true that for many years America did have a special leadership position, one that sometimes involved playing a role in reshaping other countries’ political systems. But here’s where Trump’s second error comes in: He has never shown any sign of understanding why America used to be special.
Part of the explanation, of course, was raw economic and military power: America used to be just much bigger than everyone else. That is, however, no longer true. For example, by some key measures China’s economy is significantly bigger than that of the United States.
Even more important, however, was the fact that America was something more than a big country throwing its weight around. We always stood for something larger.
That doesn’t mean that we were always a force for good; America did many terrible things during its reign as global hegemon. But we clearly stood for global rule of law, for a system that imposed common rules on everyone, ourselves included. The United States may have been the dominant partner in alliances like NATO and bodies like the World Trade Organization, but we always tried to behave as no more than first among equals.
Oh, and because we were committed to enforcing rules, we were also relatively trustworthy; an alliance with America was meaningful, because we weren’t the kind of country that would betray an ally for the sake of short-term political convenience.
Trump, however, has turned his back on everything that used to make America great. Under his leadership, we’ve become nothing more than a big, self-interested bully — a bully with delusions of grandeur, who isn’t nearly as tough as he thinks. We abruptly abandon allies like the Kurds; we honor war criminals; we slap punitive tariffs on friendly nations like Canada for no good reason. And, of course, after more than 15,000 lies, nothing our leader and his minions say can be trusted.
Trump officials seem taken aback by the uniformly negative consequences of the Suleimani killing: The Iranian regime is empowered, Iraq has turned hostile and nobody has stepped up in our support. But that’s what happens when you betray all your friends and squander all your credibility.
Trump l’Intimidatore fallisce ancora,
di Paul Krugman
Le crisi internazionali provocano spesso, almeno all’inizio, una impennata di consensi per chi è alla guida di un paese. È quello che sta chiaramente accadendo adesso. Solo poche settimane fa il leader della nazione si trovava di fronte ad un dissenso pubblico così vasto che la sua presa sul potere pareva a rischio. Adesso l’assassinio di Qassim Suleimani ha trasformato il quadro, provocando un’ondata di patriottismo che ha grandemente rafforzato la persona in carica.
Sfortunatamente, questa raccolta patriottica attorno alla bandiera non sta avvenendo in America, dove molti sono (a buona ragione) profondamente diffidenti delle motivazioni di Trump, ma in Iran.
In altre parole, l’ultimo tentativo di Trump di intimidire un altro paese gli si è rivolto contro – proprio come tutti i tentativi precedenti.
A partire dai suoi primi giorni in carica, Trump ha agito nella apparente convinzione di poter facilmente intimidire i governi stranieri – che avrebbero rapidamente ceduto e gli avrebbero consentito di umiliarli. Ovvero si immaginava di avere di fronte un mondo alla Lindsey Graham [1], disponibile ad abbandonare ogni dignità al primo cenno di una sfida.
Ma questa strategia continua a fallire; i regimi che minaccia sono rafforzati anziché indeboliti, ed è Trump quello che finisce col fare concessioni umilianti.
Ricordate, ad esempio, quando Trump promise “fuoco e furore” se la Corea del Nord non avesse fermato il suo programma di armamenti nucleari? Si vantò di un trionfo dopo un incontro al vertice con Kim Jong-un, il leader della Corea del Nord. Ma Kim non fece alcuna vera concessione e la Corea del Nord ha di recente annunciato che potrebbe riprendere i test delle armi nuncleari e dei missili a lunga gittata.
Oppure, considerate la guerra commerciale con la Cina, che si pensava mettesse i cinesi in ginocchio. A quanto pare è stato raggiunto un accordo, sebbene i dettagli restino scarsi; quello che è chiaro è che esso è stato ben al di sotto degli obbiettivi statunitensi, e che i dirigenti cinesi sono esultanti per essere riusciti a piegare Trump.
