April 4, 2022
By Paul Krugman
I grew up in a relatively equal society, at least as far as incomes were concerned. Obviously there were class differences in 1974, the year I graduated from college; some jobs paid much better than others, some people were rich while others were desperately poor. But for most Americans these differences were much narrower than they are today.
It was an era in which many though not all blue-collar jobs offered solidly middle-class incomes and lifestyles. Labor productivity in the early 1970s was less than half what it is today, but the average hourly wage of nonsupervisory workers, adjusted for inflation, was as high then as it was on the eve of the pandemic. And while the economic elite lived well, it was nothing like the extravagance we now take for granted. In 1973, C.E.O.s at major corporations were paid about 23 times as much as their workers; now the ratio is 351 to 1.
At the time, we took a broadly middle-class society for granted, imagining it was the natural condition of an advanced economy. Clearly, however, it wasn’t.
So what made that relative equality possible? A large part of the answer, surely, is that back then America still had a strong union movement. There is overwhelming evidence that in their heyday unions had a powerful effect in reducing inequality, both by raising their own members’ wages and by setting pay norms even for nonunion workers.
Which is why what happened on Staten Island last week — when workers at an Amazon fulfillment center voted by a wide margin to unionize — may be hugely significant.
I often encounter people who assume that the decline and fall of America’s private-sector unions — which represented 24 percent of private-sector workers in 1973, but only 6 percent last year — was an inevitable consequence of economic change. After all, weren’t the big, powerful unions concentrated in manufacturing? And weren’t they fated to lose power both because manufacturing declined as a share of employment and because international competition sapped their bargaining power?
But other countries have remained highly unionized — two-thirds of Danish workers are union members — even while experiencing deindustrialization comparable to what has happened here.
After all, why should unionization be mainly restricted to manufacturing? If I had to describe a company that would make an especially good target for unionization, it would be something like this: It would be a large company, with a lot of market power because it doesn’t face strong competition either at home or from abroad. It would also be a company that can’t credibly threaten workers with outsourcing their jobs to lower-cost locations if they unionize, because its business model depends on having most workers close to its customers.
It would, in short, be a company that looks a lot like Amazon. Consumers may experience Amazon as a sort of immaculate, untouched-by-human-hands experience: You click on a button and stuff appears on your doorstep. But the reality is that Amazon’s business success depends less on the quality of its website than on a huge network of fulfillment centers located close to major markets — like the one on Staten Island — that make it possible to quickly deliver a wide variety of products. The need to maintain this network is why Amazon employs more than a million workers in the United States, making it the second-largest private employer, after Walmart.
So why aren’t Amazon and Walmart workers represented by unions the way General Motors workers were when G.M. was America’s largest private employer? The answer, surely, is mainly political. The great unionization of U.S. manufacturing took place during the New Deal era, when federal policy was pro-union. The shift of the U.S. economy from manufacturing to services took place during an era of right-wing dominance, with federal policy hostile to unions and willing to turn a blind eye to hard-line — and sometimes illegal — tactics used by employers to block unionization drives. Indeed, Amazon aggressively fought to block a pro-union vote on Staten Island.
But it failed.
Now, maybe this labor victory was a fluke. It comes as Amazon workers in Alabama appear to have narrowly rejected a union. But maybe, just maybe, it represents a turning point.
You don’t have to romanticize unions to realize that a revival of unionization would, in multiple ways, make America a better society. Unions can, as I said, be a powerful force for equality. They could also reduce the craziness of U.S. politics.
I don’t just mean union members are far more Democratic-leaning than otherwise similar voters, although given the QAnonization of the G.O.P. I think it’s fair to call that a step toward sanity.
Beyond that, however, unions appear to be an important source of political information for their members, potentially helping voters to focus on real policy issues as opposed to, say, the existential threat posed by woke Disney.
OK, I’m making a big deal out of what so far is a small event. But if America manages to steer itself toward becoming a more equal, less insane polity, future historians may say that the turn began on Staten Island.
