Publié le18 février 2025
For anyone in doubt, Donald Trump has at least made things clear: the right exists and it speaks loudly. As has often been the case in the past, it takes the form of a mixture of violent nationalism, social conservatism and unbridled economic liberalism. We could call Trumpism national-liberalism, or more accurately, national-capitalism. Trump’s remarks on Greenland and Panama show his attachment to the most aggressive, authoritarian and extractivist form of capitalism, which is basically the real and concrete form that economic liberalism has often taken throughout history, as Arnaud Orain has just reminded us in « Le Monde confisqué. Essai sur le capitalisme de la finitude, XVIe-XXIe siècle » (Flammarion, 2025) (« The confiscated world. Essay on the capitalism of finitude, 16th-21th century »).
Let’s be clear: Trump’s national capitalism likes to flaunt its strength, but it is actually fragile and at bay. Europe has the means to confront it, provided it regains confidence in itself, forges new alliances and calmly analyzes the strengths and limitations of this ideological framework.
Europe is well placed to do so. It has long based its development on a similar military-extractivist pattern, for better or for worse. After forcibly seizing control of sea routes, raw materials and the global textile market, European powers imposed colonial tribute on all resistant nations throughout the 19th century, from Haiti to China and Morocco. By 1914, they were engaged in a fierce struggle for control of territories, resources and global capitalism. They even imposed increasingly exorbitant tributes on one another – Prussia demanded tribute from France in 1871, then France from Germany in 1919: 132 billion gold marks, more than three years of German GDP at the time. A ratio comparable to the tribute imposed on Haiti in 1825, except that this time Germany had the means to defend itself. Endless escalation led to the collapse of the system and of Europe’s hubris.
This is the first weakness of national capitalism: when powers reach a boiling point, they end up devouring each other. The second is that the dream of prosperity promised by national capitalism always ends up disappointing public expectations because it is, in reality, built on exacerbated social hierarchies and an ever-growing concentration of wealth. If the Republican Party has become so nationalistic and virulent toward the outside world, it is first and foremost due to the failure of Reagan-era policies, which were supposed to boost growth, but only slowed it and led to stagnating incomes for most. In the mid-20th century, American productivity, measured as GDP per hour worked, was double that of Europe, thanks to the country’s educational advantage. Since the 1990s, it has been at the same level as that of the most advanced European countries (Germany, France, Sweden or Denmark), with differences so small they are statistically indistinguishable.
Impressed by market capitalizations and billion-dollar figures, some observers are amazed by the US’s economic power. They forget that these valuations stem from the monopoly dominance of a few major groups, and, more broadly, that the astronomical dollar amounts reflect the very high prices imposed on American consumers. It’s akin to analyzing wage trends without taking inflation into account. When measured in terms of purchasing power parity, the reality is very different: the productivity gap with Europe disappears entirely.
Using this measurement, China’s GDP surpassed that of the US in 2016. It is currently more than 30% higher and will reach double the US GDP by 2035. This has very real consequences in terms of its capacity to influence and finance investment in the Global South, especially if the US locks itself into its arrogant, neo-colonial posture. The reality is that the US is on the verge of losing control of the world, and Trump’s rhetoric won’t change that.
Let’s summarize: the strength of national capitalism lies in glorifying power and national identity while denouncing the illusions of carefree rhetoric about universal harmony and class equality. Its weakness is that it clashes with power struggles and forgets that sustainable prosperity requires an educational, social and environmental investment that benefits all.
In the face of Trumpism, Europe must, first and foremost, remain true to itself. No one on the continent, not even the nationalist right, wants to return to the military postures of the past. Rather than devoting its resources to an endless arms race – Trump is now demanding military budgets of up to 5% of GDP – Europe must base its influence on law and justice. Targeted financial sanctions, effectively applied to a few thousand leaders, can make a stronger impact than stockpiling tanks. Above all, Europe must heed the calls from the Global South for economic, fiscal and climate justice. It must renew its commitment to social investment and definitively overtake the US in terms of training and productivity, just as it has already done in terms of health and life expectancy. After 1945, Europe rebuilt itself through the welfare state and the social-democratic revolution. This project remains unfinished: on the contrary, it must be seen as the beginning of a model of democratic and ecological socialism that must now be thought through on a global scale.
Trump, il capitalismo nazionalistico in una insenatura. [1]
Di Thomas Piketty
Per chiunque avesse avuto dubbi, Donald Trump ha almeno reso le cose chiare: la destra esiste e parla a voce alta. Come è spesso avvenuto nel passato, ciò prende la forma di una mescolanza di violento nazionalismo, di conservatorismo sociale e di sfrenato liberalismo economico. Potremmo chiamare il trumpismo liberalismo nazionalistico, o più precisamente, capitalismo nazionalistico. Le considerazioni di Trump sulla Groenlandia e su Panama mostrano il suo attaccamento alla forma di capitalismo più aggressiva, autoritaria ed estorsiva, che è fondamentalmente la forma reale e concreta che il liberalismo economico ha spesso preso nel corso della storia, come Arnaud Orain ci ha appena ricordato ne: “Il mondo confiscato. Saggio sul capitalismo della finitezza, XVI-XXI secolo”.
Siamo chiari: al capitalismo nazionalista di Trump piace far sfoggio della sua forza, ma in effetti è fragile ed è come ancorato in una insenatura. L’Europa ha i mezzi per misurarsi con esso, ammesso che recuperi la fiducia in se stessa, dia vita a nuove alleanze e analizzi con calma i punti di forza ed i limiti di questo schema ideologico.
