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Tulsa e i molti peccati del razzismo, di Paul Krugman (New York Times, 18 giugno 2020)

 

June 18, 2020

Tulsa and the Many Sins of Racism

By Paul Krugman

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When Trump campaign officials scheduled a rally in Tulsa, Okla., on June 19, they sent what looked like a signal of approval to white supremacists. For June 19 is Juneteenth, a day celebrated by African-Americans to mark the end of slavery. And Tulsa was the site of the 1921 race massacre, one of the deadliest incidents in the long, violent offensive to deny blacks the fruits of their hard-won freedom.

It’s now being claimed that the Trump campaign didn’t understand the date’s significance, but I don’t believe that for a minute. President Trump did, grudgingly, push the rally back one day, but that was surely because he and his inner circle were surprised by the strength of the backlash — just as they’ve been surprised by public support for the Black Lives Matter protests.

But let’s talk about Tulsa and how it fits into the broader story of racism in America.

Joe Biden has declared that slavery is America’s “original sin.” He’s right, of course. It’s important, however, to understand that the sinning didn’t stop when slavery was abolished.

If America had treated former slaves and their descendants as true citizens, with full protection under the law, we would have expected the legacy of slavery to gradually fade away.

Freed slaves started with nothing, but over time many of them would surely have worked their way up, acquiring property, educating their children and becoming full members of society. Indeed, that started to happen during the 12 years of Reconstruction, when blacks briefly benefited from something approaching equal rights.

But the corrupt political deal that ended Reconstruction empowered Southern white supremacists who systematically suppressed black gains. African-Americans who managed to acquire some property all too often found that property expropriated, either through legal subterfuge or at gunpoint. And the nascent black middle class was effectively subjected to a reign of terror.

Which is where Tulsa fits in. In 1921 the Oklahoma city was the center of an oil boom, a place to which people in search of opportunity migrated. It boasted a sizable black middle class, centered on the Greenwood neighborhood, which was widely described as the “black Wall Street.”

And that was the neighborhood destroyed by white mobs, who looted black businesses and homes, killing probably hundreds. (We don’t know how many because the massacre was never properly investigated.) The police, of course, did nothing to protect black citizens; instead, they joined the rioters.

Not surprisingly, violence against African-Americans who managed to achieve any economic success discouraged initiative. For example, the economist Lisa Cook has shown that the number of blacks taking out patents, which soared for several decades after the Civil War, plunged in the face of growing white violence.

Violent repression helped drive the Great Migration, the movement of millions of blacks from the South to Northern cities, which began five years before the Tulsa massacre and continued until around 1970.

Even in Northern cities, blacks were often denied opportunities for upward mobility. For example, in 1944 white transit workers in Philadelphia went on strike — disrupting war production — to protest the promotion of a handful of black workers.

But discrimination and repression were less severe than in the South. And one might have hoped that the terrible saga of black repression would finally have wound down after the Civil Rights Act, enacted a century after Emancipation, put an end to overt discrimination.

Unfortunately, for many African-Americans Northern cities turned into a socioeconomic trap. The opportunities that lured migrants disappeared as blue-collar jobs moved first to the suburbs, then overseas. Chicago, for example, lost 60 percent of its manufacturing employment between 1967 and 1987.

And when the loss of economic opportunity led, as it usually does, to social dysfunction — to broken families and despair — all too many whites were ready to blame the victims. The problem, many asserted, lay in black culture — or, some hinted, in racial inferiority.

Such implicit racism wasn’t just talk; it fueled opposition to government programs, up to and including Obamacare, that might help African-Americans. If you wonder why the social safety net in the U.S. is so much weaker than those of other advanced countries, it comes down to just one word: race.

Strange to say, by the way, that you didn’t hear many people engaging in comparable victim-blaming a few decades later, when whites in the eastern heartland experienced their own loss of opportunity and a rise in social dysfunction, manifested in surging deaths from suicide, alcohol and opioids.

