Sep 28, 2020
By Paul Krugman
The bombshell New York Times report on Donald Trump’s tax returns is a remarkable feat of journalism. The team deserves special praise for making their findings comprehensible to general readers, and not getting lost in the details.
Yet like many other revelations in the Trump era, the tax news falls into the category of “shocking but not surprising.” Many observers had already surmised that Trump paid little or no taxes, that his claims of brilliant business success were a fiction, and that he is deep in debt. Now all of that is virtually confirmed. But what does it mean for America’s future?
Everyone will come at this question from their own angle. When I read the Times report, I quickly found myself thinking about … the theory of business capital structure. No, really.
For many people, no doubt, the main takeaway from the tax revelations will be “$750? Really?” The fact that Trump paid less in taxes than tens of millions of hard-working Americans struggling to make ends meet is an outrage. It’s also easy to explain in a few seconds, which is why it’s the theme of a quickly released ad from the Biden campaign.
From a substantive point of view, however, Trump’s tax avoidance is less important than the confirmation of what many already suspected: His carefully cultivated image of being a hugely successful businessman is, as he would say, fake news. In fact, he has done a terrible job of running his businesses.
Why does this matter? Voters often seem to believe that effective business leaders have the skills and knowledge to lead the nation as a whole. They’re wrong about that. Even genuinely great businesspeople — people like, say, Herbert Hoover — are often very bad at public policy, including economic policy, because the skills needed to run a business and those required to steer a nation are very different.
In Trump’s case, however, the old joke is true: He isn’t a great businessman, he just played one on TV. It should come as no surprise, then, that he has been consistently hapless at devising policy. On just about every front, from diplomacy to infrastructure to trade wars to fighting a pandemic, he has been Midas in reverse.
How much will the revelation that he has always been a fraud hurt him? Many of his supporters will probably refuse to acknowledge the truth, perhaps because they won’t admit to themselves how completely they were scammed. But assuming that the news will have no effect at all is probably too cynical. And remember, Trump is running behind Biden, so he has to do more than keep his base — and this may not do much to win over undecided voters.
The most important revelation from the Times report, however, is its confirmation of another thing many observers already suspected: Trump has hundreds of millions in personal debt. It’s unclear whether he has the resources to repay it.
Personal financial trouble has always been a red flag when it comes to filling sensitive government positions, because it’s an open invitation to corruption.
So the confirmation that the nation’s chief law enforcement and national security official — whose business empire already offers many opportunities for undue influence — is drowning in debt is chilling.
Beyond that, analysts of business finance — I told you I’d get there — have long known that high levels of debt, enough to pose a substantial risk of bankruptcy, create destructive incentives. Instead of investing in the future, the owners of highly indebted businesses are tempted to engage in asset stripping, getting the money out before the creditors stake their claims. This is, by the way, the charge being leveled at Eddie Lampert, the former chief executive of Sears (and Steven Mnuchin, the secretary of the Treasury).
Owners of debt-hobbled businesses are also tempted to take big risks, even at bad odds, because if they get lucky, they might save themselves; if they don’t, it’s someone else’s problem. Heads they win, tails the creditors lose.
So now we have a deeply indebted business owner with every incentive to engage in malfeasance — except that in addition to running his business, he’s running the United States of America.
But he may be about to lose that special position, and whatever financial defense it may provide.
Think about that. Also think about the fact that Trump constantly complains about almost nonexistent voter fraud — he has never accepted the fact that he lost the popular vote four years ago — and that he has repeatedly refused to say that he will accept election results if he loses. And tell me that you aren’t terrified about what the next few weeks may hold.
Il debito di Trump, il suo futuro e il nostro,
di Paul Krugman
L’esplosivo resoconto del New York Times sulle dichiarazioni fiscali di Donald Trump è un episodio notevole di giornalismo. Il gruppo dei giornalisti merita un elogio particolare per aver reso le loro scoperte comprensibili al pubblico comune, senza perdersi nei dettagli.
Tuttavia, come molte altre rivelazioni sull’epoca di Trump, le notizie sulle tasse ricadono nella categoria dell’ “impressionante ma non sorprendente”. Molti osservatori avevano già supposto che Trump pagasse poco o niente di tasse, che la sua pretesa di un brillante successo di impresa fosse una fantasia e che quanto a debito fosse nel profondo rosso. Ora tutto ciò viene sostanzialmente confermato. Ma cosa significa ciò per Trump e per il futuro dell’America?
Ognuno si porrà questa domanda dal suo proprio punto di vista. Quando io ho letto il resoconto del Times mi sono subito trovato a pensare a … la teoria della struttura del capitale di impresa. Davvero, proprio così.
Certamente, per molte persone il punto principale delle rivelazioni sulle tasse sarà “750 dollari? Incredibile!” Il fatto che Trump abbia pagato meno tasse di decine di milioni di americani che lavorano duramente faticando a far quadrare i conti è uno scandalo. È anche facile spiegare in pochi secondi quale sia la ragione per la quale esso è il tema di una rapida risposta propagandistica della campagna elettorale di Biden.
