Blog di Krugman

Il taglio delle tasse di Trump: anche peggio di quello che avevate sentito dire (dal blog di Paul Krugman, 1 gennaio 2019)

 

Jan. 1, 2019

The Trump Tax Cut: Even Worse Than You’ve Heard

By Paul Krugman

zz 516

The 2017 tax cut has received pretty bad press, and rightly so. Its proponents made big promises about soaring investment and wages, and also assured everyone that it would pay for itself; none of that has happened.

Yet coverage actually hasn’t been negative enough. The story you mostly read runs something like this: The tax cut has caused corporations to bring some money home, but they’ve used it for stock buybacks rather than to raise wages, and the boost to growth has been modest. That doesn’t sound great, but it’s still better than the reality: No money has, in fact, been brought home, and the tax cut has probably reduced national income. Indeed, at least 90 percent of Americans will end up poorer thanks to that cut.

Let me explain each point in turn.

First, when people say that U.S. corporations have “brought money home” they’re referring to dividends overseas subsidiaries have paid to their parent corporations. These did indeed surge briefly in 2018, as the tax law made it advantageous to transfer some assets from the books of those subsidiaries to the home companies; these transactions also showed up as a reduction in the measured stake of the parents in the subsidiaries, i.e., as negative direct investment (Figure 1).

zz 628

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 1 Bureau of Economic Analysis

But these transactions are simply rearrangements of companies’ books for tax purposes; they don’t necessarily correspond to anything real. Suppose that Multinational Megacorp USA decides to have its subsidiary, Multinational Mega Ireland, transfer some assets to the home company. This will produce the kind of simultaneous and opposite movement in dividends and direct investment you see in Figure 1. But the company’s overall balance sheet – which always included the assets of MM Ireland – hasn’t changed at all. No real resources have been transferred; MM USA has neither gained nor lost the ability to invest here.

 

If you want to know whether investable funds are really being transferred to the U.S., you need to look at the overall balance on financial account – or, what should be the same (and is more accurately measured), the inverse of the balance on current account. Figure 2 shows that balance as a share of GDP – and as you can see, basically nothing has happened.

zz 650

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 2 Bureau of Economic Analysis

So the tax cut induced some accounting maneuvers, but did nothing to promote capital flows to America.

The tax cut did, however, have one important international effect: We’re now paying more money to foreigners.

Bear in mind that the one clear, overwhelming result of the tax cut is a big break for corporations: Federal tax receipts on corporate income have plunged (Figure 3).

zz 651

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 3 Bureau of Economic Analysis

The key point to realize is that in today’s globalized corporate system, a lot of any country’s corporate sector, our own very much included, is actually owned by foreigners, either directly because corporations here are foreign subsidiaries, or indirectly because foreigners own American stocks. Indeed, roughly a third of U.S. corporate profits basically flow to foreign nationals – which means that a third of the tax cut flowed abroad, rather than staying at home. This probably outweighs any positive effect on GDP growth. So the tax cut probably made America poorer, not richer.

And it certainly made most Americans poorer. While 2/3 of the corporate tax cut may have gone to U.S. residents, 84 percent of stocks are held by the wealthiest 10 percent of the population. Everyone else will see hardly any benefit.

Meanwhile, since the tax cut isn’t paying for itself, it will eventually have to be paid for some other way – either by raising other taxes, or by cutting spending on programs people value. The cost of these hikes or cuts will be much less concentrated on the top 10 percent than the benefit of the original tax cut. So it’s a near-certainty that the vast majority of Americans will be worse off thanks to Trump’s only major legislative success.

As I said, even the mainly negative reporting doesn’t convey how bad a deal this whole thing is turning out to be.

 

Il taglio delle tasse di Trump: anche peggio di quello che avevate sentito dire,

di Paul Krugman

Il taglio delle tasse del 2017 ricevette commenti abbastanza negativi sulla stampa, e meritatamente. I suoi proponenti avevano fatto grandi promesse sulla impennata degli investimenti e dei salari ed avevano anche assicurato che si sarebbe ripagato da solo; non è accaduto niente del genere.

Tuttavia, i resoconti non sono stati in realtà a sufficienza negativi. La ricostruzione che di solito si legge è di questo tipo: il taglio delle tasse ha spinto le società a riportare un po’ di soldi a casa, ma sono stati usati per il riacquisto delle azioni piuttosto che per elevare i salari, e l’incoraggiamento alla crescita è stato modesto. Non sembra granché, eppure è ancora meglio che nella realtà: di fatto, non c’è stato alcun rimpatrio di denaro e il taglio alle tasse ha probabilmente ridotto il reddito nazionale. In effetti, almeno il 90 per cento degli americani grazie a quel taglio si ritroveranno più poveri.

Consentitemi di spiegare entrambi gli aspetti, uno alla volta.

In primo luogo, quando si dice che le società americane hanno “riportato denaro in patria” ci si riferisce ai dividendi che le sussidiarie oltreoceano hanno pagato alle loro società madri. Questi dividendi sono in effetti cresciuti per un breve periodo nel 2018, quando la legge fiscale rese vantaggioso trasferire alcuni asset dai libri contabili di quelle sussidiarie alle sedi nazionali delle società; queste transazioni hanno anche messo in evidenza una accertata riduzione della partecipazione delle società madri nelle sussidiarie, ovvero un investimento diretto negativo (vedi Figura 1):

zz 628

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]

Figura 1 Ufficio di analisi economica

 

Ma queste transazioni sono semplicemente riorganizzazioni delle contabilità delle società per finalità fiscali; ad esse non corrisponde necessariamente niente di reale. Supponiamo che la ‘Multinational Megacorp USA’ decida che la sua sussidiaria, la ‘Multinational Mega Ireland’ debba trasferire alcuni asset alla società madre. Questo produrrà quel tipo di movimenti simultanei e opposti dei dividendi e negli investimenti diretti che si vedono nella Figura 1. Ma gli equilibri patrimoniali complessivi della società – che hanno sempre incluso gli asset della società dell’Irlanda –  non sono affatto cambiati. Nessuna risorsa reale è stata trasferita; la società MM USA non ha né guadagnato né perso la sua possibilità di investire qua.

Se volete sapere se fondi investibili vengono realmente trasferiti negli Stati Uniti, dovete osservare il bilancio complessivo del conto finanziario – ovvero, ciò che sarebbe l’equivalente (e più accuratamente misurato), inverso del bilancio di conto corrente. La figura 2 mostra quel bilancio come percentuale del PIL – e come potete vedere, fondamentalmente non è cambiato niente.

zz 650

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2. Ufficio dell’Analisi Economica

 

Dunque, il taglio delle tasse ha provocato qualche manovra contabile, ma non ha fatto niente per promuovere un flusso di capitali in America.

Tuttavia, quel taglio delle tasse ha un importante effetto internazionale: adesso noi stiamo pagando più soldi agli stranieri.

Si tenga presente che l’unico, enorme risultato del taglio delle tasse è un grande sgravio per le società; le entrate fiscali federali sul reddito delle società sono crollate (Figura 3):

zz 651

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 3. Ufficio dell’analisi economica

 

L’aspetto fondamentale da comprendere è che nel sistema societario globalizzato odierno, una gran parte di qualsiasi settore societario di un paese, compreso certamente il nostro, è effettivamente posseduta da stranieri, sia in forma diretta perché le società sono sussidiarie straniere, sia indirettamente perché coloro che possiedono le azioni americane sono stranieri. In effetti, grosso modo un terzo dei profitti societari fondamentalmente si riversano su cittadini stranieri – il che significa che un terzo degli sgravi fiscali si sono riversati all’estero, anziché restare nel paese. Questo probabilmente ha una importanza maggiore di qualsiasi effetto positivo sulla crescita del PIL. Dunque, il taglio delle tasse ha probabilmente reso l’America più povera, non più ricca.

Ed esso ha certamente reso la maggioranza degli americani più poveri. Mentre 2/3 degli sgravi fiscali alle società può essere andato a residenti negli Stati Uniti, l’84 per cento delle azioni sono posseduti dal 10 per cento più ricco della popolazione. Sarà difficile che tutti gli altri vedano un qualche beneficio.

Nel frattempo, dal momento che il taglio delle tasse non si ripaga da solo, alla fine dovrà essere pagato in qualche altro modo – sia elevando altre tasse, che tagliando la spesa su programmi che la popolazione apprezza. Il costo di questi rialzi o tagli sarà molto meno concentrato sul 10 per cento dei più ricchi di quanto non lo siano i benefici dello sgravio fiscale originario. Dunque, è quasi certo che la grande maggioranza degli americani andrà a star peggio grazie all’unico importante successo legislativo di Trump.

Come ho detto, neppure i resoconti principalmente negativi illustrano che pessimo affare questa intera faccenda si rivela essere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] La tabella mostra – da quello che comprendo – come si sono indirizzati i profitti degli investimenti diretti: lungo la linea arancione nei dividendi, lungo quella blu in reinvestimenti. Ma l’articolo spiega perché anche questo fenomeno sia in gran parte prodotto da manovre contabili.

 

 

 

 

Argomenti per un’economia mista, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 22 dicembre 2018)

dicembre 24, 2018

 

Dec. 22, 2018

The Case for a Mixed Economy

By Paul Krugman

zz 516

A mind is a terrible thing to lose, especially if the mind in question is president of the United States. But I feel like taking a break from that subject. So let’s talk about something completely different, and probably irrelevant.

I’ve had several interviews lately in which I was asked whether capitalism had reached a dead end, and needed to be replaced with something else. I’m never sure what the interviewers have in mind; neither, I suspect, do they. I don’t think they’re talking about central planning, which everyone considers discredited. And I haven’t seen even an implausible proposal for a decentralized system that doesn’t rely on price incentives and self-interest – i.e., a market economy with private property, which most people would consider capitalism.

So maybe I’m being dense or lacking in imagination, but it seems to be that the choice is still between markets and some kind of public ownership, maybe with some decentralization of control, but still more or less what we used to mean by socialism. And everyone either thinks of socialism as discredited, or pins the label on stuff – like social insurance programs – that isn’t what we used to mean by the word.

But I’ve been wondering, exactly how discredited is socialism, really? True, nobody now imagines that what the world needs is the second coming of Gosplan. But have we really established that markets are the best way to do everything? Should everything be done by the private sector? I don’t think so. In fact, there are some areas, like education, where the public sector clearly does better in most cases, and others, like health care, in which the case for private enterprise is very weak. Add such sectors up, and they’re quite big.

In other words, while Communism failed, there’s still a pretty good case for a mixed economy – and public ownership/control could be a significant, although not majority, component of that mix. My back of the envelope says that given what we know about economic performance, you could imagine running a fairly efficient economy that is only 2/3 capitalist, 1/3 publicly owned – i.e., sort-of-kind-of socialist.

I arrive at that number by looking at employment data. What we see right away is that even now, with all the privatization etc. that has taken place, government at various levels employs about 15 percent of the work force – roughly half in education, another big chunk in health care, and then a combination of public services and administration.

Looking at private sector employment, we find that another 15 percent of the work force is employed in education, health, and social assistance. Now, a large part of that employment is paid for by public money – think Medicare dollars spent at private hospitals. Much of the rest is paid for by private insurers, which exist in their current role only thanks to large tax subsidies and regulation.

And there’s no reason to think the private sector does these things better than the public. Private insurers don’t obviously provide a service that couldn’t be provided, probably more cheaply, by national health insurance. Private hospitals aren’t obviously either better or more efficient than public. For-profit education is actually a disaster area.

So you could imagine an economy in which the bulk of education, health, and social assistance currently in the private sector became public, with most people at least as well off as they are now.

Then there are other private activities that could plausibly be public. Utilities are heavily regulated, and in some cases are publicly owned already. Private health insurance directly employs hundreds of thousands of people, with doubtful social purpose. And I’m sure I’m missing a few others.

By and large, other areas like retail trade or manufacturing don’t seem suitable for public ownership – but even there you could see some cases. Elizabeth Warren is suggesting public manufacture of generic drugs, which isn’t at all a stupid idea.

Put all of this together, and as I said, you could see an economy working well with something like 1/3 public ownership.

Now, this wouldn’t satisfy people who hate capitalism. In fact, it wouldn’t even live up to the old slogan about government controlling the economy’s “commanding heights.” This would be more like government running the boiler in the basement. Also, I see zero chance of any of this happening in my working lifetime.

But I do think it’s worth trying to think a bit beyond our current paradigm, which says that anything you could call socialist has been an utter failure. Maybe not so much?

 

Argomenti per un’economia mista,

di Paul Krugman

Il senno è una cosa terribile da perdere, specialmente se si tratta di quello del Presidente egli Stati Uniti. Ma sento di provare piacere nel prendermi una pausa su questo tema. Fatemi dunque parlare di qualcosa di completamente diverso, e probabilmente di irrilevante.

Ho avuto di recente varie interviste nella quali mi veniva chiesto se il capitalismo avesse raggiunto un punto senza sbocco, e se avesse bisogno di essere sostituito con qualcosa d’altro. Non sono mai sicuro di cosa gli intervistatori abbiano in mente; né, ho il sospetto, lo sono loro stessi. Non penso che stiano parlando di programmazione centralizzata, che tutti ritengono screditata. E non sono neppure al corrente di una improbabile proposta di un sistema decentralizzato che non si basi sugli incentivi del prezzo e dell’interesse personale – ovvero, un’economia di mercato con la proprietà privata, che la maggioranza delle persone considererebbe capitalistica.

Dunque, sto forse diventando ottuso o povero di immaginazione, ma sembra che la scelta sia ancora tra i mercati e qualche forma di proprietà pubblica, forse con qualche decentralizzazione del controllo, che è quello che continuiamo più o meno a intendere con socialismo. E tutti o pensano che il socialismo sia screditato, oppure applicano quell’etichetta su cose – come i programmi della sicurezza sociale – che non sono quello che eravamo soliti intendere con quella parola.

Ma mi sono chiesto, quanto è precisamente screditato il socialismo, in realtà? È vero, nessuno oggi immagina che il mondo abbia bisogno di una riedizione del Gosplan. Ma abbiamo effettivamente dimostrato che i mercati sono il modo migliore per fare ogni cosa? Tutto dovrebbe essere fatto dal settore privato? Io non lo penso. Di fatto ci sono alcune aree, come l’istruzione, dove nella maggioranza dei casi chiaramente il settore pubblico opera meglio, e altre, come l’assistenza sanitaria, nelle quali gli argomenti a favore dell’impresa privata sono molto deboli. Mettete assieme tali settori, e ne viene fuori qualcosa di abbastanza rilevante.

In altre parole, mentre il comunismo è fallito, ci sono ancora argomenti abbastanza buoni a favore di un’economia mista – e la proprietà/il controllo pubblico potrebbero ancora essere una componente significativa, sebbene non maggioritaria, a favore di tale combinazione. Un mio calcolo approssimativo dice che, considerato quello che conosciamo delle prestazioni economiche, si potrebbe immaginare di gestire con discreta efficienza un’economia che sia solo per 2/3 capitalistica e per 1/3 a proprietà pubblica – ovvero, più o meno socialista.

Arrivo a quel numero osservando i dati sull’occupazione. Quello che subito possiamo osservare è che, con tutta la privatizzazione che ha preso campo, il governo ai vari livelli occupa circa il 15 per cento della forza lavoro – metà della quale grosso modo nell’istruzione, un altro bel pezzo nella assistenza sanitaria, e poi una combinazione di servizi pubblici e di amministrazione.

Osservando il settore privato, scopriamo che un altro 15 per cento della forza lavoro è occupata nell’istruzione, nella sanità e nell’assistenza sociale. Ora, una larga parte di quell’occupazione è pagata con soldi pubblici – si pensi ai soldi di Medicare spesi negli ospedali privati. Una buona parte di ciò che resta è pagato dagli assicuratori privati, ed esiste nelle sue funzioni attuali solo grazie ad ampi sussidi fiscali e ai regolamenti.

E non c’è alcuna ragione per pensare che il settore privato faccia queste cose meglio di quello pubblico. Evidentemente gli assicuratori privati non forniscono un servizio che non potrebbe essere fornito, probabilmente in modo più economico, da una assicurazione sanitaria nazionale. Gli ospedali privati non sono chiaramente né migliori né più efficienti di quelli pubblici. L’istruzione a scopo di lucro è in realtà un settore disastroso.

Dunque ci si potrebbe aspettare un’economia nella quale il grosso dell’istruzione, della sanità, della assistenza sociale attualmente nel settore privato divenga pubblico, con la maggioranza delle persone che andrebbero almeno a star meglio di oggi.

Poi ci sono altre attività private che potrebbero plausibilmente essere pubbliche. I servizi pubblici sono pesantemente regolamentati, e in qualche caso sono già posseduti dal pubblico. L’assicurazione sanitaria privata impiega direttamente centinaia di migliaia di persone, con un beneficio sociale dubbio. E sono certo che me ne sfuggono alcuni altri.

In generale, altre aree come il commercio al dettaglio o il settore manifatturiero non sembrano adatte alla proprietà pubblica – ma persino in quei casi si potrebbero individuare alcune ipotesi. Elizabeth Warren sta suggerendo una manifattura pubblica per farmaci generici, che non è affatto un’idea stupida.

Mettete assieme tutto questo e, come ho detto, potreste considerare che un’economia funziona bene con qualcosa come 1/3 di proprietà pubblica.

Ora, questo non soddisfarebbe le persone che odiano il capitalismo. Di fatto, non sarebbe neppure all’altezza del vecchio slogan sul controllo governativo sui “vertici di comando” dell’economia. Assomiglierebbe di più ad un governo che fa funzionare la caldaia in cantina. Inoltre, non vedo alcuna possibilità che accada una cosa del genere nel corso della mia esistenza lavorativa.

Ma penso davvero che valga la pena di ragionare un po’ oltre il nostro attuale paradigma, secondo il quale tutto quello che si potrebbe definire socialista è stato un completo fallimento. Lo è stato per davvero?

 

 

 

 

 

 

La Brexit, i confini e la Banca di Inghilterra (per esperti) (dal blog di Paul Krugman, 30 novembre 2018)

dicembre 3, 2018

 

Nov. 30, 2018

Brexit, Borders, and the Bank of England (Wonkish)

By Paul Krugman

zz 516

A few days ago the Bank of England released a report on the possible macroeconomic impact of Brexit. The most pessimistic scenarios were eye-poppingly bad – see Figure 1 — showing a worse slump than the one that followed the 2008 financial crisis. Not surprisingly, Brexit opponents seized on the report, while supporters accused the BoE of engaging in scare tactics.

 

Figure 1 Bank of England

zz 614

 

 

 

 

 

 

 

 

I personally think Brexit is a mistake, but was puzzled by how big some of the numbers were; I tweeted about that, and the BoE reached out to me to offer some explanation of what was going on in their analysis. What I want to do here is, first, to recount my understanding of their logic; then offer my own views on what a reasonable Brexit projection might assume for both the short and the long run.

  1. Brexit according to the BoE

First things first: the people I spoke to at the BoE were adamant that they were not trying to scare people, push them into accepting Theresa May’s deal, or anything like that. By their account, this report was about financial stability, assessing the robustness of the banks in the face of possible shocks. The very negative scenarios that caught everyone’s attention weren’t projections, but rather an attempt to game out the consequences if the worst happened.

But where did these negative scenarios come from?

When economists try to assess changes in trade policy, they normally use some kind of “computable general equilibrium” (CGE) model. These models attempt to take account of the impacts of trade policy on consumption, production, and the allocation of resources. And there has been quite a lot of CGE modeling of Brexit.

This modeling is tricky because Brexit isn’t about tariffs, which we know how to represent; it’s about invisible barriers to trade arising from the end of open border to goods movements and so on. Still, plausible assumptions give us some sense of the magnitudes. My own rough estimate was 2% of GDP in perpetuity; other estimates run higher, but generally in the 3-4% range.

But the BoE’s worst-case scenario shows a cost exceeding 10% of GDP, around three times what a CGE would tell you. Where’s that coming from?

Part of the answer is that the BoE includes some non-standard effects of trade: they assume that reduced trade (and foreign direct investment) will reduce productivity more than the direct impacts on resource allocation would predict. They cite some statistical evidence, but it’s important to realize that this is black-box, reduced-form stuff: there’s no explicit mechanism through which it’s supposed to happen.

