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Come evitare una recessione Putin, di Paul Krugman (New York Times, 14 marzo 2022)

 

March 14, 2022

How Not to Have a Putin Recession

By Paul Krugman

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Kevin McCarthy, the Republican House minority leader, said something cynical and transparently dishonest the other day. To be fair, that’s sort of an evergreen remark; you could have said the same thing about him just about any week over the past few years. But this particular statement seemed important, because it involved a lie that has a direct bearing on how America will respond to Russia’s invasion of Ukraine.

Here’s what McCarthy tweeted: “These are not Putin gas prices. They are President Biden gas prices.”

Now, that’s just false. You can argue about how much responsibility Biden’s policies bear for inflation in other parts of the economy, but the rising price of gasoline reflects the rising world price of crude oil, which hasn’t been significantly affected by anything Biden has done. And soaring crude prices have caused prices at the pump to surge in nations around the world, indeed by roughly the same amount. That is, these really are Putin gas prices.

Why does this matter? Aside from the crassness of McCarthy’s attempt to blame Biden for something that really, truly isn’t his fault, there’s an important economic issue here.

Like it or not, the world is facing a Putin shock: a surge in the prices of oil and other commodities as a consequence both of Russian aggression and of the West’s retaliation with economic sanctions. But will the Putin shock lead to a recession (outside Russia itself, which is probably facing a near-depression)?

The answer is that it doesn’t have to; we can avoid having a Putin recession. Whether we do depends on our policy response. And to get this response right, we’ll need to be clearheaded about the nature of the problem.

This isn’t the first time we’ve faced a surge in oil prices driven by events outside the United States. The famous examples are the price surges after the 1973 Yom Kippur War and the 1979 Iranian revolution, but there are other big examples, such as the price surge of 2010-2011 as the world economy recovered from the 2008 financial crisis. That surge, by the way, raised gasoline prices very sharply; relative to the average worker’s wages, they hit a peak equivalent to more than $5 a gallon today.

The broader economic consequences of those earlier shocks, however, varied considerably. The oil shocks of the 1970s were followed by severe U.S. recessions; the 2010-11 shock didn’t derail the ongoing economic recovery at all. What was different?

Way back in 1997 Ben Bernanke, Mark Gertler and Mark Watson published a classic analysis of the effects of oil price surges on the U.S. economy. They concluded that the recessions that often followed oil shocks mainly reflected “the endogenous monetary policy response.” In English (more or less), recessions happened not because oil prices went up, but because the Fed, fearing a wage-price spiral, responded to rising oil prices by sharply raising interest rates.

And that’s precisely what didn’t happen in 2010-2011. Despite intense pressure from Republicans who warned that the dollar was being debased, Bernanke — by then the chairman of the Fed — and his colleagues stayed the course, keeping rates low. And the Fed’s refusal to hike rates was vindicated by events: Gas prices leveled off, inflation didn’t take off, and the economy continued to grow.

What does that experience tell us about the current situation? If U.S. inflation were low, the right policy would be obvious: don’t raise interest rates. Unfortunately, we’ve come into the Putin shock with uncomfortably high inflation. And while I’m usually a dove on such matters, I do believe that the Fed should be taking its foot off the gas pedal. That is, it should be gradually raising interest rates to cool off an economy that looks somewhat overheated.

What the Fed should not do, however, is allow itself to be bullied into slamming on the brakes, drastically raising interest rates the way it did in the 1970s.

Rising oil prices will lead to some big inflation numbers over the next few months, and there will be a lot of pressure on the Fed to overreact. Some of this pressure will be coming from people like McCarthy, who insist in the teeth of the facts that high gasoline prices are being caused by domestic policy choices. Some of it will be coming from permahawks, in whose minds we’re always about to see a reboot of that ’70s show.

But 2022 isn’t 1979. Current inflation is high, as are expectations of inflation over the next year, but medium-term expectations of inflation haven’t gone up much and are nowhere near their levels circa 1980. This suggests that inflation isn’t getting entrenched in the economy. If the economy cools off a bit and the inflationary shock from oil prices is, as I expect it to be, a one-off affair, we’ll do OK if the Fed just keeps calm and carries on.

Could I be wrong? Of course. But consider the costs of being wrong in the opposite direction and slamming on the brakes unnecessarily. Right now, it looks as if steady policy can keep the Putin shock from turning into the Putin recession. And that’s the result we want to achieve if at all possible.

 

Come evitare una recessione Putin,

di Paul Krugman

 

Kevin McCarthy, il leader della minoranza repubblicana della Camera, l’altro giorno ha detto qualcosa di cinico e di apertamente disonesto. Ad esser giusti, era una specie classico; si potrebbe aver detto lo stesso modo più o meno ogni settimana, nel corso degli ultimi anni. Ma questa particolare dichiarazione è parsa importante, perché riguardava una bugia che ha un rilievo diretto su come l’America risponderà all’invasione russa dell’Ucraina.

Ecco quello che ha twittato McCarthy: “Questi non sono i prezzi della benzina di Putin. Sono i prezzi della benzina del Presidente Biden.”

Ora, ciò è proprio falso. Si può discutere di quanta responsabilità portino le politiche di Biden per l’inflazione in altri settori dell’economia, ma il prezzo crescente della benzina riflette il prezzo crescente nel mondo del petrolio greggio, che non è stato influenzato in modo significativo da niente che Biden abbia fatto. E i prezzi in crescita del greggio hanno spinto in alto i prezzi alla pompa in tutte le nazioni del mondo, in effetti grosso modo per gli stessi importi. Ovvero, questi sono proprio i prezzi della benzina di Putin.

