Aug 13, 2020
By Paul Krugman
Conservatives do love their phony wars. Remember the war on Christmas? Remember the “war on coal”? (Donald Trump promised to end that war, but in the third year of his presidency coal production fell to its lowest level since 1978, and the Department of Energy expects it to keep falling.)
Now, as the Trump campaign desperately searches for political avenues of attack, we’re hearing a lot about the “war on the suburbs.”
It’s probably not a line that will play well outside the G.O.P.’s hard-core base; Joe Biden and Kamala Harris don’t exactly come across as rabble-rousers who will lead raging antifa hordes as they pillage America’s subdivisions.
Yet it is true that a Biden-Harris administration would resume and probably expand on Obama-era efforts to finally make the Fair Housing Act of 1968 effective, seeking in particular to redress some of the injustices created by America’s ugly history of using political power to create and reinforce racial inequality.
For what Trump calls the Suburban Lifestyle Dream didn’t just happen; it was created by government policies. The great suburban housing boom that followed World War II was made possible by huge federal subsidies, via programs — especially the Federal Housing Administration and the Veterans Administration — that protected lenders from risk by insuring qualifying home mortgages. By 1950 the F.H.A. and the V.A. were insuring half of all mortgages nationwide.
Of course, these subsidies didn’t just help home buyers. They were also a gold mine for real estate developers, among them a guy named Fred Trump, who was later sued for discriminating against Black tenants, and whose son currently occupies the White House.
But these subsidies were only available to white people. In fact, they were only available in all-white communities. As Richard Rothstein reports in his 2017 book “The Color of Law,” F.H.A. guidelines specifically cautioned against loans in communities in which children might share classrooms with other children who “represent a far lower level of society or an incompatible racial element.”
Indeed, the F.H.A. went well beyond favoring all-white locations; it set out to create them. After the war, when developers like William Levitt began building new communities on what had been farmland, they cleared their plans in advance with the F.H.A., thereby guaranteeing that buyers would have automatic access to subsidized mortgages. And one of the things the F.H.A. required from such plans was strict racial segregation, supposedly to insure property values.
Now, all of this may sound like old history. But the raw racism of postwar housing policy cast a long shadow over our society. For the 20 or so years that followed World War II represented a unique opportunity for the middle class to solidify its position — an opportunity that was denied to Black people.
You see, the ’50s and ’60s were an era both of relatively good pay for ordinary workers and of relatively cheap suburban housing. Wages were fairly high, in part because America still had a strong union movement, and houses were affordable, as long as you had access to those federal housing programs. So millions of Americans got a chance to build some wealth.
Then the window of opportunity closed. Wages, adjusted for inflation, stagnated. Housing prices soared, in part because building restrictions in many suburbs banned multifamily units. And Black families, who were shut out of a rising market at a time when many other Americans were sharing in the fruits of a housing boom, found the financial barriers to homeownership especially daunting.
So Trump’s Suburban Lifestyle Dream is basically a walled village that the government built for whites, whose gates were slammed shut when others tried to enter.
What is Biden proposing to remedy at least some of these injustices? Reasonable, significant, but hardly revolutionary stuff — things like expanding rental vouchers while cracking down on redlining and exclusionary zoning. Trump may claim that such policies would “destroy suburbia,” but that only makes sense if you believe that the only alternative to bloody anarchy is a community that looks exactly like Levittown in 1955.
And it’s very important to understand that none of the scare talk about a war on the suburbs has anything to do with the usual conservative rhetoric about “freedom” and not having the government tell Americans what to do. Individual choices and free markets aren’t what made America such a segregated, unequal society. Discrimination was a statist policy, involving the exercise of political power to deny people free choice.
And it still goes on. What the Black Lives Matter movement has done is to reveal to many white Americans that we’re still a long way from being a society in which everyone is treated equally by the law, whatever the skin color. (Black Americans already knew that very well.)
But the big difference between the parties now is that Biden and Harris are trying to make things better, trying to make us more like the country we’re supposed to be. Trump and Mike Pence, by contrast, are basically trying to make open racism great again.
