Nov. 12. 2018
By Paul Krugman
I think I can now take some time off from the U.S. political crisis to talk about events elsewhere. So, as the headline says, what the hell happened to Brazil?
I’m actually not talking about the recent election, in which Brazil’s voters chose someone who appears to be an actual fascist. I’m as horrified as anyone else. However, I have no knowledge whatsoever of Brazilian politics. On the other hand, the backdrop to that election was Brazil’s extraordinary economic crisis of 2015-16: A nation that had been on an upward trajectory, that seemed to have shaken off the legacy of instability, suffered a terrible recession and is experiencing a very slow recovery. And macroeconomics is a subject I’m supposed to know something about.
So what happened? There has been surprisingly little international discussion of the Brazilian experience, even though it was very severe and Brazil is a pretty big economy (G.D.P. at purchasing power parity about 10 times as large as Greece.) Maybe we’re all too distracted by the political crisis in the West — Trump, Brexit, etc. Anyway, I’ve been trying to put together a story of the Brazilian crisis, well aware that I may well be missing important aspects.
Here’s what it looks like to me: Brazil appears to have been hit by a perfect storm of bad luck and bad policy, with three main aspects. First, the global environment deteriorated sharply, with plunging prices for the commodity exports still crucial to the Brazilian economy. Second, domestic private spending also plunged, maybe because of an excessive buildup of debt. Third, policy, instead of fighting the slump, exacerbated it, with fiscal austerity and monetary tightening even as the economy was headed down.
Maybe the first thing to say about Brazil’s crisis is what it wasn’t. Over the past few decades those who follow international macroeconomics have grown more or less accustomed to “sudden stop” crises in which investors abruptly turn on a country they’ve loved not wisely but too well. That was the story of the Mexican crisis of 1994-5, the Asian crises of 1997-9, and, in important ways, the crisis of southern Europe after 2009. It’s also what we seem to be seeing in Turkey and Argentina now.
We know how this story goes: the afflicted country sees its currency depreciate (or, in the case of the euro countries, its interest rates soar). Ordinarily currency depreciation boosts an economy, by making its products more competitive on world markets. But sudden-stop countries have large debts in foreign currency, so the currency depreciation savages balance sheets, causing a severe drop in domestic demand. And policymakers have few good options: raising interest rates to prop up the currency would just hit demand from another direction.
But while you might have assumed that Brazil was a similar case — its 9 percent decline in real G.D.P. per capita is comparable to that of sudden-stop crises of the past — it turns out that it isn’t. Brazil does not, it turns out, have a lot of debt in foreign currency, and currency effects on balance sheets don’t seem to be an important part of the story. What happened instead?
First of all, the global economic environment took a big turn for the worse. Brazil has diversified somewhat into manufactures, but it’s still heavily dependent on commodity exports, whose prices have plunged. As Figure 1 shows, Brazil’s terms of trade — the ratio of export to import prices — took a major hit.
Figure 1 World Bank
This would have been nasty in any case. But it went along with a sharp fall in domestic consumer spending (Figure 2). Atif Mian and co-authors tell us that this was linked to a rise in household debt over the previous few years — that, Brazil experienced something more like the advanced-country debt deflation of 2008 than a traditional emerging-market crisis.
Figure 2 FRED
What really did Brazil’s economy in, however, was the way it responded to these shocks: with fiscal and monetary policy that made things much worse.
On the fiscal side: Brazil has big long-term solvency problems. But these require long-term solutions. What happened instead was that the Roussef government decided to impose sharp spending cuts in the middle of a slump. What were they thinking? Incredibly, it seems that they bought into the doctrine of expansionary austerity.
And on top of that, monetary policy also turned sharply contractionary, with a big rise in interest rates (Figure 3). What was that about?
Figure 3 FRED
As best I can figure out, what happened was that the real depreciated mainly because of that terms of trade shock, sending inflation temporarily higher (Figure 4). And the central bank panicked, fixating on the inflation issue at the expense of the real economy. Now that the currency-induced spike is over, inflation is actually low by historical standards, but the damage was done.
Figure 4 FRED
It’s a remarkable and depressing story. And this combination of bad luck and bad policy surely played a role in the political disaster that followed.
Che diavolo è successo al Brasile?
Di Paul Krugman
Penso che adesso possiamo prenderci un po’ di tempo fuori dalla crisi politica degli Stati Uniti per parlare di qualche fatto altrove. Dunque, come è scritto nel titolo, che diavole è successo al Brasile?
In realtà non sto parlando delle recenti elezioni, nelle quali gli elettori hanno scelto qualcuno che sembra essere proprio un fascista. Ne sono turbato come chiunque altro. Tuttavia, non ho alcuna conoscenza della politica brasiliana. D’altra parte, il retroterra di quelle elezioni è stata la straordinaria crisi economica del Brasile del 2015-16; una nazione che è stata su una traiettoria di progresso, che sembrava essersi scrollata di dosso l’eredità della instabilità, ha patito una tremenda recessione e sta facendo i conti con una ripresa molto lenta. E la macroeconomia è un tema sul quale suppongo di sapere qualcosa.
Dunque, cosa è accaduto? Sorprendentemente c’è stato poco dibattito internazionale sulla esperienza brasiliana, anche se essa è stata molto grave e il Brasile è un’economia piuttosto grande (il PIL a parità del potere di acquisto è circa dieci volte quello della Grecia). Forse siamo troppo distratti dalla crisi politica in Occidente – Trump, la Brexit etc. In ogni modo ho cercato di mettere assieme un racconto della crisi brasiliana, ben consapevole che potrei benissimo essermi perso aspetti importanti.
Ecco secondo me a cosa essa assomiglia: il Brasile sembra essere stato colpito da una tempesta perfetta di sfortuna e di cattiva politica, con tre aspetti principali. Il primo: il contesto globale si è deteriorato bruscamente, con una caduta dei prezzi all’esportazione delle materie prime, ancora cruciali per l’economia brasiliana. Il secondo: anche la spesa privata è crollata, forse a causa di un eccessivo accumularsi del debito. Il terzo: la politica, anziché combattere la recessione, l’ha esacerbata, con l’austerità delle finanze pubbliche e la restrizione monetaria, anche quando l’economia stava cadendo in basso.
Forse la prima cosa da dire sulla crisi del Brasile è quello che non è stata. Nei pochi decenni passati, coloro che seguono la macroeconomia internazionale si erano più o meno abituati alle crisi da “blocchi improvvisi”, nelle quali gli investitori all’improvviso cambiano direzione rispetto ad un paese che avevano molto amato, seppure non saggiamente. Questa fu la storia della crisi messicana nel 1994-5, delle crisi asiatiche del 1997-9 e, in modi importanti, la crisi dell’Europa meridionale dopo il 2009. È anche quello che sembra di vedere adesso in Turchia e Argentina.
Sappiamo come procedono queste storie: il paese colpito vede la propria valuta deprezzarsi (oppure, nel caso dei paesi euro, i propri tassi di interesse schizzare in alto). Ordinariamente il deprezzamento di una valuta incoraggia un’economia, rendendo i suoi prodotti più competitivi sui mercati mondiali. Ma i paesi con blocchi improvvisi hanno ampi debiti in valute straniere, dunque la svalutazione della moneta attacca gli equilibri patrimoniali, provocando una grave caduta nella domanda interna. E le autorità hanno poche buone possibilità: elevare i tassi di interesse per sostenere la valuta darebbe soltanto un colpo alla domanda da un’altra direzione.
Ma se potreste aver pensato che il Brasile fosse un caso simile – la sua caduta del 9 per cento nel PIL reale procapite è confrontabile con quelle delle crisi da blocchi improvvisi dl passato – si scopre che non si è trattato di questo. Si scopre che il Brasile non ha una gran quantità di debito in valute straniere, e gli effetti valutari sugli equilibri patrimoniali non sembrano essere un aspetto rilevante della storia. Cosa è successo, invece?
Prima di tutto, il contesto economico globale ha avuto una grande svolta, in negativo. Il Brasile ha diversificato qualcosa nelle sue manifatture, ma è ancora pesantemente dipendente dalle esportazioni di materie prime, i prezzi delle quali sono crollati. Come mostra la Figura 1, le ragioni di scambio del Brasile – il rapporto tra i prezzi delle esportazioni e quelli delle importazioni – hanno subito un colpo importante.
Figura 1 Banca Mondiale
Questo sarebbe stato grave in ogni caso. Ma è intervenuto assieme ad una brusca caduta nella spesa per i consumi interni (Figura 2). Atif Mian e altri coautori ci raccontano che essa era collegata ad una crescita nel debito delle famiglie nel corso degli anni precedenti – ovvero, che il Brasile ha conosciuto qualcosa di più simile alla deflazione da debito di un paese avanzato che una crisi tradizionale di un mercato emergente.
Figura 2. Dati economici della Federal Reserve.
Quello che è stato realmente determinante per l’economia del Brasile, tuttavia, è stato il modo in cui esso ha risposto a questi shock: con una politica della finanza pubblica e monetaria che ha reso le cose molto peggiori.
Sul lato della finanza pubblica: il Brasile ha grandi problemi di solvibilità nel lungo termine. Ma questi richiedono soluzioni di lungo termine. Quello che invece è accaduto è stato che il Governo Roussef ha deciso di imporre bruschi tagli alla spesa nel mezzo di una recessione. Che cosa stavano pensando? Incredibilmente, sembra che avessero aderito alla dottrina dell’austerità espansiva [1].
E, soprattutto, anche la politica monetaria ha conosciuto una brusca svolta restrittiva, con una forte crescita dei tassi di interesse (Figura 3). Da cosa è dipesa?
Figura 3. Dati economici della Federal Reserve.
Per quanto posso immaginare, quello che è accaduto è stato che il real si è svalutato per lo shock nelle ragioni di scambio, spedendo provvisoriamente più in alto l’inflazione. E la Banca Centrale è stata presa dal panico, fissandosi sul tema dell’inflazione a danno dell’economia reale. Ora che il picco è superato, l’inflazione è effettivamente bassa per le sue serie storiche, ma il danno era stato fatto.
Figura 4. Dati economici della Federal Reserve.
Si tratta di una storia rilevante e deprimente. E questa combinazione di sfortuna e di cattiva politica certamente ha giocato un ruolo nel disastro politico che è seguito.
[1] Il giudizio è desunto da un articolo apparso su The Conversation del 27 gennaio 2017, che riferisce di tagli draconiani alla spesa particolarmente nella sanità e nel sistema previdenziale, che hanno particolarmente colpito la popolazione più povera.
novembre 6, 2018
By Paul Krugman
As many people have pointed out, the Trump tax represented a total break with the normal principles of fiscal policy. Historically, we’ve tended to run big deficits when the economy is weak, smaller deficits or surpluses when it’s strong. But now the deficit is soaring even in the face of low unemployment. This is
irresponsible, and shows that Republican handwringing over deficits was always phony – which some of us pointed out at the time.
But something that has been pointed out less is that this is actually part of a broader story: fiscal policy has been off the rails since 2010, not because of what it has done to the national debt, but because of what it has done to the macroeconomy.
Here’s what fiscal policy should do: it should support demand when the economy is weak, and it should pull that support back when the economy is strong. As John Maynard Keynes said, “The boom, not the slump, is the right time for austerity.” And up until 2010 the U.S. more or less followed that prescription. Since then, however, fiscal policy has become perverse: first austerity despite high unemployment, now expansion despite low unemployment.
I illustrate this point with a chart using the Fiscal Impact Measure calculated by the Hutchins Center at the Brookings Institution, which estimates how much fiscal policy at all levels of government adds to or subtracts from short-term economic growth. The chart plots the Hutchins measure against the unemployment rate since 2000; I break it up into two sub-periods, 2000 to the end of 2009 and 2010 to the present.
All wrong after 2010. Brookings, BLS
What you can see in the chart is that during the first period (the blue line) high unemployment was met with fiscal expansion. This happened during the 2001 recession and aftermath, and again when the Great Recession struck. From this point of view the Obama stimulus was normal policy, applied in an exceptional situation.
But then fiscal policy went off track, which you can see by the big red clockwise loop. The wrong turn actually, by this measure, began even before Republicans took the House of Representatives – mainly, I think, reflecting cutbacks at the state and local level. But it got much worse after the G.O.P. gained blockade power, forcing significant austerity even as unemployment remained extremely high.
Meanwhile, the Fed couldn’t cut interest rates any further, because they were already zero, and count me in the camp that’s skeptical about the effectiveness of quantitative easing (which Republicans also fiercely opposed.) So this turn to fiscal austerity surely slowed growth and delayed the economy’s recovery.
And now, with unemployment very low but a Republican in the White House, we’re getting the fiscal stimulus we desperately needed then – and don’t need now. Fiscal policy, like so much of governance in America, has been perverted by right-wing partisanship.
La perversione della politica della finanza pubblica (leggermente per esperti),
di Paul Krugman
Come molti hanno messo in evidenza, il taglio delle tasse di Trump ha rappresentato una rottura totale con i normali principi della politica della finanza pubblica. Storicamente, abbiamo teso a gestire grandi deficit quando l’economia era debole, deficit minori o surplus quando era forte. Ma adesso il deficit sta salendo alle stelle anche di fronte ad una bassa disoccupazione. Questo è irresponsabile, e mostra che lo strapparsi i capelli dei repubblicani sui deficit era sempre stato falso – la qual cosa alcuni di noi avevano messo in evidenza a quel tempo.
Ma qualcosa che è stato molto meno osservato è che questo è in effetti un aspetto di una storia più generale: la politica della finanza pubblica è stata fuori dai binari sin dal 2010, non per quello che ha fatto al debito nazionale, ma per i danni che ha fatto alla macroeconomia.
Ecco cosa dovrebbe essere la politica della finanza pubblica: essa dovrebbe sostenere la domanda quando l’economia è debole e dovrebbe ritirare quel sostegno quando l’economia è forte. Come disse John Maynard Keynes: “L’espansione, non la recessione, è il tempo giusto per l’austerità”. E fino al 2010 gli Stati Uniti hanno più o meno seguito quella prescrizione. Da allora, tuttavia, la politica della finanza pubblica è diventata perversa: dapprima l’austerità nonostante l’elevata disoccupazione, ora l’ampliamento della spesa nonostante la bassa disoccupazione.
Illustro questo punto con un diagramma che utilizza la Misura dell’Impatto della Finanza Pubblica calcolato dallo Hutchins Center presso l’Istituto Brookings, che stima quanto la politica della finanza pubblica a tutti i livelli del Governo aggiunge o sottrae dalla crescita economica a breve termine. Il diagramma traccia la Misura Hutchins a fronte del tasso di disoccupazione a partire dal 2000; io lo suddivido in due sotto periodi, dal 2000 alla fine del 2009 e dal 2009 ad oggi.
Dal 2010, tutto sbagliato. Brookings, Ufficio delle Statistiche del Lavoro.
Quello che si può vedere nel diagramma è che durante il primo periodo (la linea blu) l’elevata disoccupazione è stata affrontata con l’espansione della finanza pubblica. Questo accadde durante la recessione del 2001 e in seguito ad essa, ed ancora quando arrivò il colpo della Grande Recessione [1]. Da questo punto di vista lo stimolo di Obama fu una politica normale, applicata ad una situazione eccezionale.