However, these assumed nonstandard effects aren’t what’s driving the really bad scenarios; they only, as I understand it, contribute something like 1 percentage point of GDP to the predicted costs.

What’s key to the very bad results is, instead, the disruption that might come with a hard Brexit. Right now, goods flow into and out of Britain with minimal frictions. After Brexit, there would have to be customs inspections, and the UK doesn’t have remotely enough customs infrastructure to do the job. The result would be huge delays at Dover and other ports, with queues of trucks backing up for many miles on motorways, just-in-time production massively disrupted, and more.

That disruption is what’s driving the terrible scenarios. Notice that this analysis says that the costs of leaving the EU are much higher than the GDP that would have been foregone if Britain had never entered the EU, and therefore had the customs infrastructure to deal with trade flows in place.

OK, that’s what I understand about the BoE analysis. What do I think about it?

  1. Would it really be that bad?

So, about the BoE’s purpose in issuing this report: if it wasn’t intended to scare people, the Bank was extraordinarily naïve in not realizing how it would be reported and read. They really led with their chin here.

On the substance: I’m skeptical about the supposed effects of trade on productivity. I know that there’s some evidence for such effects; trade seems to favor more productive firms. But relying a lot on effects we can’t model seems dubious.

In particular, I have strong memories of the openness-growth debacle of the 1990s. At the time, there were many statistical studies purporting to find that open, outward oriented developing countries had much higher growth rates than inward-looking economies. This was interpreted to mean that countries that had tried to industrialize by protecting domestic markets could achieve Asian-type growth rates if they liberalized trade.

As it turned out, the supposed statistical evidence on openness and growth was quite suspect. And when massive trade liberalization happened in places like Mexico, the hoped-for growth miracles didn’t materialize.

So I would treat that channel of Brexit losses as questionable. But what I learned from the BoE is that it’s not that central to the analysis.

What about disruption at the borders? This could indeed be a huge problem.

What’s puzzling about the scenarios shown in Figure 1 is that they show these disruptions going on for multiple years, with barely any abatement. Really? Britain is an advanced country with high administrative capacity – the kind of country that history shows can cope well with huge natural disasters, and even wars. Would it really have that much trouble hiring customs inspectors and installing computers to recover from an 8 or 10 percent drop in GDP?

And even in the short run, I wonder why Britain couldn’t follow the old prescription, “When all else fails, lower your standards.” If laxer enforcement, special treatment for trusted shippers, whatever, could clear the bottlenecks at the ports, wouldn’t that be worth it, despite the potential for fraud, as a temporary measure?

That said, it’s truly amazing that Britain finds itself in this position. If the downsides are anywhere close to what the BoE asserts, given the risk – which we’ve known for a long time was substantial – of a hard Brexit, it was an act of utter folly not to have put in backup capacity at the borders. We can’t possibly be talking about all that much money, and the Brexit vote was more than two years ago. What has the UK government been doing?

All in all, it’s quite a spectacle. Whether you’re pro-Brexit or anti, you should be horrified and outraged at how the issue has been handled.

 

La Brexit, i confini e la Banca di Inghilterra (per esperti),

di Paul Krugman

Pochi giorni fa la Banca di Inghilterra ha pubblicato un rapporto sul possibile impatto macroeconomico della Brexit. Gli scenari più pessimistici erano in modo impressionante negativi – vedi la Figura 1 – mostrando una recessione peggiore di quella che seguì la crisi finanziaria del 2008. Non sorprendentemente, gli oppositori della Brexit hanno colto al volo il rapporto, mentre i sostenitori hanno accusato la BoE di impegnarsi in tattiche terroristiche.

 

Figura 1. Banca di Inghilterra

zz 614

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]

Personalmente penso che la Brexit sia un errore, ma sono perplesso su quanto alcuni di questi dati siano grandi; ho scritto un tweet sull’argomento e la BoE si è messa in contatto con me per offrirmi qualche spiegazione su come aveva proceduto la loro analisi. Quello che intendo fare con questo post è, anzitutto, esporre quello che capisco della loro logica; poi offrire i miei punti di vista su quello che una previsione ragionevole della Brexit potrebbe comportare sia nel breve che nel lungo termine.

 

  1. La Brexit secondo la BoE

Andiamo con ordine: le persone con le quali ho parlato alla BoE sono state irremovibili nel negare che stessero cercando di spaventare la gente, spingendola ad accettare l’accordo proposta da Theresa May, o qualcosa di simile. Secondo loro, questo rapporto ha riguardato la stabilità finanziaria, stimando la solidità delle banche a fronte di possibili traumi. Gli scenari molto negativi che hanno attirato l’attenzione di tutti non erano previsioni, ma piuttosto un tentativo di simulare le conseguenze, se fosse accaduto il peggio.

Ma da dove derivavano quegli scenari negativi?

Quando gli economisti cercano di stimare mutamenti nella politica commerciale, normalmente usano un modello del genere di un “equilibrio generale stimabile” (CGE). Questi modelli cercano di mettere nel conto gli impatti della politica commerciali sui consumi, sulla produzione e sulla allocazione delle risorse. E sono stati utilizzati un bel po’ di modelli CGE nel fare previsioni sulla Brexit.

Queste modellazioni sono difficoltose perché la Brexit non riguarda le tariffe, che sappiamo come rappresentare; riguardano le invisibili barriere al commercio che si sviluppano a seguito della fine dei confini aperti e quello che ne consegue. Eppure, assunti plausibili ci danno una qualche idea delle grandezze. La mia personale approssimativa stima era un 2% del PIL in perpetuo; altre stime si collocano più in alto, ma in generale in un intervallo tra il 3 ed il 4%.

Ma lo scenario dell’ipotesi peggiore della BoE mostra un costo che supera il 10% del PIL, circa tre volte quello che vi direbbe un modello CGE. Da dove viene fuori tale stima?

In parte la risposta consiste nel fatto che la BoE include alcuni effetti sul commercio non comuni: considerano che la riduzione del commercio (e degli investimenti diretti degli stranieri) ridurrà la produttività maggiormente di quanto gli impatti diretti sulla allocazione delle risorse farebbero prevedere. Citano alcune prove statistiche, ma è importante rendersi conto che questa è, in forma ridotta, una roba da ‘scatola nera’: non c’è alcun meccanismo esplicito attraverso il quale si suppone che accada.

Tuttavia, questi ipotizzati effetti non comuni non sono quelli che spingono a quei pessimi scenari; per quanto capisco, essi contribuiscono soltanto a qualcosa come 1 punto percentuale di PIL sui costi previsti.

Quello che è fondamentale in quei pessimi risultati, invece, è la perturbazione che potrebbe derivare da una Brexit dura. In questo momento, i prodotti circolano dentro e fuori dall’Inghilterra con frizioni minime. Dopo la Brexit, ci dovrebbero essere ispezioni doganali, e il Regno Unito non avrebbe neanche lontanamente sufficiente infrastrutture doganali per fare un lavoro del genere. Il risultato sarebbero ampi ritardi a Dover e in altri porti, con conseguenze di code di camion per molte miglia sulle autostrade, disagi massicci nella produzione ‘a flusso continuo’, ed altro ancora.

Sono tali perturbazioni che conducono agli scenari terribili. Si noti che secondo questa analisi i costi del lasciare l’Unione Europea sarebbero molto maggiori del PIL a cui si sarebbe rinunciato se l’Inghilterra non fosse mai entrata nell’UE, e di conseguenza avesse avuto le infrastrutture doganali per misurarsi con flussi commerciali al proprio posto.

Questo è quello che comprendo della analisi della BoE. Che cosa ne penso?

 

2. Sarebbe così negativo? 

Dunque, a proposito dello scopo che si è proposta la BoE nel pubblicare questo rapporto: se essa non intendeva spaventare la gente, è stata straordinariamente ingenua nel non comprendere come esso sarebbe stato riportato e letto. Si sono davvero esposti a quelle reazioni.

Quanto alla sostanza: sono scettico sui supposti effetti del commercio sulla produttività. So che ci sono alcune prove di tali effetti; il commercio sembra favorire le imprese più produttive. Ma basarsi molto su effetti che non possiamo esprimere in modelli appare dubbio.

In particolare, ho forti ricordi della debacle della crescita basata sulla apertura degli anni ’90. A quei tempi, c’erano molti studi statistici che si proponevano di scoprire che i paesi in via di sviluppo aperti, orientati verso l’esterno, avessero tassi di crescita molto più elevati delle economie che si rivolgevano all’interno. Questo veniva interpretato come se comportasse che i paesi che avevano cercato di industrializzarsi proteggendo i mercati nazionali potevano ottenere tassi di crescita di tipo asiatico se avessero liberalizzato il commercio.

Come si scoprì, le presunte prove statistiche su crescita ed apertura erano abbastanza sospette. E quando una massiccia liberalizzazione del commercio avvenne in luoghi come il Messico, i miracoli attesi per la crescita non si materializzarono.

Dunque tratterei quel canale delle perdite da addebitare alla Brexit come dubbio. Ma quello che ho appreso dalla BoE è che esso non è così fondamentale nella loro analisi.

Che dire dei disordini ai confini? Questo potrebbe essere in effetti un grande problema.

Quello che mi sconcerta negli scenari mostrati nella Figura 1 è che essi mostrano queste perturbazioni andare avanti per molti anni, con appena minime diminuzioni. È davvero così? L’Inghilterra è un paese avanzato con elevata capacità amministrativa – il genere di paese che la storia dimostra può misurarsi bene con grandi disastri naturali e anche con guerre. Davvero avrebbe grande difficoltà ad assumere ispettori delle dogane e a installare computer per riprendersi da una caduta dell’8 o 10 per cento nel PIL?

Ed anche nel breve periodo, mi chiedo perché l’Inghilterra non potrebbe seguire la vecchia prescrizione: “Quando tutto il resto non funziona, abbassate i vostri standard”. Se una applicazione più permissiva, un trattamento speciale gli amministratori fiduciari, qualsiasi cosa, potrebbe liberare le strozzature nei porti, non varrebbe la pena di farlo come misura transitoria, nonostante la possibilità di frodi?

Ciò detto, è davvero sconcertante che l’Inghilterra si ritrovi in questa condizione. Se gli svantaggi sono dappertutto del genere di quello che la BoE asserisce, dato il rischio – che da tempo sappiamo essere sostanziale – di una Brexit dura, è stato un atto di completa follia non aver messo in emergenza la capacità operativa ai confini. Forse non staremmo a parlare di tutti quei soldi, e il voto per la Brexit è stato due anni orsono. Cosa ha fatto il Governo del Regno Unito?

Nel complesso, è davvero uno spettacolo. Che siate a favore o contrari alla Brexit, dovreste essere terrorizzati e scandalizzati da come la faccenda è stata gestita.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] La foto della Tabella non appare intera e ci sono termini che non comprendo. In ogni caso, si mostrano i risultati in termini di PIL le prospettive dei vari scenari. Essa vanno da un minimo di – 1/ – 3 (soluzione di collaborazione) ad un massimo di – 7/ – 10 (nessun accordo).

 

 

 

 

 

 

 

Il taglio delle tasse e la bilancia dei pagamenti (per esperti), (dal blog di Paul Krugman, 14 novembre 2018)

novembre 16, 2018

 

Nov. 14, 2018

The Tax Cut and the Balance of Payments (Wonkish)

By Paul Krugman

zz 516

Now that Democrats have taken the House, it seems likely that the Tax Cuts and Jobs Act will turn out to have been the only major piece of legislation enacted under Donald Trump. There might conceivably be an infrastructure bill, but don’t get your hopes up: Trump’s people seem dead set against straightforward public spending, i.e., just building the damn infrastructure, and Democrats probably won’t agree to privatization disguised as public investment.

Now, the TCJA played almost no role in the midterms: Republicans dropped it as a selling point, focusing on fear of brown people instead, while Democrats hammered health care. But now that the election is past, it seems like a good idea to revisit the bill and its effects. What I want to focus on in this piece is the effects on the balance of payments.

Why the balance of payments? Because the theory of the case – the not-necessarily-stupid rationale for the corporate tax cuts at the heart of the bill – depended crucially on claims about what tax cuts would do to international movements of capital. So one important piece of any attempt to assess the results so far involves looking at the balance of payments changes since the lower tax rate went into effect.

And looking at those changes in the balance of payments also offers a good way to debunk some of the fallacies that all too often creep in when we discuss these issues. So let’s dive in, beginning with a recap of how the TCJA’s supporters claimed it would work.

What tax cuts were supposed to do

A tax cut for corporations looks, on its face, like a big giveaway to stockholders, mainly bypassing ordinary families: of stocks held by Americans, 84 percent are held by the wealthiest 10 percent; 35 percent of U.S. stocks are held by foreigners.

The claim by tax cut advocates was, however, that the tax cut would be passed through to workers, because we live in an integrated global capital market. There were multiple reasons not to believe this argument in practice, but it’s still worth working through its implications.

illustrated this argument with a simple diagram (simple for economists – I told you this was wonkish), reproduced as Figure 1. The figure shows the marginal product of capital – the increment to GDP from an additional unit of capital – as a function of the capital stock. If we provisionally (and wrongly) assume perfect competition, this marginal product will also be the rate of return on investment. Meanwhile, GDP is the area under the curve MPK up to the level of the current capital stock.

zz 609

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 1

What tax-cut advocates argued was that the rate of return in the U.S., net of taxes, is set by global forces. Suppose that there is a global rate of return r*; then the U.S. will have to offer r*/(1-t), where t is the corporate tax rate.

Now imagine cutting t; the figure shows a complete elimination of corporate taxes, but the logic is the same for simply reducing the rate. This should lead to inflows of capital from abroad, increasing the capital stock, which both raises GDP and reduces the rate of return. In the end the after-tax return on capital should be back where it started, with all of the tax cut passed through to wages instead.

The crucial point, however, is that for this to happen you have to have a large increase in the physical stock of capital – it’s not an immaculate financial transaction. This in turn means that those inflows of capital have to enable a massive wave of real investment in plant and equipment. That doesn’t necessarily mean directly importing machinery; it could mean importing consumer goods or exporting less stuff of our own, either way freeing up resources for producing capital goods here at home. But the logic of the pro-tax cut case depends on the cut facilitating a period of large trade deficits. (I don’t think anyone told Trump about this.)

This is not, however, the way most reporting on the issue has framed it. Instead, reports have mostly focused on corporations moving funds home from their overseas subsidiaries, and asked what they are doing with that money. That’s not exactly wrong, but “moving money home” doesn’t mean what people think it means, and is very loosely connected to the important economic issue here.

On “moving money home”

U.S. corporations have large assets overseas. Some of these assets reflect past investments made for fundamental business reasons – e.g., auto plants built to serve foreign markets. But a lot of those overseas assets reflect tax avoidance strategies.

Here’s how that works: a U.S. company manipulates transactions with an overseas subsidiary in a low-tax jurisdiction like Ireland so as to make profits, wherever they’re actually earned, appear on the books of the subsidiary rather than the home company. For example, the company may pay inflated prices for components it buys from the subsidiary, or assign the subsidiary patents and licenses on which it pays large royalties. These shifted profits then show up in the data as investments abroad, even though they may not correspond to anything real, as is clearly the case for much foreign investment in Ireland.

International tax avoidance is, by the way, a big deal. Gabriel Zucman and his colleagues have shown that we’re talking about trillions of dollars of assets and many billions in lost tax revenue.

Now, when the U.S. reduces its corporate tax rate, this reduces the incentive to engage in such schemes: corporations don’t have to go to Ireland to avoid taxes, they can do it right here in the U.S.A. So you would expect the tax cut to lead to repatriation of assets, and that’s indeed what happened. The Bureau of Economic Analysis, which produces our balance of payments statistics, had a very helpful box on the effects of the TCJA in its latest report on international transactions that included a striking chart on the impact on multinational corporations (Figure 2). Following the tax law’s enactment, U.S. firms had their subsidiaries pay the home company huge dividends; the counterpart of these dividends, on paper, was a sharp drop in investment overseas.

zz 610

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 2 Bureau of Economic Analysis

But what did these big numbers correspond to in reality? Quite possibly nothing.

Imagine a U.S. company whose overseas subsidiary has $1 billion in a London bank account. Following the enactment of the tax cut, it decides to transfer that $1 billion back to the parent company – but the parent keeps the money where it is. In that case the balance of payments statistics show a big drop in net direct investment abroad, because the parent firm is reducing its apparent stake in the subsidiary. But the reality is that the company still owns that same $1 billion in London – it has just shifted from owning it indirectly via the subsidiary to holding it directly. It’s just accounting, with no real-world effect.

Of course, the company could choose not to keep that $1 billion in a London bank; it might do something else with it, such as buy shares back from its stockholders. But what happens to the money then? The shareholders might themselves buy assets overseas; even if they buy stock here, whoever sells them the stock might invest the proceeds abroad.

In other words, looking at corporate financial maneuvering after the tax cut doesn’t really tell us anything about whether the cut is, in fact, attracting global capital into the United States. To make that assessment, we need to look at net sales of assets to foreigners by the U.S. as a whole – or, equivalently, at our net sales of goods and services, because the balance of payments always balances: the trade balance is by definition the inverse of the net capital inflow.

What actually happened to capital inflows?

If we’re trying to assess the possible effects of the TCJA on the U.S. ability to invest, we need to know how much, if at all, it promoted true inflows of capital – resources made available to the United States that let us invest more than we ourselves are saving. These inflows can be measured two different ways. One is to look directly at the international financial account: asset transactions with foreigners, where selling assets is an inflow and buying assets an outflow. The other is to look indirectly at the difference between sales and purchases of goods and services, because the trade balance broadly defined (including investment income) – aka the balance on current account – is the flip side of capital inflows.

In principle these two methods should give the same result. In practice there is sometimes a significant “statistical discrepancy,” probably because some financial transactions don’t end up being properly reported. This is less of an issue for goods and services, although some of the same strategies used for tax avoidance can distort this balance too. Anyway, I’ve prepared a little chart showing quarterly measures of capital inflow since 2016, by both methods (Figure 3.)

zz 611

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 3 Bureau of Economic Analysis

There are big statistical discrepancies in a few quarters. As I like to say, in the fourth quarter of 2017 America was a big exporter of errors and omissions. But overall the data tell a consistent story about what has happened to capital inflows since the tax cut went into effect, which is … nothing much. That elaborate financial dance between corporations and their subsidiaries seems, in fact, to be an accounting maneuver with little real-world relevance. The international consequences of the tax cut appear to be minimal.

And that’s a big deal, because promoting capital inflows was at the heart of the halfway reasonable argument for the tax cut. So far, that argument appears to be not totally stupid, but also, as it happens, quite wrong.

The big giveaway

On its face, a corporate tax cut looks like a big giveaway to stockholders. Proponents of the TCJA claimed that this was misleading, because large capital inflows would ensure that the cut went to workers instead. But there’s no sign of those big inflows, so what looks like a big giveaway to stockholders is, in fact, a big giveaway to stockholders.

And about 35 percent of that giveaway is to foreigners, so the tax cut makes America as a whole poorer.

Can we see this in the data? Unfortunately, I don’t think it’s possible to extract this signal from the noise. If corporations returned all of the tax cut to stockholders via increased dividends, you might be able to see it in increased payments of investment income to foreigners. But much of it was used for stock buybacks, which won’t show up in the same way.

True, stock buybacks should raise the price of the stocks remaining, and you could try to allocate 35 percent of this capital gain to foreigners. When Trump boasts about rising stocks, or laments declines that he blames on Democrats, remember: higher stock prices actually make America poorer, because they don’t add anything to our real wealth while increasing foreign claims on the nation as a whole.

But stocks fluctuate so much, for so many reasons (or no reason at all), that I don’t think it’s productive to try and guess how much of that fluctuation is due to the tax cut. Better to focus on the fundamentals: corporate taxes have been cut by around $100 billion a year, so that’s around $35 billion going to foreigners.

OK, that concludes my wonkiness here. The moral of this story is that the tax cut seems to have produced some biggish financial activity on the part of corporations, but it’s all basically accounting maneuvers signifying nothing. A balance of payments perspective, like other perspectives, points to a tax cut that, surprise, cut taxes on corporations, but had few real consequences for the economy.

