Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Branko Milanovic e i pensieri ‘insoliti’. Di Marco Marcucci, dicembre 2020.

Branko Milanovic e i pensieri ‘insoliti’

 

 

zzz 65 (2)In questo blog, le prime traduzioni di post di Branko Milanovic sono cominciate nel 2016. Ricordo che la prima curiosità mi venne da alcuni brevi accenni che trovavo in Krugman, il primo dei quali annunciava con soddisfazione la prossima collaborazione dell’economista serbo alla stessa Università della Città di New York nella quale lui lavora.  Il primo gennaio del 2015 seguì un post di Krugman che aveva per oggetto un diagramma di Milanovic poi diventato famoso – il “diagramma dell’elefante” – che illustrava l’andamento della crescita globale del reddito con il profilo di un elefante, con la gobba corrispondente alla crescita dei paesi indo asiatici e, nella discesa, al calo delle classi medie occidentali, e la proboscide lanciata verso l’alto dei super ricchi dell’Occidente (ma non solo). Seguirono poi vari  post di Milanovic, negli anni dal 2016 al 2020; e adesso abbiamo, tradotto in italiano, il suo ultimo libro “Capitalism, alone” (“Capitalismo contro capitalismo”, Laterza, ottobre 2020), che comincia a provocare un giustificato interesse. In Europa, quell’interesse si è evidenziato in una intervista dello stesso economista alla rivista francese “Marianne” (tradotta in questo blog) e, più di recente, in una sua intervista a Repubblica. Sarà pure un dettaglio, ma un segno di quella attenzione lo si trova anche nella copertina della versione inglese del suo ultimo libro, dove raccoglie due riconoscimenti in apparenza disparati come quello di Gordon Brown, passato Primo Ministro laburista del Regno Unito, e di James K. Galbraith, economista di prestigio e in qualche modo al centro del dibattito politico della sinistra americana.

DA ALCUNI POST DI MILANOVIC

La lettura dei post di Milanovic sulle peripezie globali degli ultimi decenni va oltre la sola descrizione della evoluzione della distribuzione globale dei redditi, e sembra voler dare una scossa a molti miti che, pure nel declino del neoliberismo, continuano ad allietarci o a deprimerci. Partiamo, dunque, da alcune di queste scosse che, un po’ alla volta, oltre a sorprendere, evidenziano una trama abbastanza chiara.

Milanovic spazia da una forte curiosità per temi che parevano in disuso della teoria economica e degli economisti classici, alla riflessione sugli episodi della storia che gli sembrano nevralgici ma sottoposti ad un discreta censura, ad una attenzione viva ad alcuni fenomeni della politica mondiale odierna. Nel selezionare quello che più gli preme, sembra guidato da un forte spirito di ‘indipendenza’ dalle mitologie tradizionali degli schieramenti, per quanto sia evidente che si collochi con decisione sul versante di una critica del capitalismo nella sua versione neoliberista. Inoltre, di certo non gli fa difetto un vivo spirito provocatorio, che però si intuisce avere radici più profonde di una semplice inclinazione caratteriale (in taluni post che non ho tradotto, attinenti maggiormente alla sua biografia intellettuale e personale, si ha quasi l’impressione che quelle provocazioni nascano anche dal ricordo, ma non dalla nostalgia,  per storie o parti del mondo che i passati decenni hanno ‘dismesso’).

Non intendo argomentare queste impressioni in modo dettagliato; sarà sufficiente elencare, dai post qua tradotti, alcuni temi principali. Ad esempio, in uno di essi del gennaio del 2018, affronta il tema del diverso approccio degli scienziati dell’economia e della società dell’Ottocento e degli inizi del secolo scorso (cita tra gli altri l’economista inglese John Hobson, un esponente della Repubblica di Weimar come Rudolph Hilferding, Max Weber), “che discutevano le caratteristiche strutturali del capitalismo: le relazioni sociali tra i proprietari dei capitali e i lavoratori salariati, la distribuzione del reddito nazionale tra capitale e lavoro, la formazione delle classi dirigenti della società”, e di quelli più recenti, il dibattito tra i quali appare “dominato dai tentativi di mettere in atto piccole correzioni e di tenere fuori dal tavolo gli interrogativi sulle strutture sistemiche”. A suo giudizio, questo dipende da due cause. La prima “una non considerazione sistematica delle differenze delle posizioni individuali nel processo produttivo: il loro operare, il loro potere e l’ineguaglianza materiale. Gradualmente, il dibattito sulle classi, così saliente nell’economia di un tempo, è scomparso, e tutti gli individui sono semplicemente stati considerati come ‘agenti economici’ che massimizzano la loro utilità nelle condizioni date dei loro patrimoni.” La seconda: “… è stato il trionfalismo che si è diffuso dopo la fine del comunismo. Gli scienziati sociali sono arrivati a credere che il problema fondamentale di come una società umana doveva essere organizzata era stato risolto: in termini politici, la democrazia liberale; in termini economici, il capitalismo. I ricercatori hanno sposato l’idea che la struttura dell’edificio sociale fosse immutabile, e che fossero necessari soltanto piccoli rimedi omeopatici per risolvere i problemi residui.” Il risultato è che temi di prima grandezza come la crescita delle ineguaglianze, la concentrazione del potere economico monopolistico, il dilagare ormai sistemico, soprattutto negli USA, di quel potere nella politica pubblica e la crisi della democrazia, sono sostanzialmente elusi. I teorici di allora, conclude, non ci fornivano “risposte belle e pronte”; “Ma gli scrittori del passato possono aiutarci a comprendere che i problemi che abbiamo di fronte non sono così nuovi o unici. Essi ci offrono anche punti di vista migliori che illuminano meglio i compromessi che affrontiamo nella politica e nell’economia. Ancora più importante, essi possono mostrarci che cosa non dovremmo fare, affinché questa epoca di globalizzazione non finisca come la precedente – nella carneficina della guerra.”

