Jan. 2, 2023
By Paul Krugman
It’s 2023. What will the new year bring? The answer, of course, is that we don’t know. There are a fair number of what Donald Rumsfeld (remember him?) called “known unknowns” — for example, nobody really knows how hard it will be to reduce inflation or whether the U.S. economy will experience a recession. There are also unknown unknowns: Will we see another shock like Russia’s invasion of Ukraine?
But I think I can make one safe prediction about the U.S. political scene: We’re going to spend much of 2023 feeling nostalgic for the good old days of greed and cynicism.
As late as 2015, or so I and many others thought, we had a fairly good idea about how American politics worked. It wasn’t pretty, but it seemed comprehensible.
On one side we had the Democrats, who were and still are basically what people in other advanced nations call social democrats (which isn’t at all the same as what most people call socialism). That is, they favor a fairly strong social safety net, supported by relatively high taxes on the affluent. They’ve moved somewhat to the left over the years, mainly because the gradual exit of the few remaining conservative Democrats has made the party’s social-democratic orientation more consistent. But by international standards, Democrats are, at most, vaguely center left.
On the other side we had the Republicans, whose overriding goal was to keep taxes low and social programs small. Many advocates of that agenda did so in the sincere belief that it would be best for everyone — that high taxes reduce incentives to create jobs and raise productivity, as do excessively generous benefits. But the core of the G.O.P.’s financial support (not to mention that of the penumbra of think tanks, foundations and lobbying groups that promoted its ideology) came from billionaires who wanted to preserve and increase their wealth.
To be clear, I’m not suggesting that Democrats were pure idealists. Special-interest money flowed to both parties. But of the two, Republicans were much more obviously the party of making the rich richer.
The problem for Republicans was that their economic agenda was inherently unpopular. Voters consistently tell pollsters that corporations and the rich pay too little in taxes; policies that help the poor and the middle class have broad public support. How, then, could the G.O.P. win elections?
The answer, most famously described in Thomas Frank’s 2004 book “What’s the Matter With Kansas?,” was to win over white working-class voters by appealing to them on cultural issues. His book came in for considerable criticism from political scientists, in part because he underplayed the importance of white racial antagonism, but the general picture still seems right.
As Frank described it, however, the culture war was basically phony — a cynical ploy to win elections, ignored once the votes were counted. “The leaders of the backlash may talk Christ,” he wrote, “but they walk corporate. … Abortion is never halted. Affirmative action is never abolished. The culture industry is never forced to clean up its act.”
These days, that sounds quaint — even a bit like a golden era — as many American women lose their reproductive rights, as schools are pressured to stop teaching students about slavery and racism, as even powerful corporations come under fire for being excessively woke. The culture war is no longer just posturing by politicians mainly interested in cutting taxes on the rich; many elected Republicans are now genuine fanatics.
As I said, one can almost feel nostalgic for the good old days of greed and cynicism.
Oddly, the culture war turned real at a time when Americans are more socially liberal than ever. George W. Bush won the 2004 election partly thanks to a backlash against gay marriage. (True to form, he followed up his victory by proclaiming that he had a mandate to … privatize Social Security.) But these days, Americans accept the idea of same-sex marriages almost three to one.
And the disconnect between a socially illiberal G.O.P. and an increasingly tolerant public is surely one reason the widely predicted red wave in the midterms fell so far short of expectations.
Yet despite underperforming in what should, given precedents, have been a very good year for the out-party, Republicans will narrowly control the House. And this means that the inmates will be running half the asylum.
True, not all members of the incoming House Republican caucus are fanatical conspiracy theorists. But those who aren’t are clearly terrified by and submissive to those who are. Kevin McCarthy may scrape together the votes to become speaker, but even if he does, actual power will obviously rest in the hands of people like Marjorie Taylor Greene.
And what I don’t understand is how the U.S. government is going to function. President Barack Obama faced an extremist, radicalized G.O.P. House, but even the Tea Partiers had concrete policy demands that could, to some extent, be appeased. How do you deal with people who believe, more or less, that the 2020 election was stolen by a vast conspiracy of pedophiles?
I don’t know the answer, but prospects don’t look good.