 

Il taglio delle tasse e la bilancia dei pagamenti (per esperti),

di Paul Krugman

Ora che i democratici hanno conquistato la Camera dei Rappresentanti, sembra che si scoprirà che la Legge sul Taglio delle Tasse e sui Posti di Lavoro (TCJA) sarà stata l’unico pezzo importante di legislazione approvata sotto Donald Trump. Ci potrebbe plausibilmente essere una proposta di legge sulle infrastrutture, ma non sperateci tanto: le gente di Trump sembra risoluta a procedere contro la spesa pubblica, cioè contro la costruzione delle dannate infrastrutture, e i democratici probabilmente non saranno d’accordo con una privatizzazione mascherata da investimento pubblico [1].

Ora, la TCJA non ha giocato quasi alcun ruolo nelle elezioni di medio termine: i repubblicani l’hanno scaricata come argomento di propaganda, concentrandosi invece sulla paura per la gente di colore, mentre i democratici hanno picchiato sulla assistenza sanitaria. Ma adesso che le elezioni sono passate, sembra una buona idea rivisitare la legge e i suoi effetti. Quello su cui voglio concentrarmi in questo articolo sono gli effetti sulla bilancia dei pagamenti.

Perché la bilancia dei pagamenti? Perché la teoria in questione – la logica non necessariamente stupida dei tagli alle tasse per le società al cuore della legge – dipendeva in modo fondamentale dalle pretese relative a cosa i tagli alle tasse avrebbero provocato nei movimenti internazionali del capitale. Dunque un aspetto importante di ogni tentativo di stimare i risultati sino a questo punto, concerne l’osservazione dei mutamenti nella bilancia dei pagamenti dal momento in cui l’aliquota fiscale più bassa è entrata in funzione.

E l’osservazione di questi mutamenti nella bilancia dei pagamenti offre anche un buon modo per confutare alcuni degli errori che anche troppo spesso si insinuano quando si dibattono questi temi. Dunque immergiamoci, partendo da una ricapitolazione su come i sostenitori della TCJA sostenevano che avrebbe funzionato.

Cosa si pensava che i tagli alle tasse avrebbero prodotto

Un taglio delle tasse alle società, di per sé, sembra un gran regalo agli azionisti, che fondamentalmente aggira le famiglie ordinarie: l’84 per cento delle azioni detenute dagli americani appartengono al 10 per cento dei più ricchi; il 35 per cento delle azioni statunitensi appartengono agli stranieri.

La pretesa dei sostenitori del taglio alle tasse, tuttavia, era che esso sarebbe finito ai lavoratori, poiché viviamo in un mercato globale dei capitali integrato. In pratica, c’erano molte ragioni per non credere a questo argomento, ma vale ancora la pena di lavorare sulle sue implicazioni.

Illustrai questa tesi con un semplice diagramma (semplice per gli economisti – ve l’avevo detto che era per esperti), riprodotto nella Figura 1. Essa mostra il prodotto marginale del capitale – l’incremento del PIL che deriva da una unità aggiuntiva di capitale – come una funzione della riserva di capitale. Se assumiamo a titolo provvisorio (e sbagliando) una competizione perfetta, questo prodotto marginale sarà anche il tasso di rendimento dell’investimento. Nello stesso tempo, il PIL è l’area sottostante la curva MPK sino al livello dell’attuale riserva di capitale.

zz 609

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1

Quello che i difensori del taglio alle tasse sostenevano era che il tasso di rendimento negli Stati Uniti, al netto delle tasse, era definito da fattori globali. Supponiamo che ci sia un tasso di rendimento globale pari a r*; allora gli Stati Uniti dovranno offrire r*/(1-t), dove t è l’aliquota fiscale delle società.

Ora si immagini di tagliare t; la figura mostra una eliminazione completa delle tasse delle società, ma la logica è la stessa per la semplice riduzione dell’aliquota. Questo dovrebbe portare a flussi di capitale dall’estero che aumentano la riserva di capitale e che incrementano il PIL e riducono il tasso di rendimento. Alla fine il rendimento del capitale dopo le tasse dovrebbe tornare dove era partito, mentre l’intero taglio fiscale passerà ai salari.

Il punto cruciale, tuttavia, è che perché le cose vadano in questo modo occorre un ampio incremento nella riserva fisica di capitale – non può essere un’immacolata transazione finanziaria. Questo a sua volta significa che quei flussi di capitale devono rendere possibile una massiccia ondata di investimenti reali in stabilimenti ed attrezzature. Questo non comporta necessariamente importazione diretta di macchinari; potrebbe comportare importazione di beni di consumo o una esportazione minore di nostre merci, in entrambi i casi liberando risorse per produrre beni di capitale fisso a casa nostra. Ma la logica dell’argomento favorevole al taglio delle tasse dipende dal fatto che il taglio faciliti un periodo di ampi deficit commerciali (non penso che nessuno abbia parlato di questo a Trump).

Non è questo il modo, tuttavia, nel quale la maggioranza dei resoconti sul tema lo inquadrano. Invece, nella maggioranza dei casi essi si concentrano sui movimenti dei fondi delle società sulle loro sussidiarie estere, e si chiedono cosa stanno facendo con quel denaro. Ciò non è affatto sbagliato, ma “portare il denaro in patria” non significa quello che le persone pensano, e in questo caso è connesso molto strettamente con un importante tema economico.

Sul “portare il denaro in patria”

 Le società statunitensi hanno grandi asset oltreoceano. Alcuni di questi asset riflettono investimenti passati fatti per fondamentali ragioni di impresa – ad esempio, stabilimenti automobilistici costruiti al servizio di mercati stranieri. Ma una gran quantità di quegli asset riflettono strategie di elusione fiscale.

Ecco come funziona: una società statunitense manipola le transazioni con una sussidiaria estera in una giurisdizione con basse tasse come l’Irlanda, in modo tale che il fare profitti, ovunque essi siano stati guadagnati, appaia sui libri contabili della sussidiaria anziché su quella della casa madre. Ad esempio, la sussidiaria può gonfiare i prezzi a cui essa acquista dalla sussidiaria, oppure assegnare alla sussidiaria brevetti e licenze sulle quali essa paga royalty elevate. Questi profitti spostati emergono dunque nei dati degli investimenti all’estero, anche se possono non corrispondere a niente di reale, come è chiaramente il caso di buona parte degli investimenti stranieri in Irlanda.

Per inciso, l’elusione fiscale internazionale è una grande questione. Gabriel Zucman e i suoi colleghi hanno dimostrato che stiamo parlando di migliaia di miliardi di dollari di asset e di molti miliardi di entrate fiscali perse.

Ora, quando gli Stati Uniti riducono la loro aliquota fiscale delle società, questo riduce l’incentivo a impegnarsi in tali schemi: le società non devono andare in Irlanda per eludere le tasse, possono farlo proprio qua negli Stati Uniti. Dunque, ci si aspetterebbe che il taglio delle tasse porti al rimpatrio degli asset, ed è in effetti quello che è accaduto. L’Ufficio di Analisi Economica, che elabora le statistiche della nostra bilancia dei pagamenti, nel suo ultimo rapporto sulle transazioni internazionali aveva una casella molto utile sugli effetti della TCJA, che includeva un impressionante diagramma sull’impatto sulle società multinazionali (Figura 2). A seguito della entrata in funzione della legge fiscale, le imprese statunitensi hanno dovuto far pagare alle loro sussidiarie grandi dividendi alla casa madre; la contropartita di questi dividendi, sulla carta, è stata un brusco calo degli investimenti all’estero.

zz 610

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2 Ufficio di Analisi Economica

Ma in realtà che cosa ha reso equivalenti questi grandi numeri? Abbastanza verosimilmente, niente.

Si immagini una società statunitense la cui sussidiaria oltreoceano abbia un miliardo di dollari in un conto corrente di una banca londinese. A seguito dell’entrata in funzione del taglio delle tasse, essa decide di trasferire quel miliardo di dollari alla società principale – ma la società madre decide di tenere i soldi dove sono. In quel caso le statistiche della bilancia dei pagamenti mostrano una grande caduta negli investimenti diretti all’estero, poiché la società madre sta riducendo il suo apparente interesse nella sussidiaria. Ma la verità è che la società ancora possiede quello stesso miliardo di dollari a Londra – ha solo spostato il suo possesso indiretto tramite la sussidiaria ad un possesso diretto. Si tratta solo di contabilità, senza alcun effetto sulla realtà.

Naturalmente, la società potrebbe scegliere di non tenere quel miliardo in una banca di Londra; potrebbe farci qualcosa, come riacquistare azioni dai suoi azionisti. Ma allora cosa accade al denaro? Gli azionisti potrebbero essi stessi acquistare asset all’estero: persino se acquistassero qua le azioni, chiunque le venda potrebbe investire i ricavi all’estero.

In altre parole, osservare le manovre finanziarie delle società dopo il taglio delle tasse non ci dice niente sulla circostanza che il taglio stia attraendo effettivamente capitale globale negli Stati Uniti. Per esprimere quel giudizio, abbiamo bisogno di osservare le vendite nette di asset agli stranieri da parte degli Stati Uniti nel loro complesso – oppure, in modo equivalente, le nostre vendite nette di beni e servizi, dato che la bilancia dei pagamenti è sempre in equilibrio: per definizione la bilancia commerciale è l’inverso del flusso netto di capitali.

In realtà, cosa è successo ai flussi dei capitali?

Se stiamo cercando di osservare i possibili effetti della Legge sugli sgravi fiscali sulla capacità degli Stati Uniti di investire, abbiamo bisogno di conoscere quanto essa ha promosso flussi effettivi di capitali, ammesso che ne abbia promosso qualcuno – ovvero risorse rese disponibili per gli Stati Uniti che ci consentano di investire più di quello che stiamo risparmiando. Questi flussi possono essere misurati in due modi diversi. Uno consiste nell’osservare direttamente la contabilità finanziaria internazionale: le transazioni di asset con gli stranieri, dove la vendita di asset è un flusso in ingresso e l’acquisto di asset un flusso in uscita. L’altro è osservare indirettamente la differenza di vendite e acquisti di beni e servizi, poiché la bilancia commerciale generalmente definita (inclusi i redditi degli investimenti) – ovvero la bilancia di conto corrente – è l’altra faccia dei flussi di capitale.

In via di principio, questi due metodi dovrebbero offrire lo stesso risultato. In pratica, talvolta c’è una significativa “discrepanza statistica”, probabilmente perché alcune transazioni finanziarie alla fine non vengono correttamente resocontate. Questo è meno realistico di una valutazione sui beni e servizi, per quanto alcune delle strategie utilizzate per l’elusione fiscale possono distorcere anche questa bilancia. In ogni modo, ho preparato un piccolo diagramma che mostre misurazioni di flussi di capitali dal 2016, con entrambi i metodi (Figura 3):

 

zz 611

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 3. Ufficio di Analisi Economica

 Ci sono grandi discrepanza statistiche in un certo numero di trimestri. Come sono solito dire, nel quarto trimestre del 2017 l’America fu una grande esportatrice di errori ed omissioni. Ma nel complesso i dati ci raccontano una storia coerente su quello che è accaduto ai flussi di capitali dal momento che il taglio delle tasse è entrato in funzione, ovvero … non granché. La complicata danza finanziaria tra le società e le loro sussidiarie sembra, di fatto, essere una manovra di contabilità con poco rilievo per il mondo reale. Le conseguenze internazionali degli sgravi fiscali appaiono minime.

E questa è una grande questione, perché promuovere flussi di capitali era al cuore della argomentazione provvista di un minimo di ragionevolezza per i tagli. Sinora quella argomentazione sembra non essere totalmente stupida, eppure, si dà il caso, piuttosto sbagliata.

 Il gran regalo

Per quello che si vede, un grande taglio fiscale alle società appare simile ad un gran regalo agli azionisti. I proponenti della TCJA sostenevano che questo era fuorviante, perché ampi flussi di capitali assicurerebbero che gli sgravi finiscano piuttosto ai lavoratori. Ma non c’è segno di questi grandi flussi, dunque quello che somiglia ad un grande regalo agli azionisti, di fatto, è un grande regalo agli azionisti.

E circa il 35 per cento di quel regalo va agli stranieri, cosicché il taglio delle tasse rende l’America nel suo complesso più povera.

Possiamo vedere questo dai dati? Sfortunatamente, non penso sia possibile estrarre questo indicatore da tutto il frastuono. Se le società hanno restituito l’intero sgravio fiscale agli azionisti attraverso accresciuti dividendi, potreste essere capaci di osservarlo in maggiori pagamenti dei redditi di investimento agli stranieri. Ma molto di ciò è stato utilizzato per riacquistare azioni, la qual cosa non si mostrerà nello stesso modo.

È vero, il riacquisto delle azioni dovrebbe far salire il prezzo delle azioni rimanenti, e si potrebbe cercare di allocare il 35 per cento di questi profitti da capitale agli stranieri. Quando Trump si vanta delle azioni in ascesa, o si lamenta per i declini che attribuisce alle colpe dei democratici, ricordate: i prezzi più alti delle azioni in realtà rendono l’America più povera, giacché non aggiungono niente alla nostra ricchezza reale mentre accrescono le pretese straniere verso la nazione nel suo complesso.

Ma le azioni fluttuano talmente, per così tante ragioni (o per nessuna ragione), che io non penso sia produttivo fare congetture su quanta fluttuazione sia dovuta al taglio fiscale. Meglio concentrarsi sui fondamentali: le tasse sulle società sono state tagliate di circa 100 miliardi di dollari all’anno, dunque circa 35 miliardi di dollari stanno andando agli stranieri.

Con il che si conclude il mio lavoro di cultore della materia. La morale di questa storia è che il taglio alle tasse sembra aver prodotto un lavorio finanziario un po’ maggiore da parte delle società, ma sono fondamentalmente manovre di contabilità che non significano niente. Una prospettiva della bilancia dei pagamenti, come altre prospettive, mostra un taglio delle tasse che, guarda un po’, taglia le tasse sulle società, ma ha poche conseguenze reali per l’economia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] La previsione che l’unico atto legislativo rilevante, alla fine, sarà il taglio delle tasse, deriva anche dal fatto che la maggioranza dei democratici alla Camera – che ha competenza in generale sulla legislazione economica – impedirà d’ora innanzi i pochi provvedimenti che sono nel cuore dei repubblicani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che diavolo è successo al Brasile? (dal blog di Paul Krugman, 9 novembre 2018)

novembre 12, 2018

 

Nov. 12. 2018

What the Hell Happened to Brazil? (Wonkish)

By Paul Krugman

zz 516

I think I can now take some time off from the U.S. political crisis to talk about events elsewhere. So, as the headline says, what the hell happened to Brazil?

I’m actually not talking about the recent election, in which Brazil’s voters chose someone who appears to be an actual fascist. I’m as horrified as anyone else. However, I have no knowledge whatsoever of Brazilian politics. On the other hand, the backdrop to that election was Brazil’s extraordinary economic crisis of 2015-16: A nation that had been on an upward trajectory, that seemed to have shaken off the legacy of instability, suffered a terrible recession and is experiencing a very slow recovery. And macroeconomics is a subject I’m supposed to know something about.

So what happened? There has been surprisingly little international discussion of the Brazilian experience, even though it was very severe and Brazil is a pretty big economy (G.D.P. at purchasing power parity about 10 times as large as Greece.) Maybe we’re all too distracted by the political crisis in the West — Trump, Brexit, etc. Anyway, I’ve been trying to put together a story of the Brazilian crisis, well aware that I may well be missing important aspects.

Here’s what it looks like to me: Brazil appears to have been hit by a perfect storm of bad luck and bad policy, with three main aspects. First, the global environment deteriorated sharply, with plunging prices for the commodity exports still crucial to the Brazilian economy. Second, domestic private spending also plunged, maybe because of an excessive buildup of debt. Third, policy, instead of fighting the slump, exacerbated it, with fiscal austerity and monetary tightening even as the economy was headed down.

Maybe the first thing to say about Brazil’s crisis is what it wasn’t. Over the past few decades those who follow international macroeconomics have grown more or less accustomed to “sudden stop” crises in which investors abruptly turn on a country they’ve loved not wisely but too well. That was the story of the Mexican crisis of 1994-5, the Asian crises of 1997-9, and, in important ways, the crisis of southern Europe after 2009. It’s also what we seem to be seeing in Turkey and Argentina now.

We know how this story goes: the afflicted country sees its currency depreciate (or, in the case of the euro countries, its interest rates soar). Ordinarily currency depreciation boosts an economy, by making its products more competitive on world markets. But sudden-stop countries have large debts in foreign currency, so the currency depreciation savages balance sheets, causing a severe drop in domestic demand. And policymakers have few good options: raising interest rates to prop up the currency would just hit demand from another direction.

But while you might have assumed that Brazil was a similar case — its 9 percent decline in real G.D.P. per capita is comparable to that of sudden-stop crises of the past — it turns out that it isn’t. Brazil does not, it turns out, have a lot of debt in foreign currency, and currency effects on balance sheets don’t seem to be an important part of the story. What happened instead?

First of all, the global economic environment took a big turn for the worse. Brazil has diversified somewhat into manufactures, but it’s still heavily dependent on commodity exports, whose prices have plunged. As Figure 1 shows, Brazil’s terms of trade — the ratio of export to import prices — took a major hit.

zz 605

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 1 World Bank

This would have been nasty in any case. But it went along with a sharp fall in domestic consumer spending (Figure 2). Atif Mian and co-authors tell us that this was linked to a rise in household debt over the previous few years — that, Brazil experienced something more like the advanced-country debt deflation of 2008 than a traditional emerging-market crisis.

zz 606

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 2 FRED

What really did Brazil’s economy in, however, was the way it responded to these shocks: with fiscal and monetary policy that made things much worse.

On the fiscal side: Brazil has big long-term solvency problems. But these require long-term solutions. What happened instead was that the Roussef government decided to impose sharp spending cuts in the middle of a slump. What were they thinking? Incredibly, it seems that they bought into the doctrine of expansionary austerity.

And on top of that, monetary policy also turned sharply contractionary, with a big rise in interest rates (Figure 3). What was that about?

zz 607

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 3 FRED

As best I can figure out, what happened was that the real depreciated mainly because of that terms of trade shock, sending inflation temporarily higher (Figure 4). And the central bank panicked, fixating on the inflation issue at the expense of the real economy. Now that the currency-induced spike is over, inflation is actually low by historical standards, but the damage was done.

zz 608

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 4 FRED

It’s a remarkable and depressing story. And this combination of bad luck and bad policy surely played a role in the political disaster that followed.

 

Che diavolo è successo al Brasile?

Di Paul Krugman

Penso che adesso possiamo prenderci un po’ di tempo fuori dalla crisi politica degli Stati Uniti per parlare di qualche fatto altrove. Dunque, come è scritto nel titolo, che diavole è successo al Brasile?

In realtà non sto parlando delle recenti elezioni, nelle quali gli elettori hanno scelto qualcuno che sembra essere proprio un fascista. Ne sono turbato come chiunque altro. Tuttavia, non ho alcuna conoscenza della politica brasiliana. D’altra parte, il retroterra di quelle elezioni è stata la straordinaria crisi economica del Brasile del 2015-16; una nazione che è stata su una traiettoria di progresso, che sembrava essersi scrollata di dosso l’eredità della instabilità, ha patito una tremenda recessione e sta facendo i conti con una ripresa molto lenta. E la macroeconomia è un tema sul quale suppongo di sapere qualcosa.

Dunque, cosa è accaduto? Sorprendentemente c’è stato poco dibattito internazionale sulla esperienza brasiliana, anche se essa è stata molto grave e il Brasile è un’economia piuttosto grande (il PIL a parità del potere di acquisto è circa dieci volte quello della Grecia). Forse siamo troppo distratti dalla crisi politica in Occidente – Trump, la Brexit etc. In ogni modo ho cercato di mettere assieme un racconto della crisi brasiliana, ben consapevole che potrei benissimo essermi perso aspetti importanti.

