Diagrammi di fine anno
Una seconda serie di diagrammi, selezionati dalla fine di novembre a questi giorni (Natale 2021).
Scelgo queste tabelle per quello che mi pare il loro interesse singolo, senza una particolare connessione dell’una con l’altra; ma devo dire che di solito è questo il modo in cui appaiono sui siti Twitter degli economisti che le usano maggiormente. Twitter, il social che raccoglie i “cinguettii” (”tweets”, in inglese), come forse è noto, si distingue per una regola di estrema brevità degli interventi, che non possono superare un certo numero di parole. La regola è abbastanza scema e di fatto è stata ampiamente utilizzata in modo scemo: sino a non molti mesi fa la politica americana sembrava appesa alla attesa del prossimo ‘cinguettio’ di Trump (in genere una specie di sassata lanciata su un avversario, su un giornale ostile, su una categoria di cittadini o su un paese intero). Cinguettare, in quel caso, è un modo per sottolineare il proprio potere, una sorta di diritto sovrano ai giudizi fulminanti; per molti media una manna di sentenze senza appello che alimentano cicli di informazione semplice sul nulla.
Ma siccome la regola non impedisce la pubblicazione di singole tabelle, vari economisti hanno cominciato ad usarla come una occasione per segnalare informazioni sintetiche – diagrammi – che non richiedono alcuna presentazione e che possono essere accompagnate da poche parole. In pratica, quei siti di Twitter sono diventati un ‘deposito di informazioni’, apparentemente disordinato ma assai significativo.
Insomma, quel ‘social’ ospita una strana guerra, o meglio, una strana coabitazione di intelligenza e stupidità. In sostanza, questi diagrammi soddisfano – ma spesso su aspetti cruciali – la curiosità più varia del lettore, lasciandolo però libero di inserire l’informazione nella sua personale trama di ragionamenti. Quindi … continuiamo con quello che ci è sembrato più interessante nelle ultime settimane.
1 – Come nacque il primato storico nell’istruzione primaria negli Stati Uniti
Da Krugman Twitter 21 novembre
Il diagramma mostra un primato ‘vero’ della storia degli Stati Uniti: il tasso di iscrizione nelle scuole primarie, che dal 1820 al 1860 interessò la totalità dei bambini americani. Come si vede, ci volle da cinquanta anni ad un secolo perché l’Italia, la Germania e il Regno Unito arrivassero gradualmente a quel livello. Solo la Francia ci arrivò d’un balzo attorno al 1860. In quel caso, forse, fu l’effetto – per quanto un po’ tardivo – della cultura illuministica e della centralità che in essa aveva acquistato la scuola pubblica laica.
In un editoriale sul New York Times del 22 novembre (“Spendere come se il futuro fosse importante”) Krugman sottolinea come il movimento per l’educazione di base universale sia stato un fondamento del successo della società americana e come un ruolo perticolare in quella storia sia stato quello di un grande educatore, figlio di contadini, di nome Horace Mann (Franklin 1796, Yellow Springs 1859).
Questo primato proseguì in modo forse anche più significativo nelle scuole superiori nel Novecento, e poi nelle università. Suppongo che questa lunga storia spieghi anche l’attrazione che persiste ai giorni nostri del sistema universitario americano nei confronti di giovani ricercatori di talento da tutto il mondo.
2 – Inefficacia e costi di un sistema sanitario prevalentemente privatizzato
Da Milanovic Twitter, 29 novembre 2021
Nel diagramma, la spesa sanitaria come percentuale del PIL viene rappresentata nel confronto con l‘aspettativa di vita. Sull’asse verticale la aspettativa di vita – da 78 anni a circa 85 anni; sull’asse orizzontale la percentuale della spesa sanitaria sul PIL.
Come è noto, la spesa statunitense è fortemente condizionata dal peso di spese fondamentalmente burocratiche che derivano dalla privatizzazione di buona parte del sistema assicurativo (ad esempio, regole, contenziosi e controlli tra le varie assicurazioni private e i cittadini singoli, o competizione propagandistica, o altro).
Il risultato è che l’America ha una spesa molto più elevata ed una aspettativa di vita significativamente inferiore (gli americani campano cinque anni di meno, in media, dei giapponesi e degli italiani). Come è chiarissimo nella tabella, e come commenta Milanovic, l’America è l’effettivo “outlier” nel mondo sviluppato, ovvero la vera eccezione.