Il sogno razzista e statalista sulle periferie di Trump,
di Paul Krugman
I conservatori amano davvero le loro finte guerre. Vi ricordate la guerra sul Natale [1] ? Vi ricordate la “guerra sul carbone”? (Donald Trump promise di concludere quella guerra, ma al terzo anno della sua presidenza la produzione del carbone è caduta al suo livello più basso dal 1978, e il Dipartimento dell’Energia si aspetta che essa continui a scendere).
Adesso, mentre la campagna elettorale di Trump è disperatamente alla ricerca di direttrici politiche di attacco, sentiamo molto parlare della “guerra sulle periferie”.
Non è probabilmente una frase che farà un buon servizio al di fuori della base pura e dura del Partito Repubblicano; Joe Biden e Kamala Harris non danno esattamente l’impressione di essere agitatori che si metteranno alla testa di orde di arrabbiati antifa nel saccheggio dei quartieri periferici dell’America.
Tuttavia è vero che una Amministrazione Biden-Harris ripristinerebbe e probabilmente amplierebbe gli sforzi dell’epoca di Obama per rendere finalmente effettiva la Legge sul Giusto Alloggio del 1968, cercando in particolare di correggere alcune delle ingiustizie create dalla brutta tradizione americana di usare il potere politico per creare e rafforzare l‘ineguaglianza razziale.
Perché quello che Trump chiama il sogno dello stile di vita periferico non è proprio esistito; semmai è stato creato dalle politiche pubbliche. Il grande boom degli alloggi periferici che seguì la Seconda Guerra Mondiale venne reso possibile da vasti sussidi federali, attraverso programmi – in particolare la Amministrazione Federale degli Alloggi (FHA) e la Amministrazione dei Veterani (VA) – che proteggevano dal rischio coloro che prestavano i soldi assicurando i requisiti dei mutui per la casa. Nel 1950 la FHA e la VA assicuravano la metà di tutti i mutui su scala nazionale.
Naturalmente, questi sussidi non aiutarono soltanto chi comprava le case. Essi erano anche una miniera d’oro per gli imprenditori del settore immobiliare, tra i quali un individuo col nome di Fred Trump, che in seguito venne citato in giudizio per discriminazioni contro inquilini di colore, e il cui figlio attualmente occupa la Casa Bianca.
Ma questi sussidi erano disponibili soltanto per la popolazione bianca. Di fatto, erano disponibili nelle comunità composte di soli bianchi. Come Richard Rothstein denuncia nel suo libro del 2017 “Il colore della legge”, le linee guida della FHA specificamente mettevano in guardia contro i mutui nelle comunità nelle quali i bambini potevano condividere le aule con altri bambini che “rappresentano un livello sociale di gran lunga inferiore o un elemento razziale incompatibile”.
In effetti, la FHA andò ben oltre il favorire localizzazioni di soli bianchi; essa si prefisse di crearle. Dopo la guerra, quando gli imprenditori edili come William Levitt [2] cominciarono a costruire nuove comunità sulle quali avevano avuto terreni agricoli, essi resero chiari in anticipo i loro programmi con la FHA, in modo da garantire che gli acquirenti avrebbero avuto accesso automatico ai mutui sussidiati. E una delle cose che la FHA richiedeva a tali programmi era la stretta segregazione razziale, che si riteneva assicurasse i valori della proprietà [3].
Ora, tutto questo ci può sembrare una vecchia storia. Ma il crudo razzismo della politica abitativa postbellica ha gettato un’ombra lunga sulla nostra società. Nei circa 20 anni che seguirono la Seconda Guerra Mondiale essa rappresentò una opportunità unica per la classe media per consolidare la propria posizione – una opportunità che venne negata alla gente di colore.
Gli anni ’50 e ’60, come si sa, furono un’epoca sia di buone paghe per i lavoratori comuni che di alloggi periferici relativamente economici. I salari erano abbastanza alti, in parte perché i lavoratori avevano un forte movimento sindacale, e le case erano convenienti, nella misura in cui si aveva accesso a quei programmi abitativi federali. Dunque milioni di americani ebbero la possibilità di realizzare un po’ di ricchezza.