Perché questo è importante? A parte la grettezza del tentativo di McCarthy di dare la colpa  Biden per qualcosa di cui non è assolutamente responsabile, in questo caso c’è un tema economico importante.

Piaccia o no, il mondo è di fronte ad uno shock Putin: una impennata dei prezzi del petrolio e di altre materie prime in conseguenza sia della aggressione russa che della ritorsione dell’Occidente con le sanzioni economiche. Ma lo shock di Putin porterà ad una recessione (ad eccezione della Russia, che probabilmente è già prossima ad una depressione)?

La risposta è che non dovrebbe succedere; possiamo evitare una recessione targata Putin. Che lo si possa fare, dipende dalla nostra risposta politica. E per prendere la risposta giusta, avremo bisogno di di avere le idee chiare sulla natura del problema.

Non è la prima volta che siamo di fronte a un’impennata dei prezzi del petrolio provocata da eventi esterni agli Stati Uniti. Gli esempi famosi sono gli aumenti dei prezzi dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973 e dopo la rivoluzione iraniana nel 1979, ma ci sono altri esempi come l’aumento del prezzo nel 2010-11, mentre l’economia mondiale si riprendeva dalla crisi finanziaria del 2008. Quell’aumento, per inciso, fece crescere i prezzi della benzina molto bruscamente; in rapporto ai salari medi di un lavoratore, raggiunsero un picco equivalente a 5 dollari al gallone oggi [1].

Le più generali conseguenze economiche di quegli shock precedenti, tuttavia, furono le più varie. Gli shock del petrolio negli anni ’70 furono seguiti da gravi recessioni negli Stati Uniti; lo shock del 2010-11 non fece affatto deragliare la perdurante ripresa economica. Cosa accadde di diverso?

Nel passato 1997 Ben Bernanke, Mark Gertler e Mark Watson pubblicarono una classica analisi degli effetti delle impennate dei prezzi del petrolio sull’economia statunitense. Essi giungevano alla conclusione che le recessioni che spesso seguivano gli shock petroliferi principalmente riflettevano “la risposta endogena della politica monetaria”. Detto più semplicemente, le recessioni (più o meno) avvenivano non perché salivano i prezzi del petrolio, ma perché la Fed, nel timore di una spirale salari-prezzi, rispondeva ai prezzi crescenti del petrolio elevando bruscamente i tassi di interesse.

E questa fu esattamente la ragione per la quale ciò non accadde nel 2010-11. Nonostante la forte pressione da parte dei repubblicani che ammonivano che il dollaro avrebbe subito una svalutazione, Bernanke – allora Presidente della Fed – e i suoi colleghi mantennero salda la rotta e tennero i tassi bassi. E il rifiuto della Fed di alzare i tassi venne risarcito dagli eventi: i prezzi della benzina si riequilibrarono, l’inflazione non decollò e l’economia continuò a crescere.

Cosa ci dice quella esperienza sulla situazione attuale? Se l’inflazione statunitense fosse bassa, la politica giusta sarebbe evidente: non elevare i tassi di interesse. Sfortunatamente, siamo arrivati allo shock di Putin con una inflazione elevata in modo sconfortante. E mentre io di solito su questioni del genere sono una ‘colomba’ [2], in questo caso credo davvero che la Fed dovrebbe togliere il suo piede dall’acceleratore. Ovvero, dovrebbe gradualmente elevare i tassi di interesse per raffreddare un’economia che appare in qualche modo surriscaldata.

Quello che la Fed, tuttavia, non dovrebbe fare, è permettersi di restare intimidita fino a pigiare sul freno, elevando drasticamente i tassi di interesse come fece negli anni ’70.

I prezzi crescenti del petrolio porteranno nei prossimi mesi ad alcuni dati rilevanti di inflazione, e ci sarà molta pressione sulla Fed perché abbia una reazione sproporzionata. Una parte di questa pressione verrà da individui come McCarthy, che in barba ai fatti insistono che gli alti prezzi della benzina sono provocati da scelte politiche nazionali. In parte verranno da coloro che sono eternamente ‘falchi’, nelle cui menti saremmo sempre alla vigilia di vedere una riedizione dello spettacolo degli anni ’70.

Ma il 2022 non è il 1979. L’attuale inflazione è elevata, come lo sono le aspettative di inflazione per il prossimo anno, ma le aspettative di inflazione a medio termine non sono salite molto e non sono affatto vicine ai loro livelli all’incirca del 1980. Questo indica che l’inflazione non si sta radicando nell’economia. Se l’economia si raffredda un po’ e lo shock inflazionistico derivante dai prezzi del petrolio è, come mi aspetto, un evento transitorio, ce la faremo se la Fed semplicemente si mantiene calma e va avanti.

Potrei sbagliarmi? Naturalmente. Ma si considerino i costi dello sbagliare nella direzione opposta e nello schiacciare il freno senza necessità. In questo momento, sembra che una politica salda possa trattenere lo shock Putin dal trasformarsi in una recessione Putin. Ed è quello il risultato che, se possibile, vogliamo ottenere.

 

 

 

 

[1] Il prezzo della benzina oggi negli USA è attorno a 4,7 dollari al gallone. E un gallone è pari a 3,785 litri.

[2] Ovvero, ‘sono molto moderato’, al contrario di una politica da ‘falco’, che sarebbe una politica aggressiva. Ma in questo caso Krugman sostiene che occorre essere moderati, ma non troppo. Diciamo così: essere ‘colombe’ ma non ‘piccioni’, che dalle mie parte indicano uccelli un po’ ingenui, che cadono facilmente nelle trappole.

 

 

 

 

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