Project Syndicate » Selezione del Mese

L’ “economia dell’attenzione” va in tribunale, di J. Bradford DeLong (da Project Syndicate, 9 novembre 2023)

 

Nov 9, 2023

The Attention Economy Goes to Court

BRADFORD DELONG

zzz 24

BERKELEY – The Google antitrust trial has finally shown just how much the world’s dominant search engine is willing – and able – to pay to be the default on smartphones and other devices: $26 billion in 2021 alone, $18 billion of which went to another tech giant, Apple. While Google has long tried to guard this number, it was always known to be large – and so it is.

What is Google paying for? When you set up a new iPhone, Apple could prompt you on which search engine to use as the default in its Safari web browser. But it doesn’t; it simply selects Google automatically. Of course, one can go into “Settings” and change the default with a few taps of the screen (other options include Yahoo, Bing, DuckDuckGo, and Ecosia). But almost nobody will bother with that. So, Google transfers billions of dollars to Apple every year to minimize the chances that iPhone search-engine advertising revenue will flow to any company other than Google.

There are several different positions one could take on this issue. You could say that Google is the malefactor. But you also could say that Apple is. After all, instead of requiring users to choose, it gives Google an unfair advantage in exchange for a hefty fee. Perhaps Google is really the victim. Since it has the best search engine, companies that want to maximize the value for their customers ought to choose it anyway. But rather than making Google the default for free, Apple is extorting it with the threat of selling that status to a higher bidder. It is arguably leveraging its single-buyer power to restrain trade and distort competition.

Or, you could say that this is just business-as-usual in the attention economy. By making enormous investments and displaying unmatched creativity and ingenuity, Apple has emerged as the premier supplier of hardware and software value chains. Thanks to its efforts, we now have the iOS platform, a powerful engine of human liberation that has furnished us with extraordinarily valuable access to information, communication, and entertainment technologies.

Not only should such ingenuity be rewarded financially; but such rewards should serve a larger purpose, by incentivizing other current and future innovators to focus on creating products and services that are genuinely useful, rather than on pursuing socially damaging activities such as cryptocurrency grifts. The iPhone is one product that Apple can sell. But it can also sell iPhone users’ attention to companies that are willing to pay for it. Why shouldn’t Apple charge what it wants for providing that service?

Finally, one could argue for users to be prompted with a choice, in the interest of ensuring a level playing field among search engines. If Google has the best search engine, it might end up with a 60% share, whereas each of the other four might secure 10%. But what if users who are not fully informed or really paying attention opt for an inferior service unwittingly? The overall real-world user experience will have been degraded in the interest of an abstract “level playing field.”

Each of these positions can be plausibly argued, and high-priced lawyers and economists have already been paid large sums of money to hone those arguments and provide supporting evidence. When it comes to determining which opinion is most faithful to the facts or logically compelling, the devil is in the details. After all, the issue is complex. How does human attention work, exactly, and who should have the right to capture it, direct it, or harvest it for data?

In early-modern Poland, nobles had the right to control their serfs and harvest the wealth generated from their labor in the fields. When serfs tried to run away, Cossacks would hunt them down and bring them back for a small fee. It is not surprising to see some commentators referring to our current era as a dawning age of “techno-feudalism.”

Still, this does not strike me as the right term, and I worry that it will lead us to adopt the wrong analogies in trying to understand precisely how the attention-information economy works. My problem is that I cannot think of a better metaphor. Devising one may be the first step toward accurately assessing the world we have wrought.

 

L’ “economia dell’attenzione” [1] va in tribunale,

di J. Bradford DeLong

 

BERKELEY  – Il processo antitrust di Google finalmente ha mostrato quanto il motore di ricerca dominante del mondo sia disponibile – e capace – di pagare per essere l’impostazione predefinita su telefonini e su altri congegni: 26 miliardi di dollari solo nel 2021, 18 dei quali sono andati ad un altro gigante della tecnologia, Apple. Mentre Google ha cercato per lungo tempo di tener nascosto questo dato, da sempre era noto che fosse grande – e tale si conferma.

Cosa sta pagando Google? Qundo aprite un nuovo iPhone, Apple potrebbe suggerirvi quale motore di ricerca utilizzare come predefinito nel suo browser web Safari. Ma non lo fa; esso semplicemente seleziona in modo automatico Google. Naturalmente, potete andare su “Impostazioni” e cambiare l’impostazione predefinita con pochi colpetti sullo schermo (altre opzioni includono Yahoo, Bing, DuckDuckGo ed Ecosia). Ma quasi nessuno si infastidisce a farlo. Così, Google trasferisce miliardi di dollari ad Apple ogni anno per minimizzare le possibilità che le entrate per il consiglio di un motore di ricerca di iPhone vadano ad una società diversa da Google.

