[Questo resoconto è stato scritto da un medico americano, Dayton Dalton, che per vari giorni ha compiuto un viaggio in quello che resta delle strutture sanitarie di Gaza. Il suo viaggio è dipeso dalla circostanza che si trovava in missione durante il cessate il fuoco, quando i dipartimenti dell’emergenza non erano strapieni, e gli fu consigliato dai colleghi palestinesi di visitare i luoghi nei quali operavano. Sono in un certo senso gli “interni” di un genocidio, raccontati da immagini e dalle poche parole degli esseri umani che lo subiscono. Dalton non ha nessun interesse alle definizioni (ad eccezione di un confronto illuminante tra quello che vede e le parole usate nelle Convenzioni di Ginevra). E le persone che incontra o che lo accompagnano non hanno certo parole da sprecare. Pur trattandosi della loro vita quotidiana, quando parlano è solo per esprimere sentimenti di incredulità.]
Il 29 gennaio, due settimane dopo l’accordo tra Israele e Hamas sul cessate il fuoco, ho attraversato Gaza come componente di una missione medica di dodici persone. Dopo aver attraversato il sud di Israele in un convoglio delle Nazioni Unite, abbiamo seguito una scorta militare israeliana attraverso un labirinto di barriere di cemento. Poi siamo usciti dai nostri veicoli e abbiamo trascinato valige piene di cose essenziali – garze, antibiotici, cateteri, cesoie da trauma – attraverso una porta blindata. Abbiamo superato una terra di nessuno di filo spinato dove crescevano inverosimili piante di tarassaco. Infine, siamo montati su un furgoncino con un parabrezza in frantumi e ci ha portato a Khan Younis, una città di varie centinaia di migliaia di persone nella zona meridionale di Gaza. Il nostro guidatore sterzava di continuo per evitare i crateri; quasi tutte le strutture che superavamo erano danneggiate. Ad un incrocio, un minareto sorgeva su una moschea in rovina. Eppure la città era viva. Ho visto una famiglia che sorseggiava tè in un edificio senza tetto. Quasi la metà dei due milioni di residenti di Gaza sono bambini, e sono dappertutto – ridono, salutano, fanno volare aquiloni di carta.
Agli inizi, quando mi iscrissi per lavorare a Gaza alla fine del 2024, l’esercito israeliano eseguiva più o meno giornalmente offensive di terra e di aria. Pazienti feriti stavano schiacciando l’appena funzionante sistema sanitario della regione. Mi aspettavo di accovacciarmi in un unico ospedale e di passare due settimane per aiutare a curarli. Invece, quando arrivai, le forze israeliane si erano ritirate da parti di Gaza, gli attacchi aerei erano un buona parte sospesi e le famiglie sfollate stavano tornando nei luoghi dai quali erano fuggite. Questo comportava che la nostra visuale non era limitata all’interno di un edificio. Avrei ricevuto un inconsueto quadro completo delle infrastrutture sanitarie di Gaza.
Passammo la notte all’Ospedale Nasser, un edificio beige e marrone di cinque piani a Khan Younis. Mentre ci avvicinavamo un passante, riconoscendoci come operatori umanitari, gridò una supplica attraverso la finestra del nostro furgoncino: “Restate con noi! Non limitatevi ad arrivare e partire. Qua va di scena l’umanità!” Il Nasser è stato il luogo di un importante attacco a febbraio del 2024, quando l’esercito israeliano – lo IDF (Forze di Difesa Israeliane) – bombardò l’ospedale, interruppe l’energia elettrica e l’ossigeno e saccheggiò la struttura. Un dottore disse alla CNN che era stato perquisito. “Siamo sotto un assedio completo”, disse. “Siamo stati senza elettricità, senza ossigeno, senza riscaldamento, a mala pena con un po’ di cibo e di acqua”. Il Ministro della Sanità di Gaza riferì che come risultato dell’attacco morirono una dozzina di pazienti; l’Organizzazione Mondiale della Sanità ammonì che “l’ulteriore interruzione della assistenza salvavita per gli ammalati ed i feriti avrebbe portato a più morti”.
