Jan. 17, 2022
By Paul Krugman
Remember when New York City was doomed? The first wave of the Covid-19 pandemic hit the city like a hammer, killing more than 20,000 New Yorkers over the course of a few months. And many commentators asserted that it was New York’s lifestyle — in particular, its uniquely high population density and reliance on mass transit — that made it so vulnerable.
As it turned out, however, this was all wrong. New York suffered badly at the beginning because it’s still America’s leading gateway to the world, so it got heavily infected first, at a time when we didn’t know much about how to protect ourselves from the coronavirus. Since then the city has done pretty well on the health front.
It has not, however, done nearly as well on the economic front. And thereby hangs a tale that’s relevant not just to New York, but to blue America in general.
About the pandemic: During the Delta wave, the combination of high vaccination rates, widespread mask-wearing and public health precautions — you can’t do much indoors in the Big Apple without showing your vaccine card — helped make New York one of the safer places in America, suffering a far lower Covid-related death rate than rural counties or sprawling, car-dependent cities like Dallas. The Omicron wave also hit New York first but appears to be receding fast.
And soaring rental rates, which appear to be more or less back to their prepandemic level, suggest that New York is once again seen as an attractive place to live. Sorry, but I can’t resist quoting the investment manager who declared, “The main problem with moving to Florida is you have to live in Florida.”
Indeed, New York is a great place to live — if you can afford the cost of housing. That last point, however, is a problem, and it lies behind the city’s lagging economic recovery.
All of America suffered steep job losses in the early months of the pandemic. New York City’s job losses, however, were much bigger in percentage terms than the national average, and as the national economy has recovered New York hasn’t made up the lost ground.
What’s behind this underperformance? Some of it reflects the effects of the pandemic on tourism and business travel — Times Square was just starting to become intolerable again (normally nobody goes there because it’s too crowded) before Omicron hit. But the larger issue, I’d argue, is New York’s lack of economic diversity.
That may seem a strange thing to say about a city that is incredibly diverse in so many ways — including the jobs people have. But a city’s economic fortunes are largely driven by its “export base” — the things it produces that are sold elsewhere. This base normally has a large “multiplier”: Much of the money earned in the base is spent locally, supporting restaurants, shops, gyms and more. But the base is what drives the city’s growth.
And New York’s base is remarkably narrow for a city its size. As Harvard’s Ed Glaeser has pointed out, in economic terms the city is pretty much a monoculture: It sells financial services to the rest of the world and not much else.
Just looking at employment numbers can be misleading: Only about 8 percent of New York’s workers are employed in finance and insurance. But their incomes are so high compared with everyone else’s that they account for about 20 percent of the city’s economy and most of its export base.
And the trouble with having a one-industry economy is that bad things happen if something undermines that industry. Think of coal in West Virginia or cars in Flint, Mich.
The odd thing about New York’s troubles is that in some ways the city’s export base has been holding up fine; Wall Streeters aren’t decamping en masse. But what Wall Street has stopped doing, for now at least, is going to the office — because finance turns out to be one of those industries in which a lot of work can be done remotely. This in turn means that financial workers aren’t buying lunch, shopping downtown, going out to eat and so on. The problem, in other words, is less a shrinking base than a reduced multiplier.
But why has New York lost its economic diversity? The answer, surely, is that the immense purchasing power of Wall Street and those who serve it has collided with a housing stock limited by zoning and regulation, making the city too expensive for everyone except financiers and those who, directly or indirectly, cater to their needs. And the solution is obvious: Allow more housing to be built.
Which brings me to the question of what’s wrong with blue America — with New York just one example (California is worse). Conservatives will tell you that people are moving to Texas and Florida for the low taxes; but while New York’s taxes are indeed high, there’s not much evidence that they’re driving high-income residents away. What people are really doing is moving to places where housing is affordable, because governments don’t block new construction.
And in the case of New York, NIMBYism is ultimately the reason a great global city has become a one-industry town, leaving it unusually vulnerable to pandemic-driven economic dislocations.
Perché una città progressista è giù di corda,
di Paul Krugman
Vi ricordate quando New York City era data per spacciata? La prima ondata del Covid-19 colpì la città come una martellata, uccidendo nel corso di pochi mesi più di 20.000 newyorchesi. E molti commentatori sostenevano che dipendeva dallo stile di vita di New York – in particolare, dalla sua densità di popolazione singolarmente elevata e dal basarsi su mezzi di trasporto pubblico di massa – che la rendevano così vulnerabile.