Arriveremo a rimpiangere avidità e cinismo,
di Paul Krugman
Siamo al 2023. Cosa porterà il nuovo anno? Naturalmente, la risposta è che non lo sappiamo. C’è un discreto numero di quelli che Donald Rumsfeld [1] chiamava gli “ignoti conosciuti” – ad esempio, nessuno sa realmente quanto sarà difficile ridurre l’inflazione o se l’economa statunitense conoscerà una recessione. Ci sono anche gli “ignoti non conosciuti”: assisteremo ad un altro trauma come l’invasione russa dell’Ucraina?
Ma io penso che si possa fare una previsione sicura sullo scenario politico statunitense: ci toccherà dedicare buona parte del 2023 ad un sentimento di nostalgia per i bei tempi andati dell’avidità e del cinismo.
Non più tardi del 2015, o giù di lì, io e molti altri pensavamo di avere un’idea abbastanza buona su come funzionava la politica americana. Non era entusiasmante, ma sembrava comprensibile.
Da una parte avevamo i democratici, che erano e ancora sono fondamentalmente quelle persone che in altre nazioni avanzate chiamano socialdemocratici (che non è affatto quello che la maggior parte delle persone definisce socialismo). Ovvero, essi sono a favore di una rete di sicurezza sociale abbastanza forte, sostenuta da una tassazione relativamente elevata sui benestanti. In qualche modo nel corso degli anni si erano spostati a sinistra, principalmente perché la graduale uscita dei pochi rimanenti conservatori democratici ha reso l’orientamento social-democratico più coerente. Ma secondo i criteri internazionali i democratici sono, per la maggioranza, vagamente di centro sinistra.
Dall’altra parte avevamo i repubblicani, il cui obbiettivo prioritario era tener basse le tasse e modesti i programmi sociali. Molti sostenitori di quell’agenda lo facevano nel sincero convincimento che sarebbe stata la migliore soluzione per tutti – che con le tasse elevate si riducono gli incentivi a creare posti di lavoro ed a elevare la produttività, mentre si concedono sussidi eccessivamente generosi. Ma il fulcro del sostegno finanziario del Partito Repubblicano (per non dire del sottobosco dei gruppi di ricerca, delle fondazioni e dei gruppi lobbistici che hanno promosso la sua ideologia) veniva dai miliardari che volevano preservare e accrescere la loro ricchezza.
Per esser chiaro, non sto suggerendo che i democratici fossero idealisti puri. Il denaro degli interessi particolari scorreva verso entrambi i partiti. Ma tra i due, i repubblicani erano più evidentemente il partito a favore dell’arricchimento dei ricchi.
Il problema per i repubblicani è stato che la loro agenda economica era intrinsecamente impopolare. Gli elettori dicono regolarmente ai sondaggisti che le società e i ricchi pagano troppo poche tasse; le politiche che aiutano i poveri e la classe media hanno un generale sostegno pubblico. Come, dunque, il Partito Repubblicano avrebbe vinto le elezioni?
La risposta, descritta nel modo più famoso nel libro del 2004 di Thomas Frank “Quale è il problema col Kansas?”, fu guadagnare il consenso della classe lavoratrice bianca attraendola su tematiche ‘culturali’. Il suo libro fu oggetto di considerevoli critiche dai politologi, in parte perché sottovalutava l’importanza dell’antagonismo razziale bianco, ma il quadro generale sembra ancora giusto.
Per come Frank la descriveva, tuttavia, la guerra ideologica era fondamentalmente falsa – un trucco cinico per vincere le elezioni, messo da parte una volta che venivano contati i voti. “I leader populisti possono parlare di Cristo …”, egli scrisse, “ma vanno a braccetto con le grandi società … L’aborto non è mai stato proibito. Le azioni positive non sono mai state abolite. La cultura industriale non è mai stata costretta a far pulizia dei suoi metodi” [2].
Di questi tempi questo può apparire bizzarro – ha persino il sentore dei bei tempi andati – mentre molte donne americane perdono i loro diritti riproduttivi, le scuole sono spinte a smettere di insegnare agli studenti cose attinenti alla schiavitù ed al razzismo e persino società potenti sono prese di mira per eccesso di radicalismo. La guerra ideologica non è più solo un atteggiamento da parte di politici principalmente interessati a tagliare le tasse sui ricchi; molti eletti repubblicani adesso sono esaltati autentici.
Come ho detto, si può quasi sentire nostalgia per i vecchi tempi della avidità e del cinismo.
