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I terroristi stranieri non sono mai stati il nostro maggiore problema, di Paul Krugman (New York Times, 9 settembre 2021)

 

Sept. 9, 2021

Foreign Terrorists Have Never Been Our Biggest Threat

By Paul Krugman

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It may seem like a terrible thing to say, but a fair number of people — especially in the news media — are nostalgic about the months that followed 9/11. Some pundits openly pine for the sense of national unity that, they imagine, prevailed in the aftermath of the terrorist attack. More subtly, my sense is that many long for the days when the big threat to America seemed to come from foreign fanatics, not homegrown political extremists.

But that golden moment of unity never existed; it’s a myth, one that we need to stop perpetuating if we want to understand the dire current state of American democracy. The truth is that key parts of the American body politic saw 9/11, right from the beginning, not as a moment to seek national unity but as an opportunity to seize domestic political advantage.

And this cynicism in the face of the horror tells us that even at a time when America truly was under external attack, the biggest dangers we faced were already internal.

The Republican Party wasn’t yet full-on authoritarian, but it was willing to do whatever it took to get what it wanted, and disdainful of the legitimacy of its opposition. That is, we were well along on the road to the Jan. 6 putsch — and toward a G.O.P. that has, in effect, endorsed that putsch and seems all too likely to try one again.

It’s now a matter of public record that the immediate response of Bush administration officials to 9/11 was to use it as an excuse for an unrelated project, the invasion of Iraq. “Sweep it all up, things related and not,” said Donald Rumsfeld, the defense secretary, to his aides while the Pentagon was still burning.

And some media organizations did eventually acknowledge their role in helping war advocates exploit the atrocity. The Times, in particular, published an extensive and frank mea culpa.

Yet the exploitation of 9/11 by people who wanted a wider war — and the selling of that war on false pretenses, which should have been considered an unforgivable abuse of public trust — has faded from public discourse. And you hear hardly anything about the parallel way in which terrorism was exploited for domestic political goals.

When the nation is threatened, we normally expect our leaders to call for shared sacrifice. But leading Republicans responded to a terrorist attack by trying to enact … tax cuts for the wealthy and corporations. Indeed, the chairman of the House Ways and Means Committee tried to ram through a cut in the tax rate on capital gains less than 48 hours after the twin towers came down.

Later Tom DeLay, the House majority whip, would declare, “Nothing is more important in a time of war than cutting taxes.”

And in May 2003 Republicans exploited the illusion of success in Iraq by pushing through sharp cuts in tax rates on capital gains and dividends.

Let’s also not forget how the occupation of Iraq was handled. Nation-building is an immensely difficult project, one that should have drawn on the most talented and qualified people America had to offer. Instead, the Bush administration treated the occupation as a patronage opportunity, a way to reward political loyalists; some prospective hires were asked their views on Roe v. Wade, others how they voted in 2000.

In short, by the time the terrorists struck, the G.O.P. was no longer a normal political party, one that considered itself only a temporary custodian of broader national interests. It was already willing to do things that would previously have been considered inconceivable.

In 2003 I declared that the Republican Party was dominated by “a movement whose leaders do not accept the legitimacy of our current political system.” But many people didn’t want to hear it. Those of us who tried to point out the abuses in real time were dismissed as “shrill” and “alarmist.”

The alarmists have, however, been right every step of the way.

True, in the past there were a few mitigating factors. To his credit, President George W. Bush tried to tamp down the anti-Muslim backlash, visiting an Islamic center just six days after the attack and calling on Americans to respect all religions. Try to imagine Donald Trump doing something similar.

It’s also notable that some of the most prominent neocons — intellectuals who promoted the invasion of Iraq and called for an even wider set of wars — eventually became eloquent, even courageous Never Trumpers. This suggests that their belief in spreading democratic values was genuine even if the methods they advocated — and the political alliances they chose to make — had catastrophic results.

