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Essere realisti sul carbone e sul clima, di Paul Krugman (New York Times, 22 aprile 2021)

April 22, 2021

Getting Real About Coal and Climate

By Paul Krugman

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“Change is coming, whether we seek it or not.” So declares a remarkable document titled “Preserving Coal Country,” released Monday by the United Mine Workers of America, in which the union — which at its peak represented half a million workers — accepts the reality that coal isn’t coming back. Instead, it argues, the goal should be “a true energy transition that will enhance opportunities for miners, their families and their communities.”

It’s good to see this kind of realism. Remember, back in 2016 Donald Trump promised that he would restore coal to its former greatness, reopening shuttered mines — and voters in coal country believed him. Many of them probably still imagine that something like that is possible.

The union, however, understands that it isn’t. What killed the mines wasn’t a “war on coal”; it was technological progress, first in the extraction of natural gas, then in solar and wind power. Generating electricity from coal would be economically unviable even if we didn’t have to worry about climate change.

Of course, we do need to worry about climate change, which is an existential threat to civilization. The question is how to address this threat.

The union’s document is in effect an endorsement, at least in principle, of the Biden administration’s plans to make action against climate change a centerpiece of its boost to infrastructure spending — something I guess we’re now supposed to call Build Back Better rather than the Green New Deal, but whatever. It’s also a small but encouraging vindication of the thinking behind Build Back Better, the belief that climate action is most likely to be politically feasible if it eschews economic purism and relies more on carrots than on sticks.

Some background: Conventional economics suggests that the best way to limit greenhouse gas emissions is either to impose a carbon tax or to create a cap-and-trade system in which polluters must buy permits for their emissions.

This argument underlies high-profile initiatives like the Climate Leadership Council, whose founding members included a wide array of business leaders and economists — including Janet Yellen, now the Treasury secretary — and a number of major corporations. The council, whose creation was announced in 2017, calls for carbon fees whose proceeds would be redistributed to families. This plan is part of a “bipartisan road map” for action.

This is, however, not the path the Biden administration is taking. Why?

First, the economic case for relying almost exclusively on a carbon tax misses the crucial role of technological development. The reason large reductions in emissions look much easier to achieve now than they did a dozen years ago is that we’ve seen spectacular progress in renewable energy: a 70 percent fall since 2009 in the cost of wind power, an 89 percent fall in the cost of solar power.

And this technological progress didn’t just happen. It was at least partly a result of investments made by the Obama administration. These investments were ridiculed by conservatives; back in 2012 Mitt Romney declared that all of the money went to “losers” like Solyndra and, um, Tesla. In retrospect, however, it is clear that government spending provided a crucial technological lift. And this suggests that public investment, as well as or even instead of a carbon tax, can be a way forward in fighting climate change.

Second, the idea that a carbon tax can achieve bipartisan support is hopelessly naïve. Only 14 percent of Republicans even accept the notion that climate change is an important issue. And redistributing the proceeds of such a tax to families in general won’t win over voters who believe that climate action will threaten their jobs and communities.

What might win over at least some of these voters, however, is the kind of program the United Mine Workers is calling for: targeted spending designed to help retrain former miners and support development in coal country communities.

I don’t want to be overly optimistic about the Biden strategy. For one thing, while there’s a compelling case against relying exclusively on a carbon tax to fight climate change, public investment alone also probably isn’t enough. Eventually we will almost surely have to put a price on greenhouse gas emissions, politically difficult though that will be.

On the other side, while it’s great to see the mine workers’ union call for policies that support “coal country,” not coal jobs — that is, communities rather than a specific industry — that’s still a tall order. Although Covid-19 created temporary disruptions, it remains true that the 21st-century economy “wants” to concentrate good jobs in major metropolitan areas with highly educated work forces. Promoting job creation in West Virginia or eastern Kentucky won’t be easy, and may be impossible.

But we can and should make a good-faith effort to help workers and regions that will lose as we try to avoid environmental catastrophe, and in general to make climate policy as politically palatable as possible, even at some cost in efficiency. Climate action is too important a task to insist that it be done perfectly.