(In genere in Europa si stenta a comprendere quanto il sistema sanitario americano caratterizzi quella società e le sue dinamiche politiche. Per chi voglia comprenderlo meglio, una lettura fondamentale è quella dei coniugi Anne Case e Angus Deaton – vari articoli si trovano qua tradotti – nei loro studi sulle ‘morti per disperazione’, che al secondo sono valsi il Nobel per l’economia nel 2015).
3 – Il fenomeno americano – ma non europeo – della ‘Grande Dismissione’ dai posti di lavoro
Krugman Twitter 24 novembre ’21 zzz 357
Il diagramma mostra la differenza tra i tassi di attività della popolazione nella ‘principale età lavorativa’ (ovvero, secondo la convenzione statistica, tra i 15 ed i 65 anni) in Europa (linea blu) e in America (linea rossa). Se non sbaglio, per tasso di attività si deve intendere sia le persone che sono effettivamente occupate che quelle che sono attivamente alla ricerca di lavoro. Tra esse, comunque, anche tutti coloro che stanno godendo di sussidi temporanei di disoccupazione o di periodi di cassa integrazione. Si consideri, infine, che una differenza di pochi punti percentuali corrisponde in cifre assolute a qualche milione di lavoratori.
Nel terzo trimestre del 2019, i tassi di attività erano alla pari. Dopo il periodo più intenso della pandemia, la ripresa europea è stata evidentemente rapida, mentre quella americana è stata lenta e tuttora con effetti parziali. È quello che gli economisti americani (si vedano qua i vari articoli di Krugman o di DeLong) hanno definito la ‘Grande Dismissione’. Ovvero il temporaneo rifiuto di una parte dei lavoratori americani – in particolare, pare, di coloro che sono più vicini alla pensione – di tornare ai precedenti posti di lavoro, nella speranza di trovarne di meglio o di smettere prima del previsto. (Per questo traduco “Great Resignation” con ‘Grande Dismissione’; chiamare, come talora si legge, “dimissioni dal lavoro” la disoccupazione mi sembrerebbe un po’ come chiamare la fame “astinenza dall’appetito”.)
Non è dunque una differenza da poco. In vari articoli recenti Krugman la spiega con le peggiori condizioni lavorative dell’America, in particolare per i lavoratori con salari più bassi, unite al peggiore trattamento su vari aspetti, come i periodi di vacanze retribuite, i congedi parentali, o la rete più scarsa di scuole per l’infanzia.
4 – Le differenze tra redditi e ricchezze
Da Gabriel Zucman, Twitter 8 dicembre 2021
Gli studiosi delle diseguaglianze globali utilizzano ovviamente soprattutto le statistiche dei redditi e delle ricchezze. I primi (riquadro di sinistra) sono i proventi del proprio lavoro e, assai più in generale, i compensi alle proprie funzioni, ma anche i profitti che derivano dalla attività di impresa; i secondi (riquadro di destra) sono i beni che si posseggono. Questi ultimi sono il quasi niente di coloro che stanno – come nel caso del 2% di questo diagramma – nel 50% più basso della scala sociale (rettangoli blu); oppure le proprie abitazioni, nel caso soprattutto del 40% più ricco della popolazione che si colloca sopra la fascia della quasi-nullatenenza (rettangolo verde); oppure le azioni e i dividendi che derivano dal possesso di capitale finanziario, che sono una caratteristica quasi esclusiva del 10% della popolazione più ricca o ricchissima (rettangoli rossi).
Come si vede nella tabella elaborata da Zucman, che è uno degli esperti di ineguaglianze globali più importanti al mondo, le diseguaglianze nei redditi e nelle ricchezze non sono affatto identiche. Ai ricchissimi va il 52% dei primi ed il 76% delle seconde. Il che dipende semplicemente dal fatto che le ricchezze in capitale finanziario sono una loro caratteristica quasi esclusiva. A chi sta nel rettangolo rosso vanno, oltre al resto, quasi tutte le azioni e i dividendi; a chi sta in quello verdolino soltanto le ricchezze immobiliari; a chi sta in quello blu, la ‘prole’, come si diceva un tempo.
5 – Le ineguaglianze dei redditi da lavoro, ovvero le diverse velocità dei salari dei ricchi e dei poveri
Da Gabriel Zucman Twitter 13 dicembre
Abbiamo però appreso che una novità assoluta nella distribuzione dei redditi, negli ultimi decenni, è stata che i ricchi si appropriano non solo dei redditi da capitale, ma anche dei redditi da lavoro.
