In alcuni interventi, Branko Milanovic ha posto l’interrogativo di quanto, nella storia russa, sia stato decisivo il rapido fallimento, nei primi anni ’20, della NEP (la Nuova Politica Economica) ed ha osservato come quel fallimento abbia segnato la diversità tra la storia dell’URSS e la storia cinese degli ultimi decenni. È un suggerimento che in apparenza può sembrare un po’ ardito: quanto significato può racchiudere il confronto tra alcuni anni drammatici della storia russa degli inizi del secolo scorso, con eventi successivi di circa cento anni, in un mondo completamente cambiato?
La biografia politica di Nikolai Ivanovic Bucharin di Stephen F. Cohen – un libro pubblicato ormai mezzo secolo fa, nel 1971 – ci consente di studiare quel tema, forse anche di ‘viverlo’ con qualche emozione, considerato che fu quel rivoluzionario russo a concepire nel modo più conseguente quella svolta, a contribuire a determinarla ed a pagarne in seguito il prezzo con la vita, al momento del rovesciamento di quella politica sotto Stalin. In effetti, non si tratta soltanto di una ‘biografia politica’, ovvero non soltanto di una storia personale; è una storia impressionante di idee, del modo in cui si svilupparono in una contraddizione continua e di solito onestamente riflettuta con alcune delle loro premesse e con drammatici condizionamenti reali, finché non andarono a sbattere, nel caso di Bucharin con una dignità e coerenza quasi unica tra i molti che subirono la stessa sorte, contro un plotone di esecuzione staliniano. Il libro lo vedete qua accanto e, forse, lo si trova ancora, almeno sui mercati dell’usato.
Racconta Cohen che, negli anni della NEP, Bucharin era già stato da quasi un ventennio un dirigente di primo piano dei bolscevichi, pur essendo il più giovane della cosiddetta ‘vecchia guardia leninista’. Nel 1905, ancora sedicenne, era stato un dirigente studentesco a Mosca, amico di Ilja Erhenburg. Finito tre volte nelle carceri zariste, la terza per sei mesi, esiliato in un villaggio presso Arcangelsk, nel 1911 fuggì ad Hannover; poi trascorse i sei anni successivi in Svizzera, a Vienna, in Svezia e negli Stati Uniti, in stretto collegamento con il mondo degli esiliati, con i circoli socialdemocratici dei vari paesi, impegnato in una intensa attività intellettuale e nella scrittura del suo primo libro (“L’economia mondiale e l’imperialismo”). In quegli anni, tra le altre cose, approfondì la conoscenza dei lavori di grandi intellettuali della sociologia occidentale (Pareto, Weber, Michels), studiò e conobbe personalmente Hilferding. Il rapporto con Lenin fu continuo – sin dall’inizio un legame profondo, seppur attraversato da contrasti teorici anche aspri; negli USA entrò in amicizia e collaborò con Trotskyi. Nel febbraio del 1917 tornò a Mosca, e fu a capo del gruppo bolscevico di quella città e degli eventi successivi alla rivoluzione dell’ottobre.
La rivoluzione dei ‘dieci giorni che sconvolsero il mondo’ raccontata dal giornalista americano John Reed, un sommovimento che esplose a San Pietroburgo in apparenza in modi singolarmente fortunosi e con l’esito di una enorme manifestazione fraterna, in realtà, già nelle settimane successive, ebbe nella Mosca di Bucharin la forma di uno scontro assai più cruento (500 morti, contro i solo 6 di quella che in seguito venne chiamata Leningrado). Ma ben presto in più parti del continente russo – nei paesi baltici, nell’estremo nord, nel Caucaso, in Ucraina e in Siberia – essa si trasformò in una guerra sanguinosa nella quale si impegnarono variamente, in tempi diversi, truppe di tutti i paesi occidentali – tedeschi, inglesi, francesi, giapponesi ed americani, senza dimenticare una guarnigione di migliaia i soldati cecoslovacchi finiti spersi al di là degli Urali. Oltre la sua componente internazionale, fu uno schieramento che riunì tutti gli sconfitti dell’ottobre leningradese, ma che alla fine venne sostanzialmente guidato da ex ufficiali zaristi, e che in alcuni momenti del 1919 si avvicinò alla riconquista di Mosca e di Leningrado.