Tuttavia, si scoprì in seguito che era tutto sbagliato. New York soffrì agli inizi pesantemente perché è ancora il principale cancello verso il mondo dell’America, dunque venne gravemente infettata per prima, in un periodo nel quale non sapevamo granché su come proteggerci dal coronavirus. Da allora la città sul fronte sanitario si è comportata abbastanza bene.
Tuttavia, non ha fatto neanche lontanamente lo stesso sul fronte economico. E di conseguenza c’è tutta una storia che non è importante solo per New York, ma per l’America progressista in generale [1].
Sulla pandemia: durante l’ondata della Delta, la combinazione di alti tassi di vaccinazione, di un uso generalizzato delle mascherine e delle precauzioni di sanità pubblica – non si può fare granché al chiuso nella Grande Mela [2] senza mostrare il proprio certificato di vaccinazione – hanno contribuito a rendere New York uno dei posti più sicuri dell’America: essa ha sofferto una tasso di letalità connesso con il Covid molte più basso delle contee rurali o delle città in espansione, dipendenti dall’uso delle automobili come Dallas. Anche l’ondata della Omicron ha colpito New York per prima, ma sembra che stia diminuendo velocemente.
E i costi degli affitti che salgono alle stelle, che sembra siano più o meno tornati al loro livello prepandemico, indicano che New York viene ancora considerata come un posto attraente per vivere. Sarà banale, ma non posso fare a meno di citare un operatore immobiliare che ha dichiarato: “Il principale problema dello spostarsi in Florida è che poi in Florida bisogna andarci a vivere”.
In effetti, New York è un gran bel posto dove vivere – ammesso che possiate permettervi il costo di una abitazione. Tuttavia, quest’ultimo aspetto è un problema, ed è esso che sta dietro il ritardo della ripresa economica della città.
Nei primi mesi della pandemia, tutta l’America a sofferto brusche perdite dei posti di lavoro. Le perdite dei posti di lavoro a New York City, tuttavia, in termini percentuali sono state molto superiori alla media nazionale e, quando l’economia nazionale si è ripresa, New York non ha recuperato il terreno perduto.
Cosa c’è dietro questa prestazione deludente? In parte essa riflette gli effetti della pandemia sul turismo e sul settore dei viaggi – Times Square, prima che arrivasse l’Omicron, stava ancora ricominciando ad essere intollerabile (normalmente nessuno ci va perché è troppo affollata). Ma io direi che il tema più generale è che New York manca di diversità economica.
Può sembrare strano dirlo su una città che è incredibilmente diversa in così tanti sensi – compresi i posti di lavoro che hanno le persone. Ma le fortune economiche di una città sono in gran parte guidate dalla sua “base di esportazioni” – le cose che produce che sono vendute altrove. È questa base che normalmente ha un grande “moltiplicatore”: molto del denaro guadagnato in essa è speso localmente, sostenendo i ristoranti, i negozi, le palestre ed altro ancora. Ma la base è quello che guida la crescita della città.
E New York ha una base considerevolmente ristretta per le sue dimensioni. Come ha messo in evidenza Ed Glaser dell’Università di Harvard, in termini economici la città è sostanzialmente una monocultura: al resto del mondo, vende servizi finanziari e non molto altro.
Guardare soltanto i dati dell’occupazione può essere fuorviante: soltanto l’8 per cento dei lavoratori di New York sono occupati nella finanza e nelle assicurazioni. Ma i loro redditi sono così alti al confronto con tutti gli altri che valgono circa il 20 per cento dell’economia della città e la maggior parte della sua base di esportazioni.
E il guaio nell’avere una economia di un solo settore è che accadono cose pessime se qualcosa mette a repentaglio quel settore. Si pensi al carbone nella Virginia Occidentale, o alle automobili a Flint, nel Michigan.