Quanto alle epoche della storia sulle quali, in modo molto energico, sente il bisogno di una rilettura, citerei tre esempi. Il primo è una recensione di una biografia di Hitler di Ian Kershaw, che gli offre lo spunto per avanzare una tesi sulla Seconda Guerra Mondiale come “l’ultima guerra coloniale” (si veda, 9 giugno 2020). Se sembrasse una esagerazione, ciò dipende solo dal fatto si è fatto il possibile – anche se con varie eccezioni – per trascurare la ragione prima che fu alla base del conflitto: la volontà nazista di conquistare ad Est il proprio “spazio vitale” e la conseguente decisione di una guerra “di sterminio” – come, alla vigilia, la definì Hitler per distinguerla con chiarezza dalle guerre sugli altri fronti del nazismo – contro la Russia. Ovvero, la assoluta eccezionalità della guerra sul fronte orientale, per riconoscere la quale basterebbe considerare il numero dei morti, includendo in quel bilancio anche una buona parte dello sterminio degli ebrei nei paesi orientali (gli ebrei orientali erano semplicemente buona parte di coloro che dovevano essere cancellati, giacché in quei paesi era necessaria una distruzione del ‘paesaggio umano’, non era sufficiente una ‘vittoria’ militare. Con la guerra, il razzismo contro gli ebrei fu una sorta di ‘profezia che si autoavvera’; non per caso, la biografia di Kershaw ricorda come Hitler, negli ultimi anni, normalmente definisse il “giudaismo-bolscevismo” come il nemico fondamentale del nazismo).

Una seconda epoca nella quale sente il bisogno di una demistificazione, con il post “Come fu vinta la guerra (fredda)” (21 maggio 2020) – una recensione del libro “Il metodo Giakarta”, di Vincent Bevis – è la sequenza di interventi militari diretti e indiretti da parte degli Stati Uniti nel Terzo Mondo. Lo fa in polemica con una tesi ‘liberatoria’ sulla politica americana che era stata formulata da Obama, in un discorso rivolto alla gioventù europea a Bruxelles del 2014, ricordando i casi dell’Indonesia di Sukarno, del Brasile, del Vietnam, e molti altri. Ricorda: “Di fatto, gli alleati che aiutarono gli Stati Uniti a vincere la Guerra Fredda furono assai diversi da quelli che Obama aveva in mente. Furono una galleria di filibustieri, che abbracciava, a partire dall’Europa, passati nazisti tedeschi e i loro collaboratori nell’Europa Orientale, Franco e i colonnelli greci, Gladio e la Mafia; in Africa, il regime dell’apartheid, Mobutu ed i gendarmi del Katanga; gli squadroni della morte e i latifondisti in America Latina; gli islamisti radicali, i Talebani, e i regimi oppressivi nella regione allargata del Medio Oriente; il regime corrotto e debole nel Sud Vietnam e le dittature dei campi di sterminio asiatici”. Semplicemente per dire che è una bella pretesa dimenticare decenni di storia.

Talora, la curiosità di Milanovic affronta epoche più lontane, verso le quali si sono in apparenza smarrite le ragioni per un confronto con il mondo odierno. Ma anche in quel caso, indaga con acutezza le somiglianze con l’oggi. Ad esempio, nel post del 31 luglio del 2020 (“Il buio che illuminò il mondo”), commenta un piccolo libro di Fernand Braudel,  “Fuori dall’Italia”, che si interroga sulle ragioni per le quali allo straordinario irraggiamento della cultura italiana (ma l’Italia ancora non esisteva, quindi delle varie città-Stato del nostro paese), tra il 1450 ed il 1650, fece seguito il declino del paese tutto intero, dalla metà del diciassettesimo secolo. Secondo Braudel, la causa non fu nello spirito ostile alla cultura ed alla scienza della Controriforma e neppure nella influenza sul capitalismo nascente del Protestantesimo (i protestanti non furono più tolleranti dei cattolici), ma nella conquista del controllo delle rotte atlantiche da parte degli olandesi e poi degli inglesi, e nella finanziarizzazione dell’economia italiana, che anziché dedicarsi allo sviluppo dei settori industriali, mise a frutto la sua ricchezza nei prestiti agli Stati europei.  Osserva Milanovic: “Le somiglianze con le economie pesantemente finanziarizzate ed “esternalizzate” di oggi dell’America del Nord e dell’Europa Occidentale sono lampanti. Braudel non le cita, forse per buon gusto, o forse perché il libro è stato scritto nei primi anni ’80, quando l’economia da roulette dell’Occidente non era così evidente come oggi.”

Ma veniamo a quei post che ho definito rivelatori della ‘indipendenza’ da alcuni luoghi comuni, o talora anche un po’ provocatori , di Milanovic. Un esempio dei primi è il post del 19 novembre 2018 (Emigrazione in Europa: una soluzione a lungo termine?). L’economista serbo osserva il  fatto “che il divario nel PIL procapite tra l’originaria Unione Europea di 15 membri e l’Africa Subsahariana è cresciuto da circa 7 a 1 nel 1980 all’11 a 1 di oggi (questo è il divario ottenuto considerando il livello più basso dei prezzi in Africa; senza di ciò, esso sarebbe persino più grande)”. In termini economici il fenomeno presenta vari aspetti favorevoli per i paesi più ricchi, ma Milanovic è preoccupato per gli aspetti culturali, giacché l’emigrazione “può essere considerata una sottrazione dal loro punto di vista culturale se i tratti culturali sono a rischio a seguito della mancanza di assimilazione degli emigrati o della indisponibilità ad accettare regole nazionali” e afferma che “Questo argomento non dovrebbe essere confuso con il razzismo o la xenofobia come tali. Ad esso dovrebbe essere riconosciuta l’importanza che merita”. Che si concordi o meno con tale preoccupazione, si deve almeno registrare che tutto indica che il fenomeno è destinato ad avere dimensioni sempre maggiori: “Nel 1980, l’UE-15 aveva più abitanti dell’Africa al sud del Sahara; oggi l’Africa a sud del Sahara ha abitanti pari a due volte e mezza. Nelle prossime due generazioni, l’Africa Subsahariana dovrebbe raggiungere i due miliardi e mezzo di persone, cinque volte quelle dell’Europa Occidentale. È completamente irrealistico pensare che tali ampi divari di reddito (in una direzione) e di popolazione (nella direzione opposta) possano persistere senza dar vita ad una pressione migratoria fortissima”. In sostanza, egli reclama che ci si misuri con tali enormi dimensioni del problema, che richiedono politiche straordinarie di integrazione – e forse anche modelli ‘circolari’, di immigrazioni per periodi limitati di tempo – e comunque non sopportano che lo si riduca solo ad un argomento morale. In poche parole: se le identità delle società devono in parte mostrare le traiettorie lungo le quali esse intendono svilupparsi, è necessario che le società europee ed africane condividano una sorta di compromesso sul loro futuro reciproco.

