ISTANBUL – The dollar has strengthened sharply in recent months, against Asian currencies in particular. A rising crescendo of apocalyptic financial talk threatens to spook markets. The Japanese yen appears to be on the verge of collapse. China may feel compelled to devalue, with damaging consequences for itself and the global economy. So, can anything be done to head off the dollar’s strength, and even if something can be done, should it?
First the facts. The Japanese yen has fallen dramatically, reaching ¥160 to the dollar at the end of April, down 13% since the start of the year and more than 50% since the start of 2021. The South Korean won is down by about 10% against the dollar since the beginning of the year. And the Indonesian rupiah recently fell to a four-year low against the greenback.
But these Asian currencies are not typical. In fact, the broad nominal dollar index, which measures the dollar’s value against a basket of currencies, is up by less than 3% since the start of 2023.
Moreover, the dollar’s strength is not a sign of market dysfunction. It reflects the fact that the United States has performed better economically than other parts of the world.
Rapid US growth creates expectations of slow US disinflation. Hence the Federal Reserve Board is apt to keep interest rates high, or at least to disappoint hopes for multiple rate cuts this year. Meanwhile, weaker-than-expected growth elsewhere means that other central banks have less reason to worry about inflation, making it correspondingly more likely that they will cut rates.
Recall that the Bank of Japan’s much ballyhooed abandonment of yield-curve control in March led it to increase its interest rate to just – wait for it – 0.1%. This accommodative policy will remain appropriate until it is clear that the BOJ has vanquished deflation. And with the Fed’s benchmark federal funds target rate at 5.25-5.5%, it is equally appropriate that the dollar should be strong against the yen.
So, why worry? It is not as if Japanese financial institutions are at risk from the dollar’s rise. Japan’s banks and companies have extensive investments outside the country, including in the US, where their value rises and falls with the dollar. While import prices have risen by more than 50% over the last four years, Japan is hardly on the verge of hyperinflation. Consumer prices rose by about 2.5% year over year in April, which is just where the BOJ wants them.
The fear, evidently, is that at some point confidence will collapse, taking the yen with it, and inflation will spiral out of control. Anything is possible in theory. But against the backdrop of decades of Japanese deflation, this scenario hardly seems plausible.
Still, for those who think that the greenback’s strength is a problem, what might be done to address it? Market intervention is one possibility. The BOJ evidently intervened in the foreign-exchange market in late April, or so currency traders suspect.
While the yen strengthened to 154 against the dollar in the wake of this operation, we know that market intervention has a sustained impact on the exchange rate only when it signals a future change in monetary policy. In fact, the BOJ intervened surreptitiously not because it is now prepared to change policy and raise interest rates, but precisely in order to avoid having to do so.
Equally, the Fed is unlikely to cut rates in response to the dollar’s rise. Its models suggest that a 3% broad dollar appreciation, as we have seen this year, takes at the very most 0.3% off of inflation. And even that modest disinflationary effect is apt to be temporary. Hence the case for high US interest rates remains intact.
What about concerted intervention, whereby the Fed, the BOJ, and other central banks intervene in the foreign-exchange market together? This was tried in 1985 during an earlier period of dollar appreciation. The Plaza Accord, named after the New York City hotel at which it was agreed, is sometimes thought to have successfully moderated the greenback’s strength.
But it is not in the Fed’s interest today to engage in an internationally coordinated foreign-exchange operation, when fighting inflation remains its priority. And in 1985, the dollar already had peaked and begun falling prior to the intervention. Given recent weak US jobs numbers, one wonders whether the same might be true today.
One thing that could change the picture dramatically would be a second presidential term for Donald Trump, who is a low-interest-rate man. He sees a strong dollar as handicapping US exporters. Rumors are afoot that he intends to install a likeminded Fed chair or even require the central bank to follow the president’s dictates. This would be enough to bring down the dollar. But it also would bring down US financial markets.
I dilemmi del dollaro,
di Barry Eichengreen
ISTANBUL – Nei mesi recenti, il dollaro si è rafforzato improvvisamente, in particolare in rapporto alle valute asiatiche. Un sempre maggiore crescendo di discussioni finanziarie minaccia di spaventare i mercati. Lo yen giapponese sembra essere sull’orlo di un collasso. La Cina può sentirsi costretta s svalutare, con conseguenze dannose per se stessa e per l’economia globale. Dunque, si può fare qualcosa per prevenire la forza del dollaro, e anche se si potesse, si dovrebbe farlo?
Anzitutto i fatti. Lo yen giapponese è caduto in modo spettacolare, raggiungendo 160 ¥ contro un dollaro alla fine di aprile, con un ribasso del 13% dall’inizio dell’anno e del 50% dall’inizio del 2021. Il won sudcoreano è sceso del 10% sul dollaro dai primi giorni dell’anno. E la rupia indonesiana è recentemente caduta al minimo di quattro anni rispetto alla valuta statunitense.
