Oct. 18, 2022
Branko Milanovic
I went to Rana Faroohar’s book party in New York tonight. Faroohar has a new and important book, “Homecomings” that dissects globalization as we know it and looks ahead. I have not read the book, and did not even ask Faroohar for a free copy (which were aplenty at the party tonight): the reason is that I know how authors struggle to write cute dedications in the midst of a party, and I did not feel like imposing this onto Faroohar. (In addition, I think I can afford to buy the book). But I have read her articles in the Financial Times, and was told at the party tonight that she had an important–programmatic—op-ed in today’s issue of the Financial Times. So I bought today’s FT. The link to Faroohar’s article is here.
Faroohar’s point is not new, but is told with unusual clarity and it comes at the right time. It is that the West should abandon globalization. Instead of it, the West should revert to trade blocs, in this case created between the nations sharing certain political values and geopolitical interests. It should use “friend-shoring”, the new term invented by Chrystia Freeland, the Canadian vice-Premier, whose recent talk at the Brookings Institution in Washington is quoted with approval by Rana Faroohar.
There are two reasons why the West should abandon globalization. The first is that it was not good, economically, for its middle classes. The “elephant graph”, originally produced by Christoph Lakner and myself, tells that story in a nutshell: the period of high globalization between 1988 and 2008, was good for Asian middle classes and the global top one-percenters, but not for the Western middle classes. Second, geopolitically, globalization helped the rise of China which is already now, but will be even more so in the future, the main military and political competitor of the United States. China today accounts for 21% of the global GDP vs America’s share of 16% while in 1988 the percentages were respectively 3.6% and 20%.
Now, these two arguments why globalization should be scrapped in favor of regional blocs do make perfect sense from the point of view of Western governments’ political interests. The idea was, to the great but undeclared chagrin, of the American liberals first raised by Donald Trump. Now the liberals, in this respect like in several others, are happy to follow in Trump’s footsteps.
The problem is how to explain this volte-face to the rest of the world. The Western narrative has, since 1945, been built precisely on the opposite view: open trade helps all the countries and leads to peaceful coexistence. While one need not subscribe to the Montesquieu-Bloch-Doyle view of trade as an engine of peace, the economic arguments in favor of open trade were always strong. China and India and Indonesia and Vietnam and Bangladesh made them even stronger.
Now, the West that was the principal ideological champion of free trade has soured on it because it no longer works in its favor. But whether it does or does not, is, from a global perspective, immaterial: the idea of open trade was not based on particular benefits to one side—as mercantilism was—but to the mutual benefits for most. The gains were not, ever, thought to involve absolutely everybody, but the idea was that the losing parties would be compensated domestically, or at least that their particular losses will not be allowed to derail the entire process.
We are now told that we need to go back to the drawing board. But we are not allowed to call these reversals by their real names. Their real name is trade blocs. They have existed before: there were called UK imperial preferences, Japan’s co-prosperity zone, Grosse Deutschland’s Central European area, Soviet Council for Mutual Economic Assistance. They also responded to geopolitical interests of the countries that introduced them. For some 80 years they were held to have been ideologically retrograde, part of “beggar-they-neighbor” quasi autarkic policies. Now, we are to believe that “friend-shoring” is somehow different. It is not. It just mercantilism under a new name and trade blocs in a different costume.
There is a further problem. The West was “in charge” of the dominant economic ideology. That ideology pervaded all international organizations. If the West is now going for “friend-shoring”, how is the IMF to explain to Egypt, Paraguay, Mali, and Indonesia that they should continue with open trade? If globalization is (rightly) credited with raising incomes in Asia and with the greatest reduction in global poverty ever, are we now to reverse policies on global poverty and to argue that regional trade blocs should become the economic basis from which to proceed? Who is going to tell this to the IMF, the World Bank and the WTO?
If the West abandons globalization, this is fully understandable from the mercantilist perspective of national grandeur. Colbert would approve. But one should not delude himself/herself in believing that the rest of the world can just be flipped on the drop of the hat, and would not notice the enormity of the ideological change that this implies. And would not wonder if the initial impulse that advocated economic openness might not have been based on geopolitical concerns that are now found wanting.
