June 25, 2021
By Paul Krugman
Last week I took advantage of the fading pandemic to take a bike tour in the Finger Lakes region, making a detour on the way to visit the old industrial city of Utica, N.Y. — which is where I lived until I was 8 years old. I found the street we used to live on, although to be honest I couldn’t remember which house was ours. But perhaps that’s not all that surprising: The neighborhood has changed since 1961, having become home to many Bosnian refugees in the 1990s.
And whereas my mother used to take me out for lunch at the local White Tower, a once popular hamburger chain, this time I stopped near our old house for cevapi.
The thing is, for a city that has lost most of its original reason to exist — the glory days of the Erie Canal are ancient history, and the industries that drove the upstate economy in its heyday are pretty much gone — Utica is doing relatively OK. Those refugees and other immigrants, drawn in part by low housing costs, have helped generate new businesses — Chobani yogurt has a plant nearby — that in turn have partly offset the loss of the old industrial base.
All of which is surprisingly relevant to discussions about the economic future of New York City — which those of us who have lived in or around it tend to call simply “the city” — whose trajectory has probably been permanently altered by Covid-19 and its aftereffects. Even though the U.S. economy as a whole seems headed for rapid recovery, the post-pandemic economy will probably be different in some ways from what we had before. And New York might seem, on the surface, to be one of those places that will lose from those differences.
From an economic point of view, New York is, above all, a city of office buildings, empowered by the most effective mass transit system ever devised — the elevator. The pandemic, however, gave a huge boost to remote work, and while many workers will eventually go back to the office, many others won’t — probably leaving Lower Manhattan with a large glut of office space.
Politico recently had an interesting article asking a number of experts what, if anything, should be done to get workers back into those buildings. The most common (and persuasive) response? Nothing.
As Jason Furman, who chaired Barack Obama’s Council of Economic Advisers, put it, even if there is a persistent decline in the demand for Manhattan office space, the result won’t be empty buildings; it will be lower rents. The journalist Matthew Yglesias made the same point. Ultimately falling rents will bring workers back — maybe not the same workers, maybe not the same businesses, but someone will make use of those buildings.
When I read that discussion, I immediately thought of a relatively old paper by Edward Glaeser and Joseph Gyourko, with the admittedly not very inspiring title “Urban Decline and Durable Housing.” They pointed out that while a growing city’s supply of housing is highly elastic — if prices are high, lots of houses will be built, unless the NIMBYs get in the way — a shrinking city’s housing supply is inelastic: Houses aren’t torn down when their prices fall.
A key consequence of this asymmetry, Glaeser and Gyourko argued and documented with data, is that while cities can experience explosive growth, they rarely experience rapid decline. Why? Because housing in a city is, as the title says, durable: It doesn’t disappear when a city falls on hard times; it just becomes cheap.
And cheap housing itself helps attract workers and families — often immigrants, who seem especially willing to seek affordable housing and then figure out a way to make a living wherever they are. The availability of these workers in turn becomes a draw for new businesses, in some cases making it possible for troubled urban economies to reinvent themselves along entirely new lines.
Something similar will happen if, as seems likely though not certain, New York City experiences a long-run transformation caused by the rise of remote work. In this case, the durable assets in question will be office buildings, not houses, and the “immigrants” drawn in by lower real estate costs will be businesses rather than families. But the basic logic of urban persistence will be the same.
In fact, having real estate developers take a big hit might eventually be positive for New York as a whole. While the city is incredibly diverse culturally and ethnically — you can even find some Republicans if you look hard enough — its economy has, as Glaeser more recently put it, become a monoculture, dominated by finance.
So what? If the financial industry is willing to pay higher rents, why not accept the market’s verdict?
Well, cities are all about “externalities” — the spillovers businesses generate by being near one another. And there’s a good argument that being a one-industry town reduces positive externalities, because it limits the cross-pollination of ideas that can foster innovation.
So New York will probably be slower to recover economically than much of the rest of the nation, and once it does recover, it will probably emerge with a cheaper, more diversified economy than it was in 2019. But that may be a good thing in the long run.
Quello che New York potrebbe imparare da Utica,
di Paul Krugman
La scorsa settimana ho approfittato della pandemia in declino per farmi un giro in bicicletta nella regione dei Finger Lakes, facendo un deviazione sul percorso per visitare la vecchia città industriale di Utica, N.Y. – che è il luogo dove vissi fino a 8 anni. Ho ritrovato la strada dove vivevamo, sebbene ad essere onesto non mi è riuscito di ricordare quale fosse la nostra casa. Ma forse ciò non è tanto sorprendente: dal 1961 il quartiere è cambiato, essendo diventato, negli anni ’90, casa per molti rifugiati bosniaci.
E mentre mia madre era solita portarmi a pranzo alla locale White Tower, una volta popolare catena di hamburger, questa volta mi sono fermato nelle vicinanze della nostra vecchia casa per un cevapi [1].
Il punto è che Utica, per una città che ha perduto gran parte delle sue originali ragioni di esistere – i giorni di gloria del Canale Erie sono storia passata, e le industrie che guidavano l’economia a nord dello Stato nel suo fulgore sono in buona parte andati – se la sta passando relativamente bene. Quei rifugiati ed altri immigrati, attratti in parte dai bassi costi degli alloggi, hanno contribuito a generare nuovi affari – lo yougurt Chobani ha un impianto nelle vicinanze – che a loro volta hanno in parte bilanciato la perdita della vecchia base industriale.