Lo IDF raccontava una storia diversa. Esso disse che presso il Nasser aveva trovato armi, in aggiunta a medicine destinate agli ostaggi israeliani. Esso sostenne anche di aver arrestato centinaia di sospetti terroristi, compresi alcuni che presumibilmente avevano posato o lavorato come staff medico. “L’attività operativa venne condotta per assicurare la minima interruzione alla prosecuzione delle attività dell’ospedale e senza danni per i pazienti e lo staff medico”, affermò una dichiarazione dell’IDF. “Lo IDF continuerà ad operare in accordo con la legge internazionale contro l’organizzazione terroristica Hamas, che opera sistematicamente dagli ospedali”. Presso i terntasei ospedali di Gaza, questa dinamica è andata in scena ripetutamente. Lo IDF ha giustificato il bombardamento e gli assalti agli ospedali, potenziali crimini di guerra, accusando Hamas di crimini di guerra: trasformare i centri medici in “centri del terrore” e nascondersi dietro le infrastrutture civili. Ma raramente i dirigenti israeliani forniscono sufficienti prove alle agenzie giornalistiche ed alle organizzazioni internazionali per verificare le loro pretese. Hamas ha negato di usare strutture sanitarie per scopi militari.
Il Nasser è stato in buona parte riparato, ma i ricordi della violenza erano dappertutto. In un campo adiacente giacciono i resti contorti e carbonizzati delle ambulanze. Su un balcone esterno ai nostri dormitori, un dottore palestinese ci ha mostrato buchi di proiettili dal fuoco dei cecchini che ha detto era indirizzato a lui e ai suoi colleghi. Un chirurgo della nostra squadra ha detto che, durante una precedente missione, aveva trovato un osso di un dito umano sul terreno dell’ospedale; non sapendo cosa altro fare, lo aveva bruciato.
Il giorno successivo, alcuni di noi sono stati portati all’Ospedale dei Martiri di Al-Aqsa, lontano dieci chilometri, nella zona centrale di Gaza. Andando a nord, abbiamo visto interi blocchi di edifici rasi al suolo. Centinaia di rifugi informali – messi assieme con lamiere, porte di automobili, tappeti, teloni – erano stati eretti in mezzo alle lastre di cemento. Le persone stavano smistando i detriti in mucchi; abbiamo incrociato un uomo che spazzava la strada con una scopa.
Al-Aqsa, un gruppo di edifici in mattoni gialli segnati dalle schegge in un denso quartiere residenziale, era stato originariamente costruito per ospitare qualche centinaio di pazienti. Poi gli attacchi aerei, una invasione di terra dello IDF e pesanti scontri con i militanti palestinesi hanno spinto quasi un milione di persone nell’area. La struttura talvolta riceveva più di un centinaio di pazienti al giorno e frequentemente terminava il carburante e le scorte. Anche Al-Aqsa divenne un obbiettivo. Attacchi aerei colpirono un giardino dove centinaia di persone stavano rifugiandosi nelle tende. L’IDF disse che l’ospedale stava alloggiando un centro di comando terrorista.
La nostra guida ad Al-Aqsa era un robusto residente, un ortopedico trentacinquenne di nome Mohammad Shaheen. Scherzava dicendo che il conflitto era stato formidabile per la sua linea – aveva perso trenta chili. Aprì la porta di un enorme capannone di metallo che faceva le funzioni di reparto improvvisato. “L’abbiamo costruito in dieci giorni”, ci disse. Adesso era buio, con barelle vuote agli angoli. “Stiamo passando dal trauma alla ricostruzione”, mi disse. Innumerevoli abitanti di Gaza avevano bisogno di assistenza sanitaria per ferite passate e condizioni sanitarie non curate. Quartieri interi dovevano essere ripuliti dalle macerie e dagli ordigni inesplosi.
Il dipartimento dell’emergenza di Al-Aqsa era uno spazio debolmente illuminato che conteneva circa quindici letti. Con mia sorpresa, solo uno ospitava un paziente. La mia specialità, la medicina di emergenza, in apparenza non aveva avuto una elevata domanda dall’inizio del cessate il fuoco. Il direttore di A-Aqsa suggeriva che, piuttosto che gestire un pronto soccorso stranamente calmo, forse avrei dovuto documentare lo stato degli ospedali in tutta Gaza. “Ci meritiamo una vita migliore di questa”, disse.
Quel pomeriggio, nella sala operatoria vidi un giovane la cui mano sinistra era stata maciullata. Un chirurgo si fregò le mani mentre mi raccontava cosa era successo: l’uomo era tornato sui relitti della sua casa ed una bomba era esplosa. Non c’erano lacci emostatici disponibili, dunque un catetere vescicale gli era stato legato al braccio per rallentare l’emorragia. Non c’erano neanche camici da ospedale, dunque lui stava indossando una maglione rosso quando l’anestesista lo addormentò.
