Dec. 13, 2022
By Paul Krugman
In the early 20th century the British author Norman Angell published a famous book titled “The Great Illusion,” which declared that economic progress and growing world trade had made war obsolete. Nations, he argued, could no longer enrich themselves through conquest: Industrial workers couldn’t be exploited like peasants, and even small nations could prosper by importing raw materials and selling their wares on world markets. Furthermore, war between economically interdependent nations would be immensely costly even to the victors.
Angell wasn’t predicting the immediate end of war, which was good for his credibility, since the carnage of World War I was just around the corner. He was, however, hoping to persuade politicians to abandon their dreams of military glory. And an implication of his logic was that closer economic links among nations might promote peace.
Indeed, the idea of peace through trade was to become a cornerstone of Western statecraft in the aftermath of World War II.
In my most recent column, I talked about the General Agreement on Tariffs and Trade, which has governed world trade since 1948. This trading system owes its origins in large part to Cordell Hull, Franklin Roosevelt’s secretary of state, who saw world trade as a force for peace as well as prosperity. The road to the European Union began with the creation of the Coal and Steel Community, one of the goals of which was to create so much interdependence between France and Germany that a future European war would be impossible.
But now, as I wrote in the column, the United States, which largely created the world trading system, is imposing new restrictions on trade in the name of national security and bluntly asserting that it has the right to do so whenever it chooses. When the Trump administration did this, it could be dismissed as an aberration: Donald Trump and those around him were crude mercantilists with no sense of the historical reasons behind existing trade rules. But you can’t say that about Biden officials, who understand both the economics and the history.
So is this the end of peace through trade? Not exactly — but it’s a doctrine that has lost a lot of force lately, for several reasons.
First, the idea that trade fosters peace may be true only for democracies. The United States briefly invaded Mexico in 1916 in an unsuccessful attempt to capture Pancho Villa; such a thing would be hard to conceive nowadays, with Mexican factories such integral parts of the North American manufacturing system. But are we equally sure that the similarly deep integration of Taiwan into China’s manufacturing system rules out any possibility of invasion?
And unfortunately, authoritarianism has been rising in many countries around the world for quite a while. That’s partly because some fragile democracies have collapsed, partly because some autocracies — especially China — have opened up economically although not politically and partly because some of these autocracies (again, especially China) have experienced rapid economic growth.
What about the idea that growing integration with the world economy would itself be a force for democratization? That idea was a key pillar of economic diplomacy in some Western nations, notably Germany, which bet heavily on the doctrine of Wandel durch Handel — transformation through trade. But even a glance at Vladimir Putin’s Russia or Xi Jinping’s China shows that this doctrine has failed: China began opening up to international trade more than 40 years ago, Russia 30 years ago, but neither shows any signs of becoming a democracy or even a nation with strong rule of law.
In fact, international interdependence may have made the ongoing war in Ukraine more likely. It’s not obviously silly to suggest that Putin expected Europe to accept the conquest of Kyiv because of its dependence on Russian natural gas.
Again, I’m not suggesting that the idea of peace through trade is completely wrong. War in the heart of Europe (although, unfortunately, not on its periphery) has become hard to imagine thanks to economic integration; wars to secure access to raw materials seem far less likely than they once were. But the dream of a “commercial peace” has definitely lost much of its force.
That matters a lot. We live in a world of very open markets, but that didn’t have to happen, and it doesn’t have to persist. We didn’t get here because of inexorable economic logic: Globalization can and has gone into retreat for extended periods when it loses policy support. Nor did we get here because economists persuaded politicians that free trade is good. Instead, the current world order largely reflects strategic considerations: Leaders, especially in the United States, believed that, more or less, free trade would make the world more amenable to our political values and safer for us as a nation.
But now even relatively internationalist policymakers, like officials in the Biden administration, aren’t sure about that. This is a very big change.
È la fine della pace tramite i commerci?
di Paul Krugman [1]
Agli inizi del ventesimo secolo l’autore inglese Norman Angell pubblicò un famoso libro dal titolo “La Grande Illusione”, che dichiarava che il progresso economico e il crescente commercio mondiale avevano reso la guerra obsoleta. Le nazioni, egli sosteneva, non potevano più arricchirsi attraverso la conquista: i lavoratori dell’industria non potevano essere sfruttati come contadini, e persino le piccole nazioni potevano prosperare importando materiali grezzi e vendendo le loro merci sui mercati mondiali. Inoltre, la guerra tra nazioni economicamente interdipendenti sarebbe stata immensamente costosa persino per i vincitori.
Angell non stava pronosticando la fine immediata delle guerre, il che fu positivo per la sua credibilità, dal momento che la carneficina della Prima Guerra Mondiale era proprie alle porte. Tuttavia, stava sperando di persuadere i politici ad abbandonare i loro sogni di vittoria militare. Ed una implicazione della sua logica era che più stretti collegamenti economici tra le nazioni avrebbero promosso la pace.
In effetti, l’idea della pace attraverso il commerci divenne una base della politica occidentale all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.
Nel mio articolo più recente, parlavo dell’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio, che ha governato il commercio mondiale dal 1948. Questo sistema commerciale deve le sue origini in gran parte a Cordell Hull, Segretario di Stato di Franklin Roosevelt, che considerava il commercio mondiale come un fattore di pace oltre che di prosperità. La strada verso l’Unione Europea cominciò con la creazione della Comunità del Carbone e dell’Acciaio, uno degli obbiettivi della quale fu creare così tanta interdipendenza tra Francia e Germania che una futura guerra europea sarebbe stata impossibile.