Ecco secondo me a cosa essa assomiglia: il Brasile sembra essere stato colpito da una tempesta perfetta di sfortuna e di cattiva politica, con tre aspetti principali. Il primo: il contesto globale si è deteriorato bruscamente, con una caduta dei prezzi all’esportazione delle materie prime, ancora cruciali per l’economia brasiliana. Il secondo: anche la spesa privata è crollata, forse a causa di un eccessivo accumularsi del debito. Il terzo: la politica, anziché combattere la recessione, l’ha esacerbata, con l’austerità delle finanze pubbliche e la restrizione monetaria, anche quando l’economia stava cadendo in basso.

Forse la prima cosa da dire sulla crisi del Brasile è quello che non è stata. Nei pochi decenni passati, coloro che seguono la macroeconomia internazionale si erano più o meno abituati alle crisi da “blocchi improvvisi”, nelle quali gli investitori all’improvviso cambiano direzione rispetto ad un paese che avevano molto amato, seppure non saggiamente. Questa fu la storia della crisi messicana nel 1994-5, delle crisi asiatiche del 1997-9 e, in modi importanti, la crisi dell’Europa meridionale dopo il 2009. È anche quello che sembra di vedere adesso in Turchia e Argentina.

Sappiamo come procedono queste storie: il paese colpito vede la propria valuta deprezzarsi (oppure, nel caso dei paesi euro, i propri tassi di interesse schizzare in alto). Ordinariamente il deprezzamento di una valuta incoraggia un’economia, rendendo i suoi prodotti più competitivi sui mercati mondiali. Ma i paesi con blocchi improvvisi hanno ampi debiti in valute straniere, dunque la svalutazione della moneta attacca gli equilibri patrimoniali, provocando una grave caduta nella domanda interna. E le autorità hanno poche buone possibilità: elevare i tassi di interesse per sostenere la valuta darebbe soltanto un colpo alla domanda da un’altra direzione.

Ma se potreste aver pensato che il Brasile fosse un caso simile – la sua caduta del 9 per cento nel PIL reale procapite è confrontabile con quelle delle crisi da blocchi improvvisi dl passato – si scopre che non si è trattato di questo. Si scopre che il Brasile non ha una gran quantità di debito in valute straniere, e gli effetti valutari sugli equilibri patrimoniali non sembrano essere un aspetto rilevante della storia. Cosa è successo, invece?

Prima di tutto, il contesto economico globale ha avuto una grande svolta, in negativo. Il Brasile ha diversificato qualcosa nelle sue manifatture, ma è ancora pesantemente dipendente dalle esportazioni di materie prime, i prezzi delle quali sono crollati. Come mostra la Figura 1, le ragioni di scambio del Brasile – il rapporto tra i prezzi delle esportazioni e quelli delle importazioni – hanno subito un colpo importante.

zz 605

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1 Banca Mondiale  

 

Questo sarebbe stato grave in ogni caso. Ma è intervenuto assieme ad una brusca caduta nella spesa per i consumi interni (Figura 2). Atif Mian e altri coautori ci raccontano che essa era collegata ad una crescita nel debito delle famiglie nel corso degli anni precedenti – ovvero, che il Brasile ha conosciuto qualcosa di più simile alla deflazione da debito di un paese avanzato che una crisi tradizionale di un mercato emergente.

zz 606

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2. Dati economici della Federal Reserve.

 

Quello che è stato realmente determinante per l’economia del Brasile, tuttavia, è stato il modo in cui esso ha risposto a questi shock: con una politica della finanza pubblica e monetaria che ha reso le cose molto peggiori.

Sul lato della finanza pubblica: il Brasile ha grandi problemi di solvibilità nel lungo termine. Ma questi richiedono soluzioni di lungo termine. Quello che invece è accaduto è stato che il Governo Roussef ha deciso di imporre bruschi tagli alla spesa nel mezzo di una recessione. Che cosa stavano pensando? Incredibilmente, sembra che avessero aderito alla dottrina dell’austerità espansiva [1].

E, soprattutto, anche la politica monetaria ha conosciuto una brusca svolta restrittiva, con una forte crescita dei tassi di interesse (Figura 3). Da cosa è dipesa?

zz 607

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 3. Dati economici della Federal Reserve.

 

Per quanto posso immaginare, quello che è accaduto è stato che il real si è svalutato per lo shock nelle ragioni di scambio, spedendo provvisoriamente più in alto l’inflazione. E la Banca Centrale è stata presa dal panico, fissandosi sul tema dell’inflazione a danno dell’economia reale. Ora che il picco è superato, l’inflazione è effettivamente bassa per le sue serie storiche, ma il danno era stato fatto.

zz 608

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 4. Dati economici della Federal Reserve.

 

Si tratta di una storia rilevante e deprimente. E questa combinazione di sfortuna e di cattiva politica certamente ha giocato un ruolo nel disastro politico che è seguito.   

 

 

 

 

 

 

 

[1] Il giudizio è desunto da un articolo apparso su The Conversation del 27 gennaio 2017, che riferisce di tagli draconiani alla spesa particolarmente nella sanità e nel sistema previdenziale, che hanno particolarmente colpito la popolazione più povera.

 

 

 

 

 

 

 

 

La perversione della politica della finanza pubblica (leggermente per esperti), (dal blog di Paul Krugman, 2 novembre 2018)

novembre 6, 2018

The Perversion of Fiscal Policy (Slightly Wonkish)

By Paul Krugman

zz 516

As many people have pointed out, the Trump tax represented a total break with the normal principles of fiscal policy. Historically, we’ve tended to run big deficits when the economy is weak, smaller deficits or surpluses when it’s strong. But now the deficit is soaring even in the face of low unemployment. This is

irresponsible, and shows that Republican handwringing over deficits was always phony – which some of us pointed out at the time.

But something that has been pointed out less is that this is actually part of a broader story: fiscal policy has been off the rails since 2010, not because of what it has done to the national debt, but because of what it has done to the macroeconomy.

Here’s what fiscal policy should do: it should support demand when the economy is weak, and it should pull that support back when the economy is strong. As John Maynard Keynes said, “The boom, not the slump, is the right time for austerity.” And up until 2010 the U.S. more or less followed that prescription. Since then, however, fiscal policy has become perverse: first austerity despite high unemployment, now expansion despite low unemployment.

I illustrate this point with a chart using the Fiscal Impact Measure calculated by the Hutchins Center at the Brookings Institution, which estimates how much fiscal policy at all levels of government adds to or subtracts from short-term economic growth. The chart plots the Hutchins measure against the unemployment rate since 2000; I break it up into two sub-periods, 2000 to the end of 2009 and 2010 to the present.

zz 604

 

 

 

 

 

 

 

 

All wrong after 2010. Brookings, BLS

What you can see in the chart is that during the first period (the blue line) high unemployment was met with fiscal expansion. This happened during the 2001 recession and aftermath, and again when the Great Recession struck. From this point of view the Obama stimulus was normal policy, applied in an exceptional situation.

But then fiscal policy went off track, which you can see by the big red clockwise loop. The wrong turn actually, by this measure, began even before Republicans took the House of Representatives – mainly, I think, reflecting cutbacks at the state and local level. But it got much worse after the G.O.P. gained blockade power, forcing significant austerity even as unemployment remained extremely high.

Meanwhile, the Fed couldn’t cut interest rates any further, because they were already zero, and count me in the camp that’s skeptical about the effectiveness of quantitative easing (which Republicans also fiercely opposed.) So this turn to fiscal austerity surely slowed growth and delayed the economy’s recovery.

And now, with unemployment very low but a Republican in the White House, we’re getting the fiscal stimulus we desperately needed then – and don’t need now. Fiscal policy, like so much of governance in America, has been perverted by right-wing partisanship.

 

La perversione della politica della finanza pubblica (leggermente per esperti),

di Paul Krugman

Come molti hanno messo in evidenza, il taglio delle tasse di Trump ha rappresentato una rottura totale con i normali principi della politica della finanza pubblica. Storicamente, abbiamo teso a gestire grandi deficit quando l’economia era debole, deficit minori o surplus quando era forte. Ma adesso il deficit sta salendo alle stelle anche di fronte ad una bassa disoccupazione. Questo è irresponsabile, e mostra che lo strapparsi i capelli dei repubblicani sui deficit era sempre stato falso – la qual cosa alcuni di noi avevano messo in evidenza a quel tempo.

Ma qualcosa che è stato molto meno osservato è che questo è in effetti un aspetto di una storia più generale: la politica della finanza pubblica è stata fuori dai binari sin dal 2010, non per quello che ha fatto al debito nazionale, ma per i danni che ha fatto alla macroeconomia.

Ecco cosa dovrebbe essere la politica della finanza pubblica: essa dovrebbe sostenere la domanda quando l’economia è debole e dovrebbe ritirare quel sostegno quando l’economia è forte. Come disse John Maynard Keynes: “L’espansione, non la recessione, è il tempo giusto per l’austerità”. E fino al 2010 gli Stati Uniti hanno più o meno seguito quella prescrizione. Da allora, tuttavia, la politica della finanza pubblica è diventata perversa: dapprima l’austerità nonostante l’elevata disoccupazione, ora l’ampliamento della spesa nonostante la bassa disoccupazione.

Illustro questo punto con un diagramma che utilizza la Misura dell’Impatto della Finanza Pubblica calcolato dallo Hutchins Center presso l’Istituto Brookings, che stima quanto la politica della finanza pubblica a tutti i livelli del Governo aggiunge o sottrae dalla crescita economica a breve termine. Il diagramma traccia la Misura Hutchins a fronte del tasso di disoccupazione a partire dal 2000; io lo suddivido in due sotto periodi, dal 2000 alla fine del 2009 e dal 2009 ad oggi.

zz 604

 

 

 

 

 

 

 

 

Dal 2010, tutto sbagliato. Brookings, Ufficio delle Statistiche del Lavoro.

 

Quello che si può vedere nel diagramma è che durante il primo periodo (la linea blu) l’elevata disoccupazione è stata affrontata con l’espansione della finanza pubblica. Questo accadde durante la recessione del 2001 e in seguito ad essa, ed ancora quando arrivò il colpo della Grande Recessione [1]. Da questo punto di vista lo stimolo di Obama fu una politica normale, applicata ad una situazione eccezionale.

Ma poi la politica della finanza pubblica uscì dai binari, la qual cosa la si può vedere dalla grande ansa arancione. Secondo questa misura, in realtà, l’andamento sbagliato cominciò anche prima che i repubblicani conquistassero la Camera dei Rappresentanti – principalmente, credo, in conseguenza dei tagli ai livelli degli Stati e delle comunità locali. Ma andò molto peggio dopo che il Partito Repubblicano ottenne un potere ostruzionistico, costringendo ad una rilevante austerità anche se la disoccupazione restava molto alta.

Nel frattempo, la Fed non poteva tagliare ulteriormente i tassi di interesse, giacché erano già a zero, e consideratemi pure tra coloro che sono stati scettici sulla efficacia della ‘facilitazione quantitativa’ (cui anche i repubblicani si opposero ferocemente). Dunque quella svolta verso l’austerità della finanza pubblica certamente rallentò la crescita e rimandò la ripresa dell’economia.

E adesso, con la disoccupazione molto bassa e i repubblicani alla Casa Bianca, stiamo ricevendo quello stimolo di finanza pubblica di cui avevamo disperato bisogno allora – e di cui adesso non abbiamo bisogno. La politica fiscale, come gran parte dei temi di governo in America, è stata pervertita dalla faziosità della destra.

 

 

 

 

 

[1] Per una (spero) migliore comprensione: sulla linea orizzontale sono fissati i tassi di disoccupazione, su quella verticale gli stimoli della finanza pubblica (sopra il valore 0, sotto sono sottrazioni, ovvero misure di austerità); la linea blu indica gli andamenti dal 2000 al 2009, quella arancione quelli dal 2009 al 2018.  Dove le due linee si distinguono, dovremmo essere all’anno 2010. Ogni pallino sulle due linee corrisponde ad un periodo di tempo – forse trimestrale – di un determinato anno. Quando la linea procede in alto, significa che la spesa pubblica aumenta, in basso che diminuisce. Vero destra aumenta la disoccupazione, verso sinistra diminuisce.

Ma attenzione: la sequenza temporale non procede ovviamente in una particolare direzione. Il decennio 2009-2018 parte dalla destra in alto del diagramma – elevata disoccupazione e, agli inizi, forte spesa per la prima fase dello stimolo impegnata dai salvataggi delle banche – poi crolla in basso per l’austerità (prima ai livelli degli Stati e delle comunità locali e, in seguito, per l’ostruzionismo repubblicano), e dopo lunga sofferenza arriva a livelli di disoccupazione molto bassi, con i tassi attuali attorno al 3,5%.

 

 

 

 

La grande illusione di centro-destra, (dal blog di Paul Krugman, 31 ottobre 2018)

novembre 2, 2018

 

oct. 31, 2018

The Great Center-Right Delusion

By Paul Krugman

zz 516

What’s driving American politics off a cliff? Racial hatred and the cynicism of politicians willing to exploit it play a central role. But there are other factors. And an opinion piece by Hertel-Fernandez, Mildenberger, and Stokes in today’s Times (which is actually social science, not opinion!) seems to confirm something I already suspected: misunderstanding of what voters want is distorting both political positioning and public policy.

What the authors of the piece show is that congressional aides grossly misperceive the views of their bosses’ constituents; this is true in both parties, but more so of Republicans. What they don’t point out explicitly is that with the exception of A.C.A. repeal, Democrats err in the same direction as Republicans, just less so. Specifically, both parties believe that the public is to the right of where it really is.

An aside on A.C.A. repeal: I wonder what’s really going on here. Lots of polling suggests that voters overwhelmingly want protection for pre-existing conditions and subsidies to help lower-income Americans afford insurance — that is, they want the substance of the A.C.A., even if they say they disapprove of the law. So I’d take this result with a grain of salt: Democrats may not be as wrong here as it appears.

Anyway, what I’d really like to see are comparable surveys of other groups — say, political analysts for major media organizations. Why? Because I suspect we’d see a similar result: people who opine on politics also imagine that voters are farther to the right than they really are. What I’m suggesting, in other words, is that there’s a shared inside-the-Beltway delusion: that America is a conservative, or at most center-right nation, a view that isn’t grounded in reality.

It’s true that Republicans, who are increasingly a far-right party, have been more than competitive politically, controlling the White House, the House of Representatives, or both for all but four of the past 24 years. But this owes a lot to a tilted playing field — they only won the popular vote for president once over that stretch, and can hold the House even when Democrats get a lot more votes.

And it also reflects a political strategy in which Republicans run on anything but their policies. Trump’s frantic attempt to make next week’s election about scary brown people rather than health care or tax cuts is cruder and uglier than anything we’ve seen for a long time, but it’s not fundamentally out of character. Bush the elder ran against Willie Horton. Bush the younger ran on national security. Their actual policies, not so much.

In fact, we got an object lesson in the dissonance between G.O.P. electioneering and public preferences in 2004-5. Bush made it a national security election, with a tinge of culture war; as I used to joke, he ran as the enemy of gay married terrorists. Then, with victory under his belt, he proclaimed that he had a mandate to privatize Social Security. He didn’t.

But many pundits thought he did. For several months after the 2004 election it was conventional wisdom in the commentariat that of course Bush would get his way on Social Security, and that people like Nancy Pelosi who were trying to stop his push were on the wrong side of history. The overwhelming backlash from voters, who really, really like Social Security (and Medicare, and Medicaid) completely surprised many self-proclaimed political experts.

So what are the effects of this delusion of America as a center-right nation? It has clearly inhibited Democrats from taking bold policy positions, out of fear that they’ll be too far left for voters — a fear fed by journalists who keep insisting that the public wants centrists who are somewhere between the parties. Remember the Bloomberg for president bandwagon, which consisted of a number of prominent pundits and maybe three non-journalist voters.

But Republicans are even further out of touch. Hertel-Fernandez et al note correctly that the Trump tax cut has proved consistently unpopular; they don’t point out that at first Republicans were sure that it would be a big political winner: “If we can’t sell this to the American people, we ought to go into another line of work,” declared Mitch McConnell. But they couldn’t sell it, and the tax cut has virtually disappeared from G.O.P. messaging.

And Republicans appear to have been completely blindsided by the public backlash against their attempts to remove protection for pre-existing conditions, which is amazing if you think about it. How could they not realize that this is a sore spot?

Which brings me to something David Roberts wrote yesterday, which complements something I’ve been thinking for a while. He notes, in regard to the frame-Mueller debacle, that we’re dealing with the “second generation of Fox News conservatives,” who grew up entirely inside the right-wing bubble and don’t understand how people outside that bubble talk, think, and behave.

I’d say that this goes even more for professional G.O.P. politicos, who are all apparatchiks. That is, they grew up inside the apparatus of movement conservatism, and really imagine that everyone except a few leftist losers shares their ideology. They don’t even realize that their party’s success has been based on racial antagonism, that most people want to raise taxes on the rich and maintain social benefits.

And this, by the way, is where Trump has an advantage. He didn’t grow up in the conservative hothouse; his very crudity means that he understands that his electoral chances depend not on repeating conservative pieties but on maximum ugliness.

 

La grande illusione di centro-destra,

di Paul Krugman

Cosa sta spingendo la politica americana giù da un precipizio? L’odio razziale e il cinismo dei politici che lo vogliono sfruttare giocano un ruolo centrale. Ma ci sono altri fattori. E un articolo sulla pagina delle opinioni del Times di oggi di Hertel-Fernandez-Mildenberger e Stokes (in realtà è una scienza sociale, non un’opinione!) sembra confermare qualcosa che già sospettavo: l’incomprensione di quello che vogliono gli elettori sta distorcendo sia le collocazioni politiche che i programmi della politica trasmessi all’opinione pubblica.

Quello che gli autori dell’articolo mostrano è che i collaboratori del Congresso fraintendono grossolanamente i punti di vista delle basi elettorali dei loro capi; questo è vero in entrambi i partiti, ma maggiormente nel caso dei repubblicani. Quello che essi non mettono in luce esplicitamente è che, con l’eccezione della abrogazione della riforma sanitaria di Obama, i democratici sbagliano nella stessa direzione dei repubblicani, solo un po’ meno. In particolare, entrambi i partiti credono che la gente sia più a destra rispetto a dove è effettivamente collocata.

Un inciso sulla Legge sulla Assistenza Sostenibile: mi chiedo cosa stia effettivamente accadendo in quel caso. Una grande quantità di sondaggi indica che in modo schiacciante gli elettori vogliono la protezione per le preesistenti patologie e i sussidi per aiutare gli americani con redditi più bassi a permettersi l’assicurazione sanitaria – ovvero che vogliono la sostanza della legge di riforma, anche se dicono di disapprovare la legge. Dunque, considererei questo caso cum grano salis: può darsi che in quel caso i Democratici non sbaglino così tanto come appare.

In ogni modo, quello che mi piacerebbe davvero vedere sono analoghi sondaggi su altri gruppi – ad esempio, gli analisti politici per le principali organizzazioni dei media. Perché? Perché ho il sospetto che ci troveremmo di fronte a risultati simili: anche le persone che esprimono opinioni sulla politica si immaginano che la gente sia più a destra di quanto è realmente. Quello che, in altre parole, sto suggerendo è che c’è una illusione diffusa a Washington: che l’America sia una nazione conservatrice, o al massimo di centro-destra, è un punto di vista che non è fondato sulla realtà.

È vero che i repubblicani, che sono sempre più un partito di estrema destra, sono stati sul piano politico più che competitivi, controllando la Casa Bianca o la Camera dei Rappresentanti, oppure entrambe, per non meno di quattro volte nei 24 anni passati. Ma questo dipende in gran parte da regole di gioco truccate – si sono aggiudicati lungo quel periodo il voto popolare per il Presidente una volta, e possono mantenere la Camera anche quando i democratici ottengono molti voti in più.

E riflette anche una strategia politica sulla base della quale i repubblicani rielaborano ogni cosa, tranne le loro politiche. Il tentativo frenetico di Trump di spostare le elezioni della prossima settimana sul tema della spaventosa gente di colore, anziché sulla assistenza sanitaria e sui tagli alle tasse, è più rozza e più minacciosa di quello a cui assistiamo da tanto tempo, ma fondamentalmente non è di altra natura. Bush padre cavalcò il tema di Willie Horton. Bush figlio quello della sicurezza nazionale. Le loro effettive politiche, non altrettanto.