But it’s not an accident that Republicans today have left both tolerance and respect for democracy behind. Where we are now, with democracy hanging by a thread, is where we’d been heading for a long time.

America was viciously attacked 20 years ago. But even then, the call that mattered was coming from inside the house. The real threat to all this nation stands for is coming not from foreign suicide bombers but from our own right wing.

 

I terroristi stranieri non sono mai stati il nostro maggiore problema,

di Paul Krugman

 

Può sembrare una cosa brutta da dire, ma un certo numero di persone – specialmente nei notiziari sui media – hanno nostalgia dei mesi che seguirono l’11 settembre. Alcuni commentatori si struggono per il clima di unità nazionale che, si immaginano loro, prevaleva nel periodo successivo all’attacco terroristico. In modo più sottile, la mia sensazione è che molti abbiano un grande desiderio dei giorni nei quali la grande minaccia all’America sembrava provenire da stranieri fanatici, non da estremisti politici casalinghi.

Ma il momento aureo dell’unità non è mai esistito; è un mito, di quelli che abbiamo bisogno di smettere di rendere eterni se vogliamo comprendere l’attuale terribile condizione della democrazia americana. La verità è che componenti fondamentali della nazione americana, proprio sin dagli inizi, considerarono l’11 settembre non come un momento per cercare l’unità del paese, ma come una occasione per trarne un vantaggio politico interno.

E il cinismo di fronte all’orrore ci dice che persino in un momento nel quale l’America era effettivamente sotto attacco esterno, i più grandi pericoli che avevamo di fronte già venivano dall’interno.

Il Partito Repubblicano non era ancora interamente autoritario, ma era disponibile a fare qualsiasi cosa servisse per avere quello che voleva, e disprezzava la legittimità della sua opposizione. Cioè, eravamo già avanti sulla strada verso l’insurrezione del 6 gennaio – verso un Partito Repubblicano che, in sostanza, ha appoggiato quel tentativo di insurrezione e sembra del tutto probabile che cerchi ancora di provarci.

Ormai è materia documentata che l’immediata risposta dei dirigenti della Amministrazione Bush all’11 settembre  fu di utilizzarlo come una scusa per un progetto distinto, l’invasione dell’Iraq. “Facciamo piazza pulita, che ci siano connessioni o no”, disse Donald Rumsfeld, il Segretario alla Difesa, ai suoi collaboratori mentre il Pentagono stava ancora bruciando.

E alcune agenzie dei media alla fine riconobbero il loro ruolo nell’aiutare i sostenitori della guerra a sfruttare il fatto atroce. Il Times, in particolare, pubblicò un ampio e franco mea culpa [1].

Eppure lo sfruttamento dell’11 settembre da parte di persone che volevano una guerra più vasta – e che convinsero a quella guerra con falsi argomenti, il che dovrebbe essere stato considerato un abuso imperdonabile della fiducia pubblica – è svanito nel dibattito. E a fatica si sente dir qualcosa sul modo simultaneo nel quale il terrorismo venne sfruttato per obbiettivi politici interni.

Quando la nazione è minacciata, normalmente ci si aspetta che le autorità si pronuncino per sacrifici condivisi. Ma il dirigenti repubblicani risposero all’attacco terrorista per cercare di varare … tagli delle tasse per i ricchi e per le grandi società. In effetti, il Presidente della Commissione della Camera incaricata della supervisione degli affari finanziari [2] cercò di far passare un taglio sulle aliquote fiscali sui profitti da capitale a meno di 48 ore dal crollo delle Torri Gemelle.

In seguito Tom DeLay, il responsabile della maggioranza alla Camera, avrebbe dichiarato: “In tempi di guerra, niente è più importante dei tagli alle tasse”.

E nel maggio del 2003 i repubblicani sfruttarono l’illusione di un successo in Iraq per far approvare forti tagli alle aliquote fiscali sui profitti da capitale e sui dividendi.