 

Essere realisti sul carbone e sul clima,

di Paul Krugman

 

“Il cambiamento sta arrivando, che si  cerchi o no di ottenerlo”. Questo dichiara un importante documento dal titolo “Preservare il paese del carbone” rilasciato lunedì dai Lavoratori Uniti delle miniere d’America con il quale il sindacato – che nel suo punto più alto ha rappresentato mezzo milione di lavoratori – prende atto della realtà per la quale il carbone non sta tornando in auge. L’obbiettivo dovrebbe essere invece “una vera transizione energetica che accresca le opportunità per i minatori, le loro famiglie e le loro comunità”.

È positivo constatare questo tipo di realismo. Si ricordi, nel passato 2016 Donald Trump promise di ripristinare la passata grandezza del carbone, riaprendo le miniere chiuse – e gli elettori nel paese del carbone [1] gli credettero. Probabilmente, molti di loro si immaginano ancora che sia possibile qualcosa di simile.

Il sindacato, tuttavia, capisce che non è possibile. Quello che ha affossato le miniere non è stata una “guerra sul carbone”; è stato il progresso tecnologico, anzitutto nella estrazione del gas naturale, poi nel solare e nell’eolico. Produrre elettricità dal carbone sarebbe economicamente insostenibile persino se non dovessimo preoccuparci del cambiamento climatico.

Naturalmente, dobbiamo preoccuparci del cambiamento climatico, che è una minaccia esistenziale per la civiltà. La questione è come affrontare tale minaccia.

Il documento in effetti è un appoggio, almeno in linea di principio, ai programmi dell’Amministrazione Biden per far diventare l’iniziativa sul cambiamento climatico un pezzo centrale del suo impulso alla spesa sulle infrastrutture – una cosa che da quanto capisco adesso dobbiamo chiamare Ricostruire Meglio anziché New Deal Verde,  ma tant’è. È anche un risarcimento, piccolo ma incoraggiante, del pensiero che sta dietro il Ricostruire Meglio, il convincimento che l’iniziativa sul clima sia più probabile diventi politicamente fattibile se rifugge il purismo economico e si basa più sulla carota che sul bastone.

Un po’ di contesto: l’economia convenzionale suggerisce che il modo migliore per limitare le emissioni dei gas serra sia imporre una tassa sul carbone oppure creare un sistema cap-and-trade [2] con il quale gli inquinatori debbano acquistare permessi per le loro emissioni.

Questo ragionamento sostiene iniziative di alto profilo come il Climate Leadership Council, i cui fondatori includono una vasta gamma di dirigenti di impresa e di economisti – inclusa Janet Yellen, adesso Segretaria al Tesoro – e un certo numero di importanti società. Il Consiglio, la cui creazione venne annunciata nel 2017, è a favore di tasse sulla anidride carbonica i cui proventi sarebbero redistribuiti alle famiglie. Questo piano fa parte di un “piano d’azione” bipartisan.

Non è questa, tuttavia, la strada che sta prendendo l’Amministrazione Biden. Perché?

In primo luogo, all’argomento economico di una tassa sul carbone sfugge il ruolo cruciale dello sviluppo tecnologico. La ragione per la quale ampie riduzioni nelle emissioni sembrano molto più semplici da realizzare oggi che non una dozzina di anni orsono è che abbiamo assistito ad un progresso spettacolare nelle energie rinnovabili: una caduta del 70 per cento del costo dell’energia eolica dal 2009, e una caduta dell’89 per cento per l’energia solare.

E questo progresso tecnologico non è avvenuto er caso. È stato almeno in parte un risultato di investimenti promossi dalla Amministrazione Obama. Questi investimenti vennero ridicolizzati dai conservatori; nel passato 2012 Mitt Romney dichiarò che tutti i soldi andavano a “perdenti” come Solyndra e, guarda un po’, come Tesla [3]. Retrospettivamente, tuttavia, è chiaro che la spesa pubblica ha fornito un passaggio tecnologico cruciale. E questo indica che l’investimento pubblico, come o persino al posto di una tassa sull’anidride carbonica, può essere una strada del progresso per combattere il cambiamento climatico.