Di fatto, ne avemmo una dimostrazione pratica nella divaricazione tra le posizioni elettorali del Partito Repubblicano e le preferenze dell’opinione pubblica nel 2004-5. Bush le fece diventare elezioni sulla sicurezza nazionale, con una sfumatura di guerra culturale; come dissi più volte scherzando, adoprò i terroristi come nemici del matrimonio gay. Poi, quando ebbe la vittoria in tasca, proclamò che aveva avuto il mandato a privatizzare la Previdenza Sociale. Il che non era vero.

Ma molti commentatori pensavano che lo fosse.  Per vari mesi dopo le elezioni era opinione diffusa tra molti commentatori che ovviamente Bush avrebbe realizzato la sua idea di Previdenza Sociale e che persone come Nancy Pelosi, che cercavano di opporsi alla sua spinta, erano sul versante sbagliato della storia. L’impressionante contraccolpo tra gli elettori, ai quali la Previdenza Sociale (e Medicare, e Medicaid) piaceva davvero tanto, sorpresero completamente molti sedicenti esperti di politica.

Quali sono, dunque, gli effetti di questo abbaglio di un’America come una nazione di centro-destra? Chiaramente esso ha inibito i democratici dal prendere posizioni programmatiche coraggiose, nel timore che si sarebbero spostati troppo a sinistra per gli elettori – un timore alimentato dai giornalisti che continuano a insistere che l’opinione pubblica vuole centristi che in qualche modo stiano tra i due partiti. Vi ricordate la moda di Bloomberg alla Presidenza, che consisteva in un certo numero di eminenti commentatori e forse di tre elettori non-giornalisti?

Ma i repubblicani hanno perso i contatti anche maggiormente. Hertel-Fernandez e gli altri osservano correttamente che i tagli alle tasse di Trump si sono dimostrati sistematicamente impopolari; non hanno messo in evidenza che agli inizi i repubblicani erano certi che sarebbero stati una grande carta vincente politica: “Se non possiamo persuadere con questo il popolo americano, dovremmo passare ad un altro mestiere”, dichiarò Mitch McConnell. Ma non sono riusciti ad essere convincenti e il taglio delle tasse è sostanzialmente scomparso dalla propaganda del Partito Repubblicano.

E sembra che i repubblicani siano stati completamente presi alla sprovvista dalla reazione pubblica ostile ai loro tentativi di rimuovere la protezione per le patologie sanitarie preesistenti [1] il che se ci si pensa è stupefacente. Come hanno potuto non capire che questo è un punto dolente?

Il che mi porta a qualcosa che David Roberts ha scritto ieri, che integra qualcosa a cui stavo pensando da un po’. Egli osserva, a proposito della debacle dello schema-Mueller, [2] che stiamo discutendo della “seconda generazione dei conservatori di Fox News”, cresciuta per intero dentro la bolla della destra e che non capisce come la gente fuori da quella bolla parla, pensa e si comporta.

Direi che le cose vanno così anche maggiormente per i politici di professione del Partito Repubblicano, che sono tutte persone di apparato. Ovvero, sono cresciuti dentro l’apparato del conservatorismo movimentista e si immaginano per davvero che tutti, eccetto pochi perdenti della sinistra, condividano la loro ideologia. Neanche comprendono che il successo del loro partito si sia basato su un antagonismo razziale, che la maggioranza delle persone vogliano alzare le tasse sui ricchi e mantenere i sussidi sociali.

E questo, per inciso, è dove Trump ha un vantaggio. Lui non è cresciuto nella serra conservatrice: la sua effettiva rozzezza significa che egli capisce che le sue possibilità elettorali non dipendono dal ripetere gli atti di fede dei conservatori, ma da una cattiveria spinta al massimo.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Forse è il caso di spiegare perché queste patologie vengono definite “preesistenti”. Il punto è che può capitare di frequente di cambiare assicurazione. La precedente assicurazione non penalizzava particolari patologie sanitarie – sia che fosse a carico del paziente sia che fosse pagata dal datore di lavoro – ma in tutti quei casi nei quali si cambia lavoro, o si perde la condizione contrattuale che metteva l’assistenza a carico del datore di lavoro, occorre una nuova assicurazione. Sennonché il nuovo assicuratore, prima della riforma di Obama, era libero di imporre costi assai più elevati a tutti coloro che avevano bisogno di assicurazione per serie patologie che esistevano in precedenza. Se si soffriva di cardiopatie o di diabete o di cancro, ad esempio, quelle malattie non erano più coperte dalla nuova assicurazione, se non pagando molto di più. La riforma di Obama ha proibito tali penalizzazioni, stabilendo il diritto di ognuno ad una assistenza di base sostenibile. Ovviamente, questo ha comportato un cambiamento radicale nell’economia assicurativa, che la riforma obamiana ottiene in questo modo: stabilendo un obbligo alla assicurazione per tutti, anche per le persone in salute; proibendo alle assicurazioni trattamenti discriminanti; dando sussidi pubblici alle famiglie più povere perché posano pagare l’assicurazione; mettendo delle tasse a carico dei più ricchi per compensare i maggiori costi pubblici.

[2] Ex Direttore dell’FBI, poi nominato supervisore dell’indagine sugli interventi russi nella campagna elettorale americana del 2016 e lì preso di mira da Trump. Ma non saprei dire perché la sua attività nell’indagine viene considerata già una debacle.

 

 

 

 

 

 

 

 

I danesi sono malinconici? Gli svedesi sono tristi? (dal blog di Paul Krugman, 27 ottobre 2018)

ottobre 31, 2018

 

Oct. 27,2018

Are the Danes Melancholy? Are the Swedes Sad?

By Paul Krugman

zz 516

The recent report by the White House Council of Economic Advisers on the evils of socialism has drawn a great deal of ridicule, and rightly so. It boils down to something along the lines of “You want Medicare for All? But what about the terrible things that happened under Mao Zedong?” That’s barely a caricature.

However, one issue raised by the report has drawn some sympathetic appreciation even from liberals: the discussion of the Nordic economies, which are widely seen by U.S. progressives as role models. The report points out that real gross domestic product per capita in these economies is lower than in the U.S., and argues that this shows the costs of an expansive welfare state.

But is a negative assessment of the Nordic economies really right? That’s not at all clear. That lower G.D.P. number conceals two important points. First, by any measure people in the lower part of the income distribution are much better off in Nordic societies than their U.S. counterparts. That is, there is a lot less misery in Scandinavia — and because everyone has some chance of falling into low income, this reduces the risk of misery for a much larger share of the population.

Second, much of the gap in real G.D.P. represents a choice, not a cost. Nordic workers have much more vacation, much more time for family and leisure, than their counterparts in our “no vacation nation.”

So I thought it might be useful to put together some information on how the Nordic economies actually compare to the U.S.

First of all, the Nordics really have made drastically different choices in public policy. They aren’t “socialist,” if that means government control of the means of production. They are, however, quite strongly social-democratic: as Exhibit 1 shows, they have high taxes, which finance much more generous social benefits than we have here. They also have policies on wages, working hours, and more that tilt the balance toward workers in a number of dimensions.

zz 601

 

 

 

 

 

 

Exhibit 1 OECD

So how do these policy choices affect individual incomes? Exhibit 2, put together with the help of my Stone Center colleague Janet Gornick, shows how incomes at different percentiles of the income distribution in Denmark and Finland countries compare with the US. (These are “equivalized” household incomes adjusted for household size. Unfortunately, for bizarre legal reasons the LIS Center, the source of these data, doesn’t have recent numbers for Sweden, but they presumably look similar.) Clearly, the Nordic economies are better for lower-income families — roughly the bottom 30 percent of the population.

zz 602

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Exhibit 2 LIS data center

 

But this understates the case, because these data don’t include “in kind” benefits like health care and education. All of the Nordic countries have universal health care — not just single-payer, but for the most part direct government provision (a.k.a. “socialized medicine.”) This compares with the U.S. where — especially before the Affordable Care Act went into effect — lack of health insurance was common even for families near median income, and high deductibles are an obstacle to care even for many of the insured.

 

Nordic education also lacks the glaring inequality in quality all too characteristic of the U.S. system.

Once you take these benefits into account, it’s likely that at least half the Nordic population are better off materially than their U.S. counterparts. But what about the upper half?

As the CEA notes, real G.D.P. per capita is lower in the Nordics than in the U.S., and that’s reflected in those lower incomes for the upper half of the income distribution. But it’s worth looking at why G.D.P. is lower.

Exhibit 3 shows how real G.D.P. per capita in Denmark, Finland, and Sweden compares with the U.S., and the sources of that difference. It turns out that a large part of the difference — in the case of Denmark, more than all of it — comes from a lower number of hours worked annually per worker. This does not reflect mass underemployment. Instead, it reflects policy: all of the Nordic countries require that employers give workers a minimum of 25 days of paid vacation every year, while the U.S. has no leave policy at all.

zz 603

 

 

 

 

 

 

 

Exhibit 3 The Conference Board

Once you take vacations into account, Denmark and Sweden basically look comparable in performance to the U.S. Finland looks worse, but this is something of a special case: the Finnish economy has been ailing for a number of years, not because of socialism, but because its two premier exports — Nokia and wood pulp — were hit hard by technological change, and membership in the euro has made adjustment difficult.

The point for welfare comparisons is that while Nordic families at, say, the 60th percentile of the income distribution have lower purchasing power than their American counterparts, they also have much more free time and an arguably better work-life balance. Are they really worse off? You can make a good case that taking all of this into account, the majority of Nordic citizens are actually better off than Americans.

And for what it’s worth, they think so too. The O.E.C.D. publishes measures of self-reported “life satisfaction”; all of the Nordic nations rank above the U.S. Objective measures like life expectancy and mortality rates are also much better in Scandinavia.

The bottom line is that real G.D.P. per capita isn’t everything, and you shouldn’t uncritically use that measure to judge how social democracy is working in Scandinavia.

 

 

 

 

I danesi sono malinconici? Gli svedesi sono tristi?

Di Paul Krugman

Il recente rapporto sui mali del socialismo del Consiglio dei Consulenti Economici della Casa Bianca ha attirato giustamente molta ironia. Il suo significato in pratica si riduce a queste frasi: “Volete Medicare per tutti? Ma cosa ne dite delle cose terribili che accaddero sotto Mao Tse Tung?” Ovvero, a malapena una caricatura.

Tuttavia, un tema sollevato dal rapporto ha attratto alcuni apprezzamenti favorevoli persino tra i progressisti: il dibattito sulle economie nordiche, che sono generalmente considerate modelli dai progressisti statunitensi. Il rapporto mette in evidenza che il reale prodotto interno lordo pro capite in queste economie è più basso che negli Stati Uniti, e sostiene che questo dimostra i costi di uno Stato assistenziale esteso.

Ma è davvero giusto un giudizio negativo sulle economie nordiche? Non è affatto scontato. Quel dato più basso del PIL nasconde due aspetti importanti. Il primo è che, secondo ogni parametro, la gente che sta più in basso nella distribuzione del reddito nelle società nordiche sta meglio dei loro omologhi statunitensi. Ovvero, c’è molta meno miseria in Scandinavia – e poiché chiunque ha qualche possibilità di cadere nel basso reddito, questo riduce il rischio di miseria per una quota molto più ampia di popolazione.

Il secondo: gran parte del divario nel PIL reale rappresenta una scelta, non un costo. I lavoratori del Nord hanno molte più vacanze, molto più tempo per la famiglia e per il tempo libero dei loro omologhi nella nostra “nazione senza vacanze”.

Ho dunque pensato che potrebbe essere utile mettere assieme qualche informazione su un confronto effettivo tra le economie nordiche e gli Stati Uniti.

Prima di tutto, i nordici hanno davvero fatto scelte diverse nella politica pubblica. Non sono “socialisti”, se con quello si intende il controllo governativo dei mezzi di produzione. Sono, tuttavia, abbastanza energicamente social-democratici: come la Prova 1 dimostra, hanno tasse elevate, che finanziano sussidi sociali molto più generosi che da noi. Hanno anche politiche sui salari, sui tempi di lavoro e su altro che fanno pendere la bilancia a favore dei lavoratori per un certo numero di aspetti.

zz 601

 

 

 

 

 

 

Prova 1. OCSE

[1]

 

Come dunque queste scelte politiche influenzano i redditi individuali? La Prova numero 2, che ho messo assieme con l’aiuto della mia collega Janet Gornik del Centro Stone [2], mostra come i redditi ai diversi percentili della loro distribuzione in Danimarca e in Finlandia si confrontino con quelli degli Stati Uniti (sono i redditi familiari “resi equivalenti” correggendoli sulla base delle dimensioni delle famiglie. Sfortunatamente, per strane ragioni legali, il LIS Center [3] , la fonte di questi dati, non ha quelli relativi alla Svezia, ma dovrebbero essere simili). Chiaramente, le economie dei paesi nordici sono migliori per le famiglie con redditi più bassi – circa il 30 per cento meno benestante della popolazione [4].

zz 602

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prova numero 2. Centro dati di LIS.

 

Ma questi dati sottovalutano il fenomeno, perché non includono sussidi “in natura” come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Tutti i paesi nordici hanno l’assistenza sanitaria universale – non solo i pagamenti centralizzati, ma per la maggior parte la fornitura diretta del servizio da parte del Governo (ovvero la “medicina socializzata”). Questo a confronto con gli Stati Uniti dove – specialmente prima che la Legge sulla Assistenza sostenibile entrasse in funzione – la mancanza di assicurazione sanitaria era comune persino per famiglie prossime a redditi medi, e l’alta deducibilità [5] era un ostacolo alle cure persino per molti assicurati.

Anche l’istruzione nei paesi del Nord non presenta le clamorose ineguaglianze qualitative anche troppo caratteristiche del sistema statunitense.

Una volta che si mettono nel conto questi benefici, è probabile che almeno la metà della popolazione nordica sia maggiormente benestante, da un punto di vista materiale, della parte omologa degli Stati Uniti. Ma cosa accade alla metà superiore?

Come osserva il Consiglio dei Consulenti Economici, il PIL procapite è più basso tra i nordici che negli Stati Uniti, e ciò si riflette in quei redditi più bassi della metà superiore della distribuzione del reddito. Ma è il caso di dare un’occhiata alle ragioni per le quali il PIL è più basso.

La Prova numero 3 mostra un confronto tra il PIL reale procapite in Danimarca, Finlandia e Svezia e quello degli Stati Uniti, e le origini di tale differenza. Si scopre che una larga parte della differenza – nel caso della Danimarca, una cifra maggiore dell’intera differenza – deriva da un numero più basso di ore lavorate annualmente per lavoratore. Questo non riflette una disoccupazione di massa. Piuttosto è conseguenza di disposizioni politiche: tutti i paesi del Nord impongono che i datori di lavoro diano ogni anno ai lavoratori un minimo di 25 giorni di vacanze pagate, mentre gli Stati Uniti non hanno alcuna disposizione legislativa per le ferie.

zz 603

 

 

 

 

 

 

 

Prova 3. Il Comitato della Conferenza

[6]

Una volta che si mette nel conto il periodo di ferie, la Danimarca e la Svezia appaiono fondamentalmente paragonabili agli Stati Uniti. I dati della Finlandia appaiono peggiori, ma questo è un caso piuttosto particolare: l’economia finnica è in sofferenza da un certo numero di anni, non a causa del socialismo, ma perché i suoi due principali esportatori – Nokia e cellulosa da legno – sono stati colpiti dal mutamento delle tecnologie, e la partecipazione all’euro ha reso difficile la correzione.

Il punto per i confronti di benessere è che mentre le famiglie nordiche, ad esempio al 60° percentile della distribuzione del reddito, hanno un potere di acquisto più basso dei loro omologhi americani, hanno anche molto più tempo libero e probabilmente un migliore equilibrio tra lavoro e vita. Stanno davvero peggio? Si può immaginare che mettendo tutto in conto, la maggioranza dei cittadini nordici stia effettivamente meglio degli americani.

E per quello che conta, ne sono anche persuasi. L’OCSE pubblica misurazioni della cosiddetta “soddisfazione della vita”; tutte le nazioni nordiche si collocano sopra gli Stati Uniti. Misurazioni oggettive come l’aspettativa di vita e i tassi di mortalità sono anch’esse molto migliori in Scandinavia.

La morale della favola è che il PIL reale procapite non è tutto, e non si dovrebbe usare in modo acritico quella misurazione per giudicare come stia funzionando la socialdemocrazia in Scandinavia.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] La Tabella – che viene presentata come un “Exhibit”, ovvero come una prova in un processo – mostra nella prima serie orizzontale le entrate fiscali in percentuale dei PIL (con percentuali vicine al doppio nei paesi scandinavi rispetto a quelle degli Stati Uniti), e nella seconda serie orizzontale la spesa sociale come percentuale del PIL.

[2] Il Centro Stone sulle Ineguaglianze dell’Università di New York City. Stone dal nome, credo, dei coniugi fondatori.

[3] LIS è acronimo di Luxembourg Income Study.

[4] La Tabella nostra mostra il reddito dei vari percentili – indicati nella linea orizzontale del diagramma – di Danimarca e Finlandia rispetto al corrispondente reddito statunitense (il rapporto è espresso in termini di percentuali nella linea verticale).  Come si vede, dal percentile 5 al percentile 70, ovvero le categorie di reddito basse e medie, i paesi del Nord sono chiaramente superiori agli Stati Uniti, mentre scendono a valori prossimi all’unità per i redditi più elevati.

[5] In questo caso, la ‘deducibilità’ si riferisce alla possibilità per le assicurazioni di offrire, al momento del rinnovo, nuovi contratti che escludevano in partenza alcune prestazioni di base. Per quanto ricordo non si tratta di farmaci per particolari rilevanti patologie (cioè, non ha a che fare con la diversa questione delle ‘patologie preesistenti’), ma di farmaci e di forme di assistenza semplici, sulle quali le assicurazioni risparmiano. Sono ‘deducibili’ nel senso che possono essere escluse.

[6] I numeri indicano per tutte le voci le differenze percentuali tra i vari paesi del Nord e gli Stati Uniti. Come si vede – a parte il caso della Finlandia che è spiegato di seguito nell’articolo – alla innegabile differenza di PIL (prima colonna) corrispondono differenze elevate nelle ore lavorate per lavoratore (quarta colonna), che dipendono dai periodi di ferie, mentre i valori dei tassi di popolazione occupata (seconda colonna) e della produttività in senso proprio (terza colonna) sono diversi ma paragonabili (ad una minore produttività, ma in particolare nel caso della Svezia, corrispondono tassi di occupazione più elevati nei paesi nordici).

 

 

 

 

 

 

Note sulla convergenza globale (divagazione per esperti) (dal blog di Paul Krugman, 20 ottobre 2018)

ottobre 22, 2018

 

Oct. 20, 2018

Notes on Global Convergence (Wonkish and Off-Point)

By Paul Krugman

zz 516

For readers obsessed with the Trumpification of America and the looming election, I’m with you — I try not to check FiveThirtyEight more than five times a day, but it’s hard. If you can’t bear to think about anything else, don’t read this; rest assured that this blog post isn’t coming at the expense of writing about the core issue of the moment, it’s a rest break, a bit of vacation in the head.

OK, that said, I read two things in the past few days that had me thinking about the biggest economic story there is: the dramatic rise of some formerly very poor nations, and the concomitant shift of the world’s economic center of gravity away from the West.

One was a new paper by Patel, Sandefur, and Subramanian pointing out that overall global convergence in per capita GDP, which used to be largely absent in the data, has become very pronounced since 1990, with really fast growth in middle-income economies. The other was a tweet by my CUNY Stone Center colleague Branko Milanovic, pointing out that convergence among Western economies seems to have stalled.

I’d argue that these observations are really part of the same story. Let me start with Branko’s observation.

The way I’d make sense of this observation is to argue that the West has already converged, in terms of technology and productivity. The remaining differences in GDP per capita mainly reflect different social choices over things like vacation time and retirement age, and there’s no reason to expect those differences to go away.