Al piano di sopra c’era l’unità di assistenza intensiva. Sulla sua porta, che era chiusa, qualcuno aveva scritto “ICU” con un pennarello rosso. Un uomo nel corridoio forzò la porta con un cucchiaio. Dentro, uno dei miei colleghi, un intensivista con la barba di nome Shiraz Saleem, stava curando una ragazza di dieci anni con una chetoacidosi diabetica, una complicazione letale del diabete provocata dalla mancanza di insulina. Ma i dottori avevano difficoltà a monitorare il suo zucchero nel sangue perché non avevano un glucometro, uno strumento che nelle farmacie americane si vende per circa 20 dollari.
Nel reparto di pediatria, uno spazio angusto che aveva personaggi dei fumetti dipinti sulle pareti, una ragazza di otto anni di nome Mariam piangeva piano mentre un altro dei miei colleghi la esaminava. I suoi capelli erano ordinatamente intrecciati con un elastico giallo. Mariam aveva perso un braccio per una amputazione dopo un attacco aereo, e una scheggia di proiettile le aveva fatto un buco tra la vescica e il retto. Era già stata sottoposta a cinque interventi chirurgici. Su un letto vicino giaceva un ragazzo di tre anni, che aveva avuto bisogno di un intervento dopo essere stato ferito in un attacco aereo; nell’attacco era stato ucciso il suo fratello di cinque anni. Il ragazzo soffriva di una ferita chirurgica infetta. Saleem mi disse dopo: “Come possono essere vere cose così orribili?”
Nel pomeriggio, un urologo palestinese mi mostrò sul suo telefono fotografie di pazienti che egli aveva trattato. Vidi un giovane che si diceva fosse stato colpito all’inguine da un cecchino israeliano, una donna trentacinquenne con una ferita da esplosione alla vagina, un uomo il cui scroto era stato fatto a pezzi. La faccia dell’urologo, illuminata dal bagliore di queste immagini, era livida. Continuava a scorrere, più indietro nel suo passato, finché la sua macchina fotografica all’improvviso non entrò in una realtà diversa – fotografie di incontri familiari, di ragazzi che correvano nell’erba.
Il 7 ottobre del 2023, migliaia di militanti guidati da Hamas erano entrati in Israele ed avevano effettuato attacchi attentamente pianificati contro civili, molti dei quali stavano partecipando ad un festival musicale. Uomini armati su motocicli e su camioncini aveva circondato le persone in fuga e aperto il fuoco. In un kibbutz vicino erano andati casa per casa, sparando ad alcuni residenti e rapendone altri. Circa milleduecento persone erano state uccise, comprese varie dozzine di bambini, e più di duecentocinquanta persone, di età che andavano dai nove mesi agli ottantacinque anni, vennero prese in ostaggio (cinquantanove ostaggi rimangono a Gaza; ventiquattro si ritiene siano vivi). Israele e il resto del mondo vennero inondati dalle immagini delle sanguinose conseguenze; alcune mostravano corpi irriconoscibili bruciati. Alla fine della giornata, le autorità israeliane stava parlando non solo di giustizia ma anche di castigo. “Per questo giorno nero ci prenderemo una possente vendetta”, dichiarò il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. “Tutti i luoghi dove Hamas si nasconde e dai quali opera – li trasformeremo in città di rovine”.
In questo momento, Israele ha scaricato più esplosivo in Gaza di quello che cadde su Londra, Dresda e Amburgo messe assieme durante la Seconda Guerra Mondiale. Sono stati uccisi più di cinquantamila palestinesi. Gli ospedali non sono stati risparmiati; la maggior parte non sono più funzionali. Poche settimane prima del mio viaggio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità rese noto che più di un migliaio di lavoratori della sanità erano stati uccisi, e che essa aveva verificato seicento cinquantaquattro attacchi sulle strutture sanitarie di Gaza. Il settore sanitario del territorio “è stato sistematicamente smantellato”, ha detto un rappresentante dell’OMS. Solo il mese scorso, sono stati filmati soldati israeliani che aprivano il fuoco a Gaza meridionale, uccidendo quindici operatori dei soccorsi. Un portavoce dello IDF aveva inizialmente sostenuto che i veicoli “stavano avanzando in modo sospetto verso le truppe dell’IDF senza fari o segnali di emergenza”, ma l’IDF ha ritrattato quella dichiarazione ed ha aperto una indagine dopo che un filmato pubblicato dal Times aveva mostrato un medico in uniforme accanto ad ambulanze immobili e chiaramente segnalate, seguito da cinque minuti di sparatoria da parte dell’IDF.