Un piccolo terremoto a Staten Island,
di Paul Krugman
Io sono cresciuto in una società relativamente equa, almeno per quanto riguardava i redditi. Ovviamente nel 1974, l’anno in cui mi sono laureato, c’erano differenze di classe; alcuni posti di lavoro erano pagati molto meglio che altri, alcune persone erano ricche mentre altre erano disperatamente povere. Ma per la maggioranza degli americani queste differenze erano molto minori di quanto non siano oggi.
Era l’epoca nella quale molti se non tutti posti di lavoro manifatturieri offrivano redditi e stili di vita da classe media. Nei primi anni ’70, la produttività del lavoro era meno della metà di quanto è oggi, ma il salario orario medio dei lavoratori alla produzione, corretto per l’inflazione, era alto come nel periodo della pandemia. E mentre le classi dirigenti economiche vivevano bene, non c’era niente della stravaganza che oggi consideriamo scontata. Nel 1973, un amministratore delegato di una società importante veniva pagato 23 volte il salario di un lavoratore; oggi il rapporto è 351 a 1.
A quel tempo, consideravamo garantita una società in generale di classi medie, immaginando che fosse la condizione naturale di una economia avanzata. Ciononostante, chiaramente non è stato così.
Dunque, cosa rendeva possibile una relativa equità? In gran parte, sicuramente, la risposta è che allora l’America aveva un forte movimento sindacale. Ci sono prove schiaccianti che i sindacati, nei loro anni migliori, ebbero un effetto potente nel ridurre l’ineguaglianza, sia elevando i salari dei loro stessi membri che stabilendo norme retributive anche per i lavoratori non sindacalizzati.
Questa è la ragione per la quale quanto è accaduto la scorsa settimana a Staten Island [1] – dove i lavoratori di un centro di distribuzione di Amazon hanno votato con ampio margine a favore della sindacalizzazione – può essere grandemente significativo.
Incontro spesso persone secondo le quali il declino e la caduta dei sindacati americani del settore privato – che rappresentavano nel 1973 il 24 per cento dei lavoratori del settore privato, ma soltanto il 6 per cento l’anno passato – siano stati una conseguenza inevitabile dei cambiamenti economici. Dopo tutto, i sindacati grandi e potenti non erano concentrati nel settore manifatturiero? E non erano destinati a perdere potere sia perché il settore manifatturiero è declinato come quota dell’occupazione, sia perché la competizione internazionale ha fiaccato il loro potere di contrattazione?
Eppure altri paesi sono rimasti altamente sindacalizzati – i due terzi dei lavoratori danesi sono membri di sindacati – pur avendo conosciuto una deindustrializzazione paragonabile a quanto è avvenuto da noi.
Dopo tutto, perché la sindacalizzazione dovrebbe essere ristretta principalmente al settore manifatturiero? Se dovessi descrivere una impresa che sarebbe un ottimo obbiettivo per la sindacalizzazione, essa sarebbe qualcosa di questo genere: una grande impresa, con un bel po’ di potere di mercato in modo da non subire una forte competizione all’interno come dall’estero. Essa sarebbe anche un’impresa che non può seriamente minacciare i lavoratori di portar via in località con costi minori i loro posti di lavoro se aderiscono ad un sindacato, perché il suo modello di impresa dipende dall’avere la maggioranza dei lavoratori vicina ai suoi clienti.
Sarebbe, in breve, un’impresa che assomiglia molto ad Amazon. I consumatori possono essersi fatti un’idea di Amazon come una specie di fenomeno immacolato, intangibile da mani umane: si pigia un bottone e gli oggetti appaiono alla vostra porta. Ma la realtà è che il successo degli affari di Amazon dipendono meno dalla qualità del suo sito web che da una vasta rete di centri di distribuzione localizzato in prossimità di mercati importanti – come quello a Staten Island – che rendono possibile la consegna rapida di una ampia varietà di prodotti. Il bisogno di mantenere questa rete è la ragione per la quale Amazon occupa più di un milione di lavoratori negli Stati Uniti, facendo di essa il secondo più grande datore di lavoro privato, dopo Walmart.