In un certo senso furono i ‘tempi supplementari’ della rivoluzione, al punto che ci si può chiedere se abbia senso ridurre la rivoluzione ai soli eventi dell’Ottobre. Tra le altre cose, la presa del potere nell’Ottobre avvenne sulla base di una alleanza tra i bolscevichi e il potente partito contadino dei socialisti rivoluzionari di sinistra, che erano maggioritari nei soviet rurali; alleanza che poi si ruppe in buona misura per la condotta di questi ultimi. Di fatto, si disposero nelle reali immense dimensioni del paese le forze che in effetti ancora si potevano contendere il potere; la rivoluzione fu figlia di quegli eventi e le sorti dello scontro non si decisero semplicemente negli eventi militari. Furono decisive le politiche e le condotte sociali di quegli schieramenti, quello che ognuno di essi aveva in mente di realizzare sui temi ormai almeno scoperchiati del futuro del paese: la conferma o la restituzione della terra da parte dei contadini, il potere degli operai nelle fabbriche e nelle istituzioni, la volontà di pace e di dignità dei soldati contro l’autoritarismo spesso feroce degli ex ufficiali zaristi.
La Russia uscì distrutta dalla guerra civile, con un apparato industriale ridotto a meno di un quinto dei livelli prebellici ed una produzione agricola che costrinse il paese a ripetute carestie, come non si erano viste neanche nel corso della Guerra Mondiale. Peraltro, nel 1918, nei mesi che precedettero la fine della Guerra Mondiale, l’epoca del ‘comunismo di guerra’ era cominciata a Brest-Litovsk con uno scambio mai visto con la Germania: l’uscita del paese dei soviet dalla guerra in cambio della rinuncia, agli inizi voluta quasi soltanto dalla caparbia volontà di Lenin, ad enormi territori: i paesi baltici, l’Ucraina, aree della Russia meridionale (uno scambio tra la pace ed una amputazione enorme di territori e di economie, che, tra parentesi, nel febbraio scorso ancora motivava l’indignazione di Putin e la sua appena trattenuta nostalgia per le presunte ragioni dell’Impero zarista).
Due anni, il 1919 ed il 1920, sembrano quasi un’inezia a fronte di quegli sconvolgimenti; e in effetti la svolta politica della NEP non venne agli inizi neanche, per così dire, spiegata con precisione. Spiegarla pienamente richiedeva essere capaci di andare oltre un muro costruito con una potente ideologia e impastato con un grande sacrificio di sangue. Ma la guerra civile non aveva impegnato solo milioni di persone singole, aveva impegnato direttamente le classi sociali; su molti fronti era stata decisiva la dislocazione di reparti di centinaia di migliaia di operai reclutati nelle principali zone industriali russe; milioni di contadini erano passati dai ‘bianchi’ ai ‘rossi’ nel giro di giorni, soppesando quale schieramento fosse più ostile dai modi nei quali si operavano le coscrizioni e la confisca dei cereali; ampi settori della cosiddetta intelligentzija, di impiegati dello Stato e di lavoratori autonomi, avevano conosciuto una discriminazione sociale mai vista con motivazioni ideologiche. Lo stesso Lenin, nei mesi che precedettero la sua morte, cercò di giustificare i cambiamenti che parevano necessari come un “ritirata strategica”, seppure riconoscendo che: “Siamo costretti ad ammettere un mutamento radicale nella nostra intera visione del socialismo … [che] consiste nel fatto che in principio ponevamo, e dovevamo porre, l’accento principale sulla lotta politica, sulla rivoluzione, sul potere conquistatore ecc. Ora l’accento principale sta mutando in misura tale da cadere sul lavoro culturale, organizzativo, pacifico” (pag. 144). Il singolare realismo di Lenin, lo costringeva a riconoscere per intero le dimensioni del cambiamento di rotta, ma a cercare modi per governare il radicalismo bolscevico persuadendo con gli argomenti della continuità degli obbiettivi di fondo.