Dal 7 di ottobre, i resoconti dall’interno di Gaza sono stati estremamente limitati. Secondo la Commissione per la protezione dei giornalisti, almeno cento sessantuno operatori dei media sono stati uccisi in Israele e nei territori palestinesi occupati – uno di loro, l’anno passato, in una tenda per i media fuori dall’Ospedale Al-Aqsa, e un altro vicino all’Ospedale Nasser. Mentre ero là, il solo fatto che potevo uscire dall’ospedale sembrava surreale.
Una sera, feci una passeggiata con Saleem, Shaheen e uno studente di medicina di ventun anni. Avevamo superato venditori ambulanti che vendevano scarpe spaiate e prodotti arrivati di recente. Vidi un uomo su una sedia da barbiere, che si tagliava i capelli. Alcune esplosioni di fucili automatici si sentirono a distanza – bande, ci venne detto. Sentivo cantare uccelli e mi guardai attorno; tre gabbie metalliche erano legate al lato di una tenda, ciascuna con un piccolo uccello domestico dentro. Poi arrivammo ad una scuola deserta che era stata usata come un rifugio. Un gruppo di bambini venne fuori dall’ombra. “Come va!” chiamò un ragazzo. I bambini ci portarono sul tetto e indicarono in basso un campo di alberi di olivo da poco piantati – una bella vista, che dava speranza. Prima che io e Saleem lasciassimo la scuola, il ragazzo, il cui nome era Ali, corse verso di noi, avvolse le sua braccia attorno a ognuno di noi, e faceva oscillare i suoi piedi anneriti come se fossero un pendolo. La sua risata risuonò nella scuola.
La mattina successiva, lo studente di medicina mi portò ad una stazione di ambulanze vicino ad Al-Aqsa. Ogni ambulanza recava segni di danneggiamento. Un paramedico di sessant’anni mi disse che dopo che un edificio veniva bombardato spesso volteggiavano i droni, ed i soccorritori avevano paura ad entrare finché i droni non se ne andavano. Chiesi ai paramedici cosa fosse più difficile in questo lavoro. Uno rispose: rispondere ad una attacco aereo e scoprire che ha riguardato la tua stessa famiglia. Recuperare i corpi dei bambini, disse un altro. Fece una pausa e poi aggiunse: “E’ strano che il mondo abbia permesso che ci accadesse questo”.
Lo studente di medicina mi portò anche al dipartimento di ortopedia. “Le ferite da esplosivo sono contaminate”, spiegò un ortopedico accendendo una sigaretta. “Noi facciamo il controllo dei danni”. Non si potevano riparare le ossa con placche e viti, disse, perché la ferita si sarebbe infettata. Invece, con un procedimento chiamato fissazione esterna, i dottori spingevano perni metallici attraverso la pelle e dentro l’osso; i perni erano attaccati ad un’armatura fuori dal corpo. Il tasso di infezione risultante era ancora elevato dell’ottanta per cento. Poiché l’ospedale mancava di soluzione salina per irrigare le ferite, i dottori mescolavano acqua di rubinetto con cloro adatto per le piscine.
Quel giorno, un giovane stava avendo un’operazione in quella che un tempo era stata una stanza per esami. Un chirurgo disse che un drone l’aveva colpito ad una coscia frantumandogli il femore. La fissazione esterna aveva stabilizzato la frattura, ma l’osso era divenuto incontrollabilmente infetto. Il chirurgo scacciò una mosca, poi tenne aperte la ferita per mostrarmi le estremità affilate e rotte dell’osso. Egli stava progettando una forma estrema di amputazione chiamata disarticolazione dell’anca; se il paziente fosse sopravvissuto, era improbabile potesse camminare nuovamente.
Qualcosa come ventisei mila persone hanno subito a Gaza la fissazione esterna, e molti di loro aspetteranno anni per gli interventi chirurgici successivi. “Sarà una vita miserabile per loro”, disse l’ortopedico. Poi mi indicò una foto di un missile argentato che spuntava dal terreno fuori di casa sua. “GBU-39” era stampato su un suo lato. In seguito, andai a controllare, erano munizioni americane guidate da duecentocinquanta libbre, prodotte dalla Boeing.
La peggiore devastazione avvenne a Gaza settentrionale, che in alcune fotografie sembrava come Hiroshima dopo la bomba atomica. Secondo la CNN la maggior parte dei ventidue ospedali nel nord erano finiti sotto attacchi diretti. Continuavo a sentir dire che Al-Shifa, l’ospedale principale di insegnamento e specialistico a Gaza, era stato completamente distrutto. Alla mattina del mio quinto giorno, mi misi in cammino con Ahmed Alassouli, uno dei coordinatori della missione medica, sulla strada Al-Rashid, che corre lungo il Mediterraneo. Speravamo di visitare la maggior parte degli ospedali nel nord, qualcosa che difficilmente nessun esterno era riuscito a fare dal 7 ottobre; l’IDF non permetteva che giornalisti stranieri visitassero senza una scorta, e gli operatori sanitari spesso restavano in un unico ospedale, per ragioni di sicurezza. Alla nostra sinistra, potevamo vedere ondate scintillanti e pescatori che tendevano le reti. Alla nostra destra terreni desolati. In lontananza si alzava un fumo nero e una bandiera bianca sventolava sul tetto di un edificio bombardato.
