May 12, 2020
Paul Krugman
Last week’s jobs report was ghastly, and as I pointed out in today’s column, the reality is almost certainly worse: the Bureau of Labor Statistics notes that difficulties in classifying workers idled by the coronavirus probably mean that the true unemployment rate is closer to 20 percent than 15. That’s worse than most of the Great Depression.
The good news, such as it is, is that we’ve probably already taken most of the economic hit from Covid-19. The lockdown of high-viral-risk activities has been fairly comprehensive, and a variety of indicators suggest that the economy more or less stabilized around the middle of last month.
So the question now is: How fast a recovery can we expect?
Economists — like epidemiologists, by the way — rely a lot on history to answer such questions. The problem now is that history gives us an ambiguous answer. It’s not that every economic recovery is different; there are, in fact, clear patterns. But there seems to have been two kinds of recovery, and it’s not immediately clear which — if either — pattern is likely to apply this time.
The figure below shows employment growth in the last six recoveries, with the final month of the recession set equal to 100, and each line labeled by the year in which recovery began.
What you see is that before 1990 we tended to have “morning in America” recoveries, in which jobs came roaring back. Since then, however, we’ve had extended “jobless recoveries,” in which G.D.P. is growing but it takes a long time for the jobs to come back.
Why did the recovery story change? Early in the Great Recession, I argued in a blog post titled “Postmodern recessions,” that fast recoveries followed recessions caused by high interest rates, imposed by the Federal Reserve to curb inflation; once the Fed relented, the economy easily sprang back. Later recessions had been caused, instead, by private-sector overreach: the commercial real estate bubble of the 1980s, the tech bubble of the 1990s. These were much harder to cure.
And I predicted, correctly, that the Great Recession, brought on by the collapse of a giant housing bubble, would be followed by another jobless recovery.
So where does the current slump fit? My reluctant conclusion is that it’s more like the pre-1990 slumps than the more modern episodes.
Why reluctant? Well, I was right about the housing bubble, the Great Recession, and a lot of other stuff around then, and it’s always tempting to revisit your greatest hits. And let’s be frank: Given my politics, I don’t like the idea of Donald Trump riding into November on the wave of a rapidly healing economy, and would like to believe that can’t happen.
But Covid-19 is, in some ways, like the spike in interest rates that generated the 1981-82 recession. It’s something imposed on the economy from outside, as it were, rather than the result of private-sector excess, so you’d expect fast recovery once the outside shock recedes.
A fast recovery, however, depends on having the pandemic recede. And that’s why the push from the Trump administration and its allies for a quick reopening of the economy is probably self-destructive. Epidemiologists, who are far more likely to get this right than the rest of us, say that we’re nowhere close to having the virus sufficiently contained to reopen; they’re extremely worried that we may have a second wave.
So if we were patient and self-disciplined, we probably could eventually see rapid recovery. But “self-discipline” isn’t a term many people would apply to Donald Trump.
Una recessione post-post-moderna. Potremmo riprenderci alla svelta – ma solo se schiacciamo il virus,
di Paul Krugman
Il rapporto sui posti di lavoro della scorsa settimana era agghiacciante e, come ho notato nell’articolo di oggi, la realtà è quasi certamente peggiore: l’Ufficio delle Statistiche sul Lavoro osserva che le difficoltà nel classificare i lavoratori resi inattivi dal coronavirus probabilmente comportano che la disoccupazione effettiva sia più vicina al 20 per cento che al 15. Che è un dato peggiore di gran parte della Grande Depressione.
La buona notizia, perché è tale, è che probabilmente abbiamo già subito buona parte del colpo economico derivante dal Covid-19. Il blocco delle attività ad elevato rischio virale è stato abbastanza completo e una varietà di indicatori suggerisce che l’economia si è più o meno stabilizzata verso la metà del mese passato.
Dunque, adesso la domanda è: quanto possiamo aspettarci che la ripresa sia rapida?
Gli economisti – come gli epidemiologi, per inciso – per rispondere a tali domande si basano molto sulla storia. In questo caso il problema è che la storia ci offre risposte ambigue. Non si tratta del fatto che le riprese economiche siano diverse; di fatto ci sono modelli chiari. Ma sembrano esserci due tipi di ripresa, e non è immediatamente chiaro quale dei due è probabile che si applichi in questa occasione.