As I said, then, while slavery was America’s original sin, its dire legacy was perpetuated by other sins, some of which continue to this day.

The good news is that America may be changing. Donald Trump’s attempt to use the old racist playbook has led to a plunge in the polls. His Tulsa stunt appears to be backfiring. We are still stained by our original sin, but we may, at long last, be on the road to redemption.

 

Tulsa e i molti peccati del razzismo,

di Paul Krugman

 

Quando coloro che dirigono la campagna elettorale di Trump hanno programmato una manifestazione a Tulsa, Oklahoma, per il 19 giugno, hanno inviato quello che è apparso come un segnale di approvazione verso il suprematismo bianco. Perché il 19 giugno è il Juneteenth [1], un giorno celebrato dagli afroamericani per celebrare la fine della schiavitù. E Tulsa fu il luogo del massacro razzista del 1921, uno degli episodi più sanguinosi nella lunga, violenta offensiva per negare ai neri i frutti della loro libertà duramente conquistata.

Ora si sostiene che gli organizzatori della campagna di Trump non conoscevano il significato della data, ma non ci credo affatto. Il Presidente Trump ha rinviato, a denti stretti, di un giorno la manifestazione, ma è dipeso certamente dal fatto che lui e la sua cerchia ristretta sono rimasti sorpresi dalla forza delle reazioni – proprio come sono stati sorpresi dal sostegno pubblico alle proteste del Black Lives Matter.

Ma parliamo di Tulsa e di come essa è entrata nella più generale storia del razzismo in Amarica.

Joe Biden ha dichiarato che la schiavitù è il “peccato originale” dell’America. Ha ragione, ovviamente. Tuttavia è importante comprendere che il peccato non ebbe termine quando la schiavitù fu abolita.

Se l’America avesse trattato i primi schiavi e i loro discendenti come veri cittadini, sotto la piena protezione della legge, ci dovevamo aspettare che l’eredità della schiavitù sparisse gradualmente.

Gli schiavi liberati partivano dal niente, ma nel corso del tempo molti di loro avrebbero certamente sviluppato una loro strada, acquistato proprietà, educato i loro figli e sarebbero diventati membri della società con pieno diritto. In effetti, ciò cominciò ad avvenire nei 12 anni della Ricostruzione, quando i neri brevemente trassero vantaggio da qualcosa che si avvicinava agli eguali diritti.

Ma l’accordo politico corrotto che mise fine alla Ricostruzione incoraggiò i suprematisti bianchi del Sud che soppressero in modo sistematico i vantaggi per la popolazione di colore. Gli afroamericani che cercavano di acquistare qualche proprietà trovavano il più delle volte quella proprietà espropriata, o con sotterfugi legali o sotto la minaccia delle armi. E la nascente classe media nera venne effettivamente sottoposta ad un regime del terrore.

Ecco quando entrò in scena Tulsa. Nel 1921 la città dell’Oklahoma era un centro di un boom petrolifero, un luogo dove emigravano le persone in cerca di opportunità. Di ciò si vantava una consistente classe media nera, che risiedeva nel quartiere di Greenwood, che era generalmente descritto come la “Wall Street nera”.

E quel quartiere venne distrutto da folle di bianchi, che saccheggiarono imprese e abitazioni, uccidendo probabilmente centinaia di persone (non sappiamo quanti, perché il massacro non venne mai effettivamente investigato). La polizia, ovviamente, non fece niente per proteggere i cittadini di colore; piuttosto, si unì alla sommossa.

Non sorprende che la violenza contro gli afroamericani che cercavano di realizzare un qualche progresso economico scoraggiò tali iniziative. Ad esempio, l’economista Lisa Cook ha dimostrato che il numero di neri che ottennero brevetti, che era molto cresciuto per vari decenni dopo la Guerra Civile, crollò a fronte della crescente violenza bianca.

La violenta repressione contribuì a spingere la Grande Migrazione, il movimento di milioni di persone di colore dalle città del sud a quelle del Nord, che cominciò cinque anni prima del massacro di Tulsa e continuò sino quasi al 1970.