Perché dunque i lavoratori di Amazon e di Walmart non sono rappresentati da sindacati nel modo in cui lo erano i lavoratori della General Motors quando essa era il più grande datore di lavoro privato d’America? Sicuramente, la risposta è principalmente politica. La grande sindacalizzazione del settore manifatturiero statunitense ebbe luogo nell’epoca del New Deal, quando la politica federale era a favore dei sindacati. Lo spostamento dell’economia statunitense dalle manifatture ai servizi ebbe luogo in un’epoca di dominio della destra, con una politica federale ostile ai sindacati e disponibile a chiudere un occhio dinanzi ai comportamenti duri – e talvolta illegali – utilizzati dai datori di lavoro per bloccare le spinte alla sindacalizzazione. In effetti, Amazon ha combattuto in modo aggressivo per bloccare un voto a favore dei sindacati a Staten Island.
Ma ha fallito.
Ora, forse questa vittoria del lavoro è stata una combinazione. Essa arriva nel mentre i lavoratori di Amazon in Alabama sembra abbiano respinto di misura un sindacato. Ma forse, solo forse, essa rappresenta un punto di svolta.
Non è necessario avere un’idea romantica dei sindacati per comprendere che una ripresa della sindacalizzazione renderebbe, in molteplici modi, l’America una società migliore. I sindacati possono essere, come ho detto, una forza potente a favore dell’equità. Possono anche ridurre la follia della politica americana.
Non intendo dire soltanto che i componenti dei sindacati sono di gran lunga di tendenze più favorevoli ai democratici che non altri elettori simili, sebbene data la sempre maggiore assimilazione del Partito Repubblicano a QAnon [2], penso che sia giusto definirlo come un passo avanti verso la salute mentale.
Oltre a ciò, tuttavia, i sindacati sembrano essere una fonte importante di informazione politica per i loro membri, potenzialmente aiutando gli elettori a concentrarsi sui temi politici reali, piuttosto che, ad esempio, sulla minaccia esistenziale di cancellare la cultura disneyana [3].
È vero, sto ingigantendo una vicenda che sinora è un evento modesto. Ma se l’America riuscisse a indirizzare se stessa verso una società più equa e verso un sistema di Governo meno pazzesco, gli storici del futuro potrebbero dire che quella svolta ebbe inizio a Staten Island.
[1] Staten Island, corrispondente alla contea di Richmond fondata nel 1683, è un’isola di 265 km² ed è uno dei cinque distretti (in inglese borough) della città di New York, insieme a Bronx, Queens, Manhattan e Brooklyn. Gli abitanti di Staten Island sono 463 000 (dati del 2006), il 44% dei quali di origine italiana. Wikipedia.
[2] QAnon: è una teoria del complotto di estrema destra secondo la quale esisterebbe un’ipotetica trama segreta organizzata da un presunto Deep State (Stato profondo, l’insieme dei cosiddetti “poteri forti“) contro il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e i suoi sostenitori, i quali avrebbero all’opposto assunto il potere con l’obiettivo di scardinare il Nuovo ordine mondiale, considerato colluso con reti di pedofilia a livello globale, pratiche sataniste, oscure cabale occulte, e in generale avente per obiettivo il dominio mondiale. (Wikipedia)
[3] Il termine “woke” indica tutta la cultura di ispirazione democratica contro il razzismo, per l’uguaglianza di genere, contro le estreme disparità sociali. La “cultura della cancellazione” è un altro recente fenomeno americano. Inizialmente si è espresso con le posizioni che sostenevano la rimozione – per questo si parla di ‘cancellazione’ – di ogni forma di deferenza verso uomini ed episodi che ricordavano un passato disonorevole (ad esempio, monumenti o nomi di strade di generali sudisti, di personaggi coinvolti nello schiavismo etc.). In seguito, di “cultura della cancellazione” ha parlato soprattutto la destra, come una reazione a quel revisionismo democratico, considerato ‘non-americano”.
Dunque, in un certo senso i due termini vanno considerati assieme. “Woke” è un aggettivo che in una certa misura richiama alcune delle idee delle pretesa “cultura della cancellazione” e entrambi i termini sono usati sia a sinistra che a destra, ma forse soprattutto a destra. E sembra che nella polemica recente della destra americana si paventi anche il pericolo che la cultura “woke” finisca per indirizzarsi in modo sacrilego addirittura contro la tradizione disneyana.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"