I won’t do a full statistical analysis, but let me give the example of France versus the U.S. Figure 1 shows French productivity — real GDP per hour worked — relative to the U.S., and relative real GDP per capita. What you see is that French productivity has matched that of the U.S. for many years (it was actually higher for a while, although that was probably a composition effect reflecting an older work force.) French real GDP per capita has, however, slid relative to U.S. levels. Why?

zz 598

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 1 Conference Board, Total Economy Database

Partly it’s fewer people working — not prime-age adults, who are more likely to be employed in France, but mainly pre-seniors, 55-65, encouraged to retire by more generous pension policies. Even more important, the French take vacations; we don’t (and often aren’t allowed to.)

So these are just different choices. And while France does need more pension reform (it has done some already), it’s far from clear that overall French choices are worse. On many quality of life indicators, like life expectancy (Figure 2), America has fallen behind.

zz 599

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 2 OECD

The end of Western convergence, then, isn’t an indicator of some kind of failure. Meanwhile, the coming of rapid convergence by emerging markets is a huge success story.

When I was in grad school in the 1970s, I thought I should do development economics — because it was clearly the most important subject — but didn’t, because it was too depressing. At that point it was mostly non-development economics, the study of why Third World countries seemed to fall ever further behind the West. True, we were already seeing a growth takeoff in smaller East Asian economies, but few saw this as a trend that would spread to China and India.

Then something happened; we still don’t know exactly what. It’s a good guess that it has something to do with hyperglobalization, the unprecedented surge in world trade made possible by breaking up value chains and moving pieces of production to lower-wage countries. But we don’t really know even that.

One thing is clear: at any given time, not all countries have that mysterious “it” that lets them make effective use of the backlog of advanced technology developed since the Industrial Revolution. Over time, however, the set of countries that have It seems to be widening.

Once a country acquires It, growth can be rapid, precisely because best practice is so far ahead of where the country starts. And because the frontier keeps moving out, countries that get It keep growing faster. Japan’s postwar growth was vastly faster than that of the countries catching up to Britain in the late 19th century; Korea’s growth from the mid-60s even faster than Japan’s had been; China’s growth faster still.

The It theory also, I’d argue, explains the U-shaped relationship Subramanian et al find between GDP per capita and growth, in which middle-income countries grow faster than either poor or rich countries. Countries that are still very poor are countries that haven’t got It; countries that are already rich are already at the technological frontier, limiting the space for rapid growth. In between are countries that acquired It not too long ago, which has vaulted them into middle-income status, but are able to grow very fast by moving toward the frontier.

The result is a world in which inequality among countries is declining if you look from the middle upward, but rising if you look from the middle down. Fundamentally, however, it’s a story of diminishing Western exceptionalism, as the club of countries that can take full advantage of modern technology expands.

Oh, and rising inequality within Western countries means that if you look at the global distribution of household incomes, you get Branko’s elephant chart.

It’s not entirely a happy story. That concentration of income and wealth at the top is worrisome, not just economically, but for its political and social implications; it’s one reason U.S. democracy is teetering on the edge. And there are still hundreds of millions of people left out. But there’s also a lot of good news in the picture.

I now return you to our regular political anxiety.

 

 

 

Note sulla convergenza globale (divagazione per esperti)

Per i lettori ossessionati dalla ‘trumpificazione’ dell’America e dalle elezioni incombenti, vi capisco bene – cerco di non controllare FiveThirtyEight [1] più di cinque volte al giorno, ma è dura. Se non potete sopportare di pensare a niente altro, non leggete questo post: state certi che esso non è a spese dello scrivere sul tema fondamentale del momento, è una pausa di riposo, un po’ di vacanza nel cervello.

Ciò detto, ho letto due cose nei giorni passati che mi hanno fatto riflettere sul principale racconto economico cui assistiamo: la spettacolare crescita di alcune nazioni in passato molto povere, e il concomitante allontanamento del centro di gravità economico del mondo dall’Occidente.

Una era il nuovo saggio di Patel, Sandefur e Subramanian che mette in evidenza che la generale convergenza in termini di PIL procapite, che di solito era ampiamente assente nei dati, è diventata molto pronunciata a partire dal 1990, con una crescita davvero rapida delle economie a medio reddito. L’altro è stato un tweet del mio collega allo Stone Center [2] dell’Università di New York Branko Milanovic, che mette in evidenza come quella convergenza tra le economie occidentali sembra sia in stallo.

Direi che queste osservazioni fanno in realtà parte dello stesso racconto. Fatemi cominciare dalla osservazione di Branko.

Il modo in cui renderei più comprensibile questa osservazione è considerare che l’Occidente ha avuto già la sua conversione, in termini di tecnologie e di produttività. Le restanti differenze nel PIL procapite principalmente riflettono scelte sociali su aspetti come la durata delle vacanze e l’età di pensionamento, e non c’è motivo di aspettarsi che quelle differenze scompaiano.

Non procedo ad una analisi statistica completa, ma fatemi avanzare l’esempio della Francia a confronto con gli Stati Uniti. La Figura 1 mostra la produttività francese – PIL reale per ora lavorata – in rapporto agli Stati Uniti e il conseguente PIL reale procapite. Potete osservare che la produttività francese ha eguagliato per molti anni quella degli Stati Uniti (per un po’ è stata effettivamente più elevata, sebbene si trattava probabilmente di un effetto di composizione che rifletteva una forza lavoro più anziana). Tuttavia, il PIL reale francese è scivolato rispetto ai livelli statunitensi. Perché?

zz 598

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1. Comitato della Conferenza, Database complessivo dell’economia.

In parte per un numero minore di persone al lavoro – non gli adulti della principale età lavorativa, che è più probabile siano occupati in Francia, ma soprattutto coloro che si avvicinano all’età più anziana, dai 55 ai 65 anni, incoraggiati a ritirarsi da politiche pensionistiche più generose. Fatto più importante ancora, i francesi vanno in vacanza, noi no (e spesso non ci viene consentito).

Dunque si tratta solo di scelte diverse. E mentre la Francia ha bisogno di una riforma delle pensioni più cospicua (ha già fatto qualcosa), non è affatto detto che le scelte francesi siano peggiori. Per molti indicatori della qualità della vita, come l’aspettativa di vita (Figura 2), l’America è rimasta indietro.

zz 599

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2. OCSE

La fine della convergenza dell’Occidente, dunque, non è un indicatore di un fallimento di qualche genere. Nel frattempo, l’approssimarsi di una convergenza rapida da parte dei mercati emergenti è una grande storia di successo.

Quando frequentavo un corso di specializzazione negli anni ’70, pensavo che avrei dovuto indirizzarmi all’economia dello sviluppo – giacché era chiaro che era il tema più importante –  ma non lo feci, perché era troppo deprimente. A quell’epoca mi occupavo soprattutto di economia del non-sviluppo, lo studio delle ragioni per le quali i paesi del Terzo Mondo sembravano rimanere sempre più indietro dell’Occidente. È vero, stavamo già osservando un decollo della crescita in economie più piccole dell’Asia Orientale, ma pochi la vedevano come una tendenza che si sarebbe allargata alla Cina e all’India.

Poi accadde qualcosa; ancora non sappiamo esattamente cosa. È una buona congettura pensare che avesse qualcosa a che fare con l’iperglobalizzazione, la crescita senza precedenti del commercio mondiale resa possibile dalla rottura delle catene del valore e dallo spostamento di pezzi della produzione nei paesi a più bassi salari. Ma in realtà non sappiamo neanche quello.

Una cosa è chiara: in qualche dato momento, non tutti i paesi hanno quel misterioso “qualcosa” che consente loro di fare un uso efficace di tutto l’arretrato di tecnologia avanzata sviluppatosi a partire dalla Rivoluzione Industriale. Nel corso del tempo, tuttavia, il complesso dei paesi che hanno quel “qualcosa” sembra si sia allargato.

Una volta che un paese acquisisce quel “qualcosa” la crescita può essere rapida, proprio perché le migliori pratiche sono molto avanti rispetto a dove quel paese prende le mosse. E poiché la frontiera continua a spostarsi, i paesi che ottengono quel “qualcosa” continuano a crescere più velocemente. La crescita del Giappone post bellico fu grandemente più veloce di quella dei paesi che si portarono al passo dell’Inghilterra nel tardo Diciannovesimo Secolo; la crescita della Corea dalla metà degli anni ’60 fu persino più rapida di quella che aveva avuto il Giappone; la crescita della Cina ancora più rapida.

La teoria del “qualcosa”, direi, spiega la relazione a forma di U che Subramanian ed altri trovano tra PIL procapite e crescita, per la quale i paesi a medio reddito crescono più velocemente sia dei paesi poveri che di quelli ricchi. I paesi che sono ancora molto poveri sono paesi che non hanno ancora avuto quel “qualcosa”; i paesi che sono già ricchi sono già alla frontiera tecnologica, con un limite allo spazio per una crescita rapida. In mezzo ci sono i paesi che hanno acquistato il “qualcosa” non molto tempo fa, il che li ha proiettati in una condizione di medio reddito, ma che sono capaci di crescere molto rapidamente spostandosi verso la frontiera.

Infine, la crescente ineguaglianza all’interno dei paesi occidentali comporta che se guardate alla distribuzione globale dei redditi delle famiglie, ottenete il ‘diagramma dell’elefante di Branko’ [3].

Non è tutta una storia felice. Quella concentrazione di reddito e di ricchezza al vertice è inquietante, non solo economicamente, ma anche per le sue implicazioni politiche e sociali; è una ragione per la quale la democrazia degli Stati Uniti sta traballando sul ciglio. E ci sono ancora centinaia di milioni di persone escluse. Ma nel quadro ci sono anche novità positive.

E adesso tornate alla vostra consueta ansietà politica.

 

 

 

 

 

 

[1] Un blog che in questi giorni è specializzato dai dati sui sondaggi elettorali statunitensi.

[2] Il termine deriva dai coniugi James and Kathleen Stone, forse fondatori.

[3] Più di tre anni orsono Branko Milanovic pubblicò questo diagramma, che mostra – su scala globale – l’andamento del reddito reale ai vari percentili della distribuzione del reddito, anni 1988 – 2008. Krugman lo ripubblicò sul suo blog, nominandolo “diagramma dell’anno” per il 2014.

 

zz 600

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La somiglianza con un elefante è abbastanza evidente. Come si vede, i settori della massima crescita sono due: sulla ‘gobba’ dell’elefante – all’altezza del 60° percentile – ovvero di un reddito che corrisponde a quello della classe media cinese; nella proboscide dell’elefante, all’altezza del 100° percentile, ovvero dei redditi più elevati dei ricchi, particolarmente occidentali. La crescita più bassa in assoluto si colloca grosso modo dove comincia la proboscide, all’altezza dell’80° percentile, in corrispondenza con la parte più povera della classe media americana.

 

 

 

 

 

 

Più ripido contro più profondo (per esperti), (dal blog di Paul Krugman, 22 settembre 2018)

ottobre 3, 2018

 

Sept. 22, 2018

Steeper Versus Deeper (Wonkish)

By Paul Krugman

zz 516

Well, this feels a bit like the good old days of econblogging. Ben Bernanke wrote a paper arguing that the financial crisis and the resulting credit crunch were central to the Great Recession. I wrote a piece raising questions about that verdict; now Bernanke has replied to those questions. Dean Baker has already weighed in. But I should say some more, particularly because it still seems to me that we’re somewhat talking past each other. He’s talking about steeper, while Dean and I are talking about deeper.

My starting point in thinking about the Great Recession and aftermath is that we clearly had a very large housing bubble. Here’s the ratio of housing prices to owner’s equivalent rent, the sort of housing equivalent of the P/E ratio for stocks:

zz 583

 

 

 

 

 

 

 

 

The big bust, Federal Reserve of St. Louis

Housing prices went extremely high relative to rental rates (and consumer prices more generally), then suffered a long and protracted fall. This decline started well before the period of severe financial distress, which was a fairly short episode from September 2008 to around June 2009. And prices were still way down years later, which suggests that while the credit crisis surely accelerated the pace of decline, prices were going to come down and stay down regardless of what happened to the financial system.

Given a housing price slump of this magnitude, you had to expect large macroeconomic impacts: a big decline in residential investment spending, a fall in consumer spending because of the wealth effect, and a decline in nonresidential investment because of the slump in demand brought on by the first two effects.

In other words, something very much like the Great Recession seems like an inevitable consequence of the bursting of the housing bubble. And the magnitude of the shocks — around 4 percent of GDP for housing investment, perhaps around 2 percent for the wealth effects of the decline in home equity — looks well within the range needed to explain the whole thing.

What Bernanke offers is, as I read it, mainly evidence that the pace of decline accelerated a lot during 2008-2009. Indeed it did — and no reasonable person would deny that the combination of financial disruption and sheer fear that gripped the world after September 2008 brought the slump forward and made the decline steeper than it would otherwise have been.

But did it make the decline deeper as well as steeper? The unemployment rate averaged 9.6 percent in 2010 and 8.9 percent in 2011. How much did the financial crisis contribute to these extremely high levels of economic slack, long after the disruption had ended? I still don’t see how to make it the main story.

Now, does this mean that rescuing the financial system was pointless? Here Dean Baker and I disagree, I think. Dean says yes, because finance didn’t cause the slump. I think that the slump we had didn’t have much to do with finance — but the slump we would have had if the financial system had been allowed to implode might have been much worse. On precautionary grounds, bailouts were in my view the right thing to do, although the terms were too sweet for the bankers.

On the other hand, the fact that we suffered such a deep, prolonged slump despite rescuing banks shows the limits of a finance-centered view.

 

Più ripido contro più profondo (per esperti),

di Paul Krugman

 

Ebbene, questo ci riporta un po’ ai bei tempi andati dei blog economici. Ben Bernanke ha scritto per sostenere che la crisi finanziaria e la conseguente stretta creditizia furono centrali nella Grande Recessione. Io ho scritto un articolo sollevando dubbi su tale verdetto; adesso Bernanke ha replicato a tali dubbi. Dean Baker è già intervenuto. Ma io dovrei dire qualcosa di più, in particolare perché mi pare che noi stiamo un po’ parlando di cose diverse. Lui sta parlando di qualcosa di più ripido, mentre Dean e il sottoscritto stiamo parlando di qualcosa di più profondo.

Il mio punto di partenza nel ragionare della Grande Recessione e delle sue conseguenze è che avemmo una bolla immobiliare davvero grande. Ecco il rapporto tra prezzi delle abitazioni e le rendite equivalenti dei proprietari, una specie di equivalente nel settore abitativo del “P/E ratio[1] delle azioni:

zz 583

 

 

 

 

 

 

 

 

Il grande scoppio, dalla Federal Reserve di St. Louis

[2]

I prezzi delle abitazioni andarono molto in alto in relazione ai tassi di affitto (e più in generale ai prezzi al consumo), poi patirono una lunga e perdurante caduta. Quel declino cominciò ben prima del periodo della grave crisi finanziaria, che fu un fenomeno abbastanza breve tra il settembre del 2008 e circa il giugno del 2009. Ed i prezzi erano ancora in basso anni dopo, il che indica che se la crisi del credito sicuramente accelerò il ritmo del declino, i prezzi erano destinati a scendere e a restare bassi a prescindere da quello che accadeva nel sistema finanziario.

Data una crisi dei prezzi delle abitazioni di questa dimensione, ci si dovevano aspettare ampi impatti macroeconomici: una grande declino nella spesa per investimenti nel settore delle abitazioni, una caduta nella spesa per consumi a causa dell’effetto sulla ricchezza e un declino negli investimenti non residenziali per la caduta della domanda provocata dai primi due effetti.

In altre parole, qualcosa di molto simile alla Grande Recessione pare come una conseguenza inevitabile dello scoppio della bolla immobiliare. E le dimensioni degli shock – circa il 4 per cento del PIL per gli investimenti abitativi, forse attorno al 2 per cento per gli effetti sulla ricchezza del declino dei prestiti ipotecari – si vedono bene all’interno del periodo necessario per spiegare l’intera faccenda.

Quello che Bernanke offre, per come lo leggo, è principalmente la prova che il ritmo del declino accelerò molto nel 2008-2009. In effetti fu quello che accadde – e nessuna persona ragionevole negherebbe che la combinazione del disordine finanziario e la paura pura e semplice che afferrò il mondo dopo il settembre 2008, portarono la recessione in avanti e resero il declino più scosceso di quello che altrimenti sarebbe stato.

Ma resero il declino più profondo oltre che più scosceso? Il tasso di disoccupazione si collocò su una media del 9,6 per cento nel 2010 e dell’8,9 per cento nel 2011. Quanto la crisi finanziaria contribuì a questi livelli estremamente elevati di fiacchezza dell’economia, molto dopo che la perturbazione era terminata? Ancora non capisco come si possa farne la spiegazione principale.

Ora, questo significa che il salvataggio del sistema finanziario fu inutile? In questo caso, ritengo che io e Dean Baker non siamo d’accordo. Dean dice di sì, perché la finanza non provocò la recessione. Io penso che la recessione che avemmo non ebbe molto a che fare con la finanza – ma la recessione che avremmo avuto se al sistema finanziario fosse stato consentito di implodere sarebbe stata molto peggiore. In una logica di cautelare, secondo il mio punto di vista, i salvataggi furono la cosa giusta da fare, sebbene le soluzioni furono troppo confortevoli per i banchieri.

D’altra parte, il fatto che soffrimmo una recessione così profonda e prolungata nonostante i salvataggi delle banche mostra i limiti di un punto di vista centrato sulla finanza.

 

 

 

 

 

 

[1] Ovvero, il rapporto tra il valore di mercato di una azione e i guadagni che si realizzano con una azione.

[2] La tabella indica il rapporto tra l’indice dei prezzi delle abitazioni e l’indice dei guadagni realizzati dai proprietari delle abitazioni con gli affitti. Come si vede il rapporto tra i due indici era pari a 1 nell’anno 2000 e salì a 1,7 nell’anno 2006. Nel 2006, dunque prima della crisi finanziaria, cominciò lo scoppio della bolla, che divenne ulteriormente più netto con gli anni della crisi finanziaria (2008-2009). Inoltre, terminato il periodo “ufficiale” della recessione e della crisi finanziaria, i valori restarono bassi per alcuni anni, comunque assai distanti dal ‘picco’ precedente della bolla ancora nel 2018.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La leadership, le risate e le tariffe (dal blog di Paul Krugman, 26 settembre 2018)

ottobre 3, 2018

 

Sept. 26, 2018

Leadership, Laughter and Tariffs

By Paul Krugman

zz 516

There are so many issues breaking right now that it’s hard to keep track — and focusing on any one leads to feelings of guilt about neglecting the others. But it’s worth remembering that the Trump trade war still seems to be on track, and important to have a sense of its effects.

The view within the Trump administration is, of course, that “trade wars are good, and easy to win.” Where does this view come from? Actually, it involves two propositions.

First, it takes the mercantilist view under which trade as a zero-sum game in which whoever sells more wins. Because the U.S. runs a trade deficit, we’re losers, and anything that reduces that trade deficit is good.

Second, it takes for granted the proposition that precisely because the U.S. exports less to other countries than we buy in return, a trade war will hurt them more than it hurts us, reducing U.S. imports more than it reduces U.S. exports.

Now, anyone who looks at the actual effects of international trade knows that the first proposition is wrong: trade isn’t just about selling stuff, it’s about getting better, cheaper stuff both to consume and to use as inputs in production. But you might assume that at least the second proposition is true: a round of tariff retaliation should reduce foreign exports to the U.S. more than it reduces U.S. exports to the rest of the world, simply because those foreign exports are bigger to start with.

But maybe not. A new study from the European Central Bank suggests that even though the U.S. runs trade deficits, a trade war would reduce demand for U.S. goods more than it would reduce demand in the rest of the world. The Bank of England has reached a similar conclusion.

Let’s be clear: these are the results of models, not actual experience, and could be wrong. But it’s still worth asking why the modelers are getting this result. The short answer is the phenomenon known in the field as “trade diversion.”

For simplicity, think of the world as three economies: America, China, and Europe. Both the ECB and the BOE are assuming scenarios in which America raises tariffs on China and Europe, with China and Europe retaliating. But China and Europe don’t raise tariffs on each other.