Su tale faccenda, si possono prendere varie posizioni. Si può dire che il malfattore è Google. Ma si può anche dire che è Apple. Dopo tutto, anziché chiedere agli utilizzatori di scegliere, essa dà a Google un ingiusto vantaggio in cambio di una considerevole parcella. Forse Google è davvero la vittima. Dal momento che essa ha il migliore motore di ricerca, le società che vogliono massimizzare il valore per i loro clienti potrebbero sceglierla in ogni modo. Ma anziché rendere Google la posizione predefinita, Apple la sta sfruttando con la minaccia di rivendere quella condizione ad un migliore offerente. Essa probabilmente sta facendo leva sul suo potere di unico acquirente per restringere il commercio e distorcere la competizione.

Oppure, si può dire che questo è il solito affarismo nell’ “economia della attenzione”. Facendo enormi investimenti e dispiegando una incontrastata creatività ed ingegnosità, Apple si è collocata come il principale offerente delle catene del valore di hardware e di software. Grazie ai suoi sforzi, adesso abbiamo la piattaforma IOS, un motore potente di liberazione umana che si ha fornito un accesso straordinariamente apprezzabile all’informazione, alla comunicazione ed alle tecnologie dell’intrattenimento.

Tale ingegnosità non dovrebbe essere soltanto premiata finanziariamente; tali premi dovrebbero servire ad uno scopo più ampio, incentivando altri attuali e futuri innovatori a creare prodotti e servizi che siano genuinamente utili, piuttosto che a perseguire attività socialmente dannose come le truffe delle criptovalute. L’iPhone è un prodotto che Apple può vendere. Ma essa può anche vendere l’attenzione degli utlizzatori di iPhone alle società che sono disponibili a pagare per essa. Perché Apple non dovrebbe far pagare quello che vuole nel fornire tale servizio?

Per finire, uno potrebbe schierarsi a favore del suggerimento di una scelta agli utilizzatori, nell’interesse di assicurare una partita senza favoritismi tra i motori di ricerca. Se Google ha il migliore motore di ricerca, essa potrebbe finire con una quota del 60%, mentre tutti gli altri quattro potrebbero assicurarsi un 10%. Ma cosa accade se gli utilizzatori non sono pienamente informati, oppure se prestando realmente attenzione optano inconsapevolmente per un servizio inferiore? La complessiva esperienza degli utilizzatori nel mondo reale verrà degradata nell’interesse di una astratta “partita senza favoritismi”.

Ciascunadi queste posizioni può essere sostenuta in modo plausibile, e legali ed economisti altamente retribuiti sono già stati pagati con grandi somme di denaro per affinare questi argomenti e fornire prove di sostegno. Quando si arriva a stabilire quale opinione sia più attinente ai fatti o logicamente persuasiva, il diavolo è nei dettagli. Dopo tutto, il tema è complesso. Come funzione, esattamente, l’attenzione umana, e chi dovrebbe avere il diritto di farla propria, di indirizzarla, oppure di raccoglierla dai dati?

Nella Polonia della prima età moderna, i nobili avevano il diritto di controllare i loro servi e di raccogliere la ricchezza generata dal loro lavoro nei campi. Quando i servi cercavano di fuggire, i Cosacchi avrebbero loro dato la caccia e li avrebbero riportati indietro per un compenso modesto. Non è sorprendente constatare che alcuni commentatori si stiano riferendo all’epoca attuale come all’alba di un “tecno-feudalesimo” [2].

Eppure, questa definizione non mi sembra quella giusta, e sono preoccupato che essa ci porti ad adottare analogie sbagliate nel cercare di comprendere precisamente come funzioni l’economia della attenzione-informazione. Il mio problema è che non riesco a pensare ad una metafora migliore. Concepirne una potrebbe essere il primo passo nel valutare accuratamente il mondo al quale abbiamo dato forma.

 

 

 

 

 

 

[1] Quando l’attenzione è riferita ad una economia – spiega il Collins Dictionary – si intende quel sistema economico nel quale “i venditori di prodotti e di servizi debbono competere per catturare l’attenzione dei potenziali consumatori”.

[2] È il termine, credo, coniato da Yanis Varoufakis, tra l’altro in vari articoli tradotti su FataTurchina. Si veda in particolare, il 21 giugno del 2021, Il tecno-feudalesimo sta prendendo il potere, di Yanis Varoufakis (da Project Syndicate).

 

 

 

 

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"