Poi la finestra delle opportunità si chiuse. I salari, corretti per l’inflazione, stagnarono. I prezzi delle abitazioni schizzarono in alto, in parte perché le limitazioni edilizie in molte periferie escludevano unità immobiliari multifamiliari. E per le famiglie di colore, che erano state escluse da un mercato in crescita nell’epoca nella quale molti altri americani condividevano i frutti di un boom abitativo, le barriere finanziarie alla proprietà delle case furono particolarmente scoraggianti.
Dunque, il sogno di uno stile di vita suburbano di Trump, è fondamentalmente un villaggio cinto da mura che il Governo costruì per i bianchi, i cui cancelli venivano chiusi quando altri cercavano di entrare.
Cosa sta proponendo Biden per rimediare almeno ad alcune di queste ingiustizie? Cose ragionevoli, significative, ma certo non rivoluzionarie – come l’espansione dei contributi per l’affitto quando si inaspriscono [4] le politiche della discriminazione creditizia e le zonizzazioni esclusivistiche. Trump può sostenere che tali politiche “distruggerebbero le periferie”, ma ciò ha senso solo se si crede che l’alternativa alla anarchia violenta sia una comunità che assomiglia esattamente a Levittown nel 1955.
Ed è molto importante comprendere che nessuno degli spaventosi discorsi su una guerra sulle periferie non ha niente a che vedere con la consueta retorica conservatrice sulla “libertà” e sul fatto che il Governo non debba dire agli americani come comportarsi. Non sono le scelte individuali ed i liberi mercati che hanno reso l’America una società così segregata e ineguale. La discriminazione è stata una politica statalista, che ha riguardato l’esercizio del potere politico per negare alle persone la libera scelta.
E così sta andando avanti. Quello che il movimento Black Lives Matter ha fatto è stato rivelare a molti americani bianchi che siamo ancora lontani dall’essere una società nella quale siamo tutti uguali per la legge, a prescindere dal colore della pelle (gli americani di colore già lo sapevano benissimo).
Ma adesso la differenza tra i partiti è che Biden e la Harris stanno cercando di rendere le cose migliori, cercando di farci assomigliare di più al paese che credevamo di essere. Trump e Mike Pence, al contrario, stanno fondamentalmente cercando di ‘rendere di nuovo grande’ l’esplicito razzismo.
[1] Probabilmente il riferimento è ad una polemica contro Obama che nel 2017 Trump aprì anche sul Natale. Per presentarsi come Presidente difensore della tradizione cristiana, polemizzò sul fatto che Obama talvolta augurasse le “buone feste”, forse considerando che milioni di americani non sono di religione cristiana. Promise di restituire agli americani il “Natale migliore e più grosso di quanto sia mai stato” (da un articolo sul Corriere della Sera del 21 dicembre 2017).
[2] Immobiliarista americano nato nel 1907 e morto nel 1994. Applicava in modo zelante i criteri della segregazione razziale verso le famiglie degli afroamericani e degli asiatici; una periferia prototipo della sua attività venne realizzata nei dintorni di New York con il nome di Levittown:
[3] Una descrizione della natura ed anche degli effetti a lungo termine di quelle discriminazioni sui mutui la si trova nell’articolo “La razza e la pandemia del Covid-19” di Graziella Bertocchi e Arcangelo Dimico, qua tradotto di recente.
[4] Per politiche del “redlining” (tracciare un limite, tracciare una linea rossa) si intende la regola di escludere dai prestiti, dai mutui o dalle assicurazioni sulle case le persone che vivono in aree povere e con redditi bassi, oppure di caricarle per questo di tassi di interesse più elevati. È interessante che queste politiche vennero inaugurate col New Deal, il che può sembrare un po’ paradossale. Mi pare che venga spiegato semplicemente con l’intenzione di non aggravare i tassi di default sui prestiti bancari in quelle zone e, del resto, mi sembra che sia una pratica finanziaria ancora in corso.
Ma in pratica il senso è quello di cercar di tutelare il valore attuale o futuro di determinate aree e di chi ha proprietà in esse, attuando una preventiva segregazione sociale e razziale: anziché aiutare che ne ha bisogno, escluderli. Del resto, è noto che il New Deal, sui temi razziali, non segnò grandi progressi.
By mm
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