Ma poi la politica della finanza pubblica uscì dai binari, la qual cosa la si può vedere dalla grande ansa arancione. Secondo questa misura, in realtà, l’andamento sbagliato cominciò anche prima che i repubblicani conquistassero la Camera dei Rappresentanti – principalmente, credo, in conseguenza dei tagli ai livelli degli Stati e delle comunità locali. Ma andò molto peggio dopo che il Partito Repubblicano ottenne un potere ostruzionistico, costringendo ad una rilevante austerità anche se la disoccupazione restava molto alta.
Nel frattempo, la Fed non poteva tagliare ulteriormente i tassi di interesse, giacché erano già a zero, e consideratemi pure tra coloro che sono stati scettici sulla efficacia della ‘facilitazione quantitativa’ (cui anche i repubblicani si opposero ferocemente). Dunque quella svolta verso l’austerità della finanza pubblica certamente rallentò la crescita e rimandò la ripresa dell’economia.
E adesso, con la disoccupazione molto bassa e i repubblicani alla Casa Bianca, stiamo ricevendo quello stimolo di finanza pubblica di cui avevamo disperato bisogno allora – e di cui adesso non abbiamo bisogno. La politica fiscale, come gran parte dei temi di governo in America, è stata pervertita dalla faziosità della destra.
[1] Per una (spero) migliore comprensione: sulla linea orizzontale sono fissati i tassi di disoccupazione, su quella verticale gli stimoli della finanza pubblica (sopra il valore 0, sotto sono sottrazioni, ovvero misure di austerità); la linea blu indica gli andamenti dal 2000 al 2009, quella arancione quelli dal 2009 al 2018. Dove le due linee si distinguono, dovremmo essere all’anno 2010. Ogni pallino sulle due linee corrisponde ad un periodo di tempo – forse trimestrale – di un determinato anno. Quando la linea procede in alto, significa che la spesa pubblica aumenta, in basso che diminuisce. Vero destra aumenta la disoccupazione, verso sinistra diminuisce.
Ma attenzione: la sequenza temporale non procede ovviamente in una particolare direzione. Il decennio 2009-2018 parte dalla destra in alto del diagramma – elevata disoccupazione e, agli inizi, forte spesa per la prima fase dello stimolo impegnata dai salvataggi delle banche – poi crolla in basso per l’austerità (prima ai livelli degli Stati e delle comunità locali e, in seguito, per l’ostruzionismo repubblicano), e dopo lunga sofferenza arriva a livelli di disoccupazione molto bassi, con i tassi attuali attorno al 3,5%.
novembre 2, 2018
oct. 31, 2018
By Paul Krugman
What’s driving American politics off a cliff? Racial hatred and the cynicism of politicians willing to exploit it play a central role. But there are other factors. And an opinion piece by Hertel-Fernandez, Mildenberger, and Stokes in today’s Times (which is actually social science, not opinion!) seems to confirm something I already suspected: misunderstanding of what voters want is distorting both political positioning and public policy.
What the authors of the piece show is that congressional aides grossly misperceive the views of their bosses’ constituents; this is true in both parties, but more so of Republicans. What they don’t point out explicitly is that with the exception of A.C.A. repeal, Democrats err in the same direction as Republicans, just less so. Specifically, both parties believe that the public is to the right of where it really is.
An aside on A.C.A. repeal: I wonder what’s really going on here. Lots of polling suggests that voters overwhelmingly want protection for pre-existing conditions and subsidies to help lower-income Americans afford insurance — that is, they want the substance of the A.C.A., even if they say they disapprove of the law. So I’d take this result with a grain of salt: Democrats may not be as wrong here as it appears.
Anyway, what I’d really like to see are comparable surveys of other groups — say, political analysts for major media organizations. Why? Because I suspect we’d see a similar result: people who opine on politics also imagine that voters are farther to the right than they really are. What I’m suggesting, in other words, is that there’s a shared inside-the-Beltway delusion: that America is a conservative, or at most center-right nation, a view that isn’t grounded in reality.
It’s true that Republicans, who are increasingly a far-right party, have been more than competitive politically, controlling the White House, the House of Representatives, or both for all but four of the past 24 years. But this owes a lot to a tilted playing field — they only won the popular vote for president once over that stretch, and can hold the House even when Democrats get a lot more votes.
And it also reflects a political strategy in which Republicans run on anything but their policies. Trump’s frantic attempt to make next week’s election about scary brown people rather than health care or tax cuts is cruder and uglier than anything we’ve seen for a long time, but it’s not fundamentally out of character. Bush the elder ran against Willie Horton. Bush the younger ran on national security. Their actual policies, not so much.
In fact, we got an object lesson in the dissonance between G.O.P. electioneering and public preferences in 2004-5. Bush made it a national security election, with a tinge of culture war; as I used to joke, he ran as the enemy of gay married terrorists. Then, with victory under his belt, he proclaimed that he had a mandate to privatize Social Security. He didn’t.
But many pundits thought he did. For several months after the 2004 election it was conventional wisdom in the commentariat that of course Bush would get his way on Social Security, and that people like Nancy Pelosi who were trying to stop his push were on the wrong side of history. The overwhelming backlash from voters, who really, really like Social Security (and Medicare, and Medicaid) completely surprised many self-proclaimed political experts.
So what are the effects of this delusion of America as a center-right nation? It has clearly inhibited Democrats from taking bold policy positions, out of fear that they’ll be too far left for voters — a fear fed by journalists who keep insisting that the public wants centrists who are somewhere between the parties. Remember the Bloomberg for president bandwagon, which consisted of a number of prominent pundits and maybe three non-journalist voters.
But Republicans are even further out of touch. Hertel-Fernandez et al note correctly that the Trump tax cut has proved consistently unpopular; they don’t point out that at first Republicans were sure that it would be a big political winner: “If we can’t sell this to the American people, we ought to go into another line of work,” declared Mitch McConnell. But they couldn’t sell it, and the tax cut has virtually disappeared from G.O.P. messaging.
And Republicans appear to have been completely blindsided by the public backlash against their attempts to remove protection for pre-existing conditions, which is amazing if you think about it. How could they not realize that this is a sore spot?
Which brings me to something David Roberts wrote yesterday, which complements something I’ve been thinking for a while. He notes, in regard to the frame-Mueller debacle, that we’re dealing with the “second generation of Fox News conservatives,” who grew up entirely inside the right-wing bubble and don’t understand how people outside that bubble talk, think, and behave.
I’d say that this goes even more for professional G.O.P. politicos, who are all apparatchiks. That is, they grew up inside the apparatus of movement conservatism, and really imagine that everyone except a few leftist losers shares their ideology. They don’t even realize that their party’s success has been based on racial antagonism, that most people want to raise taxes on the rich and maintain social benefits.
And this, by the way, is where Trump has an advantage. He didn’t grow up in the conservative hothouse; his very crudity means that he understands that his electoral chances depend not on repeating conservative pieties but on maximum ugliness.
La grande illusione di centro-destra,
di Paul Krugman
Cosa sta spingendo la politica americana giù da un precipizio? L’odio razziale e il cinismo dei politici che lo vogliono sfruttare giocano un ruolo centrale. Ma ci sono altri fattori. E un articolo sulla pagina delle opinioni del Times di oggi di Hertel-Fernandez-Mildenberger e Stokes (in realtà è una scienza sociale, non un’opinione!) sembra confermare qualcosa che già sospettavo: l’incomprensione di quello che vogliono gli elettori sta distorcendo sia le collocazioni politiche che i programmi della politica trasmessi all’opinione pubblica.
Quello che gli autori dell’articolo mostrano è che i collaboratori del Congresso fraintendono grossolanamente i punti di vista delle basi elettorali dei loro capi; questo è vero in entrambi i partiti, ma maggiormente nel caso dei repubblicani. Quello che essi non mettono in luce esplicitamente è che, con l’eccezione della abrogazione della riforma sanitaria di Obama, i democratici sbagliano nella stessa direzione dei repubblicani, solo un po’ meno. In particolare, entrambi i partiti credono che la gente sia più a destra rispetto a dove è effettivamente collocata.
Un inciso sulla Legge sulla Assistenza Sostenibile: mi chiedo cosa stia effettivamente accadendo in quel caso. Una grande quantità di sondaggi indica che in modo schiacciante gli elettori vogliono la protezione per le preesistenti patologie e i sussidi per aiutare gli americani con redditi più bassi a permettersi l’assicurazione sanitaria – ovvero che vogliono la sostanza della legge di riforma, anche se dicono di disapprovare la legge. Dunque, considererei questo caso cum grano salis: può darsi che in quel caso i Democratici non sbaglino così tanto come appare.
In ogni modo, quello che mi piacerebbe davvero vedere sono analoghi sondaggi su altri gruppi – ad esempio, gli analisti politici per le principali organizzazioni dei media. Perché? Perché ho il sospetto che ci troveremmo di fronte a risultati simili: anche le persone che esprimono opinioni sulla politica si immaginano che la gente sia più a destra di quanto è realmente. Quello che, in altre parole, sto suggerendo è che c’è una illusione diffusa a Washington: che l’America sia una nazione conservatrice, o al massimo di centro-destra, è un punto di vista che non è fondato sulla realtà.
È vero che i repubblicani, che sono sempre più un partito di estrema destra, sono stati sul piano politico più che competitivi, controllando la Casa Bianca o la Camera dei Rappresentanti, oppure entrambe, per non meno di quattro volte nei 24 anni passati. Ma questo dipende in gran parte da regole di gioco truccate – si sono aggiudicati lungo quel periodo il voto popolare per il Presidente una volta, e possono mantenere la Camera anche quando i democratici ottengono molti voti in più.
E riflette anche una strategia politica sulla base della quale i repubblicani rielaborano ogni cosa, tranne le loro politiche. Il tentativo frenetico di Trump di spostare le elezioni della prossima settimana sul tema della spaventosa gente di colore, anziché sulla assistenza sanitaria e sui tagli alle tasse, è più rozza e più minacciosa di quello a cui assistiamo da tanto tempo, ma fondamentalmente non è di altra natura. Bush padre cavalcò il tema di Willie Horton. Bush figlio quello della sicurezza nazionale. Le loro effettive politiche, non altrettanto.
Di fatto, ne avemmo una dimostrazione pratica nella divaricazione tra le posizioni elettorali del Partito Repubblicano e le preferenze dell’opinione pubblica nel 2004-5. Bush le fece diventare elezioni sulla sicurezza nazionale, con una sfumatura di guerra culturale; come dissi più volte scherzando, adoprò i terroristi come nemici del matrimonio gay. Poi, quando ebbe la vittoria in tasca, proclamò che aveva avuto il mandato a privatizzare la Previdenza Sociale. Il che non era vero.
Ma molti commentatori pensavano che lo fosse. Per vari mesi dopo le elezioni era opinione diffusa tra molti commentatori che ovviamente Bush avrebbe realizzato la sua idea di Previdenza Sociale e che persone come Nancy Pelosi, che cercavano di opporsi alla sua spinta, erano sul versante sbagliato della storia. L’impressionante contraccolpo tra gli elettori, ai quali la Previdenza Sociale (e Medicare, e Medicaid) piaceva davvero tanto, sorpresero completamente molti sedicenti esperti di politica.
Quali sono, dunque, gli effetti di questo abbaglio di un’America come una nazione di centro-destra? Chiaramente esso ha inibito i democratici dal prendere posizioni programmatiche coraggiose, nel timore che si sarebbero spostati troppo a sinistra per gli elettori – un timore alimentato dai giornalisti che continuano a insistere che l’opinione pubblica vuole centristi che in qualche modo stiano tra i due partiti. Vi ricordate la moda di Bloomberg alla Presidenza, che consisteva in un certo numero di eminenti commentatori e forse di tre elettori non-giornalisti?
Ma i repubblicani hanno perso i contatti anche maggiormente. Hertel-Fernandez e gli altri osservano correttamente che i tagli alle tasse di Trump si sono dimostrati sistematicamente impopolari; non hanno messo in evidenza che agli inizi i repubblicani erano certi che sarebbero stati una grande carta vincente politica: “Se non possiamo persuadere con questo il popolo americano, dovremmo passare ad un altro mestiere”, dichiarò Mitch McConnell. Ma non sono riusciti ad essere convincenti e il taglio delle tasse è sostanzialmente scomparso dalla propaganda del Partito Repubblicano.
E sembra che i repubblicani siano stati completamente presi alla sprovvista dalla reazione pubblica ostile ai loro tentativi di rimuovere la protezione per le patologie sanitarie preesistenti [1] il che se ci si pensa è stupefacente. Come hanno potuto non capire che questo è un punto dolente?
Il che mi porta a qualcosa che David Roberts ha scritto ieri, che integra qualcosa a cui stavo pensando da un po’. Egli osserva, a proposito della debacle dello schema-Mueller, [2] che stiamo discutendo della “seconda generazione dei conservatori di Fox News”, cresciuta per intero dentro la bolla della destra e che non capisce come la gente fuori da quella bolla parla, pensa e si comporta.
Direi che le cose vanno così anche maggiormente per i politici di professione del Partito Repubblicano, che sono tutte persone di apparato. Ovvero, sono cresciuti dentro l’apparato del conservatorismo movimentista e si immaginano per davvero che tutti, eccetto pochi perdenti della sinistra, condividano la loro ideologia. Neanche comprendono che il successo del loro partito si sia basato su un antagonismo razziale, che la maggioranza delle persone vogliano alzare le tasse sui ricchi e mantenere i sussidi sociali.
E questo, per inciso, è dove Trump ha un vantaggio. Lui non è cresciuto nella serra conservatrice: la sua effettiva rozzezza significa che egli capisce che le sue possibilità elettorali non dipendono dal ripetere gli atti di fede dei conservatori, ma da una cattiveria spinta al massimo.
[1] Forse è il caso di spiegare perché queste patologie vengono definite “preesistenti”. Il punto è che può capitare di frequente di cambiare assicurazione. La precedente assicurazione non penalizzava particolari patologie sanitarie – sia che fosse a carico del paziente sia che fosse pagata dal datore di lavoro – ma in tutti quei casi nei quali si cambia lavoro, o si perde la condizione contrattuale che metteva l’assistenza a carico del datore di lavoro, occorre una nuova assicurazione. Sennonché il nuovo assicuratore, prima della riforma di Obama, era libero di imporre costi assai più elevati a tutti coloro che avevano bisogno di assicurazione per serie patologie che esistevano in precedenza. Se si soffriva di cardiopatie o di diabete o di cancro, ad esempio, quelle malattie non erano più coperte dalla nuova assicurazione, se non pagando molto di più. La riforma di Obama ha proibito tali penalizzazioni, stabilendo il diritto di ognuno ad una assistenza di base sostenibile. Ovviamente, questo ha comportato un cambiamento radicale nell’economia assicurativa, che la riforma obamiana ottiene in questo modo: stabilendo un obbligo alla assicurazione per tutti, anche per le persone in salute; proibendo alle assicurazioni trattamenti discriminanti; dando sussidi pubblici alle famiglie più povere perché posano pagare l’assicurazione; mettendo delle tasse a carico dei più ricchi per compensare i maggiori costi pubblici.
