PUBLIÉ LE13 DÉCEMBRE 2022
Should we have boycotted the World Cup in Qatar? Probably not. Since we have always accepted to participate in sports competitions with regimes far removed from social and electoral democracy, starting with China (2008 Olympic Games) and Russia (2018 World Cup), the boycott of Qatar would have been interpreted as a new mark of the hypocrisy of Westerners, always ready to give lessons to a few small countries when it suits them, while continuing to do business with all those who bring them enough money.
Even if we choose not to boycott, his does not mean however that we should not do anything. On the contrary: we must act on the commercial lever, which is far more effective than the sporting lever. It is time for each country to redefine the conditions of trade with other territories, according to universal criteria of justice that apply equally to all. In the case of Qatar, the violations of fundamental rights have been proven, whether it be women’s rights, the rights of sexual minorities or social and trade union rights. Should customs duties of 10%, 30%, 50% be introduced, should sanctions be concentrated on certain goods or on capital transfers, so that it is above all the wealthy and ruling classes that pay the price? It is not up to me to decide here: it is up to democratic deliberation to do so and to place the cursor at the right level.
What is certain is that the argument that we will never be able to agree, and therefore we should do nothing and just apply absolute free trade to everyone, is incredibly hypocritical, nihilistic and anti-democratic. Out of fear of democracy, we end up sacralising free trade and the free movement of capital without limits, without even trying to subject these rules to any collective objective. When the Chinese regime destroyed electoral pluralism in Hong Kong before our eyes in 2019, the EU’s only reaction was to propose a new liberalisation of investment flows to Beijing.
The second reason for redefining the trade regime is obviously the environmental crisis. In 2022, we will continue to trade with China and the rest of the world without even trying to apply customs duties corresponding to the carbon emissions linked to the transport and production of these goods, in flagrant contradiction with the climate objectives. The same applies to fiscal and social dumping: if a country exports goods without respecting a common minimum base, then it is not only legitimate but essential to impose tariffs to restore the balance.
The third reason is linked to the fact that each country has the right to choose a productive specialisation and to protect the sectors that it considers strategic. The best example today is that of batteries and electric cars. After having done the same for solar panels, China is massively subsidising its companies to take control of the sector. The United States has followed suit. Only Europe is lagging behind, as in the case of the French bonus of 6,000 euros for the purchase of an electric vehicle, which applies regardless of where it is produced, whereas the US bonus of $7,500 is reserved for batteries and vehicles produced in the United States.
Faced with this predicted social and industrial collapse, what can a country like France do? The only solution is for each country to set its own conditions for further economic and trade integration, in terms of respect for fundamental rights, the fight against climate and tax dumping, and the protection of strategic sectors. These conditions must include tariffs and subsidies depending on the place of production
Some people will be startled by this: if France unilaterally adopts such rules, is this not a clear violation of the European treaties signed in the past? The answer is more complex. In parallel to any unilateral action, ambitious proposals for collective measures are needed, including a new form of social federalism. Europe must be at the service of the social betterment: countries that wish to do so must be able to adopt together the additional trade, social and fiscal policies that seem appropriate to them, but this must not prevent each country from adopting its own measures.
With regard to unilateral protective measures, European law is more ambivalent than it appears. Article 3 of the Lisbon Treaty states that the EU’s objectives are democracy, social progress and environmental protection. How does destroying industrial jobs by importing all the equipment from China, without any consideration of the social damage and carbon emissions involved, serve these objectives? Some will argue that our prosperity depends on free trade, forgetting that it is not thanks to China that European purchasing power has increased tenfold over the last century (Chinese trade only accounts for a few per cent of this increase at best). In any case, the debate should be political, not legal. The fact that past governments signed treaties constitutionalising free trade, at a time when sovereignty was feared in Europe and current issues were ignored, cannot lead to the hands of future generations being tied indefinitely. More than ever, the law must be a tool for emancipation and not for the preservation of positions of power. It is by rethinking federalism and protectionism that the current crisis can be overcome.
Ripensare il protezionismo,
di Thomas Piketty
Avremmo dovuto boicottare la Coppa del Mondo nel Qatar? Probabilmente no. Dal momento che abbiamo sempre accettato di partecipare a competizioni sportive con regimi assai lontani dalla democrazia sociale ed elettorale, a cominciare dalla Cina (Giochi Olimpici del 2008) e dalla Russia (Coppa del Mondo del 2018), il boicottaggio del Qatar sarebbe stato interpretato come un nuovo segno dell’ipocrisia degli occidentali, sempre pronti a dar lezioni a pochi piccoli paesi quando fa loro comodo, mentre continuano a fare affari con tutti quelli che portano loro abbastanza denaro.