Ma queste valute asiatiche non sono casi normali. Di fatto, l’indice complessivo nominale del dollaro, che misura il valore del dollaro contro un paniere di valute, è salito meno del 3% dagli inizi del 2023.
Inoltre, la forza del dollaro non è un segno di disfunzione del mercato. Essa riflette i fatto che gli Stati Uniti hanno avuto prestazioni economiche migliori di altre parti del mondo.
La rapida crescita statunitense crea aspettative di lenta disinflazione in America. Di conseguenza, il Comitato della Federal Reserve è incline a mantenere alti i tassi di interesse, o almeno a deludere le speranze per una serie di tagli ai tassi quest’anno. Nel frattempo, una crescita altrove più debole delle attese comporta che altre banche centrali hanno minori ragioni di preoccuparsi per l’inflazione, in corrispondenza rendendo più probabile che esse taglino i tassi.
Si ricordi che a marzo il molto pubblicizzato abbandono della Banca del Giappone (BOJ) del controllo della curva dei rendimenti la portò ad aumentare il suo tasso di interesse appena – figuratevi – dello 0,1%. Questa politica accomodante resterà appropriata finché non sarà chiaro che la BOJ ha sconfitto la deflazione. E con l’obbiettivo della Fed di un tasso di riferimento sui finanziamenti federali del 5,25-5,5%, è parimenti appropriato che il dollaro sia forte in rapporto allo yen.
Dunque, perché preoccuparsi? Non si tratta del fatto che le istituzioni finanziarie giapponesi sono a rischio per la crescita del dollaro. Le banche e le società del Giappone hanno ampi investimenti fuori dal paese, compreso negli Stati Uniti, laddove il loro valore cresce e cala assieme al dollaro. Mentre negli ultimi quattro anni i prezzi all’importazione sono caduti di più del 50%, difficilmente si può sostenere che il Giappone sia sull’orlo di una iper inflazione. I prezzi al consumo sono cresciuti ad aprile di circa il 2,5% su basa annua, ovvero proprio laddove la BOJ vuole che siano collocati.
Il timore, evidentemente, è che in un qualche momento la fiducia collassi, portandosi dietro lo yen, e l’inflazione esca dal controllo. In teoria, è possibile ogni cosa. Ma a fronte di decenni di deflazione giapponese, questo scenario appare difficilmente plausibile.
Eppure, per coloro che pensano che la forza del dollaro sia un problema, cosa si potrebbe fare per affrontarlo? L’intervento del mercato è una possibilità. Nello scorso aprile, la BOJ intervenne palesemente sul mercato dei cambi, o così sospettano gli operatori valutari.
Mentre lo yen si rafforzò, in conseguenza di questa operazione, sino a quota 154 sul dollaro, noi sappiamo che l’intervento sul mercato ha un impatto durevole sul tasso di cambio soltanto quando segnala un futuro cambiamento nella politica monetaria. Di fatto, la BOJ intervenne furtivamente non perché fosse allora pronta a cambiare politiche ed a elevare i tassi di interesse, ma precisamente allo scopo di evitare di doverlo fare.
Analogamente, è improbabile che la Fed tagli i tassi in risposta alla crescita del dollaro. I suoi modelli suggeriscono che un apprezzamento complessivo del dollaro del 3%, quale abbiamo constatato quest’anno, rimuove proprio nel migliore dei casi uno 0,3% di inflazione. E persino quel modesto effetto disinflazionistico di solito è temporaneo. Di conseguenza, l’argomento per elevati tassi di interesse resta immutato.
Cosa dire di interventi concertati, nei quali la Fed, la BOJ ed altre banche centrali agiscano assieme sul mercato dei cambi? Questo fu provato nel 1985, durante un precedente periodo di apprezzamento del dollaro. Il Plaza Accord, così nominato a seguito dell’hotel di New York City presso il quale venne stipulato, si pensa talvolta che abbia avuto successo nel moderare la forza della valuta statunitense.
Ma oggi non è interesse della Fed impegnarsi in una operazione coordinata di valuta estera, quando combattere l’inflazione resta la sua priorità. E nel 1985, il dollaro aveva già raggiunto il suo picco e cominciato a scendere prima dell’intervento. Considerati e recenti deboli dati sui posti di lavoro statunitensi, ci si chiede se lo stesso potrebbe esser vero oggi.
Una cosa che potrebbe cambiare in modo spettacolare il quadro sarebbe un secondo mandato presidenziale per Donald Trump, che è un individuo per bassi tassi di interesse. Egli considera un dollaro forte come un handicap per gli esportatori statunitensi. Circolano voci secondo le quali egli intenda installare in Presidente della Fed che la pensi nello stesso modo o persino richiedere che la banca centrale segua gli ordini del Presidente. Questo sarebbe sufficiente per buttare in basso il dollaro. Ma affosserebbe anche i mercati finanziari statunitensi.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"