Tutto questo è sorprendentemente attinente ai dibattiti sul futuro economico di New York City – che tutti quelli tra noi che ci hanno vissuto, almeno nei pressi, tendono a chiamare “la città” – la cui traiettoria è probabilmente stata permanentemente alterata dal Covid-19 e dalle sue conseguenze. Persino se l’economia statunitense nel suo complesso sembra indirizzata ad una rapida ripresa, in molti sensi l’economia post pandemica sarà probabilmente diversa da quella che avevamo in precedenza. E New York, alla superficie, potrebbe sembrare uno dei quei luoghi che ci rimetteranno dalle differenze.
Da un punto di vista economico, New York è, soprattutto, una città di palazzi per uffici, potenziata dal sistema di trasporto più efficace mai concepito – l’ascensore. La pandemia, tuttavia, ha dato un enorme incoraggiamento al lavoro remoto, e mentre molti lavoratori alla fine torneranno negli uffici, molti altri non lo faranno – probabilmente lasciando l’area di Lower Manhattan con una ampia eccedenza di spazi per uffici.
Politico aveva recentemente un interessante articolo nel quale si chiedeva a un certo numero di esperti che cosa dovesse essere fatto per riportare i lavoratori in quegli edifici, ammesso che si debba far qualcosa. La risposta più frequente (e persuasiva)? Niente.
Come si è espresso Jason Furman, che presiedette il Comitato dei Consiglieri Economici di Barack Obama, anche se ci fosse un persistente declino della domanda di uffici per Manhattan, la conseguenza non sarebbero edifici vuoti; sarebbero affitti più bassi. Il giornalista Metthew Yglesias ha avanzato lo stesso argomento. In ultima analisi gli affitti in calo riporteranno indietro i lavoratori – forse non gli stessi lavoratori, forse non le stesse attività, ma qualcuno utilizzerà quei palazzi.
Quando ho letto quel dibattito, ho immediatamente pensato ad un saggio relativamente datato di Edward Glaeser e Joseph Gyourko, che in effetti aveva un titolo non particolarmente ispirante: Declino urbano e alloggi durevoli. Essi mettevano in evidenza che mentre una offerta di alloggi di una città in crescita è altamente elastica – se i prezzi sono alti, vengono costruiti una grande quantità di alloggi, a meno che non si metta di mezzo il NIMBY [2] – una offerta di alloggi di una città che si restringe è anelastica: le abitazioni non si abbattono quando i loro prezzi cadono.
Una conseguenza fondamentale di questa asimmetria, Glaeser e Gyourko lo documentarono con dati, è che mentre le città possono conoscere crescita esplosive, raramente fanno esperienza di un declino rapido. Perché? Perché gli alloggi in una città sono, come dice il titolo [3], beni durevoli: non scompaiono quando una città cade in momenti difficili; diventano soltanto più economici.
E gli stessi alloggi economici contribuiscono ad attirare lavoratori e famiglie – spesso immigranti, che sembrano particolarmente desiderosi di cercare alloggi sostenibili e poi di cercare un modo per tirare a campare dovunque si trovino. La disponibilità di questi lavoratori diventa a sua volta una attrazione per nuove attività, in alcuni casi rendendo possibile per economie urbane in difficoltà di reinventarsi su indirizzi interamente nuovi.
Qualcosa di simile accadrà se, come sembra probabile seppure non certo, New York City farà esperienza di una trasformazione duratura provocata dalla crescita del lavoro remoto. In questo caso i beni durevoli in questione saranno i palazzi per uffici, non le abitazioni, e gli “immigranti” attratti da costi immobiliari più bassi saranno gli affari, anziché le famiglie. Ma la logica di base della persistenza urbana sarà la stessa.
Il fatto che i costruttori di immobili abbiano preso un gran colpo potrebbe alla fine diventare positivo per New York nel suo complesso. Se la città è incredibilmente differenziata culturalmente e etnicamente – potete persino scovare qualche repubblicano se guardate con attenzione – la sua economia, come ha più di recente osservato Glaeser, è diventata una monocultura, dominata dalla finanza.
E allora? Se il settore finanziario è disponibile a pagare affitti più elevati, perché non accettare il verdetto del marcato?
Ebbene, le città riguardano soprattutto le “esternalità” – le ricadute che le attività economiche generano per l’essere l’una accanto all’altra. E c’è una buona probabilità che l’essere una cittadina con una sola industria riduca le esternalità positive, giacché limita la contaminazione reciproca delle idee che può incoraggiare l’innovazione.
Dunque, probabilmente New York sarà più lenta a riprendersi economicamente che buona parte del resto della nazione, e una volta che si riprenderà, probabilmente emergerà con un economia più a buon mercato e più diversificata rispetto a quello che era nel 2019. Ma nel lungo periodo, questa potrebbe essere una cosa positiva.
[1] I ćevapčići o ćevapi sono un cibo balcanico a base di carne trita, variamente speziata, tipico della cucina dei paesi della penisola balcanica. Wikipedia
[2] Nimby è l’acronimo di “Not in my back yard” (“non nel cortile di casa mia”) e sta a indicare i movimenti di protesta di comunità e di gruppi di persone contro opere e insediamenti che potrebbero avere effetti negativi sulle loro aree di residenza (molto frequentemente, ad esempio, per impianti pubblici per los smaltimento dei rifiuti o per la depurazione delle acque).
[3] Del loro studio.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"