[2] Ex Direttore dell’FBI, poi nominato supervisore dell’indagine sugli interventi russi nella campagna elettorale americana del 2016 e lì preso di mira da Trump. Ma non saprei dire perché la sua attività nell’indagine viene considerata già una debacle.
ottobre 31, 2018
Oct. 27,2018
By Paul Krugman
The recent report by the White House Council of Economic Advisers on the evils of socialism has drawn a great deal of ridicule, and rightly so. It boils down to something along the lines of “You want Medicare for All? But what about the terrible things that happened under Mao Zedong?” That’s barely a caricature.
However, one issue raised by the report has drawn some sympathetic appreciation even from liberals: the discussion of the Nordic economies, which are widely seen by U.S. progressives as role models. The report points out that real gross domestic product per capita in these economies is lower than in the U.S., and argues that this shows the costs of an expansive welfare state.
But is a negative assessment of the Nordic economies really right? That’s not at all clear. That lower G.D.P. number conceals two important points. First, by any measure people in the lower part of the income distribution are much better off in Nordic societies than their U.S. counterparts. That is, there is a lot less misery in Scandinavia — and because everyone has some chance of falling into low income, this reduces the risk of misery for a much larger share of the population.
Second, much of the gap in real G.D.P. represents a choice, not a cost. Nordic workers have much more vacation, much more time for family and leisure, than their counterparts in our “no vacation nation.”
So I thought it might be useful to put together some information on how the Nordic economies actually compare to the U.S.
First of all, the Nordics really have made drastically different choices in public policy. They aren’t “socialist,” if that means government control of the means of production. They are, however, quite strongly social-democratic: as Exhibit 1 shows, they have high taxes, which finance much more generous social benefits than we have here. They also have policies on wages, working hours, and more that tilt the balance toward workers in a number of dimensions.
Exhibit 1 OECD
So how do these policy choices affect individual incomes? Exhibit 2, put together with the help of my Stone Center colleague Janet Gornick, shows how incomes at different percentiles of the income distribution in Denmark and Finland countries compare with the US. (These are “equivalized” household incomes adjusted for household size. Unfortunately, for bizarre legal reasons the LIS Center, the source of these data, doesn’t have recent numbers for Sweden, but they presumably look similar.) Clearly, the Nordic economies are better for lower-income families — roughly the bottom 30 percent of the population.
Exhibit 2 LIS data center
But this understates the case, because these data don’t include “in kind” benefits like health care and education. All of the Nordic countries have universal health care — not just single-payer, but for the most part direct government provision (a.k.a. “socialized medicine.”) This compares with the U.S. where — especially before the Affordable Care Act went into effect — lack of health insurance was common even for families near median income, and high deductibles are an obstacle to care even for many of the insured.
Nordic education also lacks the glaring inequality in quality all too characteristic of the U.S. system.
Once you take these benefits into account, it’s likely that at least half the Nordic population are better off materially than their U.S. counterparts. But what about the upper half?
As the CEA notes, real G.D.P. per capita is lower in the Nordics than in the U.S., and that’s reflected in those lower incomes for the upper half of the income distribution. But it’s worth looking at why G.D.P. is lower.
Exhibit 3 shows how real G.D.P. per capita in Denmark, Finland, and Sweden compares with the U.S., and the sources of that difference. It turns out that a large part of the difference — in the case of Denmark, more than all of it — comes from a lower number of hours worked annually per worker. This does not reflect mass underemployment. Instead, it reflects policy: all of the Nordic countries require that employers give workers a minimum of 25 days of paid vacation every year, while the U.S. has no leave policy at all.
Exhibit 3 The Conference Board
Once you take vacations into account, Denmark and Sweden basically look comparable in performance to the U.S. Finland looks worse, but this is something of a special case: the Finnish economy has been ailing for a number of years, not because of socialism, but because its two premier exports — Nokia and wood pulp — were hit hard by technological change, and membership in the euro has made adjustment difficult.
The point for welfare comparisons is that while Nordic families at, say, the 60th percentile of the income distribution have lower purchasing power than their American counterparts, they also have much more free time and an arguably better work-life balance. Are they really worse off? You can make a good case that taking all of this into account, the majority of Nordic citizens are actually better off than Americans.
And for what it’s worth, they think so too. The O.E.C.D. publishes measures of self-reported “life satisfaction”; all of the Nordic nations rank above the U.S. Objective measures like life expectancy and mortality rates are also much better in Scandinavia.
The bottom line is that real G.D.P. per capita isn’t everything, and you shouldn’t uncritically use that measure to judge how social democracy is working in Scandinavia.
I danesi sono malinconici? Gli svedesi sono tristi?
Di Paul Krugman
Il recente rapporto sui mali del socialismo del Consiglio dei Consulenti Economici della Casa Bianca ha attirato giustamente molta ironia. Il suo significato in pratica si riduce a queste frasi: “Volete Medicare per tutti? Ma cosa ne dite delle cose terribili che accaddero sotto Mao Tse Tung?” Ovvero, a malapena una caricatura.
Tuttavia, un tema sollevato dal rapporto ha attratto alcuni apprezzamenti favorevoli persino tra i progressisti: il dibattito sulle economie nordiche, che sono generalmente considerate modelli dai progressisti statunitensi. Il rapporto mette in evidenza che il reale prodotto interno lordo pro capite in queste economie è più basso che negli Stati Uniti, e sostiene che questo dimostra i costi di uno Stato assistenziale esteso.
Ma è davvero giusto un giudizio negativo sulle economie nordiche? Non è affatto scontato. Quel dato più basso del PIL nasconde due aspetti importanti. Il primo è che, secondo ogni parametro, la gente che sta più in basso nella distribuzione del reddito nelle società nordiche sta meglio dei loro omologhi statunitensi. Ovvero, c’è molta meno miseria in Scandinavia – e poiché chiunque ha qualche possibilità di cadere nel basso reddito, questo riduce il rischio di miseria per una quota molto più ampia di popolazione.
Il secondo: gran parte del divario nel PIL reale rappresenta una scelta, non un costo. I lavoratori del Nord hanno molte più vacanze, molto più tempo per la famiglia e per il tempo libero dei loro omologhi nella nostra “nazione senza vacanze”.
Ho dunque pensato che potrebbe essere utile mettere assieme qualche informazione su un confronto effettivo tra le economie nordiche e gli Stati Uniti.
Prima di tutto, i nordici hanno davvero fatto scelte diverse nella politica pubblica. Non sono “socialisti”, se con quello si intende il controllo governativo dei mezzi di produzione. Sono, tuttavia, abbastanza energicamente social-democratici: come la Prova 1 dimostra, hanno tasse elevate, che finanziano sussidi sociali molto più generosi che da noi. Hanno anche politiche sui salari, sui tempi di lavoro e su altro che fanno pendere la bilancia a favore dei lavoratori per un certo numero di aspetti.
Prova 1. OCSE
Come dunque queste scelte politiche influenzano i redditi individuali? La Prova numero 2, che ho messo assieme con l’aiuto della mia collega Janet Gornik del Centro Stone [2], mostra come i redditi ai diversi percentili della loro distribuzione in Danimarca e in Finlandia si confrontino con quelli degli Stati Uniti (sono i redditi familiari “resi equivalenti” correggendoli sulla base delle dimensioni delle famiglie. Sfortunatamente, per strane ragioni legali, il LIS Center [3] , la fonte di questi dati, non ha quelli relativi alla Svezia, ma dovrebbero essere simili). Chiaramente, le economie dei paesi nordici sono migliori per le famiglie con redditi più bassi – circa il 30 per cento meno benestante della popolazione [4].
Prova numero 2. Centro dati di LIS.
Ma questi dati sottovalutano il fenomeno, perché non includono sussidi “in natura” come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Tutti i paesi nordici hanno l’assistenza sanitaria universale – non solo i pagamenti centralizzati, ma per la maggior parte la fornitura diretta del servizio da parte del Governo (ovvero la “medicina socializzata”). Questo a confronto con gli Stati Uniti dove – specialmente prima che la Legge sulla Assistenza sostenibile entrasse in funzione – la mancanza di assicurazione sanitaria era comune persino per famiglie prossime a redditi medi, e l’alta deducibilità [5] era un ostacolo alle cure persino per molti assicurati.
Anche l’istruzione nei paesi del Nord non presenta le clamorose ineguaglianze qualitative anche troppo caratteristiche del sistema statunitense.
Una volta che si mettono nel conto questi benefici, è probabile che almeno la metà della popolazione nordica sia maggiormente benestante, da un punto di vista materiale, della parte omologa degli Stati Uniti. Ma cosa accade alla metà superiore?
Come osserva il Consiglio dei Consulenti Economici, il PIL procapite è più basso tra i nordici che negli Stati Uniti, e ciò si riflette in quei redditi più bassi della metà superiore della distribuzione del reddito. Ma è il caso di dare un’occhiata alle ragioni per le quali il PIL è più basso.
La Prova numero 3 mostra un confronto tra il PIL reale procapite in Danimarca, Finlandia e Svezia e quello degli Stati Uniti, e le origini di tale differenza. Si scopre che una larga parte della differenza – nel caso della Danimarca, una cifra maggiore dell’intera differenza – deriva da un numero più basso di ore lavorate annualmente per lavoratore. Questo non riflette una disoccupazione di massa. Piuttosto è conseguenza di disposizioni politiche: tutti i paesi del Nord impongono che i datori di lavoro diano ogni anno ai lavoratori un minimo di 25 giorni di vacanze pagate, mentre gli Stati Uniti non hanno alcuna disposizione legislativa per le ferie.
Prova 3. Il Comitato della Conferenza
Una volta che si mette nel conto il periodo di ferie, la Danimarca e la Svezia appaiono fondamentalmente paragonabili agli Stati Uniti. I dati della Finlandia appaiono peggiori, ma questo è un caso piuttosto particolare: l’economia finnica è in sofferenza da un certo numero di anni, non a causa del socialismo, ma perché i suoi due principali esportatori – Nokia e cellulosa da legno – sono stati colpiti dal mutamento delle tecnologie, e la partecipazione all’euro ha reso difficile la correzione.
Il punto per i confronti di benessere è che mentre le famiglie nordiche, ad esempio al 60° percentile della distribuzione del reddito, hanno un potere di acquisto più basso dei loro omologhi americani, hanno anche molto più tempo libero e probabilmente un migliore equilibrio tra lavoro e vita. Stanno davvero peggio? Si può immaginare che mettendo tutto in conto, la maggioranza dei cittadini nordici stia effettivamente meglio degli americani.
E per quello che conta, ne sono anche persuasi. L’OCSE pubblica misurazioni della cosiddetta “soddisfazione della vita”; tutte le nazioni nordiche si collocano sopra gli Stati Uniti. Misurazioni oggettive come l’aspettativa di vita e i tassi di mortalità sono anch’esse molto migliori in Scandinavia.
La morale della favola è che il PIL reale procapite non è tutto, e non si dovrebbe usare in modo acritico quella misurazione per giudicare come stia funzionando la socialdemocrazia in Scandinavia.
[1] La Tabella – che viene presentata come un “Exhibit”, ovvero come una prova in un processo – mostra nella prima serie orizzontale le entrate fiscali in percentuale dei PIL (con percentuali vicine al doppio nei paesi scandinavi rispetto a quelle degli Stati Uniti), e nella seconda serie orizzontale la spesa sociale come percentuale del PIL.
[2] Il Centro Stone sulle Ineguaglianze dell’Università di New York City. Stone dal nome, credo, dei coniugi fondatori.
[3] LIS è acronimo di Luxembourg Income Study.
[4] La Tabella nostra mostra il reddito dei vari percentili – indicati nella linea orizzontale del diagramma – di Danimarca e Finlandia rispetto al corrispondente reddito statunitense (il rapporto è espresso in termini di percentuali nella linea verticale). Come si vede, dal percentile 5 al percentile 70, ovvero le categorie di reddito basse e medie, i paesi del Nord sono chiaramente superiori agli Stati Uniti, mentre scendono a valori prossimi all’unità per i redditi più elevati.
[5] In questo caso, la ‘deducibilità’ si riferisce alla possibilità per le assicurazioni di offrire, al momento del rinnovo, nuovi contratti che escludevano in partenza alcune prestazioni di base. Per quanto ricordo non si tratta di farmaci per particolari rilevanti patologie (cioè, non ha a che fare con la diversa questione delle ‘patologie preesistenti’), ma di farmaci e di forme di assistenza semplici, sulle quali le assicurazioni risparmiano. Sono ‘deducibili’ nel senso che possono essere escluse.
[6] I numeri indicano per tutte le voci le differenze percentuali tra i vari paesi del Nord e gli Stati Uniti. Come si vede – a parte il caso della Finlandia che è spiegato di seguito nell’articolo – alla innegabile differenza di PIL (prima colonna) corrispondono differenze elevate nelle ore lavorate per lavoratore (quarta colonna), che dipendono dai periodi di ferie, mentre i valori dei tassi di popolazione occupata (seconda colonna) e della produttività in senso proprio (terza colonna) sono diversi ma paragonabili (ad una minore produttività, ma in particolare nel caso della Svezia, corrispondono tassi di occupazione più elevati nei paesi nordici).
ottobre 22, 2018
Oct. 20, 2018
By Paul Krugman
For readers obsessed with the Trumpification of America and the looming election, I’m with you — I try not to check FiveThirtyEight more than five times a day, but it’s hard. If you can’t bear to think about anything else, don’t read this; rest assured that this blog post isn’t coming at the expense of writing about the core issue of the moment, it’s a rest break, a bit of vacation in the head.
OK, that said, I read two things in the past few days that had me thinking about the biggest economic story there is: the dramatic rise of some formerly very poor nations, and the concomitant shift of the world’s economic center of gravity away from the West.
One was a new paper by Patel, Sandefur, and Subramanian pointing out that overall global convergence in per capita GDP, which used to be largely absent in the data, has become very pronounced since 1990, with really fast growth in middle-income economies. The other was a tweet by my CUNY Stone Center colleague Branko Milanovic, pointing out that convergence among Western economies seems to have stalled.
I’d argue that these observations are really part of the same story. Let me start with Branko’s observation.
The way I’d make sense of this observation is to argue that the West has already converged, in terms of technology and productivity. The remaining differences in GDP per capita mainly reflect different social choices over things like vacation time and retirement age, and there’s no reason to expect those differences to go away.
I won’t do a full statistical analysis, but let me give the example of France versus the U.S. Figure 1 shows French productivity — real GDP per hour worked — relative to the U.S., and relative real GDP per capita. What you see is that French productivity has matched that of the U.S. for many years (it was actually higher for a while, although that was probably a composition effect reflecting an older work force.) French real GDP per capita has, however, slid relative to U.S. levels. Why?
Figure 1 Conference Board, Total Economy Database
Partly it’s fewer people working — not prime-age adults, who are more likely to be employed in France, but mainly pre-seniors, 55-65, encouraged to retire by more generous pension policies. Even more important, the French take vacations; we don’t (and often aren’t allowed to.)
So these are just different choices. And while France does need more pension reform (it has done some already), it’s far from clear that overall French choices are worse. On many quality of life indicators, like life expectancy (Figure 2), America has fallen behind.
Figure 2 OECD
The end of Western convergence, then, isn’t an indicator of some kind of failure. Meanwhile, the coming of rapid convergence by emerging markets is a huge success story.