Dopo che avevamo camminato per alcune ore, Alassouli fu capace di chiamare una macchina e noi salimmo su un rimorchio metallico agganciato sul retro. Un uomo che viaggiava accanto a me aprì un pacchetto di biscotti e me ne offrì uno. Alla periferia di Gaza salimmo su un Suv malconcio. Vidi una donna gettare un secchio di polvere fuori da una finestra aperta; un uomo fumava dentro un appartamento che stava perdendo una parete.
Il dipartimento dell’emergenza dell’Ospedale Kamal Adwan, a nord di Gaza City, come struttura sanitaria era irriconoscibile. Eravamo accompagnati da Ezz, un magro studente di medicina di ventitré anni con capelli ondulati e scuri, che sarebbe stato il nostro interprete nel nord. L’IDF aveva dichiarato che il Kamal Adwan era un centro di comando militare di Hamas. Durante un assalto dell’IDF a dicembre, l’ospedale era stato distrutto da un incendio; potevo vedere dove il fumo si era riversato dalle finestre infrante, tingendo di nero gli esterni. Mi misi una maschera sanitaria e seguii dentro un chirurgo di nome Sakher Hamad. Un odore nocivo permeava il luogo e fiale di vetro frantumate scricchiolavano sotto i nostri piedi. Usavamo i nostri cellulari per illuminare la strada. Ezz indicò una stanza dove egli aveva avuto un normale esame clinico durante il conflitto. Adesso conteneva soltanto telai di letti anneriti. Hamad mi portò al piano di sopra, ai reparti di maternità. Anch’essi erano bruciati. Nell’unità di terapia intensiva neonatale, che era stata l’ultima di tali unità in Gaza settentrionale, incubatori distrutti erano sparsi ovunque sui pavimenti. Dopo aver assaltato l’ICU, Israele aveva rilasciato un video di quelle che affermava fossero armi trovate in un incubatore.
In un altro settore, Hamad ci mostrò tre sale operatorie carbonizzate. Un raggio della luce del giorno penetrava attraverso una fessura nel soffitto. Uscimmo dall’ospedale attraverso quella che una volta era stata l’entrata principale, ma adesso era un buco in una facciata annerita, cadente. Di fronte all’ospedale, mi disse Hamad, c’era una fossa comune. Chesi quante persone ci fossero seppellite. “Non lo sappiamo”, rispose.
La casa di Ezz era stata distrutta il secondo giorni della guerra. Lui andò a risiedere come volontario all’Ospedale Al-Shifa – la più ampia struttura sanitaria a Gaza, con settecento letti e venticinque sale operatorie. In seguito l’IDF disse che l’intelligence aveva suggerito che nei tunnel sotto la struttura ci fosse un centro di comando di Hamas. A novembre del 2023, l’IDF cominciò un assedio che culminò in un assalto, l’ospedale venne neutralizzato. Poi, l’IDF rilasciò fotografie di tunnel ed armi che affermò erano stata trovate là.
Ezz mi disse che durante l’assalto i dottori dovevano eseguire toracotomie, nelle quali il torace viene aperto per alleviare la pressione delle lesioni interne, senza antidolorifici o sedativi. “Le urla dei pazienti erano assordanti”, disse. Non avevano strumenti per la tomografia o neurochirurghi; i pazienti con gravi traumi alla testa alla fine smettevano di respirare e morivano. Anche dopo queste esperienze, Ezz sembrava intenzionato a praticare la medicina a Gaza, forse dopo una residenza all’estero. “Questa è la mia intenzione”, disse.
Motaz Harara, il diretto del dipartimento dell’emergenza di Al-Shifa, ci incontrò presso un ex-ambulatorio nei pressi dell’ospedale principale, che era stato riempito con ventotto letti e trasformato in un piccolo reparto di emergenza. Dopo gli attacchi aerei, disse Harara, lo spazio di fortuna riceveva talvolta tre o quattrocento pazienti. Il resto di Al-Shifa, tuttavia, venne abbandonato. Quello che un tempo era stato un atrio spazioso di ospedale, era adesso un groviglio di tondini di ferro e di cemento polverizzato. Da una parte dello spazio, un vano di un ascensore e parte di una scala erano crollati nel seminterrato. Il resto della scala pendeva dal soffitto. Con cautela ci facemmo strada tra le barelle bruciate ed i carrelli porta-attrezzi fino alla metà posteriore del piano terra, quello era stato il dipartimento dell’emergenza.
