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Come l’umanità ha perso il controllo, di J. Bradford DeLong (da Project Syndicate, 2 luglio 2024)

 

Jul 2, 2024

How Humanity Lost Control

BRADFORD DELONG

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BERKELEY – How can we be at least 15 times richer than our pre-industrial Agrarian Age predecessors, and yet so unhappy? One explanation is that we are not wired for it: nothing in our heritage or evolutionary past prepared us to deal with a society of more than 150 people. To operate our increasingly complex technologies and advance our prosperity, we somehow must coordinate among more than eight billion people.

We therefore have built massive societal machines comprising market economies, government and corporate bureaucracies, national and sub-national polities, cultural ideologies, and more. Yet we struggle to fine-tune these institutions, because we simply do not understand them. We are left with a globe-spanning network of profoundly alien leviathans that boss us around and make us unhappy, even as they make us fabulously rich compared to previous generations.

The economist Dan Davies has written a wonderful little book about our problematic creations. In The Unaccountability Machine: Why Big Systems Make Terrible Decisions – And How the World Lost Its Mind, Davies weaves together an argument from five separate threads. The first is his observation that our world is rife with accountability sinks: places where things are clearly going wrong, but where there is no one to blame. Instead, the entire system is at fault, and the system has no way of seeing or correcting the problem.

Second, Davies points out that every social system needs not only to pursue its mission but also to preserve itself. This generally means that it cannot focus on one narrow metric. Instead, every system must perform multiple sub-tasks in addition to its core mission. These include providing sufficient resources to the people doing the work; coordinating things in the here and now; looking ahead from the here and now to the “there and then”; and maintaining the human participants’ focus on what the organization is for (its guiding philosophy). Davies gives the example of an Elton John cover band, where these tasks are carried out, roughly, by “[the] musicians, conductor, tour manager, artistic director, and Elton John.”

Third, delegation is crucial to reducing complexities and keeping an organization’s mission manageable. You do not need to watch the temperature inside the squirrel cage minute by minute; you just need to set a thermostat.

Fourth, it is important to build strong feedback loops. This means amplifying the outside signals that you most need to see, and maintaining enough internal processing power to act on them before it is too late.

Lastly, the best way to reform organizations so that they do not become unaccountability machines is to revive the post-World War II quasi-discipline of management cybernetics. Pioneered by the computer scientist Norbert Wiener and the political scientist Herbert Simon, the approach was named for the Greek word kybernētikos: “good at steering a boat.”

The guru who made the most progress in building management cybernetics was the counterculture-era management consultant Stafford Beer, whose book Brain of the Firm explored how bureaucracies can be reformed so that the internal flow of information between deciders and decided-upon is kept in balance. Without that, a system will not remain viable and useful to humanity over time.

Reviewing The Unaccountability Machine in the Financial Times, Felix Martin describes Davies’ approach as “a kind of psychoanalysis for non-human intelligences, with Stafford Beer as Sigmund Freud.” I could not have said it better. Our social world is no longer confined to our families, our neighbors, our co-workers, and those with whom we directly interact via networks of affection, antipathy, barter and exchange, small-scale planning, and arm-twisting. Instead, more and more of what we do is driven by an extremely complex assembly of vast interlocking social and technological mechanisms that we have made but do not understand.

If the challenge of modernity is to figure out a better way to work and think together as a global community of more than eight billion people, how can we improve our understanding, and thus our control? Unfortunately, Davies does not give us much of an answer. His book concludes with typical business-school blather. Nonetheless, he deserves credit for defining the task we face and pointing us toward a new intellectual path forward.

 

Come l’umanità ha perso il controllo,

di J. Bradford DeLong

 

BERKELEY – Come possiamo essere almeno 15 volte più ricchi dei nostri predecessori dell’epoca agraria preindustriale e tuttavia essere così infelici? Una spiegazione è che non ci siamo predisposti: niente del nostro patrimonio o del nostro passate evolutivo ci ha preparato a misurarci con una società di più di 150 persone. Per far funzionare le nostre sempre più complicate tecnologie e progredire nella prosperità, noi in qualche modo dobbiamo coordinarci tra più di otto miliardi di persone.

