Suddivido equamente alcuni diagrammi di quest’ultimo mese tra la guerra di Putin e le ineguaglianze nel mondo (che non sono minimamente scalfite dagli eventi).
1 – Chi sono gli oligarchi? Non si parla d’altro che di oligarchi, ma non direi che sia chiarissimo come sono nati; neanche è chiarissimo cosa abbia distinto la via russa ad un mercato capitalistico. Di sicuro sono gruppi di potere raccolti attorno alle massime autorità della Russia, ma non sembra siano stati particolarmente attivi nella storia politica e forse neanche decisivi nel crollo del comunismo, che fu un processo spesso preso in mano da personaggi che appartenevano alla storia dei partiti comunisti, dalla quale cercavano vie di fuga sulla spinta delle rispettive società. Si legga l’articolo di Milanovic del 4 marzo 2021 dal titolo “Distinguere tra le privatizzazioni post-comuniste e il Big Bang”. Gli oligarchi si affermarono quasi per decreto subito dopo quel crollo, nel momento in cui si decise la transizione verso una economia pienamente di mercato. Gli oligarchi sono stati coloro, evidentemente già un po’ ricchi e variamente competenti, ai quali fu consentito di comprare a prezzi di svendita settori interi dell’industria ex-sovietica. Praticamente, con il passaggio ad un mercato capitalistico, si pensò che la strada più rapida e conveniente per tutti era anzitutto quella di dotarsi di grandi capitalisti. Una procedura istantanea: dare pieni poteri ad un gruppo di individui equivalenti ai “padroni del vapore”, che in Occidente c’era voluto un secolo o due per realizzare. Si inventò in questo modo il vertice delle nuove società, con uno scambio di mezzi finanziari e di potere tra gli eredi del comunismo e i nuovi ‘padroni del vapore’.
Questa tabella che prendiamo a prestito da Zucman (Twitter 2 marzo) mostra quel che accadde.
Anzitutto si osserva che il peso economico di questi individui (la tabella è relativa alla quota di reddito dell’1 per cento dei più ricchi in più di un secolo) in Russia (linea blu) era stato attorno al 4% da subito dopo la rivoluzione bolscevica sino al crollo del comunismo. Un peso che era molto inferiore alla Francia (linea rossa) ed agli Stati Uniti (linea verde), paesi nei quali il reddito dei magnati si era quasi dimezzato per i costi della seconda guerra mondiale e delle ricostruzioni. Ma nel volgere di mesi o di pochi anni il loro peso aveva raggiunto o raddoppiato quello dei paesi occidentali.
Adesso il loro peso appare simile a quello dei magnati americani. Ma, come abbiamo imparato, il “reddito” non è la “ricchezza”. E mentre la “ricchezza” dell’1 per cento degli americani più ricchi è soprattutto finanziaria (azioni), quella degli oligarchi – che nella tabella non si vede – consiste in massima parte in quello che sono andati ad acquistare all’estero (ancora azioni, ville e imbarcazioni di lusso).
In conclusione: i perfidi oligarchi, sono in fondo la un po’ traballante versione russa del capitalismo occidentale, con il quale si sono perfettamente integrati. Agli inizi degli anni ’90, in Russia non avvenne di sicuro il processo della lenta affermazione di un mercato completamente autoregolato che venne descritta da Karl Polany ne “La grande trasformazione”; neanche la procedura più equilibrata e graduale che caratterizzò beneficamente altri paesi del vecchio blocco sovietico, come la Polonia, dove il cambiamento era stato segnato anche da altri protagonisti, come gli operai di Danzica. Le particolarità furono tre: le fortune degli oligarchi si decisero nel volgere di alcuni notti, riguardarono soprattutto il controllo dei settori delle materie prime e il tutto avvenne peraltro nel contesto di un impressionante impoverimento della società, che durò molti anni, con una sbalorditiva riduzione della aspettativa di vita. Ovvero (come spiega un recente un articolo qua tradotto di Katharina Pistor), il tutto non avvenne certo nel segno di una democratizzazione, ma piuttosto di una brutale verticalizzazione del potere.