One simply cannot maintain the universal validity of an ideology that one does not follow.
Torniamo al mercantilismo e ai blocchi commerciali!
Di Branko Milanovic
Stanotte sono andato al ricevimento per il libro di Rana Faroohar [1] a New York. Faroohar ha un nuovo e importante libro, “Rimpatriata”, che analizza la globalizzazione come la conosciamo e guarda avanti. Non ho letto il libro, e non ho nemmeno chiesto alla Faroohar una copia gratuita (al ricevimento di stanotte ce n’era una gran quantità): la ragione è che so come gli autori sono in difficoltà a scrivere graziose dediche nel mezzo di un ricevimento, e non me la sentivo di infliggere questo castigo alla Faroohar (per di più, penso di potermi permettere di comprare il libro). Ma ho letto i suoi articoli sul Financial Times, e mi è stato detto al ricevimento di stanotte che c’era un suo importante commento nell’edizione odierna del Financial Times. Questa è la connessione con l’articolo della Faroohar [nel testo inglese].
L’argomento della Faroohar non è nuovo, ma è espresso con inconsueta chiarezza è arriva al momento giusto: l’Occidente dovrebbe abbandonare la globalizzazione. Al posto di essa, l’Occidente dovrebbe tornare ai blocchi commerciali, in questo caso creati tra le nazioni che condividono determinati valori politici e interessi geopolitici. Si dovrebbe usare il nuovo termine di “localizzazione in paesi amici” inventato da Chrystia Feeland, la vice premier canadese, il cui recente discorso presso la Brooking Institution a Washington viene citato con approvazione da Rana Faroohar.
Ci sono due ragioni per le quali l’Occidente dovrebbe abbandonare la globalizzazione. La prima è che essa non è stata positiva, economicamente, per le classi medie. Il “grafico dell’elefante” [2], all’origine prodotto da Christoph Lakner e dal sottoscritto, racconta la storia in estrema sintesi: il periodo della globalizzazione tra il 1988 e il 2008, è stato positivo per le classi medie asiatiche e per l’1 per cento dei più ricchi globale, ma non per le classi media occidentali. Il secondo, la globalizzazione, in termini geopolitici, ha contribuito alla crescita della Cina che è già oggi, ma lo sarà maggiormente nel futuro, il principale competitore militare e politico degli Stati Uniti. La Cina oggi pesa il 21% del PIL globale contro una quota del 16% dell’America, mentre nel 1988 le percentuali erano rispettivamente del 3,6% e del 20%.
Ora, questi due argomenti sulle ragioni per cui la globalizzazione dovrebbe essere rottamata a favore dei blocchi regionali esprimono perfettamente la questione del punto di vista degli interessi politici dei Governi occidentali. L’idea era stata dei liberals americani, e in un primo tempo, con grande ma non espresso disappunto, sollevata da Donald Trump. Adesso i liberals, sotto questo aspetto come per vari altri, sono felici di seguire le orme di Trump.
Il problema è come spiegare questo voltafaccia al resto del mondo. La narrazione occidentale è stata, dal 1945, costruita sul punto di vista opposto: aprire i commerci aiuta tutti i paesi e porta alla coesistenza pacifica. Se non c’è bisogno di sottoscrivere l’opinione di Montesquieu – Bloch – Doyle del commercio come motore della pace, gli argomenti economici a favore delle aperture commerciali sono sempre stati forti. La Cina e l’India, e l’Indonesia, il Vietnam ed il Bangladesh, li hanno resi persino più forti.
Adesso l’Occidente, che è stato il principale campione ideologico del libero commercio, si è guastato con essa perché non opera più a suo favore. Ma che lo faccia o no, in una prospettiva globale, è irrilevante: l’idea del commercio aperto non era basata su particolari vantaggi per uno schieramento – come era stato il mercantilismo – ma sui benefici reciproci per la maggioranza. I benefici non erano mai stati pensati perché coinvolgessero proprio tutti, l’idea era piuttosto che le parti che ci rimettevano sarebbero state compensate all’interno, o almeno che non si sarebbe permesso che le loro particolari perdite facessero deragliare l’intero meccanismo.