Così la spiega Milanovic: “La seconda ineguaglianza sistemica è l’ “omoplutia”. Essa venne per la prima volta ‘diagnosticata’ negli Stati Uniti, dove sino a un terzo di coloro che erano nel decile di reddito dei più ricchi erano al tempo stesso ricchi capitalisti e lavoratori molto ben pagati. Può trattarsi di amministratori delegati con paghe molto elevate, di analisti finanziari o di esperti che hanno messo su capitali sufficienti dai risparmi o dagli alti stipendi, oppure di persone che hanno ereditato grandi quantità di asset, che sono andate alle scuole migliori e si sono assicurate posti di lavoro estremamente remunerativi – o di tutte queste cose assieme. Essi sono diversi dai capitalisti di un tempo, il cui unico reddito, per quanto elevato, proveniva dagli asset. Rappresentano davvero un nuova elite, invulnerabile alle crisi, in quanto hanno in abbondanza capitale sia “umano” che finanziario.”
Ci mostra Gabriel Zucman come una fondamentale caratteristica di questa novità è che essa raggruppa tassi di velocità diversissimi nella crescita salariale. Lo 0,1% dei ricchissimi (linea blu) in quarant’anni ha visto aumentare i propri compensi del 389%; l’1% dei molto ricchi (linea verde) del 179%; il 10% dei ricchi (linea arancione) del 69%; il 90% dei meno ricchi (linea rossa) – lavoratori semplici e classe media – del 28%. Poiché gli incrementi sono al netto dell’inflazione, per questi ultimi non c’è stata negli ultimi quaranta anni alcuna crescita reale, ma un netto decremento.
In conclusione, enormi diseguaglianze anche nei ‘redditi da lavoro’, dal momento che da qualche decina di anni i più ricchi imperversano anche in quella categoria. E soprattutto diseguaglianze che crescono con impressionanti differenze di velocità.
6 – Le ineguaglianze nella ricchezza – ovvero nel possesso di beni immobili e di capitali – nel mondo
Da Thomas Piketty, 6 dicembre ’21
Commenta Piketty: “Il 10 per cento dei più ricchi possiede dal 60 all’80 per cento nelle varie regioni del mondo. In modo identico, il 50 per cento dei più poveri non si stacca mai da meno del 5 per cento. E l’ineguaglianza nella ricchezza è venuta crescendo dopo il Covid”.
La tabella mostra come si distribuisce nella varie regioni del mondo la ricchezza globale tra tre gruppi di possessori di ricchezza: il 50% dei più poveri e meno ricchi (quadratini blu); il 40% dei ricchi (rettangoli verdi) ed il 10% dei ricchissimi (rettangoli rossi). L’acronimo MENA, il meno ovvio da tradurre, sta per Medio Oriente e Nord Africa.
Varie cose balzano agli occhi, nell’ordine di quella che mi pare la loro importanza politica e le indicherei in questo modo:
7 – Come anche l’Italia diventa ‘globale’
Da Milanovic Twitter, 6 dicembre 2021
Questa tabella, diversamente da quella precedente, riguarda i redditi e non le ricchezze immobiliari o finanziarie. Il diagramma indica la posizione delle varie categorie di redditi (i “decili” dell’asse orizzontale) nella graduatoria globale: il livello 1 riguarda la popolazione poverissima, il livello 10 quella ricchissima. L’asse verticale, invece, indica (in “percentili”) la graduatoria mondiale: ovvero, ad esempio, se un punto di una linea si colloca sul valore 50, significa che quella categoria di persone è al cinquantesimo posto della graduatoria del mondo.
La linea blu mostra la situazione nell’anno 1988, la linea arancione la situazione nell’anno 2013. E gli italiani più poveri, ovvero quelli che compongono il dieci per cento dei più poveri, nel 1988 stavano meglio del 72% della popolazione mondiale. Ma nel 2013 stavano meglio soltanto del 55% della popolazione mondiale. Ovvero, siamo nettamente retrocessi nella graduatoria, la globalizzazione ci ha spostato – o meglio, ha spostato i più poveri – sempre di più nella “Serie B”.
E il 2013 sono quasi dieci anni orsono. Osserva Milanovic che il peggioramento è in crescita e che: “Il caso italiano non è unico. In molti paesi ricchi, la situazione è simile”.