Infine, se questa spiegazione apparisse non convincente e se il suo collocare il fenomeno degli oligarchi in una dimensione globale apparisse tendenzioso, si consideri con attenzione quello che scrive recentissimamente (8 marzo) Daron Acemoglu – qua tradotto – sulle connessioni di quel fenomeno con il sistema finanziario occidentale. Difficile sostenere che siano semplicemente una ‘malapianta’ che ci ha invaso, sia per l’entusiasmo con il quale sono stati accolti, sia per gli effetti che hanno prodotto nel nostro sistema finanziario stesso. Quello che occorre non dimenticare sono le dimensioni oggettive di quel fenomeno, al quale vanno peraltro sommati gli oligarchi delle autarchie di tutto il mondo, dimensioni che esprimono con chiarezza le sue implicazioni per il mondo intero. Ricorda Acemoglu alcuni risultati dei lavori sui paradisi fiscali e sui flussi dei capitali di Gabriel Zucman: si ragiona dell’8 per cento della ricchezza finanziaria globale (circa 7.500 miliardi di dollari). E la parte russa di quel fenomeno, i flussi degli oligarchi, corrispondono alla quota strabiliante del 52 per cento di tutte le ricchezze delle famiglie russe!
2 – Il dare e il togliere dell’Occidente. Si sente molto parlare dei danni economici che la Russia subisce dalla sanzioni dell’Occidente. È noto che i commerci del petrolio e del gas naturale sono stati esentati dalle sanzioni. Ma questo non significa che gli affari proseguano come prima; piuttosto il loro valore è più che raddoppiato, nel giro di poche settimane.
Questa è la tabella offerta su Twitter da Adam Tooze il 6 marzo che mostra come i pagamenti totali giornalieri dell’Unione Europea per il gas naturale russo erano attorno ai 200 milioni di dollari nel mese di gennaio, e sono schizzati a 660 milioni di dollari al giorno nei primi di marzo.
Tooze la definisce la “guerra economica asimmetrica”, ovvero – almeno per questo aspetto – una ‘manna’ per la Russia, in settori comprensibilmente esentati dalle sanzioni.
Ma questa fonte fondamentale della esportazione russa ha influito in qualche modo nella apparente determinazione con la quale Putin ha deciso l’invasione dell’Ucraina? Questo è spiegato da Tooze, nel suo esauriente articolo – qua pubblicato (“La sfida di Putin all’egemonia occidentale”, 11 gennaio 2022). Ci informa Tooze che questo ammontare delle riserve in valuta straniera, documentate nella tabella della Banca Centrale della Russia, nel giro di quindici anni è balzato al quarto posto nel mondo, inferiore soltanto a quello della Cina, del Giappone e della Svizzera, passando da meno di 100 miliardi di dollari nei primi anni 2000 ai 660 miliardi di dollari di queste ultime settimane (in questi giorni sembra sia si arrivati a 800 miliardi) . A partire dal 2013 il debito estero delle imprese russe in miliardi di dollari USA è invece sceso da 437 a 317 miliardi per le imprese russe, e da 230 a 80 miliardi per la Banca Centrale ed i settore bancario.
Krugman aveva varie volte minimizzato l’economia russa, presentata alla stregua di un semplice ‘petrostato’. Tooze lo corregge e scrive che forse è così, ma si tratta di un ‘petrostato strategico’, che se accumula risorse valutarie è perché possono servire nei momenti di crisi. Ovvero, un ‘petrostato’ non immemore della sua storia e delle sue pretese da grande potenza.
3 – Ma nelle crisi tumultuose, tra pandemia e guerre, come se la passano gli straricchi occidentali? Egregiamente, a quanto sembra. Si apprende da Zucman – Twitter del 12 febbraio – che le ricchezze dello 0,01 per cento degli americani più ricchi, negli ultimi dieci anni, sono cresciute di circa 2,3 volte, ovvero con un tasso di crescita del 9 per cento all’anno. Una tendenza regolarmente in espansione nel decennio, ma si osservi che il ‘grande balzo in avanti’ è precisamente avvenuto negli ultimi due anni.