Di conseguenza abbiamo costruito imponenti macchine sociali che comprendono le economie di mercato, il governo e le burocrazie aziendali, i sistemi di governo nazionali e sub nazionali, ed altro ancora. Tuttavia facciamo fatica ad affinare queste istituzioni, perché semplicemente non le comprendiamo. Siamo stati lasciati con una rete grande come il pianeta di leviatani che ci comandano a bacchetta e ci rendono infelici, anche se a confronto con le precedenti generazioni ci fanno favolosamente ricchi.

L’economista Dan Davies ha scritto un magnifico piccolo libro sulle nostre problematiche creazioni. In La macchina dell’irresponsabilità: perché i grandi sistemi prendono decisioni terribili – e come il mondo ha perduto il senno, Davies intreccia un argomento da cinque distinte tematiche. La prima è la sua osservazione che il nostro mondo è pieno di buchi di responsabilità: luoghi dove le cose stanno andando chiaramente storte, ma non c’è nessuno a cui dare la colpa. È piuttosto l’intero sistema che ha la colpa, e il sistema non ha alcun modo per vedere o correggere il problema.

La seconda, Davies mette in evidenza che ogni sistema sociale ha bisogno non solo di perseguire la sua missione ma anche di conservarsi. Questo in generale comporta che non può concentrarsi su un ristretto metodo di misura. Ogni sistema deve invece portare a termine molteplici sotto-obbiettivi in aggiunta alla sua missione principale. Questi includono il fornire risorse sufficienti alle persone che svolgono il lavoro; coordinare le cose nel ‘qua e adesso’; guardare avanti oltre il presente verso il ‘là e in seguito’ e mantenere la concentrazione dei partecipanti umani sui fini della organizzazione (la sua filosofia di guida). Davies fa l’esempio di un complesso di musiche di Elton John, dove questi compiti vengono svolti, grosso modo, da “[i] musicisti, il direttore d’orchestra, il manager del tour, il direttore artistico, e Elton John”.

Il terzo tema, la delega è essenziale per ridurre le complessità e mantenere una missione dell’organizzazione gestibile. Non c’è bisogno di guardare la temperatura minuto per minuto dentro un misuratore simile ad una gabbia di scoiattolo; è sufficiente disporre di un termostato.

Quarto tema, è importante costruire forti cicli di retroazione. Questo comporta amplificare i segnali esterni che si ha soprattutto bisogno di vedere, e mantenere un sufficiente potere interno di esame per agire su essi prima che sia troppo tardi.

Da ultimo, il modo migliore per riformare le organizzazioni in modo che non diventino macchine di irresponsabilità è far rivivere la quasi-disciplina della cibernetica della gestione successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Fondato dallo scienziato di computer Norbert Wiener e dal politologo Herbert Simon, quell’approccio aveva preso il nome dalla parola greca kybernētikos: “buono nel guidare una imbarcazione”.

Il guru che fece i maggiori progressi nel costruire la cibernetica di gestione fu il consulente dell’epoca della controcultura Stafford Beer, il cui libro Cervello e impresa esplorava come le burocrazie possono essere riformate al fine di mantenere in equilibrio il flusso interno di informazioni tra i decisori e i sottoposti alle decisioni. Senza ciò, un sistema non resta utilizzabile ed utile all’umanità nel corso del tempo.

Recensendo La macchina dell’irresponsabilità sul Financial Times, Felix Martin descrive l’approccio di Davies come “una sorta di psicoanalisi per intelligenze non umane, con Stafford Beer al posto di Sigmund Freud”. Non avrei potuto dirlo meglio. Il nostro mondo non è più confinato alle nostre famiglie, ai nostri vicini, a coloro che lavorano con noi, a quelli con i quali interagiamo direttamente tramite le reti dell’affetto, dell’antipatia, del baratto e dello scambio, della pianificazione su piccola scala e della costrizione. Piuttosto, una parte sempre maggiore di quello che facciamo è guidata da un assemblaggio estremamente complicato di vasti ed aggrovigliati meccanismi sociali e tecnologici, dei quali disponiamo ma che non comprendiamo.

Se la sfida della modernità è immaginarci un modo migliore per lavorare e ragionare assieme come comunità globale di più di otto miliardi di persone, come possiamo migliorare la nostra comprensione, e quindi il nostro controllo? Sfortunatamente, Davies non ci dà una gran risposta. Il suo libro si conclude con tipici luoghi comuni da scuola aziendale. Ciononostante, egli merita credito per aver definito il compito che abbiamo dinanzi e per averci mostrato un nuovo sentiero intellettuale per il futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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