8 – I soldi in circolazione e l’inflazione. Una spiegazione che non spiega nulla.
Krugman Twitter 20 dicembre 2021
Molto spesso Krugman fornisce analisi sugli effetti della politica monetaria. Uno dei suoi principali obbiettivi polemici è la critica alle posizioni che in questi anni sono sempre più frequenti, secondo le quali stiamo finendo diritti nel disastro di una iperinflazione semplicemente provocata dai troppi soldi in circolazione a seguito di politiche monetarie ‘permissive’ (quali, ad esempio, quelle provocate dalla cosiddetta ‘facilitazione quantitativa’, ovvero dall’acquisto di grandi quantità di obbligazioni da parte delle Banche Centrali). Quest’ultima era l’idea di sostenere una forte ripresa dell’economia, sia rispetto ai danni prolungati nel tempo della crisi finanziaria globale del 2008, sia, più recentemente, ai danni della pandemia.
La sua riflessione più organica sui rischi di inflazione è contenuta nel lungo post del 16 dicembre (“Inflazione: l’anno dell’ignominia”). Naturalmente egli vede il problema derivante dal fatto che gli incrementi della ‘base monetaria’ non vanno di solito all’economia reale, ma si fermano nelle banche: quella è la ragione per la quale da decenni sostiene assieme ad altri che la politica a favore della ripresa dovrebbe esprimersi nella spesa pubblica, più che nelle iniziative delle autorità monetarie. Ed è la ragione per la quale ha difeso con energia il programma di Biden del Ricostruire meglio, che in questi giorni rischia un mezzo fallimento per effetto del voltafaccia di un Senatore democratico (il Joe Manchin dal quale ora dipendono le sorti dell’economia americana e di Biden stesso, nelle prossime elezioni di ‘medio termine’).
Ma non rinuncia mai a polemizzare anche su altri aspetti ‘teorici’ della faccenda; a cominciare dall’assunto che gli incrementi della base monetaria di per sé siano fatti propri dall’economia reale e, conseguentemente, provochino inflazione. La tabella mostra come la linea blu, che mostra gli andamenti della base monetaria, negli ultimi quaranta anni non abbia mai sensibilmente influenzato l’andamento dei prezzi al consumo. Il commento ironico di Krugman alla tabella è: ““… ricevo una gran quantità di mail da individui che sanno con certezza che l’inflazione sta andando alle stelle a causa dell’offerta di moneta. Dato che essa ha funzionato così bene nel corso dei decenni passati!”)
Ma forse il testo più significativo della sua ricostruzione dei rapporti tra politica monetaria e inflazione nella storia americana dagli anni ’30, lo si legge sul post sul suo blog del 3 dicembre scorso (“La moneta non è tutto”).
9 – Tempi cinesi e rapidità texane.
Diagramma ‘raggiunto’ tramite Milanovic Twitter, dicembre 2021
Quest’ultimo diagramma mi ha solo incuriosito, anche se forse – data la intuibile velocità delle transazioni in cripto valute nel mondo – non ha in sé un enorme significato. Mostra in un periodo di tempo molto breve – dal settembre del 2019 all’agosto 2021 – cosa è accaduto nella transazioni in cripto valute, dopo che la Cina ha deciso di metterle al bando.
Verso la fine del 2019 la Cina aveva una quota del 75,5% della “estrazioni” (in inglese “mining”) di cripto valute, ovvero delle procedure informatiche attraverso le quali esse si materializzano nelle transazioni. Nell’ambito della più generale politica cinese di questi ultimi anni – il cosiddetto ‘giro di vite’ su vari aspetti del capitalismo considerati maggiormente malefici, dal mercato della valute elettroniche private ai grandi debiti delle società immobiliari, al peso aggressivo delle privatizzazioni nel sistema scolastico – a settembre del 2019 la Cina ha deciso di mettere al bando l’ “estrazione” delle cripto valute. Nel giro di poco più di un anno, è passata dal 75,5% allo 0%. Nel frattempo sono cresciute di circa il 30% le transazioni in America (pare soprattutto nel Texas), di quasi il 9% quelle in Canada, di circa il 12% quelle in Kazakistan e di quasi il 6% quelle in Russia.
Colpisce la velocità della ‘governance’ cinese, nonché la velocità nell’approfittarne da parte del resto del mondo, soprattutto dove comandano i clienti migliori di quel mercato valutario (magnati del petrolio in primis).
By mm
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