Da un punto di vista sostanziale, tuttavia, l’elusione fiscale di Trump è meno importante di ciò che molti già sospettavano: l’immagine da lui attentamente coltivata di uomo d’affari di grande successo è, come direbbe lui stesso, una fake news. Di fatto, egli ha realizzato un terribile lavoro nella gestione delle sue imprese.
Perché questo è importante? Gli elettori spesso sembrano credere che i dirigenti di impresa abbiano le competenze e la conoscenza per guidare una nazione nel suo complesso. Su questo sbagliano. Persino autentici grandi impresari – persone, ad esempio, come Herbert Hoover [1] – hanno spesso pessime prestazioni nella politica pubblica, compresa la politica economica, perché le competenze per gestire una impresa e quelle richieste per indirizzare una nazione sono molto diverse.
Nel caso di Trump, tuttavia, è vero il vecchio adagio: lui non è un grande uomo di impresa, lo ha solo recitato alla televisione. Dunque, non dovrebbe essere una sorpresa che sia stato regolarmente sfortunato nel concepire la politica. Più o meno su ogni fronte, dalla diplomazia alle infrastrutture alle guerre commerciali al combattere la pandemia, è stato come un Re Mida all’incontrario.
Quanto lo danneggerà la rivelazione di essere sempre stato un inganno? Molti dei suoi sostenitori, probabilmente, rifiuteranno di riconoscere la realtà, forse perché non vorranno ammettere di essere stati completamente raggirati. Ma ritenere che le notizie non avranno alcun effetto è probabilmente un po’ cinico. Si ricordi, Trump sta inseguendo Biden, dunque ha la lavorare di più per mantenere la sua base – e tutto questo non gli darà granché per convincere gli elettori indecisi.
La più importante rivelazione del Times, tuttavia, è la conferma di un’altra cosa che molti osservatori già sospettavano: Trump ha un debito personale per centinaia di milioni. Non è chiaro se abbia le risorse per ripagarlo.
I guai finanziari personali sono sempre stati una bandiera rossa quando si arriva ad occupare posizioni di governo delicate, perché sono un invito aperto alla corruzione.
Dunque, la conferma che il principale dirigente pubblico per l’applicazione della legge e la sicurezza nazionale – il cui impero affaristico già offre molte opportunità di influenze improprie – è in procinto di affogare sotto i debiti, fa venire i brividi.
Oltre a ciò, gli analisti della finanza di impresa – vi avevo avvertito che sarei arrivato a quel punto – da molto tempo sanno che elevati livelli di debito, sufficienti a costituire un rischio sostanziale di fallimento, creano incentivi distruttivi. Invece di investire nel futuro, i proprietari di imprese altamente indebitate sono tentati di impegnarsi nello scorporo delle attività, per incassare soldi prima che i creditori rivendichino i loro diritti. Per inciso, questo è l’addebito che è stato rivolto a Eddie Lampert, il passato direttore generale della Sears [2] (e a Steven Mnuchin, il Segretario al Tesoro).
I proprietari di imprese azzoppate dai debiti sono anche tentati di assumere grandi rischi, persino con pessime probabilità di riuscita, perché se sono fortunati si salveranno; se non lo sono, saranno problemi per qualcun altro. Testa vincono loro, croce perdono i creditori.
Dunque abbiamo adesso un proprietario di impresa gravemente indebitato con tutti gli incentivi ad impegnarsi in malefatte – sennonché oltre a gestire i suoi affari, sta gestendo gli Stati Uniti d’America.
Ma egli potrebbe essere in procinto di perdere quella sua posizione particolare, e qualsiasi protezione finanziaria essa possa offrire.
Si rifletta su questo. E si rifletta anche sul fatto che Trump costantemente lamenta frodi elettorali quasi inesistenti – non ha mai accettato di aver perso al voto popolare [3] quattro anni orsono – ed ha ripetutamente rifiutato di dire che accetterà i risultati elettorali, nel caso di una sconfitta. E ditemi se non siete spaventati di quello che le prossime settimane possono riservare
[1] Herbert Clark Hoover (West Branch, 10 agosto 1874 – New York, 20 ottobre 1964) è stato un politico repubblicano statunitense, 31º Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1929 al 1933. Prima di passare alla storia per la sua politica, nella crisi degli anni ’30, prima di ‘negazione’ della crisi e poi di sostegno soprattutto ai gruppi finanziari ma non ai disoccupati, era stato un imprenditore di successo, proprietario di molte miniere.
[2] Sears (ufficialmente Sears, Roebuck & Company) è una catena di grande distribuzione statunitense fondata a Chicago nel 1892. Negli anni cominciò ad avere difficoltà finanziarie e a disinvestire e cedere settori delle proprie attività.
[3] Il “voto popolare” è il risultato in numeri assoluti dei voti degli elettori, che per Trump furono alcuni milioni in meno di quelli della Clinton. Ma negli USA si è eletti con i voti di un ‘collegio elettorale’, ovvero da un organismo di secondo grado che è eletto secondo criteri non proporzionali (in genere, nelle zone rurali, ad esempio, vengono eletti membri del collegio in proporzione inferiori di quelli eletti nelle grandi città).
By mm
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