Persino nelle città del Nord ai neri vennero spesso negate le opportunità di mobilità sociale. Ad esempio, nel 1944 i lavoratori del trasporto pubblico di Filadelfia scesero in sciopero – interrompendo le produzioni belliche – per protestare contro la promozione di una manciata di lavoratori neri.

Ma la discriminazione e la repressione fu meno grave che nel Sud. E si poteva sperare che la terribile saga delle repressione della gente di colore si sarebbe alla fine esaurita dopo che la Legge sui Diritti Civili, approvata un secolo dopo l’Emancipazione, mise fine alla aperta discriminazione.

Sfortunatamente, per molti afroamericani le città del Nord si trasformarono in una trappola socioeconomica. Le opportunità che avevano attratto i migranti scomparvero quando i posti di lavoro per gli operai si spostarono dapprima nelle periferie, poi oltreoceano. Ad esempio, Chicago perse il 60 per cento della sua occupazione manifatturiera dal 1967 al 1987.

E quando la perdita delle opportunità economiche portò, come accade di solito, al disordine sociale – alla rottura delle famiglie ed alla disperazione – anche troppi bianchi furono pronti a dar la colpa alle vittime. Il problema, dissero in molti, stava nella cultura nera – oppure, insinuarono alcuni, nella inferiorità razziale.

Un tale implicito razzismo non era solo fatto di parole; esso alimentò l’opposizione ai programmi pubblici che potevano aiutare gli afroamericani, compresa la riforma sanitaria di Obama. Se ci si chiede perché la rete della sicurezza sociale negli Stati Uniti è così tanto più debole di quelle di altri paesi avanzati, alla fin fine basta una sola parola: la razza.

Strano a dirsi, per inciso, non si sono mai sentite molte persone, pochi decenni dopo, manifestare una analoga tendenza a dar la colpa alle vittime, quando i bianchi nel cuore orientale del paese hanno sperimentato la loro perdita di opportunità e una crescita del disordine sociale, che si è manifestata in un picco di morti per suicidi, per alcolismo e per consumo di oppiodi.

Come ho detto, dunque, se la schiavitù è stata il peccato originale dell’America, la sua terribile eredità si è perpetuata con altri peccati, alcuni dei quali continuano ancora oggi.

La buona notizia è che forse l’America sta cambiando. Il tentativo di Donald Trump di utilizzare i vecchi manuali razzisti ha portato ad un crollo nei sondaggi. Il suo espediente di Tulsa sembra stia ritorcendosi contro. Siamo ancora macchiati dal nostro peccato originale, ma siamo forse, finalmente, sulla via della redenzione.

 

 

 

 

 

[1] L’origine del termine Juneteenth (da Claudio Geymonat, Riforma.it):

“Il 19 giugno 1865 le truppe unioniste guidate dal generale Gordon Granger arrivano a Galveston, nel profondo Texas, cittadina affacciata sul golfo del Messico. La guerra civile statunitense è finita da poco più di un mese, mentre il proclama del presidente Abramo Lincoln che abolisce la schiavitù porta la data di due anni e mezzo prima, Primo gennaio 1863. Ma non è stato possibile portare ovunque con tempestività il messaggio, soprattutto a causa del conflitto in corso.

Così mentre alcuni stati già avevano liberato gli schiavi, altrove tutto procedeva come nulla fosse. Quel 19 giugno i soldati leggono il testo di Lincoln, l’Emancipation Proclamation, e chiedono all’amministrazione che vengano concesse le libertà agli ormai ex schiavi.

E’ lo sconvolgimento per donne e uomini che ora dopo secoli possono essere artefici del proprio destino personale. E’ così il 19 giugno, june nineteen in inglese, diventa subito una crasi dello slang, e si trasforma in Juneteenth, e da allora sarà per sempre il giorno della Liberazione dei neri, il Freedom Day delle popolazioni schiave d’America.”

 

 

 

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