Uno degli straricchi – peraltro un personaggio non silenzioso, che ama intervenire frequentemente sui social, ovvero Elon Musk – poche settimane orsono aveva scritto un breve commento nel quale lamentava la crescita del debito pubblico statunitense, in particolare durante la crisi del Covid. Il solito Zucman – Twitter dell’11 febbraio – confronta la crescita del debito pubblico nella pandemia con la crescita delle ricchezze private del minuscolo gruppo dello 0,01 per cento degli americani più ricchi. In quantità assolute i dati sono quasi identici: il debito pubblico è aumentato negli ultimi due anni esattamente quanto sono cresciute le ricchezze delle poche centinaia di cittadini più ricchi, attorno ai 5.000 miliardi di dollari per entrambi.
Però, il debito pubblico americano ha subito un arresto sul fronte decisivo per i democratici: il ‘grande cambiamento’ nella spesa pubblica sociale. Eccolo spiegato in una tabella che Tooze ci consegna il 18 febbraio.
Alla sinistra abbiamo in celeste la spesa pubblica promessa da Biden sulle spese militari e in blu quella sulle spese sociali e infrastrutturali; a destra la spesa pubblica effettivamente autorizzata sinora dal Congresso. La svolta miracolosa che sembrava annunciata in modo quasi emozionante come un rovesciamento dello Stato a-sociale americano, non c’è stata. Come è noto, è stato l’effetto del mancato consenso di due senatori democratici. La minuscola consistenza elettorale di due senatori, resa possibile da un sistema elettorale che dà lo stesso peso ad un Senatore della Virginia del Sud ed a quello della California che ha un multiplo di elettori, ha interrotto la ‘luna di miele’ di Biden.
4 – Le catene dell’offerta sono in crisi dappertutto? Ebbene, non sembra. In realtà, spesso nell’economia mondiale accadono cose che non sembra facile spiegare. Da mesi si sente parlare di difficoltà nelle cosiddette “catene dell’offerta”, che pare spieghino in buona misura l’impennata inflazionistica americana. Pareva fosse una circostanza che accomunava il mondo intero; si scopre invece che è soprattutto statunitense. Deriva dal fatto che i consumatori americani si sono, nella pandemia, precipitati sul mercato dei beni durevoli, per effetto del blocco di molti servizi (ristorazione, alberghi etc.)? Questo non è accaduto in Cina, dove l’emergenza pandemica è stata assai più breve? E’ questo che spiega l’improvviso ingorgo nei porti statunitensi, provocato da una crescita inaspettata degli acquisti di prodotti durevoli? Oppure dipende da una organizzazione della logistica – porti, ferrovie, stoccaggi – che pare più efficiente in Cina? Resta il fatto che i problemi delle catene dell’offerta sono stati molto superiori negli Stati Uniti: nella tabella seguente si stimano le segnalazioni – ovvero, i risultati di sondaggi – dei tempi rallentati nelle consegne dei prodotti, nella linea celeste per gli Stati Uniti e in quella rossa per la Cina (la fonte, ancora Tooze, 1 febbraio 2022).
5 – Una “Via della Seta” che si snoda lungo una autostrada economica già esistente? Un dubbio – a proposito della nostra difficoltà a intendere – potrebbe derivare dal fatto che, mentre ingigantiamo volentieri i problemi dell’economia cinese, trascuriamo i suoi crescenti punti di forza. Un punto di forza è certamente quello del solidissimo insediamento cinese nell’economia generale dei paesi asiatici (ovvero di un arco di paesi che comprende India, Myanmar, Laos, Vietnam, Cambogia, Indonesia, Australia, Filippine, Thailandia, Malesia, Singapore ed altri). Quest’ultima tabella confronta – a sinistra – le esportazioni di questi paesi verso gli Stati Uniti (celeste) e la Cina (rosso), e a destra le relative importazioni dagli Stati Uniti e dalla Cina. Sappiamo tutto della crisi della più grande società cinese di costruzioni, e sappiamo anche tutto della strategia americana per opporre alla “Via della Seta” una nuova alleanza regionale filo-occidentale, magari con un coinvolgimento abbastanza ‘eccentrico’ della NATO. Con il che ci pare di sapere a sufficienza. Poi si scopre che questi sono i dati reali della forza economica cinese in Asia. Come a dire che la “Via della Seta” sarebbe un completamento di una autostrada che già esiste.
By mm
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