L’Europa è nella posizione giusta per farlo. Il suo sviluppo si è a lungo basato su un simile modello militare-estorsivo, nel bene o nel male. Dopo aver preso con la forza il controllo delle rotte marine, dei minerali grezzi e del mercato tessile globale, le potenze europee nel corso del diciannovesimo secolo imposero il tributo coloniale a tutte le nazioni che resistevano, da Haiti alla Cina al Marocco. Dal 1914, si impegnarono in una lotta feroce per il controllo dei territori, delle risorse e del capitalismo globale. Esse imposero persino esorbitanti tributi l’una all’altra – la Prussia chiese il tributo alla Francia nel 1871, poi la Francia alla Germania nel 1919: 132 miliardi di marchi oro, più di tre annualità del PIL tedesco dell’epoca. Un tasso comparabile a tributo imposto ad Haiti nel 1825, ad eccezione del fatto che questa volta la Germania ebbe i mezzi per difendersi. Una incessante scalata portò al collasso del sistema e della arroganza.
Questa è la prima debolezza del capitalismo nazionalistico: quando le potenze raggiungono un punto di ebollizione, finiscono col divorarsi l’una con l’altra. La seconda è che il sogno di prosperità promesso dal capitalismo nazionalistico finisce sempre per deludere le aspettative dell’opinione pubblica, giacché, nella realtà, è costruito su esacerbate gerarchie sociali e su una concentrazione della ricchezza in continua crescita. Se il Partito Repubblicano è diventato così nazionalistico e virulento verso il mondo esterno, ciò è prima di tutto dovuto al fallimento delle politiche dell’epoca di Reagan, che si supponeva incoraggiassero la crescita, ma soltanto la rallentarono e portarono a redditi stagnanti per la maggioranza delle persone. Alla metà del ventesimo secolo la produttività americana, misurata come PIL per ora lavorata, era doppia di quella dell’Europa, grazie al vantaggio del paese nell’istruzione. Dagli anni ‘990, essa è stata allo stesso livello di quello dei più avanzati paesi europei (Germania, Francia, Svezia o Danimarca), con differenze così piccole da essere statisticamente indistinguibili.
Impressionati dalle capitalizzazioni del mercato e dai dati in miliardi di dollari, alcuni osservatori sono sbalorditi dalla potenza economica statunitense. Essi dimenticano che queste valutazioni derivano dal dominio monopolistico di pochi gruppi principali e, più in generale, che le quantità astronomiche di dollari riflettono i prezzi molto alti imposti ai consumatori americani. È la stessa cosa che analizzare le tendenze salariali senza mettere nel conto l’inflazione. Quando misurata in termini di parità di potere d’acquisto, la realtà è molto diversa: il divario di produttività con l’Europa scompare interamente.
Utilizzando questa misura, il PIL della Cina ha sorpassato quello degli Stati Uniti nel 2016. Esso è attualmente più del 30% superiore e raggiungerà il doppio del PIL statunitense col 2035. Questo ha conseguenze molto concrete nei termini della capacità di influenzare e finanziare gli investimenti nel Sud Globale, specialmente se gli Stati Uniti si rinchiudono in un atteggiamento arrogante e neocoloniale. La realtà è che gli Stati Uniti sono prossimi a perdere il controllo del mondo, e la retorica di Trump non la cambierà.
Per sintetizzare: la forza del capitalismo nazionalistico consiste nel glorificare la potenza e l’identità nazionale, nel mentre denuncia le illusioni della spensierata retorica sull’armonia universale e sull’eguaglianza tre le classi. La sua debolezza è che si scontra con lotte di potere e dimentica che una prosperità sostenibile richiede investimenti educativi, sociali ed ambientali dei quali beneficino tutti.
Di fronte al trumpismo, l’Europa deve, prima di tutto, restare coerente con se stessa. Anziché dedicare le sue risorse ad un corsa incessante agli armamenti – Trump sta adesso chiedendo che i bilanci militari salgano al 5% del PIL – l’Europa deve basare la sua influenza sulla legge e sulla giustizia. Sanzioni finanziarie mirate, applicate efficacemente a poche migliaia di leader, possono avere un impatto più forte che accumulare carri armati. Soprattutto, l’Europa deve ascoltare le richieste dal Sud Globale per la giustizia economica, fiscale e climatica. Essa deve rinnovare il suo impegno agli investimenti sociali e superare definitivamente gli Stati Uniti in termini di formazione e produttività, proprio come ha già fatto in termini di salute e di aspettative di vita. Dopo il 1945, l’Europa si è ricostruita attraverso lo stato assistenziale e la rivoluzione social-democratica. Questo progetto rimane incompiuto: esso deve essere considerato, al contrario, come l’inizio di un modello di socialismo democratico ed ecologico che adesso deve essere pensato su scala globale.
[1] Mi sono chiesto cosa significasse il termine “at bay”, che mi parrebbe senza senso tradurre con “a bada”. Credo, per quanto la frase finisca con l’essere un po’ laboriosa, che il significato consista nel considerare “bay” letteralmente come una “insenatura”, un “piccolo golfo” – qualcosa che ‘racchiude’ e in fondo allontana dal dominio globale – che è il senso principale dell’articolo. Una espressione forse più marinara sarebbe “in rada”.
Anche il termine “national-capitalism” mi pare più comprensibile tradurlo con “capitalismo nazionalistico”, con un riferimento più diretto all’aspetto ideologico, giacché tradurlo con “capitalismo nazionale” potrebbe esser letto come una almeno parziale tautologia.
By mm
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