When I was in grad school in the 1970s, I thought I should do development economics — because it was clearly the most important subject — but didn’t, because it was too depressing. At that point it was mostly non-development economics, the study of why Third World countries seemed to fall ever further behind the West. True, we were already seeing a growth takeoff in smaller East Asian economies, but few saw this as a trend that would spread to China and India.
Then something happened; we still don’t know exactly what. It’s a good guess that it has something to do with hyperglobalization, the unprecedented surge in world trade made possible by breaking up value chains and moving pieces of production to lower-wage countries. But we don’t really know even that.
One thing is clear: at any given time, not all countries have that mysterious “it” that lets them make effective use of the backlog of advanced technology developed since the Industrial Revolution. Over time, however, the set of countries that have It seems to be widening.
Once a country acquires It, growth can be rapid, precisely because best practice is so far ahead of where the country starts. And because the frontier keeps moving out, countries that get It keep growing faster. Japan’s postwar growth was vastly faster than that of the countries catching up to Britain in the late 19th century; Korea’s growth from the mid-60s even faster than Japan’s had been; China’s growth faster still.
The It theory also, I’d argue, explains the U-shaped relationship Subramanian et al find between GDP per capita and growth, in which middle-income countries grow faster than either poor or rich countries. Countries that are still very poor are countries that haven’t got It; countries that are already rich are already at the technological frontier, limiting the space for rapid growth. In between are countries that acquired It not too long ago, which has vaulted them into middle-income status, but are able to grow very fast by moving toward the frontier.
The result is a world in which inequality among countries is declining if you look from the middle upward, but rising if you look from the middle down. Fundamentally, however, it’s a story of diminishing Western exceptionalism, as the club of countries that can take full advantage of modern technology expands.
Oh, and rising inequality within Western countries means that if you look at the global distribution of household incomes, you get Branko’s elephant chart.
It’s not entirely a happy story. That concentration of income and wealth at the top is worrisome, not just economically, but for its political and social implications; it’s one reason U.S. democracy is teetering on the edge. And there are still hundreds of millions of people left out. But there’s also a lot of good news in the picture.
I now return you to our regular political anxiety.
Note sulla convergenza globale (divagazione per esperti)
Per i lettori ossessionati dalla ‘trumpificazione’ dell’America e dalle elezioni incombenti, vi capisco bene – cerco di non controllare FiveThirtyEight [1] più di cinque volte al giorno, ma è dura. Se non potete sopportare di pensare a niente altro, non leggete questo post: state certi che esso non è a spese dello scrivere sul tema fondamentale del momento, è una pausa di riposo, un po’ di vacanza nel cervello.
Ciò detto, ho letto due cose nei giorni passati che mi hanno fatto riflettere sul principale racconto economico cui assistiamo: la spettacolare crescita di alcune nazioni in passato molto povere, e il concomitante allontanamento del centro di gravità economico del mondo dall’Occidente.
Una era il nuovo saggio di Patel, Sandefur e Subramanian che mette in evidenza che la generale convergenza in termini di PIL procapite, che di solito era ampiamente assente nei dati, è diventata molto pronunciata a partire dal 1990, con una crescita davvero rapida delle economie a medio reddito. L’altro è stato un tweet del mio collega allo Stone Center [2] dell’Università di New York Branko Milanovic, che mette in evidenza come quella convergenza tra le economie occidentali sembra sia in stallo.
Direi che queste osservazioni fanno in realtà parte dello stesso racconto. Fatemi cominciare dalla osservazione di Branko.
Il modo in cui renderei più comprensibile questa osservazione è considerare che l’Occidente ha avuto già la sua conversione, in termini di tecnologie e di produttività. Le restanti differenze nel PIL procapite principalmente riflettono scelte sociali su aspetti come la durata delle vacanze e l’età di pensionamento, e non c’è motivo di aspettarsi che quelle differenze scompaiano.
Non procedo ad una analisi statistica completa, ma fatemi avanzare l’esempio della Francia a confronto con gli Stati Uniti. La Figura 1 mostra la produttività francese – PIL reale per ora lavorata – in rapporto agli Stati Uniti e il conseguente PIL reale procapite. Potete osservare che la produttività francese ha eguagliato per molti anni quella degli Stati Uniti (per un po’ è stata effettivamente più elevata, sebbene si trattava probabilmente di un effetto di composizione che rifletteva una forza lavoro più anziana). Tuttavia, il PIL reale francese è scivolato rispetto ai livelli statunitensi. Perché?
Figura 1. Comitato della Conferenza, Database complessivo dell’economia.
In parte per un numero minore di persone al lavoro – non gli adulti della principale età lavorativa, che è più probabile siano occupati in Francia, ma soprattutto coloro che si avvicinano all’età più anziana, dai 55 ai 65 anni, incoraggiati a ritirarsi da politiche pensionistiche più generose. Fatto più importante ancora, i francesi vanno in vacanza, noi no (e spesso non ci viene consentito).
Dunque si tratta solo di scelte diverse. E mentre la Francia ha bisogno di una riforma delle pensioni più cospicua (ha già fatto qualcosa), non è affatto detto che le scelte francesi siano peggiori. Per molti indicatori della qualità della vita, come l’aspettativa di vita (Figura 2), l’America è rimasta indietro.
Figura 2. OCSE
La fine della convergenza dell’Occidente, dunque, non è un indicatore di un fallimento di qualche genere. Nel frattempo, l’approssimarsi di una convergenza rapida da parte dei mercati emergenti è una grande storia di successo.
Quando frequentavo un corso di specializzazione negli anni ’70, pensavo che avrei dovuto indirizzarmi all’economia dello sviluppo – giacché era chiaro che era il tema più importante – ma non lo feci, perché era troppo deprimente. A quell’epoca mi occupavo soprattutto di economia del non-sviluppo, lo studio delle ragioni per le quali i paesi del Terzo Mondo sembravano rimanere sempre più indietro dell’Occidente. È vero, stavamo già osservando un decollo della crescita in economie più piccole dell’Asia Orientale, ma pochi la vedevano come una tendenza che si sarebbe allargata alla Cina e all’India.
Poi accadde qualcosa; ancora non sappiamo esattamente cosa. È una buona congettura pensare che avesse qualcosa a che fare con l’iperglobalizzazione, la crescita senza precedenti del commercio mondiale resa possibile dalla rottura delle catene del valore e dallo spostamento di pezzi della produzione nei paesi a più bassi salari. Ma in realtà non sappiamo neanche quello.
Una cosa è chiara: in qualche dato momento, non tutti i paesi hanno quel misterioso “qualcosa” che consente loro di fare un uso efficace di tutto l’arretrato di tecnologia avanzata sviluppatosi a partire dalla Rivoluzione Industriale. Nel corso del tempo, tuttavia, il complesso dei paesi che hanno quel “qualcosa” sembra si sia allargato.
Una volta che un paese acquisisce quel “qualcosa” la crescita può essere rapida, proprio perché le migliori pratiche sono molto avanti rispetto a dove quel paese prende le mosse. E poiché la frontiera continua a spostarsi, i paesi che ottengono quel “qualcosa” continuano a crescere più velocemente. La crescita del Giappone post bellico fu grandemente più veloce di quella dei paesi che si portarono al passo dell’Inghilterra nel tardo Diciannovesimo Secolo; la crescita della Corea dalla metà degli anni ’60 fu persino più rapida di quella che aveva avuto il Giappone; la crescita della Cina ancora più rapida.
La teoria del “qualcosa”, direi, spiega la relazione a forma di U che Subramanian ed altri trovano tra PIL procapite e crescita, per la quale i paesi a medio reddito crescono più velocemente sia dei paesi poveri che di quelli ricchi. I paesi che sono ancora molto poveri sono paesi che non hanno ancora avuto quel “qualcosa”; i paesi che sono già ricchi sono già alla frontiera tecnologica, con un limite allo spazio per una crescita rapida. In mezzo ci sono i paesi che hanno acquistato il “qualcosa” non molto tempo fa, il che li ha proiettati in una condizione di medio reddito, ma che sono capaci di crescere molto rapidamente spostandosi verso la frontiera.
Infine, la crescente ineguaglianza all’interno dei paesi occidentali comporta che se guardate alla distribuzione globale dei redditi delle famiglie, ottenete il ‘diagramma dell’elefante di Branko’ [3].
Non è tutta una storia felice. Quella concentrazione di reddito e di ricchezza al vertice è inquietante, non solo economicamente, ma anche per le sue implicazioni politiche e sociali; è una ragione per la quale la democrazia degli Stati Uniti sta traballando sul ciglio. E ci sono ancora centinaia di milioni di persone escluse. Ma nel quadro ci sono anche novità positive.
E adesso tornate alla vostra consueta ansietà politica.
[1] Un blog che in questi giorni è specializzato dai dati sui sondaggi elettorali statunitensi.
[2] Il termine deriva dai coniugi James and Kathleen Stone, forse fondatori.
[3] Più di tre anni orsono Branko Milanovic pubblicò questo diagramma, che mostra – su scala globale – l’andamento del reddito reale ai vari percentili della distribuzione del reddito, anni 1988 – 2008. Krugman lo ripubblicò sul suo blog, nominandolo “diagramma dell’anno” per il 2014.
La somiglianza con un elefante è abbastanza evidente. Come si vede, i settori della massima crescita sono due: sulla ‘gobba’ dell’elefante – all’altezza del 60° percentile – ovvero di un reddito che corrisponde a quello della classe media cinese; nella proboscide dell’elefante, all’altezza del 100° percentile, ovvero dei redditi più elevati dei ricchi, particolarmente occidentali. La crescita più bassa in assoluto si colloca grosso modo dove comincia la proboscide, all’altezza dell’80° percentile, in corrispondenza con la parte più povera della classe media americana.
ottobre 3, 2018
Sept. 22, 2018
By Paul Krugman
Well, this feels a bit like the good old days of econblogging. Ben Bernanke wrote a paper arguing that the financial crisis and the resulting credit crunch were central to the Great Recession. I wrote a piece raising questions about that verdict; now Bernanke has replied to those questions. Dean Baker has already weighed in. But I should say some more, particularly because it still seems to me that we’re somewhat talking past each other. He’s talking about steeper, while Dean and I are talking about deeper.
My starting point in thinking about the Great Recession and aftermath is that we clearly had a very large housing bubble. Here’s the ratio of housing prices to owner’s equivalent rent, the sort of housing equivalent of the P/E ratio for stocks:
The big bust, Federal Reserve of St. Louis
Housing prices went extremely high relative to rental rates (and consumer prices more generally), then suffered a long and protracted fall. This decline started well before the period of severe financial distress, which was a fairly short episode from September 2008 to around June 2009. And prices were still way down years later, which suggests that while the credit crisis surely accelerated the pace of decline, prices were going to come down and stay down regardless of what happened to the financial system.
Given a housing price slump of this magnitude, you had to expect large macroeconomic impacts: a big decline in residential investment spending, a fall in consumer spending because of the wealth effect, and a decline in nonresidential investment because of the slump in demand brought on by the first two effects.
In other words, something very much like the Great Recession seems like an inevitable consequence of the bursting of the housing bubble. And the magnitude of the shocks — around 4 percent of GDP for housing investment, perhaps around 2 percent for the wealth effects of the decline in home equity — looks well within the range needed to explain the whole thing.
What Bernanke offers is, as I read it, mainly evidence that the pace of decline accelerated a lot during 2008-2009. Indeed it did — and no reasonable person would deny that the combination of financial disruption and sheer fear that gripped the world after September 2008 brought the slump forward and made the decline steeper than it would otherwise have been.
But did it make the decline deeper as well as steeper? The unemployment rate averaged 9.6 percent in 2010 and 8.9 percent in 2011. How much did the financial crisis contribute to these extremely high levels of economic slack, long after the disruption had ended? I still don’t see how to make it the main story.
Now, does this mean that rescuing the financial system was pointless? Here Dean Baker and I disagree, I think. Dean says yes, because finance didn’t cause the slump. I think that the slump we had didn’t have much to do with finance — but the slump we would have had if the financial system had been allowed to implode might have been much worse. On precautionary grounds, bailouts were in my view the right thing to do, although the terms were too sweet for the bankers.
On the other hand, the fact that we suffered such a deep, prolonged slump despite rescuing banks shows the limits of a finance-centered view.
Più ripido contro più profondo (per esperti),
di Paul Krugman
Ebbene, questo ci riporta un po’ ai bei tempi andati dei blog economici. Ben Bernanke ha scritto per sostenere che la crisi finanziaria e la conseguente stretta creditizia furono centrali nella Grande Recessione. Io ho scritto un articolo sollevando dubbi su tale verdetto; adesso Bernanke ha replicato a tali dubbi. Dean Baker è già intervenuto. Ma io dovrei dire qualcosa di più, in particolare perché mi pare che noi stiamo un po’ parlando di cose diverse. Lui sta parlando di qualcosa di più ripido, mentre Dean e il sottoscritto stiamo parlando di qualcosa di più profondo.
Il mio punto di partenza nel ragionare della Grande Recessione e delle sue conseguenze è che avemmo una bolla immobiliare davvero grande. Ecco il rapporto tra prezzi delle abitazioni e le rendite equivalenti dei proprietari, una specie di equivalente nel settore abitativo del “P/E ratio” [1] delle azioni:
Il grande scoppio, dalla Federal Reserve di St. Louis
I prezzi delle abitazioni andarono molto in alto in relazione ai tassi di affitto (e più in generale ai prezzi al consumo), poi patirono una lunga e perdurante caduta. Quel declino cominciò ben prima del periodo della grave crisi finanziaria, che fu un fenomeno abbastanza breve tra il settembre del 2008 e circa il giugno del 2009. Ed i prezzi erano ancora in basso anni dopo, il che indica che se la crisi del credito sicuramente accelerò il ritmo del declino, i prezzi erano destinati a scendere e a restare bassi a prescindere da quello che accadeva nel sistema finanziario.
Data una crisi dei prezzi delle abitazioni di questa dimensione, ci si dovevano aspettare ampi impatti macroeconomici: una grande declino nella spesa per investimenti nel settore delle abitazioni, una caduta nella spesa per consumi a causa dell’effetto sulla ricchezza e un declino negli investimenti non residenziali per la caduta della domanda provocata dai primi due effetti.
In altre parole, qualcosa di molto simile alla Grande Recessione pare come una conseguenza inevitabile dello scoppio della bolla immobiliare. E le dimensioni degli shock – circa il 4 per cento del PIL per gli investimenti abitativi, forse attorno al 2 per cento per gli effetti sulla ricchezza del declino dei prestiti ipotecari – si vedono bene all’interno del periodo necessario per spiegare l’intera faccenda.
Quello che Bernanke offre, per come lo leggo, è principalmente la prova che il ritmo del declino accelerò molto nel 2008-2009. In effetti fu quello che accadde – e nessuna persona ragionevole negherebbe che la combinazione del disordine finanziario e la paura pura e semplice che afferrò il mondo dopo il settembre 2008, portarono la recessione in avanti e resero il declino più scosceso di quello che altrimenti sarebbe stato.