Il pronto soccorso era ampio, in buona parte vuoto, e nero di fuliggine. Alcuni pilastri erano tutto quello che era rimasto della parete posteriore. Attraverso gli spazi tra di loro, potei vedere un grande cimitero dietro l’ospedale, dove le macerie erano state riutilizzate come lapidi. Quando chiesi ad Harara se qualche parte dell’ospedale avrebbe potuto essere riparata, egli scosse la testa. Un dirigente con Medical Aid for Palestinians, una organizzazione di beneficienza britannica, ha detto che la sua ricostruzione richiederebbe più di venti anni.
Dal 1950, Israele è stata un sottoscrittore delle Convenzioni di Ginevra, che stabiliscono che gli ospedali civili “in nessuna circostanza possono essere oggetto di attacchi, ma in tutti i tempi dovranno essere rispettate e protette”. Un emendamento del 1977 proibisce ogni attacco “che ci si possa aspettare provochi perdite accidentali di vite civili, farite ai civili, danni agli oggetti civili, o una combinazione di tutto ciò, che sarebbero eccessive rispetto al concreto e diretto vantaggio militare atteso”. Dal 7 ottobre, Israele si è pubblicamente impegnata a risparmiare infrastrutture e personale non militari. Nel novembre del 2023, l’ambasciatore di Israele all’Unione Europea, disse che “Faremo del nostro meglio per non danneggiare gli innocenti”. “Noi siamo vincolati alla legge internazionale”. Un ospedale mantiene il suo status speciale anche se sta trattando combattenti feriti, ma se viene usato per una “iniziativa dannosa verso il nemico”, come il nascondere soldasti o immagazzinare armi – una violazione della legge internazionale – esso perde le protezioni umanitarie (anche allora, gli staff medici civili ed i pazienti sono legalmente protetti).
Lo scorso autunno, una squadra di ricercatori di Harvard ha pubblicato una analisi della distanza tra gli ospedali di Gaza e i crateri delle bombe M-84 da duemila libbre. Una M-84 può spostare più di cinque tonnellate di terra e creare onde d’urto abbastanza forti da far esplodere polmoni e setti paranasali. “Essa schiaccia edifici interi”, ha detto un passato dirigente del Pentagono. Lo studio notava che, durante le prime sei settimane del conflitto, l’ottantaquattro per cento degli ospedali di Gaza erano nell’area del danno di almeno uno di tali crateri, e un quarto erano nell’area letale. Uno degli autori, un epidemiologo spaziale e medico dell’emergenza di nome Gregg Greenough, mi ha detto: “Io non vedo alcuna prova che abbiano cercato di proteggere i civili o le infrastrutture civili”. “Come si potrebbe usare questo genere di armi, in un contesto di questo tipo, e continuare a sostenere che si sta rispettando la legge umanitaria internazionale?” L’IDF ha riferito al New Yorker che essa “non prende di mira intenzionalmente civili non coinvolti”. Ha detto che essa “riconosce le protezioni speciali garantite alle squadre mediche sotto la legge umanitaria internazionale ed è impegnata a prendere tutte le misure necessarie per mitigare i danni a loro e minimizzare le interruzioni nei servizi sanitari”.
Quando abbiamo attraversato il cancello dell’Ospedale Al-Ahli Arab – la cosa più vicina ad un ospedale funzionante nel nord – abbiamo visto due edifici di color marrone chiaro e una torre dall’aspetto moderno sormontata da pannelli solari. La maggior parte delle sue finestre erano frastagliate da schegge di vetro. Al-Ahli venne fondato nel 1882 da missionari anglicani. Una targa commemorava un restauro del 2011 sponsorizzato dall’USAID. Carri mulattieri stavano continuamente scaricando nuovi pazienti, molti dei quali avevano perni di fissazione esterna che uscivano dalle loro braccia o gambe. Una cappella, crivellata dai danni dei frammenti di proiettili, era stata trasformata in un reparto medico. Ezz ci portò in un piccolo pronto soccorso che, nonostante il cessate il fuoco, era in funzione. Non c’era alcun ventilatore, defibrillatore o colonnina per le flebo. Contai due monitor cardiaci e diciotto brandine. “Due monitor per mezzo milione di persone”, disse Ezz. “Incredibile”.