Such a scenario gives both foreign consumers and foreign producers a lot of options to diversify away from America. Chinese producers, facing U.S. tariffs, can sell more to Europe instead; Chinese consumers, instead of paying tariffs on goods imported from America, can seek substitutes from Europe. The story for Europe is the same. But U.S. consumers and businesses won’t have comparable flexibility.

The difference in ability to switch partners means that both U.S. exports and U.S. businesses that depend on imported components etc. will be hit harder for any given level of tariffs than their counterparts abroad.

But why assume that it’s a unilateral U.S. trade war against everyone? Because that’s what is happening. The Trump administration has isolated America on many fronts, and trade policy is very much one of them. Under different leadership, America and Europe might be working together to put pressure on China over things like intellectual property, but given who’s actually in charge, we’re on our own.

As Trump just found out at the U.N., the world is literally laughing at us. And it certainly doesn’t trust us, in fact is looking for ways to cut us out of various loops. This matters for a lot of things — and trade war, it turns out, is one area where go-it-alone will be costly.

 

La leadership, le risate e le tariffe,

di Paul Krugman

In questo momento, ci sono così tante questioni che esplodono che è difficile tenerne traccia – e concentrarsi su una comporta un senso di colpa per il trascurare le altre. Ma vale la pena di ricordare che la guerra commerciale di Trump tuttora sembra procedere secondo la tabella di marcia, ed è importante avere una percezione dei suoi effetti.

Il punto di vista all’interno della Amministrazione Trump è ovviamente che “le guerre commerciali sono buone e facili da vincere”. Da dove viene questa opinione? In realtà, essa comprende due concetti.

Anzitutto, essa assume il punto di vista secondo il quale il commercio è un gioco a somma zero nel quale chi vende di più vince. Poiché gli Stati Uniti gestiscono un deficit commerciale, noi siamo perdenti e tutto quello che riduce quel deficit commerciale è positivo.

In secondo luogo, essa assume come garantita la proposizione per la quale, precisamente perché gli Stati Uniti esportano verso gli altri paesi meno di quanto acquistano in cambio, una guerra commerciale danneggerà gli altri paesi più di quanto danneggi noi, riducendo le importazioni degli Stati Uniti più di quanto non riduca le esportazioni. Ora, chiunque osserva gli effetti reali del commercio internazionale sa che il primo concetto è sbagliato: il commercio non consiste solo nel vendere, riguarda l’ottenere cose migliori e più economiche sia per consumarle che per usarle come fattori della produzione.  Ma si potrebbe considerare che almeno la seconda proposizione sia vera: una serie di ritorsioni tariffarie dovrebbe ridurre le esportazioni estere verso gli Stati Uniti più di quanto riduca le esportazioni degli Stati Uniti verso il resto del mondo, semplicemente perché quelle esportazioni straniere sono dall’inizio più grandi.

Ma forse non è così. Un nuovo studio da parte della Banca Centrale Europea mostra che persino se gli Stati Uniti gestiscono un deficit commerciale, una guerra commerciale ridurrebbe la domanda per i prodotti statunitensi di più di quanto ridurrebbe la domanda nel resto del mondo. La Banca di Inghilterra è giunta alla stessa conclusione.

Per chiarezza: questi sono risultati di modelli, non esperienze effettive, e potrebbero essere sbagliati. Ma tuttavia è il caso di chiedersi perché i modellatori ottengono questo risultato. La risposta in breve è il fenomeno noto in letteratura come “sviamento commerciale”.

Semplificando, si pensi a un mondo composto di tre economie: l’America, la Cina e l’Europa. La BCE e la Banca di Inghilterra suppongono scenari nei quali l’America eleva le tariffe sulla Cina e sull’Europa, e la Cina e l’Europa fanno ritorsioni. Ma la Cina e l’Europa non alzano le tariffe l’una con l’altra.

Un tale scenario offre sia ai consumatori che ai produttori stranieri molte opzioni per diversificare uscendo dal rapporto con l’America. I produttori cinesi, a fronte delle tariffe degli Stati Uniti, possono vendere di più all’Europa; i consumatori cinesi, anziché pagare le tariffe sui beni importati dall’America, possono cercare sostituti in Europa. La storia per l’Europa è la stessa. Ma i consumatori e le imprese degli Stati Uniti non avranno una flessibilità paragonabile.

La diversità nella capacità di cambiare partner significa che sia le esportazioni statunitensi che le imprese statunitensi che dipendono dalle componenti importate etc. saranno colpite più duramente per ogni dato livello di tariffe delle loro controparti all’estero.

Ma perché ipotizzare che questa sia una guerra commerciale unilaterale degli Stati Uniti contro tutti? Perché è quello che sta accadendo. L’Amministrazione Trump sta isolando l’America su molti fronti, e la politica commerciale è sicuramente uno di essi. Con diverse dirigenze, l’America e l’Europa potrebbero lavorare assieme per mettere pressione sulla Cina su cose come la proprietà intellettuale, ma considerato chi è effettivamente al potere, noi siamo per conto nostro.

Come Trump ha appena scoperto alle Nazioni Unite, il mondo sta letteralmente ridendo di noi. E di sicuro non ha fiducia in noi, di fatto sta cercando modi per tagliarci fuori da molti giri. Questo è importante per una grande quantità di aspetti – e si scopre che la guerra commerciale è un’area nella quale operare da soli sarà costoso.

 

 

 

 

 

 

Una recessione per effetto di un vasto assortimento di cause, (dal blog di Paul Krugman, 19 settembre 2018)

settembre 28, 2018

 

Sept. 19, 2018

A Smorgasbord Recession? (Wonkish)

By Paul Krugman

zz 516

The 2008 financial crisis is (duh) a decade in the past; employment has been growing steadily since early 2010. Since nothing is forever, and proclamations that the business cycle is over have always ended in embarrassment, lots of people are looking for the sources of the next recession.

The thing is, there’s nothing out there as obvious as the housing bubble of the mid-2000s, or even the tech bubble of the late 1990s. So here’s my thought: maybe the next recession won’t be caused by one big shock but instead by the combined impact of several smaller shocks. There are arguably several mid-sized bubbles out there, from private equity debt to emerging markets. Stocks are priced as if there’s no risk despite omens of trade war, consumer confidence similarly seems to discount dangers. There’s probably other stuff I’m missing.

The point, anyway, is that we might be looking at a smorgasbord recession, one that involves a mix of smallish things rather than a single dominant item. And there’s a model for that kind of recession: the slump of the early 1990s.

Most modern recessions have had clear narratives, at least after the fact. The 79-82 double dip was about the Fed tightening to bring inflation down; 2001 was about the tech bubble; 2007-2009 about the housing bust and the financial crisis it triggered. But I’ve been reading various accounts of 1990-91, and they’re kind of amorphous.

One piece was a boom and bust in commercial real estate, partly connected with the savings-and-loan crisis and aftermath, which led to a sharp drop in nonresidential construction:

zz 577

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 1 BLS

Another piece was a drop in consumer confidence, brought on by oil price hikes and Gulf War jitters:

zz 578

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 2 University of Michigan

Yet another piece was the post-Cold War drawdown in defense spending:

zz 579

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 3 BEA

So, no one overarching narrative, but the combination was enough to cause a recession. It was a fairly brief, shallow recession compared with the big slumps of 79-82 and 2007-9:

zz 582

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 4 Federal Reserve

But recovery was sluggish and for a long time jobless, with unemployment continuing to rise long after the official end of the recession:

zz 580

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 5 BLS

So here’s my hypothesis: the next slump won’t be a big bang like 2008, it will be a smorgasbord recession like 1990-1, the cumulation of a bunch of medium-sized issues.

You might ask why multiple issues should strike at the same time. The answer, in two words, is Hyman Minsky: after a long period of stable growth, lenders and investors get complacent, and the private sector overreaches.

If that is what happens, we should expect another sluggish, jobless recovery like that after the 1990-1 and 2001 recessions, except probably worse. Why? Because monetary policy is much less effective in reversing recessions brought on by private overreach than it is in reversing slumps brought on by previous tight money.

And we’re likely to have a big problem with the zero lower bound. The Fed cut rates by around 5 percentage points in the face of the 1990 recession, and still got a jobless recovery:

zz 581

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 6 Federal Reserve

This time around the Fed doesn’t have 5 percentage points to cut — it only has 2. And no, that’s not a reason to raise rates faster, to make room for later cuts; it’s a reason to not raise rates until inflation is significantly higher, and hope that we’ve gotten to 3 or 4 percent before the smorgasbord attacks.

So those are my current thoughts on the next recession. When will it happen? (Looks at watch.) Actually, I have no idea. But it would be really strange if it doesn’t happen within a few years at most.

 

Una recessione per effetto di un vasto assortimento di cause,

di Paul Krugman

 

La crisi finanziaria del 2008 è passata da un decennio (ma guarda un po’); l’occupazione è venuta crescendo regolarmente dagli inizi del 2010. Dato che niente è eterno e i proclami secondo i quali il ciclo economico è superato sono sempre finiti in modo imbarazzante, molte persone stanno guardando alle fonti della prossima recessione.

Il punto è che non c’è niente in giro di così evidente come la bolla immobiliare della metà degli anni 2000, o persino come la bolla tecnologica degli ultimi anni ’90. Ecco dunque la mia riflessione: forse la prossima recessione non sarà provocata da un singolo grande shock, ma piuttosto dall’effetto congiunto di vari più piccoli shock. Ci sono probabilmente in giro varie bolle di media grandezza, dal debito dei fondi di investimento privati ai mercati emergenti. Le azioni sono valutate come se non ci fosse alcun rischio nonostante i presagi di guerra commerciale, in modo simile la fiducia dei consumatori sembra sottovalutare i pericoli. Ci sono probabilmente altre cose che sto dimenticando.

In ogni modo, il punto è che potremmo ritrovarci con una recessione formato ‘rinfresco’, una di quelle che riguardano una combinazione di cose piccoline anziché un singolo oggetto dominante. E c’è un modello per quel genere di riflessioni: la recessione dei primi anni ’90.

In maggioranza le recessioni moderne hanno avuto narrazioni chiare, almeno a fatti compiuti. Quella in due tempi del periodo 1979-1982 dipese dalla restrizione da parte della Fed per abbattere l’inflazione; nel 2001 dipese dalla bolla tecnologica; nel 2007-2009 dipese dalla bolla immobiliare e fu innescata della crisi finanziaria. Ma ho letto vari resoconti relativi al 1990-91, e risultano abbastanza informi.

Una parte dipese dalla espansione e dallo scoppio del mercato immobiliare del settore del commercio [1], una parte dalla crisi del sistema delle casse di risparmio e dalle sue conseguenze, che portò ad una brusca caduta delle costruzioni nel comparto non residenziale:

zz 577

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1 Ufficio delle Statistiche del Lavoro degli Stati Uniti

[2]

Un’altra parte fu la caduta della fiducia dei consumatori, provocata dai rialzi dei prezzi del petrolio e dalle agitazioni della Guerra del Golfo:

zz 578

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2 Università del Michigan

[3]

Un’altra parte ancora consistette nel declino successivo alla Guerra Fredda della spesa per la difesa:

zz 579

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 3 Ufficio di Analisi Economica degli Stati Uniti

[4]

Dunque, nessun racconto prevalse sugli altri, la loro combinazione fu sufficiente a provocare la recessione. Si trattò di un episodio abbastanza breve e superficiale a confronto con le grandi crisi del 1979-82 e del 2007-2009:

zz 582

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 4 Federal Reserve

[5]

Ma la ripresa fu fiacca e per un lungo periodo senza posti di lavoro, con la disoccupazione che continuò a salire dopo la fine ufficiale della recessione:

zz 580

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 5 Ufficio delle Statistiche del Lavoro degli Stati Uniti

[6]

Ecco dunque la mia ipotesi: la prossima recessione non sarà un gran colpo come nel 2008, sarà una recessione derivante da una varietà di cause come nel 1990-91, l’accumulo di un gruppo di questioni di media dimensione.

Potreste chiedervi perché tematiche molteplici dovrebbero colpire contemporaneamente. In due parole, la risposta è Hyman Minsky [7]: dopo un lungo periodo di crescita stabile, i creditori e gli investitori divengono compiacenti e il settore privato si spinge troppo oltre.

Se è questo quello che accade, dovevamo aspettarci un’altra ripresa fiacca e senza posti di lavoro come quella che venne dopo le recessioni del 1990-91 e del 2001, anche se probabilmente peggiore. Perché? Perché la politica monetaria è molto meno efficace nell’invertire le recessioni provocate dagli eccessi del settore privato, piuttosto che nell’invertire recessioni provocate da precedenti restrizioni monetarie.

Ed è probabile che avremo un grande problema con il limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse). La Fed tagliò i tassi di circa 5 punti percentuali a fronte della recessione del 1990, e anche allora avemmo una ripresa senza posti di lavoro:

zz 581

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 6 Federal Reserve

[8]

 

Questa volta la Fed non ha 5 punti percentuali da tagliare – ne ha solo 2. E quella non è affatto una ragione per alzare più velocemente i tassi, per far spazio a tagli successivi; è una ragione per non alzarli finché l’inflazione non è significativamente più alta, e speriamo di arrivare al 3 o 4 per cento prima di quella varietà di attacchi.

Queste sono dunque le mie riflessioni sulla prossima recessione. Quando accadrà? (occhiate all’orologio) In realtà, non ne ho idea. Ma sarebbe davvero strano se non accadesse al massimo entro pochi anni.

 

 

 

 

 

 

[1] Lo scoppio della bolla che aveva accompagnato il periodo della diffusione dei grandi centri commerciali.

[2] La tabella mostra l’andamento di tutti gli addetti all’edilizia nel settore abitativo.

[3] L’andamento dell’indice della fiducia dei consumatori negli anni ‘90

[4] L’andamento della occupazione a tempo pieno nel settore delle Forze Armate federali, dalla fine degli anni ’70 ad oggi.

[5] L’indice della produzione industriale dal 1980 ad oggi.

[6] Il tasso di disoccupazione nella prima metà degli anni ’90.

[7] Hyman Philip Minsky (Chicago23 settembre 1919 – 24 ottobre 1996) è stato  un economista statunitense, collocabile vicino al filone dei post-keynesiani, noto per la sua teoria dell’instabilità finanziaria e sulle cause delle crisi dei mercati. Nel suo libro principale (Keynes e l’instabilità del capitalismo, 2008) ha studiato i processi di finanziarizzazione dell’economia, della creazione di bolle speculative e delle successive crisi, come fenomeni caratteristici delle società capitalistiche, alla luce di una lettura keynesiana del funzionamento dei meccanismi economici. Probabilmente è la figura principale di economista keynesiano degli ultimi decenni, ampiamente sottovalutato, sino almeno alla crisi finanziaria del 2008. Un economista italiano che sottolineò la sua importanza fu Silvano Andriani, nel suo importante “L’ascesa della finanza”, del 2006. Krugman stesso ha varie volte scritto di questa sottovalutazione, in un certo senso per il passato ammettendola anche da parte sua. In occasione del Convegno di Berlino uno dei principali esponenti di questo neo-minskysmo, Steve Keen, polemizzò abbastanza aspramente con Krugman, provocando alcuni suoi interventi (“Minsky e la metodologia”, post del 27 marzo 2012; “Misticismo bancario”, post sempre del 27 marzo 2012; “Misticismo bancario. Continuazione”, post del 30 marzo 2012).

[8] Tasso di riferimento dei fondi federali, dal 1985 ad oggi.

 

 

 

 

 

 

La stretta creditizia e la grande Recessione (per esperti), (dal blog di Paul Krugman, 14 settembre 2018)

settembre 16, 2018

 

Sept. 14, 2018

The Credit Crunch and the Great Recession (Wonkish)

By Paul Krugman

zz 516

OK, this is weird. There’s an economic dispute underway about the causes of the Great Recession — but that’s not what’s weird. What’s so strange in these days and times is that it is being carried out among well-informed people who actually look at data and argue in good faith. Hey, guys, don’t you know that sort of thing went out a couple of decades ago?

Anyway, on one side you have Dean Baker, who has long argued that the burst housing bubble was the main factor in both the slump and the slow recovery, with financial disruption a minor and transitory factor — a view I mostly agree with. On the other side we have none other than Ben Bernanke, who argues in a new paper that credit market disruption was indeed the big story.

This isn’t quite a head-on debate, since Bernanke is mainly focused on the first year or so after Lehman, while both Baker and I are more focused on the multiyear depressed economy that lasted long after the financial disruption ended. (Bernanke’s measures show the same spike and fast recovery as other stress indexes.) But there’s still a clear difference.

Unfortunately, I won’t be at the Brookings panel where Bernanke’s paper is discussed. But maybe I can raise the big question I have about his conclusions.

What Bernanke does is, as I see it, a kind of reduced-form analysis, identifying factors in the credit markets and using time series to estimate their impact on output. What Baker does, and I largely follow, is more of an accounting-based structural analysis: look at the components of aggregate demand, and ask what their behavior seems to imply about causes. In principle, these approaches should be consistent.

My problem with Bernanke’s paper, on a first read, is that I don’t quite see how that consistency can work. Specifically, I have trouble seeing the “transmission mechanism” — the way in which the financial shock is supposed to have affected actual spending to the extent necessary to justify a finance-first account of the slump.

Let me focus specifically on investment, which is what you’d expect a credit crunch to depress — and which did indeed plunge in the Great Recession. First, there was the housing bust, which led to a huge decline in residential investment, directly subtracting around 4 points from GDP:

zz 571

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 1 Federal Reserve of St. Louis

So can we attribute this decline to credit conditions? If so, why did residential investment remain depressed five years after credit markets normalized?

Meanwhile, there was also a sharp decline in nonresidential, i.e., business investment:

zz 575

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 2 Federal Reserve of St. Louis

But this decline was only about the same size as the decline in the early 2000s slump — which, admittedly, was partly because of the collapse in telecom spending, but still. And it seems pretty easy to explain simply by the accelerator effect: business investment always plunges when the economy is shrinking, which it was doing mainly because of the housing bust.

So when I look at these two key drivers of the Great Recession and subsequent depressed period, I don’t see an obvious role for financial disruption. Bernanke’s VARs tell a different story; but I generally don’t trust VARs unless I can relate them to phenomena we see from other perspectives.

Could Bernanke be right while Baker and I are wrong? Of course. But I really, really want to see the transmission mechanism.

 

La stretta creditizia e la grande Recessione (per esperti),

di Paul Krugman

Questa è davvero strana. C’è una disputa in corso sulle cause della Grande Recessione – ma non è questo che è strano. Quello che è così strano di questi giorni e in questi tempi è che esso avviene tra persone ben informate che effettivamente guardano i dati e argomentano in buona fede. Ma, signori, non sapete che queste cose avvennero una ventina di anni fa?

In ogni modo, da una parte abbiamo Dean Baker, che per lungo tempo ha sostenuto che lo scoppio della bolla immobiliare fu la causa principale sia della recessione che della lenta ripresa, con un ruolo minore e transitorio della perturbazione finanziaria – un punto di vista con il quale in massima parte io concordo. Dall’altra parte abbiamo niente di meno che Ben Bernanke, che in un nuovo saggio sostiene che la perturbazione del mercato del credito fu in effetti la storia principale.

Non si tratta di uno scontro frontale, dal momento che Bernanke è principalmente concentrato sul primo anno o giù di lì dopo la Lehman, mentre sia Baker che il sottoscritto siamo concentrati sulla poliennale depressione dell’economia che durò a lungo anche dopo la fine della perturbazione finanziaria (i dati di Bernanke mostrano la stessa impennata e rapida ripresa di altri indici di sofferenza). Ma c’è una chiara diversità.

Sfortunatamente non sarò al convegno della Brookings dove sarà discusso il lavoro di Bernanke. Ma forse posso avanzare il grande dubbio che ho sulle sue conclusioni.

Quello che Bernanke fa, da quanto comprendo, è una sorta di analisi in forma ridotta, identificando fattori nei mercati del credito e utilizzando serie temporali per stimare il loro impatto sulla produzione. Quello che fa Baker, ed io in buona parte lo seguo, è più una analisi strutturale basata sulla contabilità: si guarda alle componenti della domanda aggregata e ci si chiede quali cause sembrano sottointese  dal loro andamento. In linea di principio questi approcci dovrebbero essere coerenti.