La tabella sottostante mostra la crescita dell’occupazione nelle sei riprese passate, fissato il mese finale della recessione pari a 100, e ciascuna linea è contrassegnata dall’anno in cui la ripresa è cominciata.
Quello che si vede è che prima del 1990 tendevamo ad avere riprese del tipo “è giorno in America” [1], nelle quali i posti di lavoro tornavano a pieno regime. Da allora, tuttavia, abbiamo avuto prolungate “riprese senza lavoro”, nella quali il PIL è in crescita ma occorre molto tempo perché tornino i posti di lavoro.
Perché è cambiata la storia delle riprese? Agli inizi della Grande Recessione sostenni, in un articolo sul blog intitolato “Recessioni postmoderne”, che le riprese rapide seguivano le recessioni a causa degli elevati tassi di interesse imposti dalla Federal Reserve per tenere a freno l’inflazione; una volta che la Fed li attenuava, l’economia tornava facilmente al proprio posto. Le recessioni più recenti, invece, erano provocate da eccessi nel settore privato: la bolla patrimoniale dei centri commerciali degli anni ’80, la bolla tecnologica degli anni ’90. Queste erano molto più difficili da curare.
Prevedevo anche, correttamente, che la Grande Recessione [2], provocata dal collasso di una gigantesca bolla immobiliare, sarebbe stata seguita da un’altra ripresa senza lavoro.
Dunque, l’attuale declino a quale modello si adatta? La mia riluttante conclusione è che si adatti più probabilmente alle recessioni precedenti gli anni ’90 che non agli episodi moderni.
Perché riluttante? Ebbene, io ebbi ragione sulla bolla immobiliare, sulla Grande Recessione e su molte delle altre cose di quel periodo, e si è sempre tentati di rivisitare i propri grandi successi. Inoltre, siamo franchi: dato il mio orientamento politico, non mi piace l’idea che Donald Trump arrivi alle elezioni di novembre sull’ondata di un’economia che si riprende rapidamente, e mi piacerebbe credere che ciò non possa accadere.
Ma il Covid-19 è in qualche modo simile al picco dei tassi di interesse che generò la crisi del 1981-82. Come era allora, è qualcosa che viene imposto all’economia dall’esterno, anziché il risultato di un eccesso del settore privato, cosicché ci si aspetta una ripresa rapida una volta che il trauma esterno recede.
Una ripresa rapida, tuttavia, dipende dalla circostanza che la pandemia si affievolisca. E questa è la ragione per la quale la pressione della Amministrazione Trump e dei suoi alleati [3] per una riapertura immediata dell’economia è probabilmente autodistruttiva. Gli epidemiologi, che è di gran lunga più probabile che capiscano queste cose meglio di tutti noi, dicono che non siamo in alcun modo vicini ad un sufficiente contenimento per virus per riaprire: sono estremamente preoccupati che si possa avere una seconda ondata.
Dunque, se fossimo pazienti e capaci di autodisciplina, probabilmente potremmo assistere ad una rapida ripresa. Ma la “autodisciplina” è un termine che poche persone userebbero nel caso di Donald Trump.
[1] È il titolo di una trasmissione radiofonica di Reagan che ebbe molto successo, al punto da essere spesso usato per indicare il periodo reaganiano. Il senso del titolo alludeva al sollievo per la recessione terminata, che Reagan ovviamente attribuì a se stesso.
[2] Ovvero, la crisi finanziaria del 2008 e seguenti.
[3] Può sembrare strano che spesso, per indicare gli esponenti della maggioranza che sostengono il Presidente degli Stati Uniti, si utilizzi l’espressione “i suoi alleati”, dato che essi non sono altri che esponenti del suo stesso Partito. Suppongo però che il termine derivi dallo spirito delle norme costituzionali americane, che riconoscono una autonomia formale ad “entità” come i gruppi parlamentari della Camera e del Senato, ed entro certi limiti conferiscono ai due rami poteri sostanziali (e diversi). In un certo senso, il Presidente (che del resto non è eletto direttamente dal popolo, ma dalla maggioranza di un Collegio Elettorale cui spetta formalmente il potere di sceglierlo) si considera che sia normalmente ‘tenuto’ a cercarsi ‘alleati’ nei due rami del Parlamento. Anche quando la sostanza è ben diversa, dato che il Presidente, come nel caso di Trump, potrebbe essere già padrone incontrastato del suo Partito.
By mm
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