Ma resero il declino più profondo oltre che più scosceso? Il tasso di disoccupazione si collocò su una media del 9,6 per cento nel 2010 e dell’8,9 per cento nel 2011. Quanto la crisi finanziaria contribuì a questi livelli estremamente elevati di fiacchezza dell’economia, molto dopo che la perturbazione era terminata? Ancora non capisco come si possa farne la spiegazione principale.
Ora, questo significa che il salvataggio del sistema finanziario fu inutile? In questo caso, ritengo che io e Dean Baker non siamo d’accordo. Dean dice di sì, perché la finanza non provocò la recessione. Io penso che la recessione che avemmo non ebbe molto a che fare con la finanza – ma la recessione che avremmo avuto se al sistema finanziario fosse stato consentito di implodere sarebbe stata molto peggiore. In una logica di cautelare, secondo il mio punto di vista, i salvataggi furono la cosa giusta da fare, sebbene le soluzioni furono troppo confortevoli per i banchieri.
D’altra parte, il fatto che soffrimmo una recessione così profonda e prolungata nonostante i salvataggi delle banche mostra i limiti di un punto di vista centrato sulla finanza.
[1] Ovvero, il rapporto tra il valore di mercato di una azione e i guadagni che si realizzano con una azione.
[2] La tabella indica il rapporto tra l’indice dei prezzi delle abitazioni e l’indice dei guadagni realizzati dai proprietari delle abitazioni con gli affitti. Come si vede il rapporto tra i due indici era pari a 1 nell’anno 2000 e salì a 1,7 nell’anno 2006. Nel 2006, dunque prima della crisi finanziaria, cominciò lo scoppio della bolla, che divenne ulteriormente più netto con gli anni della crisi finanziaria (2008-2009). Inoltre, terminato il periodo “ufficiale” della recessione e della crisi finanziaria, i valori restarono bassi per alcuni anni, comunque assai distanti dal ‘picco’ precedente della bolla ancora nel 2018.
ottobre 3, 2018
Sept. 26, 2018
By Paul Krugman
There are so many issues breaking right now that it’s hard to keep track — and focusing on any one leads to feelings of guilt about neglecting the others. But it’s worth remembering that the Trump trade war still seems to be on track, and important to have a sense of its effects.
The view within the Trump administration is, of course, that “trade wars are good, and easy to win.” Where does this view come from? Actually, it involves two propositions.
First, it takes the mercantilist view under which trade as a zero-sum game in which whoever sells more wins. Because the U.S. runs a trade deficit, we’re losers, and anything that reduces that trade deficit is good.
Second, it takes for granted the proposition that precisely because the U.S. exports less to other countries than we buy in return, a trade war will hurt them more than it hurts us, reducing U.S. imports more than it reduces U.S. exports.
Now, anyone who looks at the actual effects of international trade knows that the first proposition is wrong: trade isn’t just about selling stuff, it’s about getting better, cheaper stuff both to consume and to use as inputs in production. But you might assume that at least the second proposition is true: a round of tariff retaliation should reduce foreign exports to the U.S. more than it reduces U.S. exports to the rest of the world, simply because those foreign exports are bigger to start with.
But maybe not. A new study from the European Central Bank suggests that even though the U.S. runs trade deficits, a trade war would reduce demand for U.S. goods more than it would reduce demand in the rest of the world. The Bank of England has reached a similar conclusion.
Let’s be clear: these are the results of models, not actual experience, and could be wrong. But it’s still worth asking why the modelers are getting this result. The short answer is the phenomenon known in the field as “trade diversion.”
For simplicity, think of the world as three economies: America, China, and Europe. Both the ECB and the BOE are assuming scenarios in which America raises tariffs on China and Europe, with China and Europe retaliating. But China and Europe don’t raise tariffs on each other.
Such a scenario gives both foreign consumers and foreign producers a lot of options to diversify away from America. Chinese producers, facing U.S. tariffs, can sell more to Europe instead; Chinese consumers, instead of paying tariffs on goods imported from America, can seek substitutes from Europe. The story for Europe is the same. But U.S. consumers and businesses won’t have comparable flexibility.
The difference in ability to switch partners means that both U.S. exports and U.S. businesses that depend on imported components etc. will be hit harder for any given level of tariffs than their counterparts abroad.
But why assume that it’s a unilateral U.S. trade war against everyone? Because that’s what is happening. The Trump administration has isolated America on many fronts, and trade policy is very much one of them. Under different leadership, America and Europe might be working together to put pressure on China over things like intellectual property, but given who’s actually in charge, we’re on our own.
As Trump just found out at the U.N., the world is literally laughing at us. And it certainly doesn’t trust us, in fact is looking for ways to cut us out of various loops. This matters for a lot of things — and trade war, it turns out, is one area where go-it-alone will be costly.
La leadership, le risate e le tariffe,
di Paul Krugman
In questo momento, ci sono così tante questioni che esplodono che è difficile tenerne traccia – e concentrarsi su una comporta un senso di colpa per il trascurare le altre. Ma vale la pena di ricordare che la guerra commerciale di Trump tuttora sembra procedere secondo la tabella di marcia, ed è importante avere una percezione dei suoi effetti.
Il punto di vista all’interno della Amministrazione Trump è ovviamente che “le guerre commerciali sono buone e facili da vincere”. Da dove viene questa opinione? In realtà, essa comprende due concetti.
Anzitutto, essa assume il punto di vista secondo il quale il commercio è un gioco a somma zero nel quale chi vende di più vince. Poiché gli Stati Uniti gestiscono un deficit commerciale, noi siamo perdenti e tutto quello che riduce quel deficit commerciale è positivo.
In secondo luogo, essa assume come garantita la proposizione per la quale, precisamente perché gli Stati Uniti esportano verso gli altri paesi meno di quanto acquistano in cambio, una guerra commerciale danneggerà gli altri paesi più di quanto danneggi noi, riducendo le importazioni degli Stati Uniti più di quanto non riduca le esportazioni. Ora, chiunque osserva gli effetti reali del commercio internazionale sa che il primo concetto è sbagliato: il commercio non consiste solo nel vendere, riguarda l’ottenere cose migliori e più economiche sia per consumarle che per usarle come fattori della produzione. Ma si potrebbe considerare che almeno la seconda proposizione sia vera: una serie di ritorsioni tariffarie dovrebbe ridurre le esportazioni estere verso gli Stati Uniti più di quanto riduca le esportazioni degli Stati Uniti verso il resto del mondo, semplicemente perché quelle esportazioni straniere sono dall’inizio più grandi.
Ma forse non è così. Un nuovo studio da parte della Banca Centrale Europea mostra che persino se gli Stati Uniti gestiscono un deficit commerciale, una guerra commerciale ridurrebbe la domanda per i prodotti statunitensi di più di quanto ridurrebbe la domanda nel resto del mondo. La Banca di Inghilterra è giunta alla stessa conclusione.
Per chiarezza: questi sono risultati di modelli, non esperienze effettive, e potrebbero essere sbagliati. Ma tuttavia è il caso di chiedersi perché i modellatori ottengono questo risultato. La risposta in breve è il fenomeno noto in letteratura come “sviamento commerciale”.
Semplificando, si pensi a un mondo composto di tre economie: l’America, la Cina e l’Europa. La BCE e la Banca di Inghilterra suppongono scenari nei quali l’America eleva le tariffe sulla Cina e sull’Europa, e la Cina e l’Europa fanno ritorsioni. Ma la Cina e l’Europa non alzano le tariffe l’una con l’altra.
Un tale scenario offre sia ai consumatori che ai produttori stranieri molte opzioni per diversificare uscendo dal rapporto con l’America. I produttori cinesi, a fronte delle tariffe degli Stati Uniti, possono vendere di più all’Europa; i consumatori cinesi, anziché pagare le tariffe sui beni importati dall’America, possono cercare sostituti in Europa. La storia per l’Europa è la stessa. Ma i consumatori e le imprese degli Stati Uniti non avranno una flessibilità paragonabile.
La diversità nella capacità di cambiare partner significa che sia le esportazioni statunitensi che le imprese statunitensi che dipendono dalle componenti importate etc. saranno colpite più duramente per ogni dato livello di tariffe delle loro controparti all’estero.
Ma perché ipotizzare che questa sia una guerra commerciale unilaterale degli Stati Uniti contro tutti? Perché è quello che sta accadendo. L’Amministrazione Trump sta isolando l’America su molti fronti, e la politica commerciale è sicuramente uno di essi. Con diverse dirigenze, l’America e l’Europa potrebbero lavorare assieme per mettere pressione sulla Cina su cose come la proprietà intellettuale, ma considerato chi è effettivamente al potere, noi siamo per conto nostro.
Come Trump ha appena scoperto alle Nazioni Unite, il mondo sta letteralmente ridendo di noi. E di sicuro non ha fiducia in noi, di fatto sta cercando modi per tagliarci fuori da molti giri. Questo è importante per una grande quantità di aspetti – e si scopre che la guerra commerciale è un’area nella quale operare da soli sarà costoso.
settembre 28, 2018
Sept. 19, 2018
By Paul Krugman
The 2008 financial crisis is (duh) a decade in the past; employment has been growing steadily since early 2010. Since nothing is forever, and proclamations that the business cycle is over have always ended in embarrassment, lots of people are looking for the sources of the next recession.
The thing is, there’s nothing out there as obvious as the housing bubble of the mid-2000s, or even the tech bubble of the late 1990s. So here’s my thought: maybe the next recession won’t be caused by one big shock but instead by the combined impact of several smaller shocks. There are arguably several mid-sized bubbles out there, from private equity debt to emerging markets. Stocks are priced as if there’s no risk despite omens of trade war, consumer confidence similarly seems to discount dangers. There’s probably other stuff I’m missing.
The point, anyway, is that we might be looking at a smorgasbord recession, one that involves a mix of smallish things rather than a single dominant item. And there’s a model for that kind of recession: the slump of the early 1990s.
Most modern recessions have had clear narratives, at least after the fact. The 79-82 double dip was about the Fed tightening to bring inflation down; 2001 was about the tech bubble; 2007-2009 about the housing bust and the financial crisis it triggered. But I’ve been reading various accounts of 1990-91, and they’re kind of amorphous.
One piece was a boom and bust in commercial real estate, partly connected with the savings-and-loan crisis and aftermath, which led to a sharp drop in nonresidential construction:
Figure 1 BLS
Another piece was a drop in consumer confidence, brought on by oil price hikes and Gulf War jitters:
Figure 2 University of Michigan
Yet another piece was the post-Cold War drawdown in defense spending:
Figure 3 BEA
So, no one overarching narrative, but the combination was enough to cause a recession. It was a fairly brief, shallow recession compared with the big slumps of 79-82 and 2007-9:
Figure 4 Federal Reserve
But recovery was sluggish and for a long time jobless, with unemployment continuing to rise long after the official end of the recession:
Figure 5 BLS
So here’s my hypothesis: the next slump won’t be a big bang like 2008, it will be a smorgasbord recession like 1990-1, the cumulation of a bunch of medium-sized issues.
You might ask why multiple issues should strike at the same time. The answer, in two words, is Hyman Minsky: after a long period of stable growth, lenders and investors get complacent, and the private sector overreaches.
If that is what happens, we should expect another sluggish, jobless recovery like that after the 1990-1 and 2001 recessions, except probably worse. Why? Because monetary policy is much less effective in reversing recessions brought on by private overreach than it is in reversing slumps brought on by previous tight money.
And we’re likely to have a big problem with the zero lower bound. The Fed cut rates by around 5 percentage points in the face of the 1990 recession, and still got a jobless recovery:
Figure 6 Federal Reserve
This time around the Fed doesn’t have 5 percentage points to cut — it only has 2. And no, that’s not a reason to raise rates faster, to make room for later cuts; it’s a reason to not raise rates until inflation is significantly higher, and hope that we’ve gotten to 3 or 4 percent before the smorgasbord attacks.
So those are my current thoughts on the next recession. When will it happen? (Looks at watch.) Actually, I have no idea. But it would be really strange if it doesn’t happen within a few years at most.
Una recessione per effetto di un vasto assortimento di cause,
di Paul Krugman
La crisi finanziaria del 2008 è passata da un decennio (ma guarda un po’); l’occupazione è venuta crescendo regolarmente dagli inizi del 2010. Dato che niente è eterno e i proclami secondo i quali il ciclo economico è superato sono sempre finiti in modo imbarazzante, molte persone stanno guardando alle fonti della prossima recessione.
Il punto è che non c’è niente in giro di così evidente come la bolla immobiliare della metà degli anni 2000, o persino come la bolla tecnologica degli ultimi anni ’90. Ecco dunque la mia riflessione: forse la prossima recessione non sarà provocata da un singolo grande shock, ma piuttosto dall’effetto congiunto di vari più piccoli shock. Ci sono probabilmente in giro varie bolle di media grandezza, dal debito dei fondi di investimento privati ai mercati emergenti. Le azioni sono valutate come se non ci fosse alcun rischio nonostante i presagi di guerra commerciale, in modo simile la fiducia dei consumatori sembra sottovalutare i pericoli. Ci sono probabilmente altre cose che sto dimenticando.
In ogni modo, il punto è che potremmo ritrovarci con una recessione formato ‘rinfresco’, una di quelle che riguardano una combinazione di cose piccoline anziché un singolo oggetto dominante. E c’è un modello per quel genere di riflessioni: la recessione dei primi anni ’90.
In maggioranza le recessioni moderne hanno avuto narrazioni chiare, almeno a fatti compiuti. Quella in due tempi del periodo 1979-1982 dipese dalla restrizione da parte della Fed per abbattere l’inflazione; nel 2001 dipese dalla bolla tecnologica; nel 2007-2009 dipese dalla bolla immobiliare e fu innescata della crisi finanziaria. Ma ho letto vari resoconti relativi al 1990-91, e risultano abbastanza informi.
Una parte dipese dalla espansione e dallo scoppio del mercato immobiliare del settore del commercio [1], una parte dalla crisi del sistema delle casse di risparmio e dalle sue conseguenze, che portò ad una brusca caduta delle costruzioni nel comparto non residenziale:
Figura 1 Ufficio delle Statistiche del Lavoro degli Stati Uniti
Un’altra parte fu la caduta della fiducia dei consumatori, provocata dai rialzi dei prezzi del petrolio e dalle agitazioni della Guerra del Golfo:
Figura 2 Università del Michigan
Un’altra parte ancora consistette nel declino successivo alla Guerra Fredda della spesa per la difesa:
Figura 3 Ufficio di Analisi Economica degli Stati Uniti
Dunque, nessun racconto prevalse sugli altri, la loro combinazione fu sufficiente a provocare la recessione. Si trattò di un episodio abbastanza breve e superficiale a confronto con le grandi crisi del 1979-82 e del 2007-2009:
Figura 4 Federal Reserve
Ma la ripresa fu fiacca e per un lungo periodo senza posti di lavoro, con la disoccupazione che continuò a salire dopo la fine ufficiale della recessione:
Figura 5 Ufficio delle Statistiche del Lavoro degli Stati Uniti
Ecco dunque la mia ipotesi: la prossima recessione non sarà un gran colpo come nel 2008, sarà una recessione derivante da una varietà di cause come nel 1990-91, l’accumulo di un gruppo di questioni di media dimensione.
Potreste chiedervi perché tematiche molteplici dovrebbero colpire contemporaneamente. In due parole, la risposta è Hyman Minsky [7]: dopo un lungo periodo di crescita stabile, i creditori e gli investitori divengono compiacenti e il settore privato si spinge troppo oltre.