Ezz mi presentò a Fadil Naim, che dirige la struttura. L’ospedale aveva spazio per circa cinquanta ricoverati ma di solito ne curava a centinaia, quindi alcuni dormivano fuori. Naim era l’unico chirurgo ortopedico esperto, ma veniva aiutato dall’offrire formazione a chiunque potesse. “Ho un studente triennale di medicina che adesso fa chirurgia ortopedica”, disse.
Agli inizi del conflitto, Naim chiamò Ezz con notizie terribili. La madre di Ezz era arrivata nella sala di emergenza di Al-Alhi. La casa dei suoi nonni era stata bombardata. Ezz disse che dopo l’arrivo dei soccorritori, una seconda bomba era esplosa nelle vicinanze. Sua madre sopravvisse, ma venti membri della sua famiglia, compreso suo padre, suo fratello, la nonna, la nipote e la cognata vennero uccisi. “Alcuni di loro sono ancora seppelliti sotto le macerie”, mi disse Ezz.
Molte delle case nella parte più settentrionale di Gaza, non erano solo danneggiate ma rase al suolo. L’Ospedale Indonesiano, un imponente edificio di quattro piani, fu una delle poche strutture nel vicinato ancora in piedi, sebbene anch’esso si diceva fosse stato bombardato. I passeri sfrecciavano da un mucchio di macerie all’altro; udii quella che probabilmente era una bomba inesplosa detonare a distanza. Marwan Sultan, un cardiologo e direttore dell’ospedale, ci condusse attraverso corridoi bui, il suo camice bianco svolazzava dietro di lui.
Soltanto il pronto soccorso era rimasto operativo. Sultan disse che i dottori avevano eseguito neurochirurgia su una poltrona da dentista e amputazioni sul terreno. Fuori, mi mostrò i relitti di vari generatori e di una stazione di ossigeno. Le forse israeliane “hanno distrutto i polmoni dell’ospedale”, disse. Vidi un buco su una parte dell’edificio dove lui disse che un carro armato aveva attraversato la parete. Nel giardino del’ospedale, c’erano lapidi fatte con le mattonelle del soffitto. Un portavoce dello IDF aveva detto che erano state trovate armi e tunnel nella struttura.
Sultan mi condusse al piano superiore, all’unità di terapia intensiva, dove il vento soffiava dalle finestre rotte. Voleva mostrarmi qualcosa che aveva scoperto dopo che le forze israeliane avevano lasciato l’ospedale. Mi indicò un monitor cardiaco vicino ad una parete. Sembrava avere un buco di proiettile sullo schermo. Vicino a quello, una macchina per elettrocardiogrammi il cui schermo era stato fracassato.
Entrammo in un ampio magazzino nell’angolo dell’unita di terapia intensiva che era stato stipato con dispositivi sanitari: macchine per ultrasuoni, colonnine per flebo, macchine per dialisi, monitor per la pressione del sangue. In apparenza, erano tutte state distrutte da un proiettile – non in una maniera casuale quale ci si aspetterebbe da una sparatoria, ma piuttosto metodicamente. Ero sbalordito. Non potevo pensare a nessuna possibile giustificazione militare per la distruzione di attrezzature salvavita. Quando chiesi allo IDF un commento, il portavoce disse: “Le pretese che lo IDF prenda di mira deliberatamente attrezzature sanitarie sono inequivocabilmente false”.
Il recente cessate il fuoco a Gaza è durato solo due settimane. A febbraio, io sono tornato negli Stati Uniti. Il 2 marzo, Israele ha impedito che tutti gli aiuti umanitari, comprese le forniture sanitarie, entrassero in Gaza, nello sforzo di fare pressione su Hamas per una accettazione di un cessate il fuoco con termini rivisti. Nella notte del 18 marzo, ha ripreso la sua campagna di bombardamenti. Al mattino, secondo il Ministro della Sanità di Gaza, sono state ammazzate più di quattrocento persone. Ezz mi ha raccontato in uno scritto che gli ospedali del nord hanno subito avuto troppi pazienti e troppo poche forniture per trattarli. Questa passata settimana, l’IDF ha intimato allo staff medico dell’Al-Ahli di evacuare i pazienti; venti minuti dopo, missili hanno reso inutilizzabile il dipertimento dell’emergenza ed un laboratorio di genetica. L’IDF ha detto che Hamas stava operando in essi, cosa che il gruppo ha negato.