Più apertamente ‘provocatori’ due suoi interventi sull’astro nascente di Trump, e poi, dopo le elezioni recenti, sull’astro caduto (“Trump come l’ultimo trionfo del neoliberismo”, del 7 aprile 2020 e “Quello che dobbiamo a Donald Trump”, del 7 novembre 2020). In entrambi, egli sembra rivolgersi contemporaneamente alla destra  e ai progressisti degli Stati Uniti, e forse ai secondi più ancora che ai primi. Nel primo, egli sembra irritato dalla diagnosi tra l’incerto e lo stupefatto del trumpismo da parte della sinistra mondiale, concentrandosi sulla sua inevitabilità, sul suo essere un fenomeno semplicemente necessario di un neoliberismo che ha anzitutto rotto ogni diaframma tra potere economico e potere politico. Trump è semplicemente il Presidente che ha considerato i suoi concittadini come ‘dipendenti’: “Il neoliberismo ha giustificato e promosso l’introduzione di principi puramente economici e gerarchici nella vita politica. Mentre manteneva la pretesa di eguaglianza (una persona, un voto), la erodeva attraverso la capacità del ricco di selezionare, finanziare e far eleggere i politici ben disposti verso i loro interessi”. E ancora: “Sino a che Trump non è arrivato al potere l’invasione dello spazio politico dalle regole di condotta economiche era tenuta segreta. C’era una finzione secondo la quale i politici trattavano le persone come cittadini. La bolla è stata fatta esplodere da Trump che, non istruito nelle sottigliezze della dialettica democratica, non poteva capire che ci fosse qualcosa di sbagliato nella applicazione delle regole dell’impresa alla politica. Provenendo dal settore privato, e dal suo settore maggiormente incline alla pirateria che fa affari con i patrimoni immobiliari, le scommesse e i concorsi di bellezza, pensava giustamente – sostenuto dalla ideologia neoliberista – che lo spazio della politica fosse una mera estensione di quello dell’economia”.

Peraltro, in un altro scritto, nel quale si chiedeva se la posta in gioco delle elezioni non fosse un ‘ritorno alla normalità’ (del 19 0ttobre 2020), dopo aver ricordato la sua allergia al termine “normalità” che gli ricordava la “normalizzazione cecoslovacca” del 1968, si chiede “quale normalità?”.  E rammenta: “È utile rinfrescare i nostri ricordi. Sotto George W. Bush, gli Stati Uniti generarono guerre infinite che destabilizzarono il Medio Oriente e uccisero, secondo alcune stime, mezzo milione di persone. Sotto lo stesso Presidente, produssero anche la più grande crisi economica dalla Grande Depressione. E poi, con il Presidente successivo, misero in salvo coloro che erano i responsabili della crisi, seminarono il caos in Libia ed ignorarono la decimazione della classe media americana”. Se si rammentano vari scritti nei quali il suo “collega” al CUNY Paul Krugman – che è pure un rappresentante del centro sinistra americano più consapevole dei misfatti americani – si riferisce a tale storia, pur tuttavia con una certa ‘leggerezza’, la brutalità di questa sintesi appare forse come una presa di distanza.

La provocazione, poi, in un certo senso esplode nell’ultimo post su “Quello che dobbiamo a Trump”. Sì, spiega Milanovic, con Trump siamo anche in debito: lo siamo, appunto, per la chiarezza con la quale ci ha ricordato  le nefandezze almeno di un parte del capitalismo americano. “Trump ha strappato via la tenda che separa i cittadini, gli spettatori del gioco politico, dai governanti ed ha messo in mostra  gli affarismi, gli scambi di favori, l’uso del potere pubblico per vantaggi personali in un modo aperto, davanti alla vostra faccia, a disposizione di tutti coloro che seguivano lo spettacolo che andava in onda. Mentre nelle passate amministrazioni tali iniziative illegali e semilegali, come il ricevere soldi da potentati stranieri, lo spostarsi dall’una all’altra collocazione lucrativa, l’ingannare sulle tasse venivano fatti con discrezione e con qualche decoro, con le tende abbassate in modo tale che gli spettatori potessero non vedere e non partecipare alle malefatte, tutto questo ora è stato fatto apertamente. È stato dunque grazie a Trump che abbiamo potuto osservare l’immensa corruzione che si trova a cuore del processo politico”. E conclude: “La sua persona ha rivelato la profondità della corruzione al centro della politica e al centro delle imprese. Questi sono peccati imperdonabili. I peccati goduti in segreto sono accettabili o trascurati; i peccati sbandierati non lo sono. Coloro che lo sostituiscono faranno del loro meglio, non per cambiare tutto ciò perché è diventato una caratteristica del sistema, ma per mascherarlo. Ma una volta che si vede la verità è difficile tornare indietro fingendo che non sia successo niente”. Ma, prima delle conclusione, ci aveva anche offerto un altro passaggio “breathbreaking” (“mozzafiato”): l’ammissione che almeno su un aspetto egli aveva convenuto con Trump: nientemeno che con l’idea della “America First”. Un pensiero apparentemente paradossale, anche se egli intende apprezzare non tanto le spacconate trumpiane sulle guerre commerciali, quanto il “moderato isolazionismo” del Presidente passato. In sostanza, è di nuovo evidente che Milanovic ha soprattutto il mente l’America anche ‘democratica’ del lungo dopoguerra: “la ‘nazione indispensabile’ [che] richiede, quasi per definizione, secondo l’espressione di Gore Vidal, ‘guerre interminabili per una pace senza fine’. Non è per un qualche caso che l’America sia stata praticamente senza interruzioni in guerra per ottanta anni”. Trump, sembra di capire, alla fine ha almeno sospeso, quella lunga storia di guerre attribuibili alla intera classe dirigente statunitense; guerre che proseguono quando si è quasi dimenticato per quale ragione iniziarono, in una ambientazione che secondo Milanovic ricorda vagamente “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati.

Dunque: una sensibilità viva e spesso aspra, che lo spinge a contrastare i vari miti che sono stati in pratica ‘messi di guardia’ al secolo americano, e al tempo stesso una idiosincrasia verso le ‘mezze ammissioni’ che, nel campo democratico, impediscono una lettura completa delle relazioni tra i modi nei quali si è sviluppato il capitalismo occidentale e le forme odierne della politica (e che spiegano, per inciso, perché sia stato così semplice che il campo democratico prima si innamorasse del neoliberismo, per poi allontanarsene senza spiegazioni sufficienti, abbastanza furtivamente). Ebbene, tutti questi spunti, divengono più chiari con il suo libro recente.

IL LIBRO “CAPITALISMO CONTRO CAPITALISMO”.

Il capitalismo liberal-meritocratico

In effetti, se i post sono i pensieri istantanei della sensibilità politica del Milanovic e delle sue letture di libri altrui, il nuovo lavoro è una sistemazione del sua ricerca di base come “Maestro delle statistiche” (il complimento viene da Galbraith) e i pensieri ‘insoliti’ riguardano intuizioni profonde sulle strade aperte della contemporaneità.

