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Come dovrebbero competere le grandi potenze, di Michael Spence (da Project Syndicate 25 giugno 2021)

 

Jun 25, 2021

How Great Powers Should Compete

MICHAEL SPENCE

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MILAN – At the recent G7 and NATO gatherings, China was singled out as a strategic competitor, a calculating trading partner, a technological and national-security threat, a human-rights violator, and a champion of authoritarianism globally. China denounced these characterizations, which its embassy in the United Kingdom called “lies, rumors, and baseless accusations.” The risks that such rhetoric poses should not be underestimated.

Many in the West disapprove of China’s single-party governance structure, just as vocal elements in China disparage Western liberal democracy, which they argue is in terminal decline. The real danger, however, is that officials on both sides seem to have embraced a zero-sum framework, according to which the two sides cannot simply co-exist; one side must “win.”

By this logic, both sides must always be trying to crush the competition. So, for China, the West – especially the United States – must be seeking to reverse its rise (which, in reality, was facilitated in no small part by the US). And, for the West, China is determined to leverage its economic might, including its huge internal market, to reshape the global system in its image and to its benefit.

The more often leaders repeat these narratives, the more likely ordinary citizens are to become convinced that they are true. Rising fear and resentment on both sides increases the risk that the narratives will become self-fulfilling prophecies.

In the meantime, the focus on bilateral competition obscures the needs and interests of people in emerging markets and developing economies. Yes, China and the West espouse some version of multilateralism. But unfettered strategic competition precludes effective multilateralism, not least by disrupting trade and technology transfer – a crucial driver of development.

China and the West urgently need a new framework for understanding the state of the world and their place in it. Such a framework must recognize, first and foremost, that properly regulated economic competition is not a zero-sum game.

In static terms, normal economic competition bolsters price efficiency and helps to align supply and demand. In dynamic terms, it leads to what Joseph Schumpeter dubbed “creative destruction” – a powerful mechanism for translating knowledge, ideas, and experiments into new products, services, and cost-reducing processes. In other words, it leads to advances in human well-being.

There is no reason to think that cross-border competition cannot produce the same benefits. On the contrary, experience shows that it can, so long as supporting legal and regulatory structures are in place and the playing field is level. Admittedly, delivering these conditions – especially a level playing field – is difficult on an international scale, but that doesn’t mean it can’t be done.

Strategic competition is a different story. After all, there are powerful dual-use technologies – often emerging from non-defense sectors – that advance both economic and national-security objectives. Leaders should not pretend this is not the case.

But that, too, does not mean countries are condemned to play a zero-sum game, focused on making (or keeping) others weak. Instead, China and the West should agree to achieve and preserve a degree of economic, technological, and defense parity. This means abandoning efforts to block the diffusion of knowledge and technology – an enterprise that is rarely effective in the long run.

Such an approach would avoid greater fragmentation of the global economic system, which is particularly damaging to third parties. And it would deter offensive use of military or technological capabilities – vital in an environment where neither side trusts the other.

But a system that minimizes the need for trust does not justify mutual villainization. There is nothing wrong with preferring the governance system in one’s own country, including its particular balance of individual rights and collective interests. Such preferences are based on factors like personal experience, education, and values, not objective fact. There is no clear evidence that one particular system of governance guarantees economic and social development. Both democracies and single-party systems have produced good and bad development outcomes. It seems that the most important precondition for development is leaders’ commitment to an inclusive vision of human well-being.

When we assume that our own preferred system is objectively superior, and demonize alternatives, we end up mis-framing the terms and likely outcomes of economic and strategic competition. Worse, competition over governance distracts from more productive dimensions of interdependence.

Economic, technological, and military competition is inevitable. The question is whether it will be constructive. As it stands, the world is moving toward an equilibrium in which it will not be, with third parties, or “non-protagonists,” suffering the most.

But it is not too late to change course. Given the lack of information and trust, together with internal political dynamics, doing so will take considerable courage from leaders on both sides. The first step is for both sides to renounce the kind of provocative rhetoric we have seen in recent weeks.

 

Come dovrebbero competere le grandi potenze,

di Michael Spence

 

MILANO – Nei recenti incontri del G7 e della NATO, la Cina è stata identificata come un competitore strategico, un partner commerciale calcolatore, una minaccia tecnologica alla sicurezza nazionale, un violatore di diritti umani e una sostenitore su piano globale dell’autoritarismo. La Cina ha denunciato queste rappresentazioni, che la sua ambasciata nel Regno Unito ha definito “bugie, chiacchiere e accuse senza fondamento”. Non dovrebbero essere sottovalutati i rischi che tale retorica costituisce.

Molti in Occidente disapprovano la struttura di governo a partito unico della Cina, nello stesso modo i  cui componenti rumorose in Cina denigrano la democrazia liberale occidentale, che sostengono essere in un declino terminale. Il pericolo reale, tuttavia, è che entrambi gli schieramenti sembrano aver abbracciato uno schema a somma zero, secondo il quale le due parti non possono semplicemente coesistere; uno schieramento deve “vincere”.