Eppure si trattò di un passaggio cruciale, forse del maggiore e definitivo ‘test della verità’ di tutta la storia sovietica. Il libro di Stephen Cohen aiuta anzitutto a rimuovere questa reticenza e, in modo particolare, aiuta questa citazione di Bucharin, che egli riporta a pag. 151, sconcertante nella sua semplicità:
“[La Nep] non è solo una ritirata strategica, bensì la soluzione di un grande problema sociale, organizzativo, ossia la correlazione tra ambiti di produzione che dobbiamo razionalizzare e quelli che non possiamo razionalizzare. Vogliamo dire francamente: abbiamo cercato di assumerci l’organizzazione di tutto, anche l’organizzazione dei contadini e dei milioni di piccoli produttori … Dal punto di vista della razionalità economica era una follia.”
Ovvero, il riconoscimento che senza l’ausilio almeno parziale dei meccanismi del mercato capitalistico, non si poteva venire a capo della immane questione di un programma per la ripresa dell’economia, e l’ammissione che quello che si aveva avuto in mente era stato niente di meno che la soppressione di tutti quei meccanismi di mercato, e soprattutto la soppressione delle figure sociali nelle quali si strutturava quella forma di regolazione. Questo è un aspetto delle rivoluzioni comuniste nel mondo che spesso, mi vien da pensare, viene trascurato, per il duplice interesse che hanno avuto (o ebbero) i sostenitori di quelle rivoluzioni a sottovalutare la loro di solito impossibile iniziale radicalità, e l’interesse che ha avuto l’opposta narrazione occidentale a ridurle a mere ideologie autoritarie. In quelle letture, si perde la comprensione di come quella radicalità fosse imposta dalla stessa enormità della messa in crisi di assetti sociali e istituzionali feudali (come si riformano istituzioni secolari per le quali la ricchezza delle aristocrazie si misurava, come avveniva in Russia sino al novecento, dal possesso di milioni di ‘anime’, cioè di servi della gleba?); ma si perde anche il fatto che quel tentativo venne effettivamente messo in atto, perché a ciò costrinse anzitutto la natura feroce dello scontro, spingendo a sperimentazioni di ingegneria sociale che oggi percepiamo come pazzesche, quale l’immaginare che milioni di contadini e di piccoli impresari artigiani – la maggioranza assoluta delle persone al lavoro – potessero rinunciare a scambiare le loro merci sui mercati. O che lo Stato potesse funzionare sopprimendo, o comunque professando ostilità, verso tutte le figure sociali che si collocavano sopra la condizione proletaria, dai capitreni agli insegnanti, dai capireparto agli ingegneri, dai burocrati minori dello Stato – come erano i genitori di Lenin e di Bucharin – agli ufficiali degli eserciti.
In questa luce, il ragionamento di Milanovic su un secolo di varie NEP del mondo, su quelle mancate o subito abortite e su quelle realizzate, non appare più così azzardato: nelle rivoluzioni del secolo passato, il problema che si pose sempre fu quello del passaggio da una ingegneria sociale improvvisata e irrealizzabile, figlia di un cozzo violento sociale e militare con il passato feudale e con il colonialismo dell’Occidente, ad un compromesso tra i propositi della programmazione economica e le regole del mercato. Ma la particolarità di Bucharin non consistette soltanto nell’ammettere la profondità dell’abisso del comunismo di guerra. Come spiega Cohen, egli accompagnò quella comprensione con una intuizione anche più importante, che pure in questo caso possiamo affidare interamente ad una sua citazione (pag. 145), anch’essa espressa con molta semplicità e in connessione diretta con la citazione precedente:
“Prendendo troppo su di sé [il proletariato] deve creare un apparato amministrativo colossale. Per assolvere le funzioni economiche dei piccoli proprietari, dei piccoli contadini, esso richiede troppi impiegati ed amministratori. Il tentativo di sostituire queste piccole figure con cinovnicki [ovvero con funzionari] … dà origine ad un apparato così colossale che le spese per mantenerlo in vita si dimostrano incomparibilmente maggiori dei costi improduttivi che derivano dalla condizione anarchica della piccola produzione; ne risulta che quest’intera forma di amministrazione, l’intero apparato economico dello Stato proletario, non facilita ma si limita a intralciare lo sviluppo delle forze produttive.”