Milanovic deriva il termine ‘capitalismo liberal-meritocratico’ da John Rawls, che definiva in Una teoria della giustizia (1971) diverse forme di eguaglianza: meritocratica quella di un sistema “in cui le carriere sono ‘aperte ai talenti’”, e liberale quella più egualitaria, “che compensa, in parte, l’ereditarietà della proprietà imponendo tasse di successione elevate”. Assume come emblematico il caso degli Stati Uniti, pur essendo il capitalismo americano più meritocratico e meno liberale dei capitalismi europei. A pagina 17 egli formula una graduatoria dei vari tipi di capitalismo occidentale (quello classico, del Regno Unito prima del 1914; quello socialdemocratico, caratteristico degli Stati Uniti e dell’Europa prima del 1945; quello liberal-meritocratico, assimilato agli Stati Uniti agli inizi di questo XXI secolo).

La tabella si basa su diversi fattori usati come metri di misura delle diverse società. Alcuni di questi metri di misura sono presenti in modo analogo in tutte le forme di capitalismo occidentale; altri non lo sono. Ovvero, secondo i parametri che egli indica per la definizione dei livelli di ineguaglianza, l’Occidente ha avuto diversi tipi di capitalismo, diversità che sono diventate particolarmente evidenti in questi ultimi due decenni. La individuazione di questi metri di misura apre una riflessione di notevole rilievo.

Vorrei però premettere un dubbio, che può riguardare le persone comuni come il sottoscritto. A me pare che, se forse cominciamo a comprendere che il tema delle ineguaglianze segna in modo profondo una caratteristica di fondo delle società contemporanee, è pur vero che consideravamo l’ineguaglianza come una condizione necessaria nella società capitalistica. Dunque, parliamo sempre più di ineguaglianze ma forse non comprendiamo esattamente in  che senso sarebbero una novità, né perché starebbero diventando talmente accentuate. Anzi, siamo portati a ritenere che la storia sociale dell’Occidente e dei suoi rapporti con il resto del mondo sia stata la storia di una lungo tentativo di emancipazione dall’ineguaglianza; il fatto che si affermino potenti ‘nuovi capitalismi’ in aree del mondo che giudicavamo povere, non ci spinge in quella direzione?  Per non dire che, in un certo senso, è come se esistesse una asimmetria tra le ineguaglianze materiali e la coscienza delle ineguaglianze nella comune sensibilità politica, che peraltro spiega il fenomeno del successo delle politiche populistiche.

Ebbene, la prima cosa da comprendere è che le ineguaglianze che interessano principalmente Milanovic sono diverse; lo interessano aspetti meno discussi e più profondi, che di solito non sono, né facilmente possono essere, oggetto della critica e delle lotte sociali e che, pur tuttavia, indicano il progressivo mutamento delle nostre società verso moderne aristocrazie delle classi dominanti. I principali sono i seguenti: la quota di reddito che cresce dalla fine del XX secolo a favore dei redditi da capitale rispetto ai redditi da lavoro; il fatto che i più ricchi si appropriano di quantità crescenti non solo dei redditi da capitale, che sono sempre più concentrati, ma anche dei redditi da lavoro, che sono diventati un’area importante della crescente ricchezza dei più ricchi; i matrimoni ‘omogami’, o ‘assortativi’ (definizione su Treccani di ‘accoppiamento assortativo’: “In zoologia, detto di quel tipo particolare di riproduzione sessuale per cui l’accoppiamento tra individui di sesso diverso avviene in modo non casuale ma secondo una spiccata preferenza verso particolari individui”); la ricchezza, e il livello di istruzione, ereditati dai figli di genitori ricchi.

La crescita dei redditi da capitale. Quanto al primo aspetto, esso significa che il riparto dei redditi tra capitale e lavoro non è affatto statico, come si riteneva un tempo; Piketty per primo ha mostrato, ad esempio, che in Francia e nel Regno Unito la quota del capitale ha oscillato, a seconda delle varie epoche, tra il 15/20 per cento ed il 40/45 per cento. Le percentuali più basse hanno caratterizzato la situazione europea durante la Seconda Guerra Mondiale; le più alte nel capitalismo ottocentesco e nel capitalismo contemporaneo. Il capitalismo non è staticamente ineguale: diventa molto più eguale nelle guerre, nelle rivoluzioni e magari nei dopoguerra, diventa massimamente ineguale nei periodi pacifici e caratterizzati da forte crescita, globalità e ‘potere di mercato’.

Tra le ragioni, si deve considerare in particolare la concentrazione della proprietà del capitale. Osserva Milanovic: “La ricchezza è sempre stata più concentrata (cioè non equamente distribuita) rispetto al reddito. È praticamente un’ovvietà: la distribuzione della ricchezza è il prodotto della accumulazione nel tempo …”.  Ora: i guadagni resi possibili dal possesso di titoli azionari o di fondi fiduciari sono redditi da capitale che hanno una semplice caratteristica: sono assolutamente appannaggio dei più ricchi. Il 10 per cento dei più ricchi, negli Stati Uniti, nel 2013 possedeva il 90 per cento di tutte le attività finanziarie. L’indice di diseguaglianza dei redditi da capitale – il cosiddetto coefficiente di Gini[1] del reddito da capitale – è superiore allo 0,9 (se fosse pari ad 1, vorrebbe dire che tutto il reddito da capitale sarebbe “riconducibile ad un individuo o ad una famiglia”), e tale coefficiente è del tutto simile in Germania, nel Regno Unito e solo lievemente inferiore in Norvegia (pag. 31-32). Le classi medie, ovviamente, hanno anch’esse ricchezza, ma la loro ricchezza si concentra soprattutto nel possesso di abitazioni.

I molto ricchi e i solo benestanti hanno due tipi di ricchezza completamente diversi: “nel 2013 circa il 20 per cento della famiglie degli Stati Uniti aveva una ricchezza netta pari a zero o negativa, mentre il 60 per cento della fascia intermedia aveva i due terzi del patrimonio immobilizzati nella casa e il 16 per cento impegnato nei fondi pensione” (pagg. 35-36). “Ma se guardiamo il 20 per cento della popolazione nella fascia più alta, la composizione della ricchezza cambia: il patrimonio è costituito perlopiù da azioni e da strumenti finanziari”. Se poi si sale agli straricchi, ovvero all’1 per cento della popolazione, la ricchezza in prodotti finanziari diventa i due terzi del patrimonio, mentre quella legata al possesso di immobili scende al 10 per cento.