Se è questo quello che accade, dovevamo aspettarci un’altra ripresa fiacca e senza posti di lavoro come quella che venne dopo le recessioni del 1990-91 e del 2001, anche se probabilmente peggiore. Perché? Perché la politica monetaria è molto meno efficace nell’invertire le recessioni provocate dagli eccessi del settore privato, piuttosto che nell’invertire recessioni provocate da precedenti restrizioni monetarie.
Ed è probabile che avremo un grande problema con il limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse). La Fed tagliò i tassi di circa 5 punti percentuali a fronte della recessione del 1990, e anche allora avemmo una ripresa senza posti di lavoro:
Figura 6 Federal Reserve
Questa volta la Fed non ha 5 punti percentuali da tagliare – ne ha solo 2. E quella non è affatto una ragione per alzare più velocemente i tassi, per far spazio a tagli successivi; è una ragione per non alzarli finché l’inflazione non è significativamente più alta, e speriamo di arrivare al 3 o 4 per cento prima di quella varietà di attacchi.
Queste sono dunque le mie riflessioni sulla prossima recessione. Quando accadrà? (occhiate all’orologio) In realtà, non ne ho idea. Ma sarebbe davvero strano se non accadesse al massimo entro pochi anni.
[1] Lo scoppio della bolla che aveva accompagnato il periodo della diffusione dei grandi centri commerciali.
[2] La tabella mostra l’andamento di tutti gli addetti all’edilizia nel settore abitativo.
[3] L’andamento dell’indice della fiducia dei consumatori negli anni ‘90
[4] L’andamento della occupazione a tempo pieno nel settore delle Forze Armate federali, dalla fine degli anni ’70 ad oggi.
[5] L’indice della produzione industriale dal 1980 ad oggi.
[6] Il tasso di disoccupazione nella prima metà degli anni ’90.
[7] Hyman Philip Minsky (Chicago, 23 settembre 1919 – 24 ottobre 1996) è stato un economista statunitense, collocabile vicino al filone dei post-keynesiani, noto per la sua teoria dell’instabilità finanziaria e sulle cause delle crisi dei mercati. Nel suo libro principale (Keynes e l’instabilità del capitalismo, 2008) ha studiato i processi di finanziarizzazione dell’economia, della creazione di bolle speculative e delle successive crisi, come fenomeni caratteristici delle società capitalistiche, alla luce di una lettura keynesiana del funzionamento dei meccanismi economici. Probabilmente è la figura principale di economista keynesiano degli ultimi decenni, ampiamente sottovalutato, sino almeno alla crisi finanziaria del 2008. Un economista italiano che sottolineò la sua importanza fu Silvano Andriani, nel suo importante “L’ascesa della finanza”, del 2006. Krugman stesso ha varie volte scritto di questa sottovalutazione, in un certo senso per il passato ammettendola anche da parte sua. In occasione del Convegno di Berlino uno dei principali esponenti di questo neo-minskysmo, Steve Keen, polemizzò abbastanza aspramente con Krugman, provocando alcuni suoi interventi (“Minsky e la metodologia”, post del 27 marzo 2012; “Misticismo bancario”, post sempre del 27 marzo 2012; “Misticismo bancario. Continuazione”, post del 30 marzo 2012).
[8] Tasso di riferimento dei fondi federali, dal 1985 ad oggi.
settembre 16, 2018
Sept. 14, 2018
By Paul Krugman
OK, this is weird. There’s an economic dispute underway about the causes of the Great Recession — but that’s not what’s weird. What’s so strange in these days and times is that it is being carried out among well-informed people who actually look at data and argue in good faith. Hey, guys, don’t you know that sort of thing went out a couple of decades ago?
Anyway, on one side you have Dean Baker, who has long argued that the burst housing bubble was the main factor in both the slump and the slow recovery, with financial disruption a minor and transitory factor — a view I mostly agree with. On the other side we have none other than Ben Bernanke, who argues in a new paper that credit market disruption was indeed the big story.
This isn’t quite a head-on debate, since Bernanke is mainly focused on the first year or so after Lehman, while both Baker and I are more focused on the multiyear depressed economy that lasted long after the financial disruption ended. (Bernanke’s measures show the same spike and fast recovery as other stress indexes.) But there’s still a clear difference.
Unfortunately, I won’t be at the Brookings panel where Bernanke’s paper is discussed. But maybe I can raise the big question I have about his conclusions.
What Bernanke does is, as I see it, a kind of reduced-form analysis, identifying factors in the credit markets and using time series to estimate their impact on output. What Baker does, and I largely follow, is more of an accounting-based structural analysis: look at the components of aggregate demand, and ask what their behavior seems to imply about causes. In principle, these approaches should be consistent.
My problem with Bernanke’s paper, on a first read, is that I don’t quite see how that consistency can work. Specifically, I have trouble seeing the “transmission mechanism” — the way in which the financial shock is supposed to have affected actual spending to the extent necessary to justify a finance-first account of the slump.
Let me focus specifically on investment, which is what you’d expect a credit crunch to depress — and which did indeed plunge in the Great Recession. First, there was the housing bust, which led to a huge decline in residential investment, directly subtracting around 4 points from GDP:
Figure 1 Federal Reserve of St. Louis
So can we attribute this decline to credit conditions? If so, why did residential investment remain depressed five years after credit markets normalized?
Meanwhile, there was also a sharp decline in nonresidential, i.e., business investment:
Figure 2 Federal Reserve of St. Louis
But this decline was only about the same size as the decline in the early 2000s slump — which, admittedly, was partly because of the collapse in telecom spending, but still. And it seems pretty easy to explain simply by the accelerator effect: business investment always plunges when the economy is shrinking, which it was doing mainly because of the housing bust.
So when I look at these two key drivers of the Great Recession and subsequent depressed period, I don’t see an obvious role for financial disruption. Bernanke’s VARs tell a different story; but I generally don’t trust VARs unless I can relate them to phenomena we see from other perspectives.
Could Bernanke be right while Baker and I are wrong? Of course. But I really, really want to see the transmission mechanism.
La stretta creditizia e la grande Recessione (per esperti),
di Paul Krugman
Questa è davvero strana. C’è una disputa in corso sulle cause della Grande Recessione – ma non è questo che è strano. Quello che è così strano di questi giorni e in questi tempi è che esso avviene tra persone ben informate che effettivamente guardano i dati e argomentano in buona fede. Ma, signori, non sapete che queste cose avvennero una ventina di anni fa?
In ogni modo, da una parte abbiamo Dean Baker, che per lungo tempo ha sostenuto che lo scoppio della bolla immobiliare fu la causa principale sia della recessione che della lenta ripresa, con un ruolo minore e transitorio della perturbazione finanziaria – un punto di vista con il quale in massima parte io concordo. Dall’altra parte abbiamo niente di meno che Ben Bernanke, che in un nuovo saggio sostiene che la perturbazione del mercato del credito fu in effetti la storia principale.
Non si tratta di uno scontro frontale, dal momento che Bernanke è principalmente concentrato sul primo anno o giù di lì dopo la Lehman, mentre sia Baker che il sottoscritto siamo concentrati sulla poliennale depressione dell’economia che durò a lungo anche dopo la fine della perturbazione finanziaria (i dati di Bernanke mostrano la stessa impennata e rapida ripresa di altri indici di sofferenza). Ma c’è una chiara diversità.
Sfortunatamente non sarò al convegno della Brookings dove sarà discusso il lavoro di Bernanke. Ma forse posso avanzare il grande dubbio che ho sulle sue conclusioni.
Quello che Bernanke fa, da quanto comprendo, è una sorta di analisi in forma ridotta, identificando fattori nei mercati del credito e utilizzando serie temporali per stimare il loro impatto sulla produzione. Quello che fa Baker, ed io in buona parte lo seguo, è più una analisi strutturale basata sulla contabilità: si guarda alle componenti della domanda aggregata e ci si chiede quali cause sembrano sottointese dal loro andamento. In linea di principio questi approcci dovrebbero essere coerenti.
Il mio problema con il saggio di Bernanke è che non capisco a sufficienza come quella coerenza possa funzionare. In specifico, ho un problema nell’identificare il “meccanismo di trasmissione” – il modo in cui si suppone che lo shock finanziario abbia influenzato la spesa effettiva nella misura necessaria a giustificare una incidenza anzitutto della finanza sulla recessione.
Fatemi concentrare particolarmente sugli investimenti, che son ciò che vi aspettereste che una stretta creditizia deprima – e che, in effetti, durante la Grande Recessione crollarono. In primo luogo ci fu la bolla del settore immobiliare, che portò a un vasto declino negli investimenti sulle abitazioni, riducendo di circa 4 punti il PIL:
Figura 1 Federal Reserve di St. Louis
[1]
Possiamo dunque attribuire questo declino alle condizioni del credito? Se fosse così, perché gli investimenti abitativi rimasero depressi cinque anni dopo che i mercati del credito tornarono normali?
Nel frattempo, ci fu anche un brusco declino nel settore non residenziale, ovvero negli investimenti delle imprese:
Figura 2 Federal Reserve di ST. Louis
[2]
Ma questo declino fu soltanto di circa la stessa dimensione del declino della recessione dei primi anni 2000 – la quale in effetti avvenne in parte per il collasso nella spesa nel settore delle telecomunicazioni. Eppure sembra abbastanza facile spiegarlo semplicemente con l’effetto dell’acceleratore: gli investimenti delle imprese precipitano sempre quando l’economia si restringe, che è quello che stava facendo principalmente per lo scoppio della bolla immobiliare.
Dunque, quando osservo questi due fattori principali della Grande Recessione e il successivo periodo di depressione, non vedo alcun ruolo evidente per le turbative finanziarie. I modelli VAR [3] di Bernanke raccontano una storia diversa; ma in generale io non mi fido dei modelli VAR a meno che non possa connetterli con i fenomeni che si osservano da altre prospettive.
Potrebbe essere nel giusto Bernanke, e potremmo sbagliare Baker e il sottoscritto? Ovviamente. Ma davvero vorrei vedere il meccanismo della trasmissione.
[1] La tabella mostra l’andamento in termini di quote del PIL degli investimenti lordi del settore privato.
[2] La tabella mostra nella linea blu – in termini di quote del PIL – l’andamento degli investimenti nazionali privati nel settore non residenziale. La linea rossa si riferisce al PIL interno reale. Il rapporto in termini percentuali con il PIL è espresso dai valori a sinistra sulla linea verticale, mentre le percentuali sulla destra indicano le variazioni del PIL reale.
[3] Vettore autoregressivo. I modelli VAR sono stati introdotti da Christopher Sims in uno storico articolo pubblicato su Econometrica nel 1980, che proponeva una critica dei modelli strutturali di equazioni simultanee, allora il principale strumento di analisi econometria nell’ambito della macroeconomia. (Wikipedia)
settembre 15, 2018
Sept. 12, 2018
By Paul Krugman
It has been ten years since the failure of Lehman sent the global financial system into freefall. Why is this date different from any other date? No particular reason. But round-number anniversaries do have the virtue of giving people a reason to look back at experience, and maybe even learn from it.
So how does the crisis response look 10 years later? Well, it could have been worse. But it could and should have been much better.
And the question is, do we understand that? To which the answer is, what do you mean “we,” white man? Some of us understand the inadequacy of crisis response — but we pretty much always did. Meanwhile, those who stood in the way of doing what should have been done have, with notably rare exceptions, failed to face up to their errors and the consequences.
Let’s start with what went kind of right. Faced with an imminent financial meltdown, policymakers by and large did what needed to be done to limit the damage. Their actions included bank bailouts, which should have been fairer — too many bankers got bailed out along with their banks — but were effective. There were also many emergency provisions of credit, including little-known but crucial things like maintaining dollar credit lines to non-U.S. central banks.
The result was that the acute phase of the financial crisis — what I still think of as the “Oh God we’re all gonna die” phase — was relatively brief. It was scary and did immense damage — America lost 6 ½ million jobs in the year after Lehman fell. But as you can see in Figure 1, measures of financial stress fell off rapidly in 2009, and were more or less back to normal by the summer.
Figure 1 Federal Reserve of St. Louis
Rapid financial recovery did not, however, produce rapid recovery for the economy as a whole. As the same figure shows, unemployment stayed high for many years; we didn’t return to anything that felt remotely like full employment (leaving aside the question of whether we’re there even now) until late in Obama’s second term.
Why didn’t financial stability bring a rapid bounceback? Because financial disruption wasn’t at the heart of the slump. The really big factor was the bursting of the housing bubble — of which the banking crisis was a symptom. As Figure 2 shows, the housing bust led directly to a dramatic drop in residential investment, enough in itself to produce a deep recession, and recovery was both slow and incomplete.
Figure 2 Federal Reserve of St. Louis
The plunge in home prices also destroyed a lot of household wealth, depressing consumer spending in general.
So what should we have done to produce a faster recovery? Private spending was depressed; monetary policy was ineffective because we were at the zero lower bound on interest rates. So we needed fiscal expansion, some combination of spending and tax cuts.
And we did, of course, get the ARRA — the Obama stimulus. But it was too small and, even more important, faded out much too quickly; see Figure 3.
Figure 3 Federal Reserve of St. Louis
You could say that nobody could have predicted such a sustained slump. You could say that — but you would be wrong. Many people, myself included, predicted a slow recovery, because this was a different kind of recession from those of the 70s and 80s — one brought on by private-sector overreach, not inflation.
Why, then, didn’t we get the fiscal policy we should have had? There were, I’d say, multiple villains in the story.
First, we can argue whether the Obama administration could have gotten more; that’s a debate we’ll never see resolved. What is clear, however, is that at least some key Obama figures were actively opposed to giving the economy the support it needed. “Stimulus is sugar,” snapped Tim Geithner at Christina Romer, when she argued for a bigger plan.
Second, Very Serious People pivoted very early from concern about the unemployed — hey, they probably lacked the necessary skills — to hysteria over deficits. By 2011, unemployment was still over 9 percent, but all the Beltway crowd wanted to talk about was the menace of the debt.
Finally, Republicans blocked attempts to rescue the economy and tried to strangle government spending every step of the way. They claimed that this was because they cared about fiscal responsibility — but it was obvious to anyone paying attention (which unfortunately didn’t include almost anyone in the news media) that this was an insincere, bad-faith argument. As we’ve now seen, they don’t care at all about deficits as long as a Republican is in the White House and the deficits are the counterpart of tax cuts for the rich.
The end result was that policy moved quickly and fairly effectively to rescue banks, then turned its back on mass unemployment. It’s a story that’s both sad and nasty. And there’s every reason to believe that if we have another crisis, it will happen all over again.
Il lavoro scadente sulla Grande Recessione,
di Paul Krugman
Sono passati dieci anni da quando il fallimento della Lehman spedì il sistema finanziario globale in caduta libera. Perché questa data è differente da ogni altra? Non c’è una ragione particolare. Ma gli anniversari in cifra tonda hanno la virtù di darci una ragione per guardare indietro alla esperienza, e forse persino per imparare da essa.
Come appare, dunque, la risposta alla crisi dieci anni dopo? Ebbene, poteva andare peggio. Ma poteva e avrebbe dovuto andare molto meglio.