Ci viene detto che dobbiamo tornare indietro per ricominciare da capo. Ma non ci viene consentito di chiamare queste inversioni con i loro nomi veri. Il loro vero nome è blocchi commerciali. Essi esistevano nel passato: venivano chiamati preferenze imperiali nel Regno Unito, zone di co-prosperità nel Giappone, Area Centrale Europea della Grosse Deutschland [3], Consiglio Sovietico per la Reciproca Assistenza Economica. Essi rispondevano anche agli interessi geopolitici dei paesi che li introducevano. Per circa 80 anni sono stati considerati ideologicamente retrogradi, parte delle politiche quasi autarchiche del “rovinare il proprio vicino”. Ora, dovremmo credere che la “localizzazione in paesi amici” è qualcosa di diverso. Ma non lo è. E’ solo mercantilismo sotto una nuova definizione e sono i blocchi commerciali in una diversa versione.
C’è un ulteriore problema. L’Occidente era “al timone” della ideologia economica dominante. Quella ideologia pervadeva tutte le organizzazioni internazionali. Se l’Occidente adesso si indirizza verso le “localizzazioni nei paesi amici”, come il FMI spiegherà all’Egitto, al Paraguay, al Mali e all’Indonesia che dovrebbero continuare con i commerci aperti? Se la globalizzazione è (giustamente) accreditata per i redditi crescenti in Asia e per la più grande riduzione della povertà globale di sempre, dobbiamo adesso rovesciare le politiche sulla povertà globale e sostenere che i blocchi commerciali regionali dovrebbero diventare la base economica dalla quale andare avanti? Chi lo andrà a spiegare al FMI, alla Banca Mondiale ed alla Organizzazione Mondiale del Commercio?
Se l’Occidente abbandona la globalizzazione, questo è pienamente comprensibile nella prospettiva mercantilista della grandezza nazionale. Colbert sarebbe d’accordo. Ma nessuno dovrebbe illudersi che il resto del mondo possa semplicemente essere rivoltato in un batter d’occhio, e che non noterebbe l’enormità del cambiamento ideologico che questo comporta. E che non si chiederebbe se l’impulso iniziale che sosteneva l’apertura economica potesse non essere basato sulle preoccupazioni geopolitiche che adesso si scoprono carenti.
Semplicemente, non si può affermare la validità universale di un’ideologia per poi non seguirla.
[1] Rana Aylin Faroohar è un’autrice americana, editorialista di affari e editore associato del Financial Times. È anche analista economica globale della CNN.
[2] Negli anni passati Milanovic utilizzò una tabella sulla distribuzione globale dei redditi. Essa suddivideva la popolazione mondiale in ‘percentili’ (da un valore 5 ad un valore 100, dove i valori bassi sono quelli dei non abbienti, mentre quelli alti sono quelli dei molto ricchi). Come si vede, i detentori dei redditi più bassi dal 1988 al 2008 hanno avuto una crescita impressionante, che soprattutto riguarda le popolazioni dei paesi emergenti, in particolare dell’Asia e dell’India. La curva precipita tra i percentili 65 e 80, che corrispondono in gran parte alle classi medie occidentali (che includono i lavoratori occidentali una volta ben posizionati nella graduatoria globale, e stagnanti da decenni). La curva torna ad avere un picco dal 10 all’1% dei più ricchi, ovvero per le persone ricchissime, dell’Occidente ma anche dell’Asia e dei paesi del Medio Oriente.
La curva disegna l’immagine di un elefante, dove la proboscide (da C a D) rappresenta il grande arricchimento dei più ricchi. La riproponiamo qua sotto:
[3] Großdeutschland (dal tedesco: Grande Germania), o, più propriamente, Großdeutsche Lösung (dal tedesco: Soluzione grande-tedesca) è un termine usato nel XIX secolo, quando la Germania era divisa in decine di stati indipendenti, che si riferiva al concetto di creare un unico grande stato tedesco, raggruppando tutte le popolazioni di origine tedesca, in contrapposizione al Kleindeutsche Lösung, soluzione piccolo-tedesca, nella quale si escludevano i territori e le popolazioni dell’allora Impero austriaco. Wikipedia.
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