Perché la strategia internazionale di Trump, che potrebbe essere definita un vincere tramite le intimidazioni, continua a fallire? E perché egli continua a perseguirla comunque?
Una risposta, ho il sospetto, è che come per fin troppi americani, Trump ha difficoltà a comprendere il fatto che gli altri paesi sono veri – ovvero, che non siamo l’unico paese i cui cittadini pagherebbero un prezzo pesante, in denaro e perfino in sangue, piuttosto che fare quelle che considerano concessioni umilianti.
Chiedetevi come avrebbero reagito gli americani se una potenza straniera avesse assassinato Dick Cheney, con l’argomento che aveva sulle sue mani il sangue di centinaia di migliaia di iracheni? Non dite che Suleimani era peggiore. Il punto non è quello. Il punto è che noi non accettiamo che governi stranieri abbiano il diritto di uccidere i nostri dirigenti. Perché immaginarsi che gli altri paesi siano diversi?
Naturalmente, abbiamo molte persone nei corpi diplomatici con una conoscenza profonda delle altre nazioni e delle loro motivazioni, che capiscono i limiti delle intimidazioni. Ma tutti coloro che possiedono quel genere di intelligenza sono stati esclusi dalla cerchia ristretta di Trump.
Ora, è vero che per molti anni l’America ha avuto una speciale funzione di guida, tale che talvolta comportava di giocare un ruolo nella riorganizzazione dei sistemi politici di altri paesi. Ma è qua che interviene il secondo errore di Trump: egli non ha mai dato l’impressione di capire perché l’America era abituata ad avere uno status particolare.
Naturalmente, in parte la spiegazione consisteva nella cruda potenza economica e militare: l’America era abituata ad essere molto più potente di chiunque altro. Tuttavia, questo non è più vero. Ad esempio, secondo alcuni metri di misura fondamentali, l’economia della Cina è sostanzialmente più grande di quella degli Stati Uniti.
Tuttavia, ancora più importante era il fatto che l’America era qualcosa di più di un grande paese che spadroneggiava. Noi abbiamo sempre rappresentato qualcosa di più ampio.
Questo non significa che siamo sempre stati una forza benefica; l’America ha fatto cose terribili durante il suo regno di egemonia globale. Ma ci siamo chiaramente battuti per uno stato di diritto globale, per un sistema che imponeva regole comuni a tutti, inclusi noi stessi. Gli Stati Uniti possono essere stati i partner dominanti in alleanze come la NATO e in organismi come l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma abbiamo sempre cercato di comportarci non più che come i primi tra eguali.
Inoltre, poiché eravamo impegnati a rafforzare le regole, eravamo anche relativamente meritevoli di fiducia; una alleanza con l’America era una cosa seria, perché non eravamo il tipo di paese che tradirebbe un alleato nell’interesse della convenienza politica a breve termine.
Trump, tuttavia, ha voltato le spalle a tutto quello che un tempo rendeva grande l’America. Sotto la sua leadership siamo diventati niente di più che un grande prepotente che guarda ai suoi interessi – un prepotente con illusioni di grandezza, che è tutt’altro che granitica come lui pensa. Abbiamo abbandonato d’un tratto alleati come i curdi; ammiriamo i criminali di guerra; imponiamo senza alcuna buona ragione tariffe punitive su nazioni amiche come il Canada. Per non dire, ovviamente, che dopo più di quindici mila bugie, niente di quello che dicono il nostro dirigente e i suoi galoppini può esser creduto.
I dirgenti di Trump sembrano sbalorditi dalle conseguenze uniformemente negative dell’assassinio di Suleimani: il regime iraniano è rafforzato, l’Iraq è diventato ostile e nessuno si è fatto avanti in nostro sostegno. Ma è quello che accade quando si tradiscono i propri amici e si dilapida tutta la nostra credibilità.
[1] Dirigente repubblicano noto per le sue oscillazioni e il suo opportunismo.
By mm
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