Con questa logica, entrambe le parti devono sempre cercare di schiacciare la competizione. Così, per la Cina, l’Occidente – in particolare gli Stati Uniti – sta cercando di rovesciare la sua crescita (che, in realtà, è stata facilitata dagli Stati Uniti). E, per l’Occidente, la Cina è determinata a far leva sulla sua potenza economica, compreso il suo vasto mercato interno, per riformare il sistema globale a sua immagine e a suo beneficio.

Più frequentemente le autorità ripetono questi racconti, più è probabile che i cittadini comuni si convincano che sono veri. La paura e il risentimento in crescita in entrambi gli schieramenti accrescono i rischi che i racconti diventino profezie che si autoavverano.

Nello stesso tempo, la concentrazione sulla competizione bilaterale mette in ombra i bisogni e gli interessi dei popoli nei mercati emergenti e nelle economie in via di sviluppo. È vero, la Cina e l’Occidente fanno proprie alcune versioni del multilateralismo. Ma la competizione strategica senza limiti preclude un multilateralismo efficace, non da ultimo portando turbative sul commercio e sul trasferimento delle tecnologie – un elemento motore fondamentale dello sviluppo.

La Cina e l’Occidente hanno urgentemente bisogno di un nuovo modello per la comprensione della condizione del mondo e del loro posto in esso. Un tale modello deve riconoscere, in primo luogo e soprattutto, che la competizione economica appropriatamente regolata non è una competizione a somma zero.

In termini statici, la normale competizione economica sostiene l’efficienza dei prezzi e contribuisce all’allineamento dell’offerta e della domanda. In termini dinamici, essa porta a quella che Joseph Schumpeter definiva la “distruzione creativa” – un meccanismo potente per tradurre conoscenze, idee ed esperimenti in nuovi prodotti, in servizi e in processi di riduzione dei costi. In altre parole, che porta ad avanzamenti nel benessere umano.

Non c’è ragione di pensare che la competizione transnazionale non possa produrre gli stessi benefici. Al contrario, l’esperienza dimostra che può farlo, finché sono in atto il sostegno di strutture legali e regolamentari e il campo di gioco è lo stesso per tutti. Si può ammettere che fornire queste condizioni – in particolare un campo di gioco uguale per tutti – sia difficile su scala internazionale, ma questo non significa che non possa essere fatto.

La competizione strategica è un’altra storia. Dopo tutto, ci sono potenti tecnologie con funzioni duplici – che spesso emergono da settori diversi dalla difesa – che spingono in avanti sia gli obbiettivi economici che quelli della sicurezza nazionale. Le autorità non dovrebbero fingere che questo non sia il caso.

Ma anche quello non comporta che i paesi siano condannati ad un gioco a somma zero, concentrato sul rendere (o sul mantenere) gli altri deboli. Invece, la Cina e l’Occidente dovrebbero concordare sul realizzare e preservare un certo grado di parità economica, tecnologica e difensiva. Questo comporta di abbandonare gli sforzi per bloccare la diffusione della conoscenza e della tecnologia – un proposito che è raramente efficace nel lungo periodo.

Un tale approccio eviterebbe la maggiore frammentazione del sistema economico globale, che è particolarmente dannosa per le parti terze. E scoraggerebbe l’uso offensivo delle potenzialità militari o tecnologiche – fondamentale in un contesto nel quale nessuno schieramento ha fiducia nell’altro.

Ma un sistema che minimizza il bisogno di fiducia non giustifica la reciproca demonizzazione. Non c’è niente di sbagliato nel preferire il sistema di governo del proprio paese, compreso il suo particolare bilanciamento di diritti individuali e di interessi collettivi. Tali preferenze sono basate su fattori come l’esperienza personale, l’educazione e i valori, non su fatti obiettivi. Non ci sono prove chiare che un particolare sistema di governo garantisca lo sviluppo economico e sociale. Sia le democrazie che i sistemi a partito unico hanno prodotto risultati positivi e negativi. Sembra che la più importante precondizione per lo sviluppo sia l’impegno dei leader ad una visione inclusiva del benessere umano.

Quando assumiamo che il nostro sistema preferito sia obiettivamente superiore, e demonizziamo le alternative, finiamo con il deformare i termini e i probabili risultati della competizione economica e strategica. Peggio ancora, la prevalenza della competizione sui modi di governo distoglie da dimensioni più produttive della interdipendenza.

La competizione economica, tecnologica e militare è inevitabile. La domanda è se essa sarà costruttiva. Da quanto appare, il mondo si sta spostando verso un equilibrio nel quale non lo sarà, con le terze parti, o i “non-protagonisti”, che avranno la peggio.

Ma non è troppo tardi per cambiare indirizzo. Data la insufficienza di informazioni e di fiducia, assieme alle dinamiche politiche nazionali, farlo richiederà considerevole coraggio da parte delle autorità, su entrambi i fronti. Il primo passo per entrambi è rinunciare a quel genere di retorica provocatoria che abbiamo constatato nelle settimane recenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

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