Ma adesso, nello stesso momento in cui scrivevo l’articolo, gli Stati Uniti, che avevano in gran parte creato il sistema commerciale mondiale, stanno imponendo nuove restrizioni sul commercio nel nome della sicurezza nazionale e sostenendo senza tanti giri di parole che avevano il diritto di farlo ogni qualvolta lo decidessero. Quando la faceva l’Amministrazione Trump, poteva essere liquidata come un’aberrazione: Donald Trump e il suo seguito erano rozzi mercantilisti senza alcuna consapevolezza delle ragioni storiche che stavano dietro le esistenti regole commerciali. Ma ciò non si può dire dei dirigenti di Biden, che comprendono sia l’economia che la storia.
Questa è dunque la fine della pace attraverso il commercio? Non esattamente – ma essa è una dottrina che di recente ha perso molta della sua forza, per varie ragioni.
Anzitutto, l’idea che il progresso favorisca la pace può essere vera solo per le democrazie. Nel 1916 gli Stati Uniti invasero per un breve periodo il Messico, nel tentativo fallito di catturare Pancho Villa; una cosa del genere sarebbe ardua da concepire ai giorni nostri, con le fabbriche messicane che sono una parte integrante del sistema manifatturiero nordamericano. Ma siamo parimenti sicuri che una integrazione similmente profonda di Taiwan nel sistema manifatturiero della Cina escluderebbe ogni possibilità di invasione?
E sfortunatamente l’autoritarismo viene crescendo in molti paesi del mondo da diverso tempo. Questo in parte dipende dal fatto che alcune fragili democrazie sono collassate, in parte dal fatto che alcune autocrazie – specialmente la Cina – si sono aperte economicamente ma non politicamente e in parte dal fatto che alcune di queste autocrazie (ancora, particolarmente la Cina) hanno conosciuto una rapida crescita economica.
Che dire dell’idea che una crescente integrazione nell’economia mondiale sarebbe stata essa stessa un fattore di democratizzazione? Quell’idea era un pilastro fondamentale della diplomazia economica di alcune nazioni occidentali, segnatamente la Germania, che avevano scommesso pesantemente sulla dottrina del Wandel durch Handel – ovvero della trasformazione attraverso il commercio. Ma persino un semplice sguardo alla Russia di Vladimir Putin o alla Cina di Xi Jingping mostra che questa dottrina è fallita: la Cina ha cominciato ad aprirsi al commercio internazionale più di quarant’anni orsono, la Russia 30 anni fa, ma nessuna delle due mostra alcun segno di diventare una democrazia e neppure una nazione con un forte stato di diritto.
Di fatto, l’interdipendenza internazionale può aver reso più probabile la perdurante guerra in Ucraina. Non è evidentemente sciocco supporre che Putin si fosse aspettato che l’Europa accettasse la conquista di Kiev a causa della sua dipendenza dal gas naturale.
Di nuovo, non sto suggerendo che l’idea della pace attraverso il commercio sia completamente sbagliata. La guerra nel cuore dell’Europa (sebbene, sfortunatamente, non nella sua periferia) è diventata difficile da immaginare grazie alla sua integrazione economica; le guerre per assicurare l’accesso ai materiali grezzi sembrano assai meno probabili di quanto erano un tempo. Ma il sogno della “pace commerciale” ha definitivamente perso molta della sua forza.
Questo è molto importante. Viviamo in un mondo di mercati molto aperti, ma ciò non era destinato ad accadere, e non è destinato a durare. Non siamo arrivati a quel punto a causa di una logica economica inesorabile: la globalizzazione può subire, e di fatto ha subito, ritirate per estesi periodi, quando perde il suo sostegno politico. Non siamo neppure arrivati a quel punto perché gli economisti hanno persuaso i politici che il libero commercio è una cosa positiva. Piuttosto, l’ordine mondiale attuale riflette in gran parte considerazioni strategiche: i leader, particolarmente negli Stati Uniti, ritenevano che il libero commercio avrebbe, più o meno, reso il mondo più permeabile ai nostri valori politici e ci avrebbe reso più sicuri come nazione.
Ma adesso, persino gli attori politici relativamente internazionalisti, come i dirigenti della Amministrazione Biden, non ne sono più sicuri. Si tratta di un cambiamento molto grande.
[1] Nelle scelte che sono costretto a fare – per motivi di tempo – tra la vasta produzione di articoli e di newsletter di Krugman, avevo giorni fa trascurato questo intervento. Mi ha convinto a rimediare la lettura di un come al solito lungo intervento di Adam Tooze dal titolo “Il distruttivo nuovo consenso a Washington”, che indica quell’articolo – particolarmente per il ‘tono’ – come indicativo di un nuovo orientamento nella politica e nelle strategie economiche internazionali che si diffonde tra gli intellettuali americani di orientamento favorevole al Partito Democratico. D’altronde, seguendo veri articoli che pubblichiamo su FataTurchina, ci si può rendere conto delle perplessità e delle fratture che questo nuovo orientamento determina tra vari economisti progressisti (ad esempio: Dani Rodrik, Michael Spence e, se lo interpreto correttamente, anche Stiglitz).
By mm
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