No dimentichiamo poi come l’occupazione dell’Iraq venne gestita. Costruire una nazione è un progetto di immensa difficoltà, di quelli che avrebbero dovuto attirare le persone di maggio talento e competenza che l’America aveva da offrire.

Invece, l’Amministrazione Bush trattò l’occupazione come una occasione di clientelismo, un modo per dare un premio a coloro che erano politicamente fedeli; ad alcun candidati venne chiesto il loro punto di vista sul processo Roe contro Wade [3], ad altri come avevano votato nel 2000.

In poche parole, all’epoca in cui i terroristi colpirono, il Partito Repubblicano non era più un normale partito politico, come quelli che si considerano solo custodi temporanei di interessi nazionali più generali. Era già disposto a far cose che in precedenza sarebbero state considerate inconcepibili.

Nel 2003 io dichiarai che il Partito Repubblicano era dominato da “un movimento i cui dirigenti non accettano la legittimità del nostro attuale sistema politico”. Ma in molti non vollero ascoltare. Quelli tra noi che provavano a mettere in evidenza in tempo reale gli abusi, venivano liquidati come “striduli” e “allarmisti”.

Gli allarmisti, tuttavia, hanno avuto ragione ad ogni passo.

È vero che nel passato ci sono stati alcuni fattori attenuanti. A suo merito, il Presidente George W. Bush cercò di soffocare il contraccolpo contro i musulmani, visitando un centro islamico appena sei giorni dopo l’attacco e chiamando gli americani al rispetto di tutte e religioni. Provate a immaginare Donald Trump che fa qualcosa di simile.

È anche da notare che alcuni dei più eminenti neoconservatori – intellettuali che avevano promosso l’invasione dell’Iraq e avevano chiesto una serie persino più ampia di guerre – alla fine si sono pronunciati, persino con coraggio. I sostenitori di Trump non l’hanno mai fatto. Questo indica che la loro convinzione sulla diffusione dei valori democratici era genuina, anche se i metodi che difendevano – e le alleanze politiche che scelsero per metterla in pratica – ebbero effetti catastrofici.

Ma non è un caso se i repubblicani odierni si siano messi alle spalle sia la tolleranza che il rispetto della democrazia. Il punto in cui siamo oggi, con la democrazia appesa ad un filo, è quello verso il quale ci siamo indirizzati da lungo tempo.

Venti anni fa, l’America venne ferocemente attaccata. Ma anche allora, la voce importante veniva da dentro casa nostra. La vera minaccia a tutte le posizioni di questa nazione non proviene da attentatori suicidi stranieri ma dalla nostra stessa destra.

 

 

 

 

 

 

[1] In effetti, il 26 marzo del 2004 apparve sul giornale un lungo comunicato “degli editori” che ricostruiva e si scusava in modo dettagliato per la disinformazione alla quale aveva contribuito anche il New York Times nel fornire notizie false o esagerate, e comunque desunte da ambienti rivelatisi inaffidabili (spesso personaggi irakeni in esilio pagati da servizi americani). Le notizie erano relative al possesso o al tentativo di dotarsi da parte dell’Iraq di armamenti nucleari, ovvero all’argomento principale che venne usato dalla Amministrazione Bush per la guerra. Il testo di quel comunicato è nella connessione nel testo inglese.

[2] La “House Way and Means Committee” – un titolo antico che letteralmente significa “Commissione sui modi e sui mezzi”, ovvero sui modi e sui mezzi con i quali si intende dare copertura alle spese pubbliche – è una commissione della Camera con poteri di controllo sostanziali sulle decisioni principali di spesa.

[3] Il procedimento giudiziario Roe contro Wade passò alla storia, nel 1973, perché fu l’occasione nella quale la Corte Suprema degli Stati Uniti emise una sentenza secondo la quale la Costituzione americana consentiva alle donne la libertà di scegliere di avere un aborto senza eccessive restrizioni da parte del Governo.

 

 

 

 

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