La cosa strana dei guai di New York è che in qualche modo la base delle esportazioni della città ha reagito bene; la gente di Wall Street non se ne è andata in massa. Ma quello che Wall Street ha smesso di fare è stato andare negli uffici – perché il settore finanziario è risultato uno di quelli nei quali molto lavoro può essere fatto da remoto. Questo a sua volta comporta che molti lavoratori non acquistano il pranzo, non fanno acquisti nel centro città, non vanno ai ristoranti e così via. Il problema, in altre parole, non è tanto una base che si restringe quanto un moltiplicatore che si riduce.
Ma perché New York ha perso la sua diversità economica? La risposta, certamente, è che l’immenso potere di acquisto di Wall Street e di coloro che vi operano si è scontrato con una riserva di alloggi limitata dalla pianificazione e dai regolamenti, rendendo la città troppo costosa per chiunque ad eccezione degli operatori finanziari e di coloro che, direttamente o indirettamente, soddisfano i loro bisogni. E la soluzione è evidente: permettere la costruzione di più alloggi.
Il che mi riporta alla domanda su quello che non funziona nell’America progressista – di cui New York è solo un esempio (la California è peggio). I conservatori diranno che le persone stanno spostandosi nel Texas e in Florida per la tasse basse; ma mentre le tasse a New York sono effettivamente alte, non ci sono molte prove che esse stiano spingendo altrove i residenti con redditi elevati. Quello che le persone stanno facendo davvero è spostarsi in luoghi nei quali gli alloggi sono sostenibili, perché i governi non bloccano le nuove costruzioni .
E nel caso di New York il “nimbismo” [3] è in ultima analisi la ragione per la quale una grande città globale è diventata come una cittadina con un solo settore, lasciandola vulnerabile in modo inconsueto agli sconvolgimenti provocati dalla pandemia.
[1] “Blu” è il colore dei democratici (rosso è quello dei repubblicani). Dunque una città ‘blu’ è una città democratica. Nel linguaggio politico americano, ‘progressista’ è invece una componente più radicale dei democratici. Ma in italiano ‘progressista’ è un termine di significato più generale, forse più adatto a definire gli orientamenti di una città intera che non l’appartenenza ad un partito.
[2] Il termine “Grande Mela” è diventato il nomignolo di New York per varie vie. L’origine più antica (1909) fu in un libro di Edward S. Martin, che paragonava lo Stato di New York ad un melo, con le radici nel Mississippi e il frutto a New York. Inoltre, “Grande mela” ha tradizionalmente il significato di qualcosa di affidabile, di una scommessa sicura. Ma una ‘grande mela rossa’ era anche il compenso che veniva dato negli anni ’30 ai musicisti jazz che suonavano ad Harlem ed a Manhattan, e New York era la capitale di successo del jazz nel mondo.
Nei primi ani ’70 il soprannome si impose, anche per effetto di una campagna di promozione turistica che, negli anni nei quali la criminalità era in auge, intendeva riferirsi alla complessiva ‘sicurezza’ della vita nella metropoli.
[3] Pare che la italianizzazione di “NymbYism” sia ormai ammessa. È il fenomeno per il quale i residenti sono in genere ostili alla espansione, nelle località dove risiedono, di nuovi quartieri popolari, o anche alla realizzazione di infrastrutture pubbliche. Nimby è l’acronimo di “Not in my backyard”: “non nel mio giardino”, “non vicino a casa mia”.
Ma la questione è un po’ più complessa. Mentre il “nimbismo” è facilmente comprensibile, ad esempio, nell’opporsi ad una discarica o a un depuratore, il suoi effetti sulla disponibilità di alloggi a prezzi ragionevoli ha un’origine diversa. Molte volte la pianificazione territoriale (“zoning”) inibisce, nelle zone residenziali, l’edificazione di edifici che non siano unifamiliari. Non si tratta affatto di realizzare edifici di centinaia di piani, ma anche semplicemente di costruire quelle che chiameremmo “case popolari” – ovvero edifici multifamiliari – in aree caratterizzate da villette singole. Tanto è vero che le modifiche che alcune città, ad esempio in California, stanno considerando è semplicemente quella di permettere anche in quelle aree semplicemente edifici a più piani. Ma il “nimbismo” americano è ostile anche a queste soluzioni. Evidentemente questo è anche il problema di New York, dove certo i “grattacieli” certo non mancano; quello che manca sono le case popolari nelle aree libere residenziali della “middle class”.
By mm
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