Le due citazioni di Bucharin dal libro di Cohen che abbiamo scelto possono sembrare semplicemente originate da una attitudine al pensiero pacato di un intellettuale attento ai fenomeni sociali, dotato di una consuetudine con il pensiero sociologico – come si è visto – non limitata al marxismo. Ma siamo negli anni iniziali della NEP, con Lenin che non è ancora morto e quando tutto deve ancora accadere. Negli anni successivi le sue due intuizioni – la necessità di un processo graduale e del riconoscimento di un ruolo al mercato, e il pericolo di una colossale burocratizzazione dell’esperienza sovietica – divengono ben più dirimenti e drammatiche. La burocratizzazione degli apparati economici acquista sempre di più connotati polizieschi e totalitari, in particolare dopo la svolta staliniana del 1928 che soppresse ogni traccia della NEP e instaurò il suo potere personale. In quegli anni il timore per una burocratizzazione improduttiva e troppo costosa, si trasformò nella constatazione di una degenerazione del socialismo nel Grande Leviatano totalitario, che pure l’intellettuale russo aveva profeticamente ravvisato nelle sue analisi del capitalismo tedesco durante la Guerra Mondiale. La seconda metà del libro di Cohen racconta questa storia, sino al grottesco processo a Bucharin e alla sua condanna a morte per fucilazione.
In sostanza, la NEP sovietica fu un breve interludio; anziché sperimentare un qualche compromesso tra il socialismo e il mercato, divenne quasi un involontario trampolino di lancio dello stalinismo. Almeno nel senso, che la sua breve storia certificò come fosse più arduo ‘correggere’ la rivoluzione che inabissarsi definitivamente nella sua tragedia. Anche perché ancora una volta l’Occidente spinse per suo conto la tragedia ai limiti massimi del possibile, col nazismo e con i suoi svariati complici (ma l’Occidente ha un vantaggio: esso può decidere a suo piacimento quando finiscono le storie altrui e come seppellire la memoria delle proprie).
P.S. Di recente, mi è capitato di soddisfare una curiosità che avevo da tempo. Un istituto russo di analisi sociali che in genere mi pare accreditato come serio e indipendente, il Levada Center, realizza da molti anni un sondaggio molto semplice su quella che possiamo definire la “nostalgia” dei russi per la loro passata settantennale storia sovietica. Attraverso quei sondaggi abbiamo dunque uno spaccato di alcuni decenni su come l’epoca sovietica influenzi almeno alcuni sentimenti politici della popolazione. Ebbene, nel gennaio del 2000 il 74 per cento delle risposte esprimevano “rimpianto” per il periodo sovietico; nel dicembre del 2004 i nostalgici erano il 68 per cento; nel novembre del 2018 erano ancora il 66 per cento. Ci sono stati anni nei quali la percentuale è calata, anche perché cresceva il numero degli intervistati giovani, che la storia sovietica non l’avevano mai vista. Ma c’è di più: nel sondaggio del 2017 si chiedeva se il crollo dell’URSS poteva essere evitato; il 29% degli intervistati diceva che era stato inevitabile, il 52% che avrebbe dovuto essere evitato (addirittura il 69% degli ultra 55enni), il 19% era incerto.
Ammesso che si voglia riconoscere un po’ di verità ai sondaggi russi – si può sempre immaginare che alle persone sia interdetto il diritto di dare risposte sincere, anche quando sono riferite a Regni del Male precedenti – quei risultati sono sorprendenti e sollevano varie domande. Ad esempio: dove si colloca il discrimine tra la consapevolezza di tutto quello che c’è stato di nefando in quella storia, e l’impressione che le altre storie del mondo siano state non meno nefande? Quanto ha pesato la circostanza che gli anni successivi a Eltsin siano stati per la Russia, come riconosce anche Krugman, peggiori della Grande Depressione americana negli anni ’30, con un crollo persino nei dati sulle aspettative di vita? Da che strano impasto di lotta per il cambiamento e di disponibilità a sopportare le cose peggiori – di ribellismo e di fatalismo – è fatto il sentimento nazionale dei russi? E infine: è possibile che la Storia che in Occidente si voleva finita, in qualche modo prosegua, perché quel sentimento nazionale è più duraturo di una ideologia dell’invidia per le ricchezze degli oligarchi? Ed è possibile che questo alimenti un desiderio di ‘guerra fredda’ in un Occidente nel quale d’un tratto Papa Francesco è diventato una via di mezzo tra un marziano e un sovversivo?
By mm
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