Si deve, però, considerare la differenza radicale tra questi diversi tipi di ricchezza. Nel corso del trentennio 1983-2013 “Il rendimento medio reale annuale della attività finanziarie (tenuto conto dell’inflazione) è stato del 6,3 per cento, mentre il rendimento medio reale delle abitazioni è stato appena dello 0,6 per cento”. Ovvero, la ricchezza dei ricchi cresce – si direbbe in questi tempi di linguaggio pandemico – in modo esponenziale; quella dei poveri non esiste né è destinata ad esistere; quella dei ceti medi ha un andamento piatto. Per finire su questo punto, tornando ai coefficienti Gini dei redditi del capitale e del lavoro,mentre i primi, come si è visto, si collocano attorno a 0,9, i secondi si collocano, comprensibilmente, tra lo 0,4 e lo 0,5. Ma, come notiamo subito, anche i redditi da lavoro riservano notevoli sorprese.

L’evoluzione nei redditi da lavoro. Spiega Milanovic: “Una caratteristica unica e nettamente diversa del capitalismo liberal-meritocratico rispetto alla sua forma classica è la presenza di persone con un alto reddito da lavoro nel decile o nel percentile superiore [ovvero nel 10 per cento o nell’1 per cento dei più ricchi] e, cosa ancora più interessante, la quota crescente di popolazione che detiene sia un alto reddito da lavoro sia un alto reddito da capitale”.  In pratica, nel 1980 solo il 15 per cento delle persone nel primo decile per reddito da capitale si trovavano anche nel primo decile del reddito da lavoro, e viceversa. Solo negli ultimi 37 anni, questa percentuale è raddoppiata. Oggi è frequente che i capitalisti più ricchi siano anche i ‘salariati’ più ricchi. Ovviamente, non è il caso che si pensi ad una rivoluzione nei salari passata inosservata: i salari ordinari dei lavoratori comuni sono rimasti fermi o sono diminuiti; sono invece diventate più frequenti le retribuzioni elevatissime di persone già molto ricche di capitali, o che comunque svolgono attività professionali fortemente remunerate e tramite quelle attività divengono anche ricchi possessori di capitali. Nelle società di capitalismo liberal-meritocratico odierne, i ricchi hanno i redditi da capitale più concentrati, ma hanno anche redditi da lavoro elevatissimi, nei medesimi individui. In pratica è come se almeno una versione della mobilità sociale funzionasse egregiamente; ma non è una mobilità verso l’alto (come si vedrà subito) e neanche verso il basso. È una mobilità che opera nella direzione di occupare tutti gli spazi ‘laterali’ possibili della ricchezza. Forse sarebbe utile disporre di casistiche precise, ma non pare che esistano. Si può pensare a proprietari di imprese che sono anche retribuiti per attività che svolgono in esse, oppure che hanno costruito imprese sulla base della loro iniziale competenza tecnica (che pare essere la caratteristica di molti magnati del settore delle tecnologie dell’informazione); a persone dotate di competenze di alto livello particolarmente apprezzate e a professionisti capaci comunque di remunerazioni stratosferiche, in condizioni praticamente monopolistiche, che con il tempo utilizzano i loro guadagni per affermarsi anche come possessori di capitali. Però si sa che i redditi di tutti costoro sono raddoppiati in pochi decenni e, naturalmente, che questo ha rafforzato la tendenza a installare ai punti più alti della società una sorta di aristocrazia più solida che nel passato: questa forma particolare di mobilità, non esisteva nel capitalismo dell’ottocento e degli inizi del novecento, e non esisteva neppure nelle epoche socialdemocratiche del capitalismo.

I redditi derivanti da ‘buoni’ matrimoni e dall’avere i genitori giusti. I matrimoni “assortativi”, ovvero i matrimoni tra soggetti della stessa classe sociale, e i meccanismi del trasferimento generazionale dei patrimoni ma anche di una elevata istruzione, sono i fenomeni che più chiaramente indicano come i meccanismi della mobilità sociale verso l’alto siano sempre più inceppati. Ed anche in questo caso, Milanovic porta prove incontrovertibili.  Nel caso dell’America, nel 1970 il 13 per cento degli americani del primo decile della distribuzione del reddito che si sposavano tra i venti e i trentacinque anni, sposavano donne del primo decile; questa percentuale era salita nel 2017 a quasi il 29 per cento. Poiché nel 1970 la probabilità di matrimoni con americane dei decili inferiori era del 13,4 per cento ed è nel 2017 scesa a meno dell’11 per cento, l’omogamia è praticamente triplicata in pochi decenni. Dietro questi dati c’è una vasta attività di ricerca, almeno per gli Stati Uniti. Alcuni autori, ad esempio, hanno scoperto che circa un terzo dell’aumento delle diseguaglianza tra il 1967 ed il 2007 può essere spiegato con l’accoppiamento assortativo; i matrimoni sono un luogo sociale che agisce potentemente nel senso di un rafforzamento dei meccanismi di una società plutocratica.

Ovviamente, agiscono in quel senso anche le forti riduzioni delle tasse sulle successioni ereditarie, che perlopiù sono avvenute nella forma di un grande ampliamento delle quote esenti, ovvero di un drastico innalzamento del livello al quale le successioni non vengono tassate.   “Negli Stati Uniti la quota esente era di 675.000 dollari nel 2001, ma è stata portata a 5,49 milioni di dollari nel 2017” (pag. 56). Per comprendere quanto queste evoluzioni cambino lo stato sociale, il libro cita una ricerca che ha messo in evidenza che le entrate derivanti dalle tasse sulle successioni e sulle donazioni nel 2001 coprivano 14 volte il costi dei programmi governativi alimentari alle famiglie bisognose; nel 2011 ne coprivano solo due terzi.

Oppure, un dato per tutti relativo a come si inceppano i meccanismi della mobilità tra le generazioni attraverso la selettività nell’istruzione. “Nei primi trentotto college e università degli Stati Uniti, sono più numerosi gli studenti appartenenti all’1 per cento più ricco di quelli che si collocano nel 60 per cento più basso della scala dei redditi. Supponendo che il numero dei figli per famiglia sia più o meno lo stesso nelle famiglie ricche e in quelle meno abbienti, ciò significa che la possibilità di frequentare le scuole migliori è per i ragazzi nati in famiglie molto ricche circa sessanta volte superiore a quella dei nati non solo nelle famiglie povere, ma in quelle di ceto medio”. In sostanza, le scuole che preparano alle carriere destinate a garantire accessi ad una molto elevata distribuzione dei redditi da lavoro (la novità del capitalismo odierno che abbiamo sopra citato da Milanovic come uno dei tratti distintivi della contemporaneità) sono praticamente riservate anzitutto ai figli dei più ricchi. La potenza finanziaria di questi istituti, probabilmente è anche la ragione che consente l’accesso gratuito ad essi di un certo numero dei figli di famiglie non particolarmente abbienti dal resto del mondo, ovvero di intercettare spesso, oltre ai figli dei ricchi, una parte essenziale delle intelligenze migliori.