Curiosamente, la guerra ideologica è diventata reale in un periodo nel quale gli americani sono più liberali che mai sui temi sociali. George W. Bush vinse le elezioni del 2004 in parte grazie al rigetto diffuso al matrimonio dei gay (come al solito, egli fece seguire alla sua vittoria la proclamazione che aveva avuto il mandato … a privatizzare la Previdenza Sociale). Ma di questi tempi, tre americani contro uno accettano l’idea di matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Tuttavia, nonostante la prestazione deludente in quello che avrebbe dovuto essere, dati i precedenti, un anno davvero buono per il partito all’opposizione, i repubblicani controlleranno di misura la Camera. E questo significa che i pazienti gestiranno metà del manicomio [3].
È vero, non tutti i membri del raggruppamento in arrivo dei repubblicani della Camera sono teorici fanatici della cospirazione. Ma quelli che non lo sono sono chiaramente terrorizzati e sottomessi a quelli che lo sono. Kevin McCarthy può racimolare i voti per diventare Presidente della Camera, ma anche se ci riesce il potere effettivo resterà ovviamente nella mani di persone come Marjorie Taylor Green [4].
E quello che non capisco è come il Governo statunitense potrà mai funzionare. Il Presidente Barack Obama fronteggiò un Partito Repubblicano alla Camera estremista e radicalizzato, ma persino i componenti del Tea Party avevano concrete richieste politiche che potevano, in qualche misura, essere soddisfatte. Come si tratterà con individui che credono, più o meno, che le elezioni del 2020 sono state rubate da un vasta cospirazione di pedofili?
Non ho la risposta, ma le prospettive non sembrano buone.
[1] Donald Henry Rumsfeld (Chicago, 9 luglio 1932 – Taos, 29 giugno 2021) è stato un politico, militare e diplomatico statunitense, segretario della Difesa sotto l’amministrazione del presidente Gerald Ford dal 1975 al 1977 e successivamente sotto quella di George W. Bush dal 2001 al 2006. Wikipedia.
[2] Questo è un piccolo concentrato di politologia americana, un po’ da interpretare. Suppongo che i “leader del backlash” (letteralmente, ‘contraccolpo’) siano i populisti di destra, perché ‘backlash’ si riferisce normalmente alle reazioni diffuse delle popolazioni contro fenomeni sociali nuovi percepiti con ostilità (emigrati, ad esempio). Dunque: se anche i populisti scomodano addirittura Cristo nella loro retorica (“talk Christ”), di fatto – sosteneva l’autore del libro – non hanno mai impedito la legislazione sull’aborto, e neanche le varie misure (in materia sociali o di diritti civili) che si propongono modesti concreti miglioramenti (le cosiddette ‘azioni affermative’, o ‘azioni positive’). In sostanza, fanno appello alla ‘rabbia’ degli elettori, ma in sostanza “camminano/vanno a braccetto con le grandi società” (“walk corporate”).
[3] L’espressione può sembrare un po’ irriverente, dato che il manicomio in questione è un ramo del Congresso americano, ma credo che sia un modo dire abbastanza caratteristico e non mi pare che esista niente di simile, un po’ meno forte, in lingua italiana.
[4] La seconda – Marjorie Taylor Green – è una politica e imprenditrice statunitense, membro della Camera dei Rappresentanti per lo stato della Georgia dal 2021. È nota per avere dato credito alla teoria del complotto QAnon, già circolante in ambienti di estrema destra, da lei sostenuta attraverso un video su Facebook. È esattamente quella teoria secondo la quale la vittoria di Biden nel 2020 fu il frutto di un complotto ordito da ambienti da vario genere, e partecipato da una sorta di internazionale pedofila.
Il primo – Kevin Owen McCarthy – nato il26 gennaio 1965 a Bakersfield ( California ), è un politico americano membro del Partito Repubblicano . Rappresentante del suo Stato dal 2007, in passato è stato leader della maggioranza o della minoranza repubblicana alla Camera. In effetti, in questi giorni, proprio all’indomani dell’articolo di Krugman, la sua candidatura non ha ricevuto per due volte i voti sufficienti per la Presidenza, ovvero per il ruolo di Speaker. È meno pazzesco della prima, ma evidentemente inviso ai repubblicani più estremisti.
By mm
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