Ma la domanda è se lo comprendiamo. Alla quale domanda, la risposta è: che intendi con “noi”, uomo bianco [1]? Alcuni di noi comprendono l’inadeguatezza della risposta alla crisi – ma l’abbiamo capito quasi sempre. Nel contempo, quelli tra noi che si misero di traverso a fare quello che si sarebbe dovuto fare non sono riusciti, con eccezioni notevolmente rare, a guardare in faccia ai loro errori e alle loro conseguenze.
Partiamo da quello che andò abbastanza giustamente. A fronte di un imminente tracollo finanziario, le autorità fecero grosso modo quello che era necessario fare per limitare il danno. Le loro iniziative inclusero i salvataggi delle banche, che avrebbero dovuto essere fatti in modo più giusto – troppi banchieri vennero salvati assieme alle loro banche – ma furono efficaci. Ci furono anche molte forniture di credito di emergenza – alcune cose poco note ma cruciali come il mantenimento di linee di credito in dollari a banche centrali non statunitensi.
Il risultato fu che la fase acuta della crisi finanziaria – la fase alla quale continuo a pensare con l’espressione “Oddio, si muore tutti” – fu relativamente breve. Fu tremenda e fece un danno immenso – l’America perse 6,5 milioni di posti di lavoro l’anno successivo della caduta della Lehman. Ma, come potete vedere nella Figura 1, le misure dello stress finanziario si ridussero rapidamente nel 2009, e con l’estate tornarono più o meno alla normalità.
Figura 1, dalla Federal Reserve di St. Louis
Tuttavia, la rapida ripresa finanziaria non produsse una rapida ripresa dell’economia nel suo complesso. Come mostra la stessa tabella, la disoccupazione rimase elevata per molti anni; non tornammo a niente che somigliasse neppure da lontano alla piena occupazione sino alla fase finale del secondo mandato di Obama (a parte il quesito se ci siamo ancora oggi).
Perché la stabilità finanziaria non comportò una rapida ripresa? Perché il dissesto finanziario non fu il cuore della recessione. Il fattore realmente grave fu l’esplosione della bolla patrimoniale – del quale la crisi bancaria fu un sintomo. Come mostra la Figura 2. Lo scoppio della bolla edilizia portò rapidamente ad una caduta spettacolare degli investimenti abitativi, sufficiente di per sé a produrre una profonda recessione, e la ripresa fu sia lenta che incompleta [3].
Figura 2. Federal Reserve di St. Louis
La caduta dei prezzi delle abitazioni distrusse anche una gran quantità di ricchezza delle famiglie, deprimendo in generale la spesa per i consumi.
Cosa avremmo dovuto fare, dunque, per produrre una ripresa più veloce? La spesa privata era depressa; la politica monetaria era inefficace perché eravamo al limite inferiore dello zero dei tassi di interesse. Avevamo dunque bisogno di una espansione della finanza pubblica, una qualche combinazione di spesa pubblica e di tagli alle tasse.
E in effetti avemmo, ovviamente, l’ARRA – la legge sullo stimolo di Obama. Ma essa fu troppo piccola e anche, persino più importante, svanì troppo rapidamente; si veda la Figura 3.
Figura 3, Federal Reserve di St.Louis
Si può dire che nessuno aveva potuto prevedere una tale prolungata recessione. Lo si potrebbe dire, ma si sbaglierebbe. Molte persone, incluso il sottoscritto, previdero una ripresa lenta, giacché quella era una recessione di tipo diverso da quelle degli anni ’70 e ’80 – provocata non dall’inflazione, ma da un settore privato che si era spinto troppo oltre.
Perché, allora non avemmo una politica della finanza pubblica quale avremmo dovuto avere? Direi che nella storia ci furono una molteplicità di responsabili.
Anzitutto, possiamo ritenere che l’Amministrazione Obama avrebbe dovuto fare di più; si tratta di un dibattito che non si concluderà mai. Tuttavia, quello che è chiaro è che almeno qualche figura chiave della Amministrazione di Obama si oppose attivamente a dare all’economia il sostegno di cui aveva bisogno. “Lo stimolo è zucchero”, così reagì bruscamente Tim Geithner nei confronti di Christina Romer, quando ella si pronunciò per un programma più forte.
In secondo luogo, le Persone Molto Serie spostarono molto rapidamente la loro preoccupazione dai disoccupati – si ricorda la tesi per la quale essi probabilmente difettavano delle competenze necessarie? – all’isteria sui deficit. Nel 2011, la disoccupazione era ancora sopra il 9 per cento, ma tutta la gente della Capitale voleva parlare della minaccia del debito.
Infine, i repubblicani bloccarono i tentativi di mettere in salvo l’economia e cercarono di strangolare la spesa pubblica in ogni occasione. Sostenevano che questo dipendeva dal fatto che si preoccupavano della responsabilità per la finanza pubblica – ma era evidente ad ognuno che prestasse attenzione (la qual cosa sfortunatamente non includeva quasi nessun operatore dei media delle informazioni) che questo era un argomento insincero, in malafede. Come abbiamo constatato al giorno d’oggi, loro non si preoccupano affatto dei deficit per tutto il tempo in cui alla Casa Bianca c’è un repubblicano e i deficit sono il risultato dei tagli fiscali ai ricchi.
Il risultato finale fu che la politica si spostò rapidamente e abbastanza efficacemente al salvataggio delle banche, poi voltò le spalle alla disoccupazione di massa. Una storia che è sia triste che disgustosa. E ci sono tutte le ragioni per credere che se avremo un’altra crisi, accadrà di nuovo dappertutto.
[1] Una espressione ironica che pare provenga dalla cultura dei pellerossa.
[2] La linea blu indica la stima dello stress finanziario – nell’indice della Banca della Fed – mentre quella rossa l’andamento del tasso di disoccupazione.
[3] La tabella mostra l’andamento degli investimenti interni lordi del settore residenziale privato, espresso in termini di percentuali del PIL, che in due anni si ridussero di circa due terzi.
settembre 12, 2018
Sept. 11, 2018
By Paul Krugman
The debate between Joe Stiglitz and Larry Summers over secular stagnation is a somewhat embarrassing affair, which I hope will soon be forgotten. Joe, one of our greatest living economists, seems to have misunderstood what secular stagnation means – which is, to be fair, easy given how unintuitive the term is. And he accused Larry of inventing the doctrine to justify the Obama administration’s policy shortfalls.
Urk. Secular stagnation means that situations like 2008-16, in which monetary policy alone can’t restore full employment, should be seen as highly likely and maybe the norm. It doesn’t say that no policies can promote growth and employment. On the contrary, it’s a justification for more policy activism, especially on the fiscal front, not less – which is exactly what Larry has been saying.
And it’s hardly an excuse for Obama-era failures. I spent 2009-10 screaming that the stimulus was inadequate, precisely because I didn’t expect the slump to be rapidly self-correcting; I based this lack of faith partly on the tendency of financial crises to have long shadows, but I also simultaneously and independently arrived at the same secular stagnation conclusions as Larry did.
So can we just chalk this one up to communication problems, and let it go? And can we talk about more interesting implications of the economy’s apparent need for low real interest rates on average?
One implication, which I and others have pushed, is that the underlying case for a 2 percent inflation target is all wrong. That case rested in large part on the belief that at 2 percent inflation, zero-lower-bound episodes would be rare and transitory. That has clearly proved not to be the case, which makes the argument for a higher target so that real rates can go lower when bad things happen.
Another implication, which I don’t think has gotten enough attention, is that there is even less reason than before to obsess over government debt.
The usual scare story about debt warns about a debt spiral: deficits mean higher debt, which means higher interest payments, which means bigger deficits, which means faster growth in debt, and so on until confidence collapses. But this kind of debt spiral can only happen if the interest rate on the debt is higher than the economy’s growth rate.
And this hasn’t been true for a while. Here’s the average interest rate paid on federal debt:
Federal Reserve Bank of St. Louis
These days that rate is well below 3 percent even when the economy is near full employment. Meanwhile, we think the U.S. economy has an underlying growth rate of maybe 2 percent, plus 2 percent inflation – which means 4 percent nominal growth.
What this means is that debt doesn’t spiral. On the contrary, it tends to fall as a share of GDP unless the government runs large primary deficits.
I’m not saying that we shouldn’t worry about debt at all, because there may be future contingencies when real interest rates rise and debt becomes an issue. But debt is way, way down on the list of things to worry about – absolutely trivial compared with, say, crumbling infrastructure, which should be fixed without worrying about paying as you go.
Il debito non cresce a dismisura,
di Paul Krugman
Il dibattito tra Joe Stiglitz e Larry Summers sulla stagnazione secolare è una faccenda in qualche modo imbarazzante, che io spero sarà presto dimenticata. Joe, uno dei nostri più importanti economisti viventi, sembra aver frainteso il significato della stagnazione secolare – la qual cosa è, ad esser giusti, facile considerato quanto sia una espressione non intuitiva. Ed ha accusato Larry di essersi inventato quella dottrina per giustificare gli insuccessi politici della Amministrazione Obama.
Per la miseria! La stagnazione secolare significa che situazioni come quelle del periodo 2008-2016, nelle quali la politica monetaria da sola non può ripristinare la piena occupazione, dovrebbe essere considerate come altamente probabili, se non come la norma. Questo non significa che nessuna politica possa promuovere crescita e occupazione. Al contrario, è una giustificazione per una maggiore e non minore iniziativa politica, soprattutto sul fronte della finanza pubblica – che è quanto Larry viene dicendo.
E non costituisce certo una scusante per gli insuccessi dell’epoca di Obama. Ho speso il 2009 e il 2010 strepitando che lo stimolo era inadeguato, precisamente perché non mi aspettavo che la recessione si correggesse rapidamente; basavo questa scarsa fiducia in parte sulla tendenza delle crisi finanziarie a lasciare lunghe ombre, ma contemporaneamente e per mio conto arrivavo alle stesse conclusioni di Larry.
Possiamo dunque ascrivere tutto questo ai problemi della comunicazione, e lasciar perdere? E possiamo parlare delle più interessanti implicazioni per l’apparente bisogno dell’economia di tassi di interesse reali in media bassi?
Una implicazione, che assieme ad altri ho avanzato, è che l’implicito argomento per un obbiettivo di inflazione al 2 per cento è completamente sbagliato. Quella tesi si basava in larga parte sul convincimento che con una inflazione al 2 per cento, gli episodi di tassi di interesse al livello inferiore dello zero sarebbero stati rari e transitori. Ma quello si è ampiamente dimostrato non essere il caso, il che rafforza l’argomento per un obbiettivo più elevato, in modo che i tassi reali possano scendere quando si delineano situazioni negative.
Un’altra implicazione, che penso non sia stata compresa a sufficienza, è che ci sono anche meno ragioni per essere ossessionati dal debito pubblico.
Il consueto racconto terribile sul debito mette in guardia dalla sua tendenza a crescere vertiginosamente: i deficit comportano un debito più alto, il che significa più elevati pagamenti sugli interessi, il che comporta deficit più grandi, il che significa una crescita più rapida del debito, e così di seguito sinché non c’è un collasso della fiducia. Ma questo genere di crescita vertiginosa del debito può accadere se il tasso di interesse sul debito è più elevato del tasso di crescita dell’economia.
E questo non è vero da un po’ di tempo. Ecco il tasso di medio di interesse pagato sul debito federale.
Federal Reserve, Banca di St. Louis
In questi giorni quel tasso è molto inferiore al 3 per cento, pur essendo l’economia vicina alla piena occupazione. Nello stesso tempo, pensiamo che l’economia statunitense abbia un sottostante tasso di crescita di circa il 2 per cento, più un 2 per cento di inflazione – il che significa un 4 per cento di crescita nominale.
Quello che questo comporta è che il debito non cresce a dismisura. Al contrario, esso scende come percentuale del PIL, a meno che il Governo non gestisca ampi deficit primari.
Non sto sostenendo che non dovremmo preoccuparci affatto del debito, giacché ci possono essere contingenze future allorché i tassi di interesse crescono e il debito diventa un problema. Ma il debito è del tutto in fondo alla lista delle cose di cui preoccuparci – del tutto irrilevante al confronto, ad esempio, con le infrastrutture fatiscenti, che dovrebbero essere rinnovate senza preoccuparsi, nel mentre lo si fa, di come pagarle.
settembre 11, 2018
Sept. 3, 2018
By Paul Krugman
Let’s be honest: Despite his reputation as a maverick, John McCain spent most of his last decade being a very orthodox Republican, toeing the party line no matter how irresponsible it became. Think of the way he abandoned his onetime advocacy of action to limit climate change.
But he redeemed much of that record with one action: He cast the crucial vote against G.O.P. attempts to repeal the Affordable Care Act. That single “nay” saved health care for tens of millions of Americans, at least for a while.
But now McCain is gone, and with him, as far as we can tell, the only Republican in Congress with anything resembling a spine. As a result, if Republicans hold Congress in November, they will indeed repeal Obamacare. That’s not a guess: It’s an explicit promise, made by Vice President Mike Pence last week.
But what about the problems that sank the repeal effort in 2017? Surely Republicans have spent the past year rethinking their policy ideas, trying to come up with ways to undo the A.C.A. without inflicting enormous harm on ordinary Americans, especially those with pre-existing medical conditions. Right?
See, I made a joke.
Of course, Republicans haven’t rethought their ideas on health care (or, actually, anything else). Partly that’s because the modern G.O.P. doesn’t do policy analysis. Democrats have a network of think tanks and sympathetic independent experts who look hard at evidence, try to devise solutions to real problems and sometime affect actual legislative proposals. Republicans have nothing comparable; their tame “experts” are basically in the business of saying whatever their political masters want to hear.
In the case of health care, however, there’s an even deeper problem: The G.O.P. can’t come up with an alternative to the Affordable Care Act because no such alternative exists. In particular, if you want to preserve protection for people with pre-existing conditions — the health issue that matters most to voters, including half of Republicans — Obamacare is the most conservative policy that can do that. The only other options are things like Medicare for all that would involve moving significantly to the left, not the right.
Health economists have explained this point many times over the years; but as always, it’s difficult to get a man to understand something when his salary depends on his not understanding it. Still, let’s try one more time.
If you want private insurers to cover people with pre-existing conditions, you have to ban discrimination based on medical history. But that in itself isn’t enough, because if policies cost the same for everyone, those who sign up will be sicker than those who don’t, creating a bad risk pool and forcing high premiums. That was the case in New York, where premiums for individual policies were very high before the A.C.A. — and promptly fell by half when Obamacare went into effect.
For what Obamacare did was provide incentives to get healthy people to sign up, too. On one side there was a penalty for not having insurance (the individual mandate). On the other, there were subsidies designed to limit health expenses as a share of income. Republicans have tried to sabotage health care by doing away with the mandate, and have succeeded in driving premiums higher; but the system is still standing thanks to those subsidies.
The point, again, is that Obamacare is the most conservative option for covering pre-existing conditions, and if Republicans really cared about the scores of millions of Americans with such conditions, they would support and indeed try to strengthen the A.C.A.
Instead, they’re going to kill it if they hold on in two months. But covering pre-existing conditions is popular; therefore, they’re pretending that they’ll do that, while offering proposals that would, in fact, do no such thing.