Naturalmente, Milanovic conclude questo capitolo sulle caratteristiche del capitalismo liberal-meritocratico con varie pagine dedicate ai possibili processi di riforma, per i quali rimandiamo alla lettura delle pagine 48-75. Quello che mi premeva era mettere in particolare evidenza la risposta di Milanovic alla domanda che mi ero posto all’inizio: in che senso il tema dell’ineguaglianza ha assunto una enorme importanza, al punto da mostrare una tendenza chiarissima nelle società odierne, quella che gli studiosi chiamano “riproduzione plutocratica”. È possibile che una parte di quei fenomeni abbiano un rilievo attenuato in Europa, anche se vari tra essi appaiono abbastanza simili. Ma all’economista serbo premeva anzitutto, come scrive esplicitamente, un ragionamento “idealtipico”, ovvero una descrizione di un modello che alla fine potrebbe non risultare né unico né vincente in Occidente, ma che almeno nei decenni passati è chiaramente prevalso. Quello che è certo, è che egli ci fornisce una chiave di lettura di quello che normalmente non è facile da comprendere della politica americana: il feroce classismo dei conservatori, le ragioni per le quali ha prevalso per vari anni e conserva un seguito notevole la politica paranoide di Trump, il dilagare del potere economico nella occupazione del potere politico, la difficile scommessa del rinnovamento promesso da Biden. In pratica, quel modello riflette una società nuova, che forse stentiamo a riconoscere e che di sicuro contiene anche tratti che interessano presente e futuro delle nostre società.

IL CAPITALISMO “POLITICO”.

Nella seconda parte del libro, Milanovic esamina le caratteristiche dell’ “altro” capitalismo, quello dell’idealtipo cinese, che definisce “capitalismo politico”. È una definizione che lascia sulle prime assai perplessi, per la sua apparente genericità. In che senso la ‘politica’ sarebbe una distinzione del capitalismo asiatico? In realtà, un po’ alla volta si comprende che quella definizione ha un significato sostanziale e preciso, che si riferisce a due versanti di quella ‘politicità’: quello della storia e delle origini, e quello delle caratteristiche attuali. Torneremo subito a entrambi.

Anzitutto però, per inquadrare le dimensioni del fenomeno, occorre mettersi bene in testa la velocità del processo con il quale questo secondo capitalismo ha più che eguagliato il primo. “Nel 1970 il 56 per cento della produzione globale si concentrava in Occidente, contro il 19 per cento dell’Asia (Giappone compreso). Oggi le proporzioni si sono invertite,con il 37 per cento contro il 43 per cento” (pag. 12). Un diagramma mostra le dimensioni e la rapidità di questo processo nei rapporti diretti tra Stati Uniti e Cina:

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E occorre anche rammentare che, nella storia lunga, questa non è una novità eccezionale, ma semmai un ritorno ai rapporti tra Occidente e Oriente che resisterono, ben oltre la rivoluzione industriale, sino a che il colonialismo e la superiorità militare del primo, a partire dalle Guerre dell’oppio della metà del diciannovesimo secolo, in pratica bloccò l’evoluzione economica della Cina. In questo senso è utilissima questa seconda tabella, che traggo da un libro di Giovanni Arrighi del 2007 (“Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli):

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Ovvero, la Cina uscì dalla storia dei mercati globali, nella quale aveva avuto un ruolo dominante, quando venne smembrata dal colonialismo europeo e il Giappone divenne il ‘cane da guardia’ dell’ordine occidentale in Asia, e tutto fa ritenere che in sostanza, dopo due secoli, essa stia rioccupando il suo posto nel mondo. (L’unica obiezione, ovviamente inconsistente, a questa interpretazione è quella di Mike Pompeo, il Segretario agli Esteri di Trump, evangelico militante, che ritiene si tratti di un complotto satanico.)

Veniamo dunque al primo significato di ‘politico’, che si riferisce precisamente al ruolo che la politica ebbe alle origini della storia contemporanea di quei paesi. Come essi, e in particolare la Cina, siano rientrati in modi non subalterni della storia del mondo, è spiegato in una ventina di pagine (85 e seguenti), che sono forse le più sorprendenti del libro e riguardano la sua interpretazione  del ruolo dei movimenti comunisti nella storia di quei paesi. Infatti, ci si avvicina ad una comprensione del concetto di ‘capitalismo politico’ con il ragionamento introduttivo che Milanovic offre sul ruolo storico di quei movimenti: “E’ proprio nella storia dimenticata del Terzo Mondo che troveremo il ruolo storico del comunismo nella storia globale. Fornirò argomenti utili a dimostrare che il comunismo è una sistema sociale che ha permesso alle società arretrate e colonizzate di abolire il feudalesimo, di riconquistare l’indipendenza economica e politica e di costruire il capitalismo indigeno. In altre parole, è stato un sistema di transizione dal feudalesimo al capitalismo utilizzato nelle società meno sviluppate e colonizzate. Il comunismo è l’equivalente funzionale dell’ascesa della borghesia in Occidente”. Quindi, anzitutto con “politico” egli intende un capitalismo che non si è affermato né solo né principalmente attraverso una storia economica; il “primo ponte” è stato praticamente l‘ideologia e la politica, che hanno prima consentito uscire dal feudalesimo e di costruire, o di ricostruire, l’indipendenza nazionale che si era persa sulla metà dell’Ottocento nelle guerre e nel colonialismo, e che hanno poi accompagnato decenni di storia caratterizzati dalla sperimentazione, un po’ alla volta fallita e dismessa, di modi di produzione basati sulla quasi totale esclusione della proprietà privata. Il passaggio al capitalismo, e prima di esso alla effettiva indipendenza come nazione, è avvenuto per il tramite della politica, che il quel senso ha avuto precisamente il ruolo di ‘levatrice’ che Marx ed Engels attribuivano esclusivamente alle borghesie nazionali dell’Occidente (nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 essi scrivevano: “In una parola, [la borghesia] si crea un mondo a propria immagine e somiglianza”).