Quando le bombe hanno cominciato a cadere a Khan Younis, Sidwa, un chirurgo traumatologico americano che era stato a Gaza in precedenza, era all’Ospedale Nasser, a dormire nella stessa stanza nella quale ero stato io. L’avevo saputo da una chat di gruppo degli operatori di assistenza sanitaria che erano andati in missioni mediche come la mia. Sidwa, un uomo imperturbabile con i capelli corti, si svegliò quando l’onda di pressione di una esplosione fece saltare la porta. Egli si precipitò al pronto soccorso.
Nelle ore che seguirono, duecento ventuno persone vennero portate all’ospedale. Novantadue vennero subito constatate decedute. Sidwa cercava pazienti che avevano bisogno di chirurgia di emergenza. “Era il caos”, disse. “Le stanze erano piene di ragazzi che morivano sul pavimento, che sanguinavano, urlavano, piangevano”. Alcuni pazienti erano vivi ma non potevano essere salvati con le limitate risorse dell’ospedale. Sidwa vide vari bambini con gravi ferite alla testa. L’ospedale non aveva un neurochirurgo, dunque c’era poco che si potesse fare per loro. Dopo aver valutato una giovane, egli indirizzò la sua parente verso una parte specifica del reparto di emergenza, dove venivano spediti pazienti che stavano morendo. Egli ricorda di aver detto: “Prendila e portala lì, e stalle accanto”.
Il paziente successivo che valutò era una ragazza di cinque anni con ferite di schegge di proiettile al torace, all’addome e alla testa. Il reparto di emergenza, che era vuoto quando io l’avevo visitato a gennaio, era così affollato di pazienti che lui non poteva spingere la sua barella fino alla TAC. Invece, la prese in braccio e ce la portò. Le sue scansioni suggerivano che poteva sopravvivere alle ferite cerebrali, dunque la portò alla sala operatoria e curò le sue ferite interne all’addome (cinque giorni dopo, lei avrebbe ripreso a parlare).
Continuò a trattare un buco delle dimensioni di una palla da tennis sulla schiena di una donna, una aorta lacerata di un altro paziente e un ragazzo di cinque anni il cui intero corpo era stato colpito da schegge, provocandogli un arresto cardiaco. Uno dei colleghi di Sidwa aprì il torace del ragazzo come se fosse una conchiglia e ricucì i buchi sui ventricoli del suo cuore. Il collega riavviò il cuore del ragazzo iniettando in esso epinefrina, e loro assieme ripararono i danni al fegato, al diaframma, al colon, allo stomaco e al rene del ragazzo. Nonostante i loro sforzi, il ragazzo morì.
Sidwa ha detto che uno dei suoi ultimi pazienti quella notte fu un ragazzo sedicenne di nome Ibrahim, che aveva subito ferite intestinali da schegge. Sidwa suturò il retto del ragazzo e creò una stomia – un foro che esce dall’addome – per consentire al suo tratto digestivo di guarire. Ibrahim aveva i capelli neri e pareva minuscolo per la malnutrizione. Ci si aspettava che avesse un pieno recupero. Il padre del ragazzo sembrava conoscesse due sole parole in inglese – “thank you” – e continuava a ripeterle. “E’ stata una cosa dolce”, mi ha detto Sidwa.
Cinque giorni dopo, Ibrahim era quasi pronto per essere spedito a casa. Quel pomeriggio, Sidwa stava andando a controllarlo quando un collega lo fermò. Mentre stavano discutendo su un paziente, una esplosione scosse l’ospedale. I colleghi palestinesi di Sidwa lo spinsero lontano dalle finestre; l’edificio era stato colpito. Successivamente l’IDF disse che il colpo era indirizzato ad un leader politico di grado elevato di Hamas di nome Ismail Barhoum. Un portavoce ha dichiarato che Barhoum era “nell’ospedale per compiere atti di terrorismo”. Sidwa ha defimnito questa affermazione “fottutamente ridicola”. Barhoum era parente di Ibrahim, mi ha detto Sidwa, dunque essi ricevevano il trattamento medico nella stessa stanza. “Era ferito ed era lì come un paziente”, mi ha detto. “Te lo sto dicendo come testimone oculare”.
Dopo l’attacco, Sidwa corse di nuovo al pronto soccorso. “Non sapevamo se gli israeliani fossero pronti ad attaccare l’ospedale, oppure a bombardarlo di nuovo”, mi ha detto. Alla fine, diversi uomini si sono precipitati dentro trasportando un ragazzo adolescente avvolto in un lenzuolo. Quando Sidwa tirò indietro il lenzuolo, rimase impressionato. L’addome del paziente era a pezzi e le sue viscere fuoriuscivano. Era Ibrahim, ed era morto.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"