In secondo luogo, l’idea che una tassa sulle emissioni di carbonio possa ottenere un sostegno da entrambi i partiti è irrimediabilmente ingenua. Che il tema del cambiamento climatico sia importante è accettato, persino come concetto, soltanto dal 14 per cento dei repubblicani. E redistribuire i proventi di tale tassa in generale alle famiglie non convincerà gli elettori che credono che l’iniziativa sul clima minaccerà i loro posti di lavoro e le loro comunità.

Tuttavia, quello che potrebbe convincere almeno alcuni di questi elettori è il genere di programma che i Lavoratori Uniti delle Miniere stanno chiedendo: obbiettivi finalizzati rivolti a riqualificare i minatori del passato e a sostenere lo sviluppo nelle comunità del paese del carbone.

Non intendo essere eccessivamente ottimista sulla strategia di Biden. Da una parte, se c’è l’argomento convincente del non basarsi esclusivamente su una tassa sul carbone per combattere il cambiamento climatico, l’investimento pubblico da solo probabilmente non sarà sufficiente. Alla fine quasi sicuramente si dovrà stabilire un costo per le emissioni dei gas serra, per quanto ciò possa essere politicamente difficile.

D’altra parte, mentre è una gran cosa vedere il sindacato dei lavoratori delle miniere pronunciarsi per politiche che sostengano il “paese del carbone”, non i posti di lavoro nel carbone – ovvero, le comunità anziché una specifica industria – si tratta ancora di un compito arduo. Per quanto il Covid-19 abbia creato turbamenti temporanei, resta vero che l’economia del ventunesimo secolo “vuole” concentrare i buoni posti di lavoro nelle aree metropolitane importanti con forze di lavoro altamente istruite. Promuovere la creazione di posti di lavoro nella Virginia Occidentale o nel Kentucky Orientale non sarà facile e potrebbe non essere possibile.

Ma possiamo e dovremmo fare una sforzo in buona fede per aiutare i lavoratori e le regioni che, nel mentre cerchiamo di evitare la castrofe ambientale, perderanno posizioni, e in generale per rendere la politica del clima per quanto possibile accettabile, anche con qualche prezzo di efficienza. L’iniziativa sul clima è un obbiettivo troppo importante per volerlo conseguire a tutti i costi in modo perfetto.

 

 

 

 

 

[1] Il “paese del carbone” sono le regioni americane che possiedono i giacimenti maggiori della materia prima. In modo particolare si tratta di territori della Pennsylvania nord orientale, presso i monti Appalachi. La popolazione complessiva di questa ‘regione del carbone’ conta meno di un milione di abitanti nel 2015.

Nel mondo i principali ‘paesi del carbone’ – quanto a quantità stimate della materia prima – sono nell’ordine gli Stati Uniti, la Russia, l’Australia e la Cina (ma quest’ultima è la principale produttrice).

[2] Letteralmente, del “mettere un limite e consentire gli scambi” in materia di inquinamento ambientale – ovvero mettere un limite all’inquinamento (“cap”) e premiare chi sta sotto quel limite, anche permettendogli di ‘vendere’ (“trade”) il proprio comportamento virtuoso a chi resta provvisoriamente sopra i limiti (l’acquisto di ‘punti’ dai più virtuosi – che detengono quei ‘punti’ per effetto delle loro tecnologie – essendo un modo provvisorio per restare nella legalità).

Quindi, i ‘permessi per le emissioni’ non sarebbero un regime infinito, ma una soluzione di transizione nella quale i più virtuosi possono ‘vendere’ i loro risultati ai meno virtuosi, che – dovendoli pagare – sono spinti a adeguarsi col tempo alle tecniche migliori. Qualcosa del genere si è fatto nel passato con altre fonti inquinanti.

[3] Tesla, come è noto, sta avendo un grande successo nella produzione di auto elettriche; mentre Solyndra fu un progetto fallito di una società californiana delle energie rinnovabili.

 

 

 

 

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