Tuttavia, anche se sceglievamo di non boicottare, questo non significa che non dovevamo far niente. Al contrario, potevamo agire sulla leva commerciale, che è assai più efficace della leva sportiva. È tempo perché ogni paese ridefinisca le condizioni del commercio con gli altri territori, secondo criteri universali di giustizia che si applichino nello stesso modo a tutti. Nel caso del Qatar, le violazioni di fondamentali diritti sono state provate, che si tratti dei diritti delle donne, dei diritti delle minoranze sessuali o sociali e dei diritti sindacali. Dovrebbero essere introdotte imposte del 10%, del 30%, del 50%, le sanzioni dovrebbero essere concentrate su certi prodotti o sui trasferimenti di capitale, in modo tale che soprattutto i ricchi e le classi dirigenti paghino il prezzo? Su tutto questo non spetta a me decidere; spetta alle deliberazioni democratiche farlo e collocare l’asticella al livello giusto.
Quello che è certo è che l’argomento secondo il quale non saremmo mai capaci di trovare un accordo, e di conseguenza non dovremmo far niente e solo applicare il libero commercio con tutti, è incredibilmente ipocrita, nichilistico ed antidemocratico. Per paura della democrazia, abbiamo finito col sacralizzare il libero commercio e il libero illimitato movimento dei capitali, senza neppure cercare di assoggettare queste regole ad un qualche obbiettivo collettivo. Quando il regime cinese ha distrutto dinanzi ai nostri occhi il pluralismo elettorale ad Hong Kong, la sola reazione dell’UE è stata proporre una nuova liberalizzazione dei flussi degli investimenti verso Pechino.
La seconda ragione per ridefinire il regime commerciale è ovviamente la crisi ambientale. Nel 2022, abbiamo continuato a commerciare con la Cina e con il resto del mondo senza neppure cercare di applicare oneri doganali corrispondenti alle emissioni di carbonio connesse con il trasporto e la produzione di questi beni, in flagrante contraddizione con gli obbiettivi sul clima. Lo stesso vale per l’avvantaggiarsi nella competizione dei fattori del finanziamento pubblico e delle regole sociali: se un paese esporta prodotti senza rispettare regole di base minime, allora non è solo legittimo ma fondamentale imporre tariffe per ripristinare l’equilibrio.
La terza ragione è connessa con il fatto che ogni paese ha il diritto di scegliere una specializzazione produttiva e di proteggere i settori che considera strategici. Oggi il migliore esempio è quello delle batterie e delle macchine elettriche. Dopo aver fatto lo stesso per i pannelli solari, la Cina sta massicciamente sussidiando le sue società per prendere il controllo del settore. Gli Stati Uniti hanno fatto lo stesso. Soltanto l’Europa resta indietro, come nel caso del contributo francese di 6.000 euro per l’acquisto di un veicolo elettrico, che si applica a prescindere da dove esso sia stato prodotto, mentre il contributo statunitense di 7.500 dollari è riservato alle batterie ed ai veicoli prodotti negli Stati Uniti.
A fronte di un pronosticato collasso sociale e industriale di questo genere, cosa può fare un paese come la Francia? La sola soluzione è che ogni paese stabilisca le sue proprie condizioni per l’ulteriore integrazione economica e commerciale, in termini di rispetto per i diritti fondamentali, di lotta contro il dumping climatico e fiscale, e di protezione dei settori strategici. Queste condizioni debbono includere tariffe e sussidi dipendenti dal luogo di produzione.
Alcuni saranno stupiti da questo: se la Francia adotta unilateralmente regole del genere, non è una violazione chiara dei trattati europei sottoscritti nel passato? La risposta non è così semplice. In parallelo ad ogni azione unilaterale, sono necessarie proposte ambiziose per misure collettive, compresa una nuova forma di federalismo sociale. L’Europa deve essere al servizio del miglioramento sociale: i paesi che vogliono farlo devono essere capaci di adottare assieme le politiche aggiuntive commerciali, sociali e di finanza pubblica che giudichino appropriate, ma questo non deve impedire che ciascun paese adotti le proprie misure.
A proposito delle misure protettive unilaterali, la legislazione europea è più ambivalente di quanto sembra. L’Articolo 3 del Trattato di Lisbona stabilisce che gli obbiettivi dell’UE sono la democrazia, il progresso sociale e la protezione dell’ambiente. Quanto è al servizio di questi obbiettivi la distruzione di posti di lavoro nell’industria tramite l’importazione di tutte le attrezzature dalla Cina, senza nessuna considerazione del danno sociale e delle emissioni di carbonio coinvolte? Qualcuno sosterrà che la nostra prosperità dipende dal libero commercio, dimenticando che non è grazie alla Cina che il potere di acquisto degli europei è cresciuto di una decina di volte nel corso del secolo scorso (il commercio con la Cina ha pesato, nel migliore dei casi, solo per una percentuale minima di questo incremento). Il ogni caso, il dibattito dovrebbe essere politico, non legale. Il fatto che i passati Governi abbiano sottoscritto trattati che costituzionalizzano il libero commercio, in un momento nel quale si temeva per la sovranità in Europa e i temi attuali venivano ignorati, non può consegnare nelle mani delle future generazioni il restarne indefinitamente dipendenti. Più che mai, la legge deve essere uno strumento di emancipazione e non di conservazione di posizioni di potere. È tramite il ripensamento del federalismo e del protezionismo che la crisi attuale può essere superata.
By mm
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