Il mio problema con il saggio di Bernanke è che non capisco a sufficienza come quella coerenza possa funzionare. In specifico, ho un problema nell’identificare il “meccanismo di trasmissione” – il modo in cui si suppone che lo shock finanziario abbia influenzato la spesa effettiva nella misura necessaria a giustificare una incidenza anzitutto della finanza sulla recessione.

Fatemi concentrare particolarmente sugli investimenti, che son ciò che vi aspettereste che una stretta creditizia deprima – e che, in effetti, durante la Grande Recessione crollarono. In primo luogo ci fu la bolla del settore immobiliare, che portò a un vasto declino negli investimenti sulle abitazioni, riducendo di circa 4 punti il PIL:

zz 573

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1 Federal Reserve di St. Louis

 [1]

Possiamo dunque attribuire questo declino alle condizioni del credito? Se fosse così, perché gli investimenti abitativi rimasero depressi cinque anni dopo che i mercati del credito tornarono normali?

Nel frattempo, ci fu anche un brusco declino nel settore non residenziale, ovvero negli investimenti delle imprese:

zz 575

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2 Federal Reserve di ST. Louis

 [2]

Ma questo declino fu soltanto di circa la stessa dimensione del declino della recessione dei primi anni 2000 – la quale in effetti avvenne in parte per il collasso nella spesa nel settore delle telecomunicazioni. Eppure sembra abbastanza facile spiegarlo semplicemente con l’effetto dell’acceleratore: gli investimenti delle imprese precipitano sempre quando l’economia si restringe, che è quello che stava facendo principalmente per lo scoppio della bolla immobiliare.

Dunque, quando osservo questi due fattori principali della Grande Recessione e il successivo periodo di depressione, non vedo alcun ruolo evidente per le turbative finanziarie. I modelli VAR [3] di Bernanke raccontano una storia diversa; ma in generale io non mi fido dei modelli VAR a meno che non possa connetterli con i fenomeni che si osservano da altre prospettive.

Potrebbe essere nel giusto Bernanke, e potremmo sbagliare Baker e il sottoscritto? Ovviamente. Ma davvero vorrei vedere il meccanismo della trasmissione.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] La tabella mostra l’andamento in termini di quote del PIL degli investimenti lordi del settore privato.

 [2] La tabella mostra nella linea blu – in termini di quote del PIL  – l’andamento degli investimenti nazionali privati nel settore non residenziale. La linea rossa si riferisce al PIL interno reale. Il rapporto in termini percentuali con il PIL  è espresso dai valori a sinistra sulla linea verticale, mentre le percentuali sulla destra indicano le variazioni del PIL reale.

[3] Vettore autoregressivo. I modelli VAR sono stati introdotti da Christopher Sims in uno storico articolo pubblicato su Econometrica nel 1980, che proponeva una critica dei modelli strutturali di equazioni simultanee, allora il principale strumento di analisi econometria nell’ambito della macroeconomia. (Wikipedia)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il lavoro scadente sulla Grande Recessione, (dal blog di Paul Krugman, 12 settembre 2018)

settembre 15, 2018

 

Sept. 12, 2018

Botching the Great Recession

By Paul Krugman

zz 516

It has been ten years since the failure of Lehman sent the global financial system into freefall. Why is this date different from any other date? No particular reason. But round-number anniversaries do have the virtue of giving people a reason to look back at experience, and maybe even learn from it.

So how does the crisis response look 10 years later? Well, it could have been worse. But it could and should have been much better.

And the question is, do we understand that? To which the answer is, what do you mean “we,” white man? Some of us understand the inadequacy of crisis response — but we pretty much always did. Meanwhile, those who stood in the way of doing what should have been done have, with notably rare exceptions, failed to face up to their errors and the consequences.

Let’s start with what went kind of right. Faced with an imminent financial meltdown, policymakers by and large did what needed to be done to limit the damage. Their actions included bank bailouts, which should have been fairer — too many bankers got bailed out along with their banks — but were effective. There were also many emergency provisions of credit, including little-known but crucial things like maintaining dollar credit lines to non-U.S. central banks.

The result was that the acute phase of the financial crisis — what I still think of as the “Oh God we’re all gonna die” phase — was relatively brief. It was scary and did immense damage — America lost 6 ½ million jobs in the year after Lehman fell. But as you can see in Figure 1, measures of financial stress fell off rapidly in 2009, and were more or less back to normal by the summer.

zz 570

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 1 Federal Reserve of St. Louis

Rapid financial recovery did not, however, produce rapid recovery for the economy as a whole. As the same figure shows, unemployment stayed high for many years; we didn’t return to anything that felt remotely like full employment (leaving aside the question of whether we’re there even now) until late in Obama’s second term.

Why didn’t financial stability bring a rapid bounceback? Because financial disruption wasn’t at the heart of the slump. The really big factor was the bursting of the housing bubble — of which the banking crisis was a symptom. As Figure 2 shows, the housing bust led directly to a dramatic drop in residential investment, enough in itself to produce a deep recession, and recovery was both slow and incomplete.

zz 571

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 2 Federal Reserve of St. Louis

The plunge in home prices also destroyed a lot of household wealth, depressing consumer spending in general.

So what should we have done to produce a faster recovery? Private spending was depressed; monetary policy was ineffective because we were at the zero lower bound on interest rates. So we needed fiscal expansion, some combination of spending and tax cuts.

And we did, of course, get the ARRA — the Obama stimulus. But it was too small and, even more important, faded out much too quickly; see Figure 3.

zz 572

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 3 Federal Reserve of St. Louis

You could say that nobody could have predicted such a sustained slump. You could say that — but you would be wrong. Many people, myself included, predicted a slow recovery, because this was a different kind of recession from those of the 70s and 80s — one brought on by private-sector overreach, not inflation.

Why, then, didn’t we get the fiscal policy we should have had? There were, I’d say, multiple villains in the story.

First, we can argue whether the Obama administration could have gotten more; that’s a debate we’ll never see resolved. What is clear, however, is that at least some key Obama figures were actively opposed to giving the economy the support it needed. “Stimulus is sugar,” snapped Tim Geithner at Christina Romer, when she argued for a bigger plan.

Second, Very Serious People pivoted very early from concern about the unemployed — hey, they probably lacked the necessary skills — to hysteria over deficits. By 2011, unemployment was still over 9 percent, but all the Beltway crowd wanted to talk about was the menace of the debt.

Finally, Republicans blocked attempts to rescue the economy and tried to strangle government spending every step of the way. They claimed that this was because they cared about fiscal responsibility — but it was obvious to anyone paying attention (which unfortunately didn’t include almost anyone in the news media) that this was an insincere, bad-faith argument. As we’ve now seen, they don’t care at all about deficits as long as a Republican is in the White House and the deficits are the counterpart of tax cuts for the rich.

The end result was that policy moved quickly and fairly effectively to rescue banks, then turned its back on mass unemployment. It’s a story that’s both sad and nasty. And there’s every reason to believe that if we have another crisis, it will happen all over again.

 

Il lavoro scadente sulla Grande Recessione,

di Paul Krugman

Sono passati dieci anni da quando il fallimento della Lehman spedì il sistema finanziario globale in caduta libera. Perché questa data è differente da ogni altra? Non c’è una ragione particolare. Ma gli anniversari in cifra tonda hanno la virtù di darci una ragione per guardare indietro alla esperienza, e forse persino per imparare da essa.

Come appare, dunque, la risposta alla crisi dieci anni dopo? Ebbene, poteva andare peggio. Ma poteva e avrebbe dovuto andare molto meglio.

Ma la domanda è se lo comprendiamo. Alla quale domanda, la risposta è: che intendi con “noi”, uomo bianco [1]? Alcuni di noi comprendono l’inadeguatezza della risposta alla crisi – ma l’abbiamo capito quasi sempre. Nel contempo, quelli tra noi che si misero di traverso a fare quello che si sarebbe dovuto fare non sono riusciti, con eccezioni notevolmente rare, a guardare in faccia ai loro errori e alle loro conseguenze.

Partiamo da quello che andò abbastanza giustamente. A fronte di un imminente tracollo finanziario, le autorità fecero grosso modo quello che era necessario fare per limitare il danno. Le loro iniziative inclusero i salvataggi delle banche, che avrebbero dovuto essere fatti in modo più giusto – troppi banchieri vennero salvati assieme alle loro banche – ma furono efficaci. Ci furono anche molte forniture di credito di emergenza – alcune cose poco note ma cruciali come il mantenimento di linee di credito in dollari a banche centrali non statunitensi.

Il risultato fu che la fase acuta della crisi finanziaria – la fase alla quale continuo a pensare con l’espressione “Oddio, si muore tutti” – fu relativamente breve. Fu tremenda e fece un danno immenso – l’America perse 6,5 milioni di posti di lavoro l’anno successivo della caduta della Lehman. Ma, come potete vedere nella Figura 1, le misure dello stress finanziario si ridussero rapidamente nel 2009, e con l’estate tornarono più o meno alla normalità.

zz 570

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1, dalla Federal Reserve di St. Louis

[2]

Tuttavia, la rapida ripresa finanziaria non produsse una rapida ripresa dell’economia nel suo complesso. Come mostra la stessa tabella, la disoccupazione rimase elevata per molti anni; non tornammo a niente che somigliasse neppure da lontano alla piena occupazione sino alla fase finale del secondo mandato di Obama (a parte il quesito se ci siamo ancora oggi).

Perché la stabilità finanziaria non comportò una rapida ripresa? Perché il dissesto finanziario non fu il cuore della recessione. Il fattore realmente grave fu l’esplosione della bolla patrimoniale – del quale la crisi bancaria fu un sintomo. Come mostra la Figura 2. Lo scoppio della bolla edilizia portò rapidamente ad una caduta spettacolare degli investimenti abitativi, sufficiente di per sé a produrre una profonda recessione, e la ripresa fu sia lenta che incompleta [3].

zz 571

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2. Federal Reserve di St. Louis

La caduta dei prezzi delle abitazioni distrusse anche una gran quantità di ricchezza delle famiglie, deprimendo in generale la spesa per i consumi.

Cosa avremmo dovuto fare, dunque, per produrre una ripresa più veloce? La spesa privata era depressa; la politica monetaria era inefficace perché eravamo al limite inferiore dello zero dei tassi di interesse. Avevamo dunque bisogno di una espansione della finanza pubblica, una qualche combinazione di spesa pubblica e di tagli alle tasse.

E in effetti avemmo, ovviamente, l’ARRA – la legge sullo stimolo di Obama. Ma essa fu troppo piccola e anche, persino più importante, svanì troppo rapidamente; si veda la Figura 3.

zz 572

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 3, Federal Reserve di St.Louis

Si può dire che nessuno aveva potuto prevedere una tale prolungata recessione. Lo si potrebbe dire, ma si sbaglierebbe. Molte persone, incluso il sottoscritto, previdero una ripresa lenta, giacché quella era una recessione di tipo diverso da quelle degli anni ’70 e ’80 – provocata non dall’inflazione, ma da un settore privato che si era spinto troppo oltre.

Perché, allora non avemmo una politica della finanza pubblica quale avremmo dovuto avere? Direi che nella storia ci furono una molteplicità di responsabili.

Anzitutto, possiamo ritenere che l’Amministrazione Obama avrebbe dovuto fare di più; si tratta di un dibattito che non si concluderà mai. Tuttavia, quello che è chiaro è che almeno qualche figura chiave della Amministrazione di Obama si oppose attivamente a dare all’economia il sostegno di cui aveva bisogno. “Lo stimolo è zucchero”, così reagì bruscamente Tim Geithner nei confronti di Christina Romer, quando ella si pronunciò per un programma più forte.

In secondo luogo, le Persone Molto Serie spostarono molto rapidamente la loro preoccupazione dai disoccupati – si ricorda la tesi per la quale essi probabilmente difettavano delle competenze necessarie? – all’isteria sui deficit. Nel 2011, la disoccupazione era ancora sopra il 9 per cento, ma tutta la gente della Capitale voleva parlare della minaccia del debito.

Infine, i repubblicani bloccarono i tentativi di mettere in salvo l’economia e cercarono di strangolare la spesa pubblica in ogni occasione. Sostenevano che questo dipendeva dal fatto che si preoccupavano della responsabilità per la finanza pubblica – ma era evidente ad ognuno che prestasse attenzione (la qual cosa sfortunatamente non includeva quasi nessun operatore dei media delle informazioni) che questo era un argomento insincero, in malafede. Come abbiamo constatato al giorno d’oggi, loro non si preoccupano affatto dei deficit per tutto il tempo in cui alla Casa Bianca c’è un repubblicano e i deficit sono il risultato dei tagli fiscali ai ricchi.

Il risultato finale fu che la politica si spostò rapidamente e abbastanza efficacemente al salvataggio delle banche, poi voltò le spalle alla disoccupazione di massa. Una storia che è sia triste che disgustosa. E ci sono tutte le ragioni per credere che se avremo un’altra crisi, accadrà di nuovo dappertutto.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Una espressione ironica che pare provenga dalla cultura dei pellerossa.

[2] La linea blu indica la stima dello stress finanziario – nell’indice della Banca della Fed – mentre quella rossa l’andamento del tasso di disoccupazione.

[3] La tabella mostra l’andamento degli investimenti interni lordi del settore residenziale privato, espresso in termini di percentuali del PIL, che in due anni si ridussero di circa due terzi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il debito non cresce a dismisura, (dal blog di Paul Krugman, 11 settembre 2018)

settembre 12, 2018

 

Sept. 11, 2018

On the Debt Non-Spiral

By Paul Krugman

zz 516

The debate between Joe Stiglitz and Larry Summers over secular stagnation is a somewhat embarrassing affair, which I hope will soon be forgotten. Joe, one of our greatest living economists, seems to have misunderstood what secular stagnation means – which is, to be fair, easy given how unintuitive the term is. And he accused Larry of inventing the doctrine to justify the Obama administration’s policy shortfalls.

Urk. Secular stagnation means that situations like 2008-16, in which monetary policy alone can’t restore full employment, should be seen as highly likely and maybe the norm. It doesn’t say that no policies can promote growth and employment. On the contrary, it’s a justification for more policy activism, especially on the fiscal front, not less – which is exactly what Larry has been saying.

And it’s hardly an excuse for Obama-era failures. I spent 2009-10 screaming that the stimulus was inadequate, precisely because I didn’t expect the slump to be rapidly self-correcting; I based this lack of faith partly on the tendency of financial crises to have long shadows, but I also simultaneously and independently arrived at the same secular stagnation conclusions as Larry did.

So can we just chalk this one up to communication problems, and let it go? And can we talk about more interesting implications of the economy’s apparent need for low real interest rates on average?

One implication, which I and others have pushed, is that the underlying case for a 2 percent inflation target is all wrong. That case rested in large part on the belief that at 2 percent inflation, zero-lower-bound episodes would be rare and transitory. That has clearly proved not to be the case, which makes the argument for a higher target so that real rates can go lower when bad things happen.

Another implication, which I don’t think has gotten enough attention, is that there is even less reason than before to obsess over government debt.

The usual scare story about debt warns about a debt spiral: deficits mean higher debt, which means higher interest payments, which means bigger deficits, which means faster growth in debt, and so on until confidence collapses. But this kind of debt spiral can only happen if the interest rate on the debt is higher than the economy’s growth rate.

And this hasn’t been true for a while. Here’s the average interest rate paid on federal debt:

zz 569

 

 

 

 

 

 

 

 

Federal Reserve Bank of St. Louis

These days that rate is well below 3 percent even when the economy is near full employment. Meanwhile, we think the U.S. economy has an underlying growth rate of maybe 2 percent, plus 2 percent inflation – which means 4 percent nominal growth.

What this means is that debt doesn’t spiral. On the contrary, it tends to fall as a share of GDP unless the government runs large primary deficits.

I’m not saying that we shouldn’t worry about debt at all, because there may be future contingencies when real interest rates rise and debt becomes an issue. But debt is way, way down on the list of things to worry about – absolutely trivial compared with, say, crumbling infrastructure, which should be fixed without worrying about paying as you go.

 

Il debito non cresce a dismisura,

di Paul Krugman

Il dibattito tra Joe Stiglitz e Larry Summers sulla stagnazione secolare è una faccenda in qualche modo imbarazzante, che io spero sarà presto dimenticata. Joe, uno dei nostri più importanti economisti viventi, sembra aver frainteso il significato della stagnazione secolare – la qual cosa è, ad esser giusti, facile considerato quanto sia una espressione non intuitiva. Ed ha accusato Larry di essersi inventato quella dottrina per giustificare gli insuccessi politici della Amministrazione Obama.

Per la miseria! La stagnazione secolare significa che situazioni come quelle del periodo 2008-2016, nelle quali la politica monetaria da sola non può ripristinare la piena occupazione, dovrebbe essere considerate come altamente probabili, se non come la norma. Questo non significa che nessuna politica possa promuovere crescita e occupazione. Al contrario, è una giustificazione per una maggiore e non minore iniziativa politica, soprattutto sul fronte della finanza pubblica – che è quanto Larry viene dicendo.

E non costituisce certo una scusante per gli insuccessi dell’epoca di Obama. Ho speso il 2009 e il 2010 strepitando che lo stimolo era inadeguato, precisamente perché non mi aspettavo che la recessione si correggesse rapidamente; basavo questa scarsa fiducia in parte sulla tendenza delle crisi finanziarie a lasciare lunghe ombre, ma contemporaneamente e per mio conto arrivavo alle stesse conclusioni di Larry.

Possiamo dunque ascrivere tutto questo ai problemi della comunicazione, e lasciar perdere? E possiamo parlare delle più interessanti implicazioni per l’apparente bisogno dell’economia di tassi di interesse reali in media bassi?

Una implicazione, che assieme ad altri ho avanzato, è che l’implicito argomento per un obbiettivo di inflazione al 2 per cento è completamente sbagliato. Quella tesi si basava in larga parte sul convincimento che con una inflazione al 2 per cento, gli episodi di tassi di interesse al livello inferiore dello zero sarebbero stati rari e transitori. Ma quello si è ampiamente dimostrato non essere il caso, il che rafforza l’argomento per un obbiettivo più elevato, in modo che i tassi reali possano scendere quando si delineano situazioni negative.

Un’altra implicazione, che penso non sia stata compresa a sufficienza, è che ci sono anche meno ragioni per essere ossessionati dal debito pubblico.

Il consueto racconto terribile sul debito mette in guardia dalla sua tendenza a crescere vertiginosamente: i deficit comportano un debito più alto, il che significa più elevati pagamenti sugli interessi, il che comporta deficit più grandi, il che significa una crescita più rapida del debito, e così di seguito sinché non c’è un collasso della fiducia. Ma questo genere di crescita vertiginosa del debito può accadere se il tasso di interesse sul debito è più elevato del tasso di crescita dell’economia.

E questo non è vero da un po’ di tempo. Ecco il tasso di medio di interesse pagato sul debito federale.

 

zz 569

 

 

 

 

 

 

 

 

  Federal Reserve, Banca di St. Louis

 

In questi giorni quel tasso è molto inferiore al 3 per cento, pur essendo l’economia vicina alla piena occupazione. Nello stesso tempo, pensiamo che l’economia statunitense abbia un sottostante tasso di crescita di circa il 2 per cento, più un 2 per cento di inflazione – il che significa un 4 per cento di crescita nominale.

Quello che questo comporta è che il debito non cresce a dismisura. Al contrario, esso scende come percentuale del PIL, a meno che il Governo non gestisca ampi deficit primari.

Non sto sostenendo che non dovremmo preoccuparci affatto del debito, giacché ci possono essere contingenze future allorché i tassi di interesse crescono e il debito diventa un problema. Ma il debito è del tutto in fondo alla lista delle cose di cui preoccuparci – del tutto irrilevante al confronto, ad esempio, con le infrastrutture fatiscenti, che dovrebbero essere rinnovate senza preoccuparsi, nel mentre lo si fa, di come pagarle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

« Pagina precedentePagina successiva »

Archivio