[Ci si può chiedere da dove abbia tratto Milanovic, diciamo così, l’ardimento per collocare al centro delle sue riflessioni addirittura una ridefinizione di una parte importante del secolo passato? Probabilmente dal semplice fatto che non disponiamo di una ‘spiegazione’ sensata del comunismo, che è rimasto un luogo della storia tutt’altro che spiegato. Nelle pagine precedenti quella affermazione, in effetti Milanovic aveva affrontato quel tema, con una argomentazione che aveva involontariamente talora effetti persino comici. Egli definisce “particolarmente difficoltoso” per il pensiero marxista il tema della collocazione del comunismo nella storia, dovendosi spiegare perché dal socialismo si sia ritransitati “ufficialmente” nel capitalismo – come il Russia o nell’Europa dell’Est – o in un capitalismo de facto – come in Cina e in Vietnam. Ma osserva che, d’altro canto, il pensiero liberale ha un problema non minore, nel non riuscire a spiegare perché il sistema che alla fine è stato consacrato come la “retta via” (Fukuyama), fosse incappato in successione nelle due guerre mondiali  più sanguinose della storia umana, che peraltro erano state le premessa della affermazione dei sistemi comunisti. “La teoria liberale tende così a ignorare in toto il secolo breve e ad andare direttamente dal 1914 alla caduta del Muro di Berlino, come se tra questi due momenti non fosse accaduto nulla”. Una spiegazione pretende virtù progressive che non hanno retto in alcun luogo, un’altra si basa su una teoria dei peccati che non spiegano come si siano prodotti i peccati principali del secolo passato: i paradossi delle due spiegazioni più accreditate della storia del ventesimo secolo, spingono Milanovic a non avere alcuna esitazione nel proporne una completamente nuova.]

Si chiede poi Milanovic: ma la Cina è effettivamente capitalista? A questo proposito ci fornisce alcune informazioni che, in mezzo a tanto frastuono, non avevamo mai letto altrove. “Prima del 1978, la quota della produzione industriale facente capo alle imprese statali (Soe) in Cina era vicina al 100 per cento, poiché le industrie erano per la maggior parte di proprietà dello Stato … Nel 1998, la quota dello Stato nella produzione industriale si era già dimezzata fino a poco più del 50 per cento … Da allora, anno dopo anno, è costantemente diminuita, e oggi è di poco superiore al 20 per cento” (pag. 98). Inoltre “le imprese private non sono solo numerose, ma anche grandi. La quota di aziende private che si colloca nell’1 per cento superiore per valore aggiunto totale è passata da circa il 40 per cento nel 1998 al 65 per cento nel 2007”.  Osserva Milanovic che il ruolo dello Stato nel PIL totale è improbabile che superi il 20 per cento, “mentre la forza lavoro impiegata nelle imprese statali e collettive è pari al 9 per cento dell’occupazione rurale e urbana totale”. In pratica, una percentuale simile a quella della Francia nei primi anni ’80 (pag. 100).

La Cina è dunque, capitalistica, almeno nel senso della proprietà privata dei mezzi di produzione (si noti per inciso che Milanovic include nella categoria del “capitalismo politico”, oltre alla Cina e al Vietnam, un’altra decina di paesi dell’Asia ed anche dell’Africa, con storie diverse, caratterizzati tutti da sistemi ‘a partito unico al potere’, ma non tutti caratterizzati da un passato comunista, mentre ormai considera su un altro registro i paesi ex socialisti dell’Europa Orientale). C’è però il secondo aspetto di quella ‘politicità’ che è assai più complesso da definire, quello relativo al presente. Il tratto di ‘politicità’ che caratterizza oggi il capitalismo dei paesi asiatici che hanno avuto indiscutibile successo – e che pare consentire loro di evitare la liquidazione delle loro istituzioni politiche che ha invece caratterizzato i passati paesi socialisti europei – è oggetto di una esauriente analisi. Milanovic considera alcune caratteristiche principali, che nel loro insieme pare però rimandino soprattutto ad una caratteristica di fondo: uno “sviluppo naturale del mercato … dove gli interessi dei capitalisti non possono mai regnare sovrani e lo Stato mantiene una significativa autonomia per seguire le politiche di interesse nazionale e, se necessario, moderare il settore privato”.

In sostanza, si tratterebbe di società nelle quali le nuove classi capitaliste possono “essere più una ‘classe a sé’ che una ‘classe per sé’, rispetto all’analogo gruppo occidentale, perché il ruolo dello Stato e della burocrazia statale è più rilevante nel capitalismo politico che non in quello liberale. Lo scarso peso politico dei capitalisti ricalca aspetti della struttura sociale nella Cina medioevale. Secondo Jacques Gernet (1959) i ricchi mercanti nella Cina dei Song non riuscirono mai a creare una ‘classe’ cosciente di sé e con interessi comuni perché lo Stato era sempre era sempre pronto a controllare il loro potere o qualsiasi fonte di potere rivale” (pag. 118). Quindi: società che cercano di restare immuni da un dilagare nel predominio nelle funzioni statali delle classi capitalistiche, e si affidano per evitarlo – sulla base forse anche di una loro storia antica – a burocrazie efficienti e competenti, indubbiamente scelte sulla base del merito, ma al tempo stesso scelte – e favorite, in quanto massime beneficiarie del sistema – anche sulla base di regimi autoritari e di una relativa flessibilità sul ruolo di “comando delle leggi” (ovvero, sullo Stato di diritto). Ovvero, anche di fenomeni di corruzione che si combattono apertamente per contenerli entro limiti non irragionevoli, ma che sono impliciti nella assenza di uno Stato di diritto.

Dunque, i due capitalismi, secondo Milanovic, sono segnati da contraddizioni evidenti seppure molto diverse: la tendenza dei ceti più ricchi ad estendere il proprio dominio in forme difficili da controllare nel modello statunitense, sino a mettere in crisi vari ‘luoghi comuni’ della democrazia (la crescita illimitata del potere monopolistico, l’ideologismo forsennato nella politica sino al rifiuto della scienza, l’uso fazioso dello Stato nel contrasto degli interessi sociali e politici, la accentuazione di tutti i rischi della convivenza derivanti dalla sopraffazione sociale ed anche razzistica; cioè gli ingredienti del trumpismo); viceversa, nel modello cinese, la tendenza a mantenere sotto controllo questa ascesa dei capitalisti a classe dominante, facendo leva sul ruolo dello Stato ed anche su metodi autoritari, con il rischio di impoverire la società e di impedirle di reggere il passo con i bisogni, che comunque crescono, di creatività, di cultura, di autonomia e di convivenza decentemente libera. Se questa caratterizzazione sembra dare una risposta persuasiva a varie domande (la prima delle quali, in fondo, riguarda le dimensioni stesse della crescente ‘rimonta’ dell’Asia), al tempo stesso ne solleva molte altre.

In effetti le domande si affollano: se anche con il capitalismo ‘politico’ crescono le ineguaglianze, cosa mette al riparo quei paesi da una evoluzione, in fin dei conti, non dissimile dall’altro capitalismo? Oppure, affidarsi ad un ruolo prevalente dello Stato e della burocrazia statale non comporta inevitabilmente i fenomeni di una esagerata diffusione della corruzione? Ed anche: cosa significano le ricorrenti campagne dello Stato contro la corruzione in Cina? Peraltro, non è sorprendente che esse siano così aperte, non sottoposte a censura ma quasi enfatizzate, e che spesso si concludano con pene severe, sia a dirigenti politici che a imprenditori? Pare quasi che un regime che adopera normalmente la censura, non abbia particolare timore ad ammettere che la corruzione sia uno dei suoi problemi principali, anziché considerarla un tema massimamente da censurare, come in fondo avveniva nelle società socialiste. Ma come può funzionare meglio un sistema che misura i risultati più che negli effetti sul mercato, nella loro corrispondenza alle direttive di un partito-unico?

Seguire le spiegazioni e le risposte che offre Milanovic a queste domande (pagine 110/140) non mi è possibile; francamente sarebbe troppo lungo e complicato. Vorrei, però, con una semplificazione estrema, proporre un provvisorio ragionamento finale, che in buona misura derivo ovviamente da Milanovic stesso. Dinanzi a queste domande si aprono, in fondo, due diverse prospettive. La prima è semplicemente quella di riadattare la interpretazione da ‘fine della storia’ che era stata offerta da Fukuyama con il crollo dell’URSS e dei paesi socialisti europei. Saremmo, in pratica, semplicemente ad una riedizione – in una sorta di fastidioso processo di appello – del necessario fallimento di tutto quello che non si basa sui modelli istituzionali occidentali. Con due rilevanti complicazioni: che quel fallimento non pare si materializzi, perché semmai con i successi economici cinesi degli ultimi decenni sembra vero il contrario; che forti insidie a quei modelli istituzionali si manifestano anche in Occidente. In realtà, le nostre democrazie non sembrano un esito, sembrano piuttosto oppresse da una necessità profonda di cambiamento, dinanzi pressoché a tutte le difficoltà che abbiamo constatato nell’epoca recente (crisi finanziaria del 2008, cambiamento del clima, contraccolpi della globalizzazione, pandemia, polarizzazione nella politica statunitense). In pratica, questa sarebbe una ‘fine della storia’ tutt’altro che accertata, semmai ‘desiderata’ e con prove sempre più scarse.

L’altra prospettiva consiste nel considerare le diverse storie e culture del mondo con maggiore obiettività, imparando a riconoscere in qualche modo la loro ‘necessità’. Mi pare sia implicitamente quello che fa Milanovic, in particolare manifestando forte e genuino interesse (pag. 126/129) verso le idee che l’economista Giovanni Arrighi aveva esposto nel suo libro “Adam Smith a Pechino” (Feltrinelli, 2007), dal quale ho tratto la precedente statistica.  Giovanni Arrighi è, tra i pensatori di questa epoca, un fenomeno fuori dall’ordinario: italiano, ricercatore in Africa, ha poi interloquito con alcuni massimi studiosi dell’economia globale e del colonialismo e, alla fine, ha collaborato con Immanuel Wallerstein al Centro Fernand Braudel di New York e insegnato in Università americane; ha scritto opere opere pubblicate in quindici lingue, è rimasto quasi ignorato in patria ed è purtroppo scomparso nel 2007 a Baltimora. Ancora  James K. Galbraith, come si legge in una traduzione dell’aprile del 2019 (“Il grande regolamento dei conti del capitalismo”) pubblicata in questo blog, citava la interpretazione di Arrighi della storia degli ultimi secoli della Cina, in opposizione alla vocazione ‘predatoria’ del capitalismo occidentale, come un contributo unico.

Cosa sosteneva Arrighi, o meglio, tra le sue tesi ed i suoi approfondimenti, cosa può essere semplicemente ‘estratto’ come particolarmente sorprendente? Direi, fondamentalmente due cose: che l’idea di diversi percorsi nelle società capitalistiche è iscritta nella reale storia globale dell’umanità, e che essa era stata oggetto niente meno del lavoro principale di Adam Smith “La ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1776. E Smith considerava la Cina come il caso più istruttivo di un possibile progresso capitalistico con caratteristiche diverse da quello dei paesi occidentali – tra l’altro, come si è visto, un progresso in quegli anni e ancora per quasi un secolo più cospicuo di quello occidentale – caratterizzato da una ‘moderazione’ del ruolo delle classi capitalistiche e da una assolutamente minore loro influenza nel provocare l’impegno nella militarizzazione.

Naturalmente, Milanovic non assume queste idee come conferme di una accertata positività della esperienza cinese, sia perché la sua lettura è densa di dubbi sui pericoli dell’autoritarismo di quel paese, sia perché, in fondo, Smith scriveva quasi un secolo prima dell’inizio del tracollo asiatico. Ma questa non è neanche mai l’intenzione di Arrighi. È però interessante che entrambi siano attratti da “una dicotomia … tra [il] percorso ‘naturale’ smithiano del capitalismo e il percorso ‘innaturale’ marxiano”. Smith constatava possibile per il capitalismo un “naturale progresso dell’opulenza” che passa “attraverso la naturale divisione del lavoro, dalla agricoltura alla produzione manifatturiera e solo successivamente si orienta verso il commercio internazionale e infine il commercio estero di lungo raggio”, e indicava nella Cina l’esempio più chiaro di quella possibile traiettoria. Marx, invece, considerava quello che osservava nell’Europa del suo tempo – un secolo dopo Smith – l’unico normale percorso capitalistico, caratterizzato da una inversione del naturale sviluppo (prima il commercio internazionale e per ultima l’agricoltura), e da Stati che perdevano la loro autonomia a favore della borghesia e si indirizzavano verso una militarizzazione accentuata, al servizio di una conquista del mondo.

Forse questi spunti sono più tenui di quello che potrebbe sembrare, o di quello che qualcuno potrebbe desiderare. Ma ci sono pure fatti che spingono a considerarli con attenzione. È un fatto che la spinta al dominio del mondo spiega il colonialismo e le due guerre mondiali del ‘secolo breve’; è un fatto che l’osmosi tra il capitalismo e gli Stati spiega alcuni dei problemi principali del capitalismo occidentale odierno; è un fatto che l’esperienza cinese – attraverso una storia tumultuosa e ancora densa di possibili esplosive contraddizioni – abbia caratteristiche diverse ed è un fatto che abbia risultati significativi.

Probabilmente, Milanovic ritiene che sia comunque il caso di prestare attenzione a quegli indizi. I suoi ‘pensieri insoliti’ non sembrano proprio per questo bizzarri, ma paiono un modo per adeguare il nostro modo di ragionare ad un mondo che ormai sta troppo stretto nei miti nei quali si è alimentato.

 

 

 

 

 

 

[1] Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo. (Wikipedia)

 

 

 

 

 

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