Why do they imagine they can get away with such brazen fraud, because that’s what it is? Do they imagine that voters are stupid?
Well, yes. In recent rallies Donald Trump has been declaring that Democrats want to “raid Medicare to pay for socialism.”
But the more important target is the news media, many members of which still haven’t learned to cope with the pervasive bad faith of modern conservatism.
When someone like, say, Senator Dean Heller of Nevada co-sponsors a bill that purports to protect pre-existing conditions but actually doesn’t, what he hopes for are headlines that say “Heller Announces Plan to Protect Americans With Pre-existing Conditions,” with the key fact — that his bill wouldn’t do that at all — buried in the 17th paragraph.
Or better yet, from his point of view, that 17th paragraph would state only that “some Democrats” say his bill is a fraud, while Republicans disagree. Both sides, you know.
So if you’re an American who suffers from a pre-existing medical condition, or fear that you might develop such a condition in the future, you need to be clear about the reality: Republicans are coming for your health care. If they hold the line in November, health insurance at an affordable price — maybe at any price — will be gone in a matter of months.
Ammalati, fallisci e poi muori,
di Paul Krugman
Siamo onesti: nonostante la sua reputazione di ‘battitore libero’, John McCain ha speso gran parte del suo ultimo decennio come un repubblicano molto ortodosso, seguendo la linea del partito a prescindere da quanto diventava irresponsabile. Si pensi al modo in cui ha abbandonato il suo sostegno di un tempo alle iniziative per limitare il cambiamento climatico.
Ma ha riscattato gran parte di quelle prestazioni con una sola iniziativa: espresse il suo voto fondamentale contro i tentativi repubblicani di abrogare la legge di riforma sanitaria. Quel solo ‘diniego’ salvò l’assistenza sanitaria per decine di milioni di americani, almeno per un po’ di tempo.
Ma adesso McCain se ne è andato, e con lui, per quanto possiamo dire, l’unico repubblicano nel Congresso che avesse qualcosa che assomigliava ad una spina dorsale. Di conseguenza, se i repubblicani manterranno a novembre il controllo del Congresso, di fatto abrogheranno la riforma di Obama. Non è una congettura: è una esplicita promessa, avanzata la scorsa settimana dal Vice Presidente Mike Pence.
Ma che dire dei problemi che affondarono il proposito della abrogazione nel 2017? Certamente i repubblicani hanno passato l’anno trascorso ripensando ai loro propositi politici, cercando di farsi venire in mente i modi per disfare la riforma sanitaria senza infliggere un danno enorme agli americani comuni, particolarmente a quelli con preesistenti patologie sanitarie. Giusto?
Come avete capito, sto scherzando.
Ovviamente, i repubblicani non hanno ripensato alle loro idee sulla assistenza sanitaria (come, in realtà, su nient’altro). I democratici hanno una rete di gruppi di ricerca e di esperti indipendenti che sono loro simpatizzanti che osserva con attenzione i fatti, cerca di individuare soluzioni ai problemi reali e talvolta influenza effettive proposte legislative. I repubblicani non hanno niente di simile; i loro docili “esperti” fondamentalmente partecipano all’esercizio di dire tutto quello che i loro capi politici vogliono sentir dire.
Nel caso della assistenza sanitaria, tuttavia, c’è un problema anche più profondo: il Partito Repubblicano non può venirsene fuori con una alternativa alla Legge sulla Assistenza Sostenibile perché una tale alternativa non esiste. In particolare, se volete difendere la protezione per le persone con preesistenti patologie sanitarie – la questione sanitaria che sta a cuore alla maggioranza degli elettori, compresa una metà dei repubblicani – la legge di Obama è la politica più conservatrice che possa farlo. Le uniche altre opzioni sono cose come ‘Medicare per tutti’, che comporterebbero un significativo spostamento a sinistra, non a destra.
Nel corso degli anni, gli economisti sanitari hanno spiegato questo aspetto molte volte; ma come sempre, è difficile ottenere che un uomo capisca qualcosa quando il suo stipendio dipende dal non capirlo. Tuttavia, proviamo un’altra volta.
Se volete che gli assicuratori privati coprano persone con patologie preesistenti [1], dovete impedire le discriminazioni sulla base delle condizioni sanitarie. Ma solo quello non sarebbe sufficiente, perché se il costo delle polizze è lo stesso per tutti, coloro che si iscrivono saranno in media più malati di quelli che non si iscrivono, creando una situazione negativa nella ‘platea’ delle posizioni assicurative e costringendo a premi elevati. Era questo il caso di New York, dove i premi per le polizze individuali erano molto alti prima della legge di riforma – e scesero rapidamente di quasi la metà quando la riforma di Obama entrò in funzione.
Perché quello che fece la riforma di Obama fu fornire incentivi per far iscrivere anche le persone in salute. Da una parte fu stabilita una penalizzazione per coloro che non avevano l’assicurazione (il cosiddetto “mandato” individuale [2]). Dall’altra, ci furono sussidi rivolti a limitare le spese sanitarie come quote di reddito. I repubblicani hanno provato a sabotare l’assistenza sanitaria eliminando il “mandato” e sono riusciti a spingere i premi in alto; ma il sistema è rimasto in piedi grazie a quei sussidi.
Resta il punto che la riforma di Obama è l’opzione più conservatrice per la copertura delle patologie preesistenti, e se i repubblicani davvero si preoccupassero dei numerosi milioni di americani con tali patologie, sosterrebbero e in effetti cercherebbero di rafforzare la Legge sulla Assistenza Sostenibile.
Invece, andranno nella direzione di sopprimerla se entro due mesi avranno il controllo del Congresso. Ma la copertura delle patologie preesistenti è popolare; di conseguenza, essi stanno fingendo di non volerlo fare, nel mentre avanzano proposte che, di fatto, non farebbero niente di quello che annunciano.
Come fanno a immaginarsi di farla franca con un tale imbroglio sfacciato, giacché di questo si tratta? Si immaginano che gli elettori siano stupidi?
Ebbene, sì. In recenti comizi Donald Trump ha dichiarato che i democratici vogliono “saccheggiare Medicare per pagare il socialismo”.
Ma l’obbiettivo più importante sono i media dell’informazione, molti componenti dei quali non hanno ancora imparato a fare i conti con la pervasiva malafede del conservatorismo moderno.
Quando qualcuno come, ad esempio, il Senatore del Nevada Dean Heller aderisce ad una proposta di legge che propone di proteggere coloro che hanno patologie preesistenti ma in realtà non lo fa, quello che egli spera sono titoli dei giornali che dicano “Heller annuncia un programma per proteggere gli americani con patologie pre esistenti”, con la proposta centrale – che la sua legge non realizzerà affatto – seppellita al 17° paragrafo.
O meglio ancora, dal suo punto di vista, quel 17° paragrafo affermerebbe soltanto che “alcuni democratici” dicono che la sua proposta è un inganno, mentre i repubblicani non sono d’accordo. L’eguaglianza dei due schieramenti, come sapete.
Dunque, se siete un americano che soffre di preesistenti patologie sanitarie, o che temete di poter sviluppare una tale condizione nel futuro, avete bisogno di essere chiari sulla realtà: i repubblicani stanno venendo a prendersi la vostra assistenza sanitaria. Se manterranno le loro posizioni a novembre, l’assicurazione sanitaria ad un prezzo sostenibile – forse a qualsiasi prezzo – se ne andrà nel giro di pochi mesi.
[1] I costi insostenibile delle patologie “preesistenti” erano una condizione tipica precedente alla riforma di Obama. Quando un lavoratore doveva cambiare assicurazione, la nuova polizza metteva nel conto l’esistenza di serie malattie preesistenti, in quei casi con costi molto elevati. La riforma di Obama proibì tali pratiche e stabilì l’obbligo per le assicurazioni di garantire gli stessi costi a tutti. Perché tale obbligo fosse rispettato venne previsto che tutti i protetti dalla assicurazione, ammalati o sani, acquistassero una assicurazione; i meno abbienti avrebbero ricevuto sussidi pubblici per poterselo permettere. In tal modo la ‘platea’ degli assicurati avrebbe mantenuto una redditività media adeguata ai costi delle assicurazioni.
[2] “Individual Mandate” significa mandato, delega, obbligo a carico degli utenti. Ovvero è un modo in cui gli utenti aiutano a mantenere l’equilibrio dei costi assicurativi, non di tasca propria – esistendo i sussidi – ma per effetto di una ‘platea’ di assicurati composta di persone sane, oltre che di ammalati anche cronici.
settembre 4, 2018
Aug. 31 2018
By Paul Krugman
You sometimes hear the claim that Republicans hate public spending. In practice, however, their hatred is selective. They tend to be OK with spending that flows into the pockets of private-sector friends, whether it’s mercenaries or for-profit colleges. No, what they really hate are two kinds of spending: outlays that help Americans afford life’s essentials, like food and health care, and paying wages to government employees.
So there’s a sense in which Donald Trump’s decision to use executive authority to deny all federal workers a cost-of-living adjustment is squarely in the Republican mainstream. But the timing is odd.
After all, the jihad against government workers probably reached its high point in 2010-2011, along with the Tea Party movement. Denunciations of big government were all the rage, bolstered in part by false claims that Barack Obama had presided over an explosion in federal employment. (What actually happened was a temporary spike associated with the 2010 census – something that happens every 10 years whoever is president.)
Since then, however, the public has, I think, gradually become aware of the realities of the situation. The vast majority of government workers are employed by state and local governments – and more than half of these state and local workers are in education, with much of the remaining employment in public safety (police and firefighting.) So the typical government employee isn’t a bureaucrat doing nothing; he or (often) she is a schoolteacher.
And schoolteachers are hardly living high off the hog. On the contrary, their pay has lagged ever farther behind that of comparably qualified people in the private sector, not to mention the fact that thanks to budget cuts many teachers end up buying school supplies out of their own pockets. The squeeze on teachers has led to a nationwide walkout movement – and the public seems broadly supportive.
So this is, as I said, sort of an odd moment for Trump to put a squeeze on government workers. True, these are federal workers, so we’re not talking about schoolteachers. But we are talking about people who keep us safe, or care for those who previously helped keep us safe: about two-thirds of the amount the federal government spends on employee compensation goes to the Department of Defense, the Department of Veterans Affairs, or the Department of Homeland Security.
How well are these workers paid? Federal workers with low levels of education are paid more than their counterparts in the private sector – but do you really want our government to emulate the always-low-wages policies of, say, fast food chains? More educated workers, on the other hand, are paid substantially less than private-sector equivalents, and CBOfinds that overall the federal government pays only about 3 percent more than it would if it matched private pay schedules.
What is Trump’s justification for denying these workers a cost of living adjustment? He says that it’s about putting us on a “fiscally sustainable course,” which is extremely rich for someone who just rammed through a huge tax cut for corporations and the wealthy. What makes it even richer is that on the same day that he announced that he was cancelling the pay rise, Trump floated the idea of using executive action to index capital gains to inflation, a de facto tax cut that would increase the deficit, and deliver 63 percent of its benefits to the wealthiest 0.1 percent of the population, 86 percent to the top 1 percent.
So what’s really going on? Giving government workers the shaft is long-term G.O.P. policy, but even so I suspect that Congressional Republicans would have preferred that Trump not make this announcement two months before the midterm elections. The timing, as opposed to the general hostility to public servants, is probably personal to Trump.
Two things in particular seem relevant here. First, Trump has always chiseled and cheated those who work for him: his business career is littered with tales of unpaid workers and contractors. Since he makes no distinction between personal business and being president, squeezing a few bucks out of the federal workforce just comes naturally.
Beyond that, Trump is feeling under siege from the “deep state,” which to him means any part of the government that answers to rule of law as opposed to being personally loyal to him. His wage chiseling may in part represent a way of lashing out at everyone in government: these days they all look like Robert Mueller to him.
Whatever the precise motivations, this is a teachable moment, one that reveals not only another layer of Trump’s personal awfulness but what Republicans really mean when they pretend to care about fiscal responsibility.
Dare una fregatura ai lavoratori del pubblico impiego, di Paul Krugman
Qualche volta c’è chi sostiene che i repubblicani odiano la spesa pubblica. In pratica, tuttavia, il loro odio è selettivo. Essi tendono a non avere problemi con la spesa che finisce nei portafogli degli amici del settore privato, che siano mercenari o università a scopo di lucro. Quello che realmente odiano, in realtà, sono due tipi di spesa: gli esborsi che aiutano gli americani a permettersi le cose essenziali della vita, come il cibo e l’assistenza sanitaria, e pagare gli stipendi dei lavoratori del pubblico impiego.
Dunque c’è un senso per il quale la decisione di Donald Trump di utilizzare la sua autorità esecutiva per negare a tutti i lavoratori federali un adeguamento al costo della vita è esattamente nella tradizione repubblicana. È invece curiosa la tempistica.
Dopo tutto, la guerra santa contro i lavoratori pubblici raggiunse il suo punto più alto nel 2010-2011, assieme al movimento del Tea Party. Le denunce del ‘grande Governo’ erano di gran moda, in parte sostenute dalle false pretese che Barack Obama avesse governato per una esplosione dell’occupazione federale (quello che in realtà accadde fu un innalzamento temporaneo collegato col Censimento del 2010 – qualcosa che accade ogni dieci anni, chiunque sia il Presidente).
Da allora, tuttavia, l’opinione pubblica è diventata gradualmente consapevole delle realtà della situazione. La grande maggioranza dei lavoratori pubblici sono occupati dagli Stati e dai governi locali – e più della metà di questi lavoratori degli Stati e dei governi locali operano nel settore dell’istruzione, con gran parte della restante occupazione nel settore della sicurezza pubblica (polizia e pompieri). Dunque, la tipica occupazione pubblica non sono burocrati che non fanno niente; sono (spesso) maestre e maestri.
E i maestri è difficile che vivano nel lusso. Al contrario, i loro stipendi sono sempre rimasti assai indietro rispetto a quelli delle paragonabili persone qualificate del settore privato, per non dire che grazie ai tagli sui bilanci molti insegnanti finiscono con l’acquistare di tasca loro le forniture scolastiche. Spremere gli insegnanti ha provocato un movimento di astensioni dal lavoro di dimensioni nazionali – con un generale sostegno, sembra, dell’opinione pubblica.
Questo, dunque, come ho detto, è una specie di strano momento per Trump per spremere il pubblico impiego. È vero, sono lavoratori federali, dunque non stiamo parlando di insegnanti. Ma stiamo parlando di persone che ci fanno stare al sicuro, o si occupano di coloro che in passato contribuivano a farci stare al sicuro: circa due terzi di quanto il Governo Federale spende sulle retribuzioni degli impiegati vanno al Dipartimento della Difesa, al Dipartimento degli Affari dei Militari in Congedo, o al Dipartimento della Sicurezza Nazionale.
Quanto sono ben pagati questi lavoratori? I lavoratori federali con bassi livelli di istruzione sono pagati di più dei loro omologhi del settore privato – ma vogliamo davvero che il nostro Governo emuli le politiche degli stipendi costantemente bassi o, diciamo, delle catene dei fast food. D’altra parte, i lavoratori più istruiti sono pagati sostanzialmente meno dei loro equivalenti del settore privato e l’Ufficio Congressuale del Bilancio stima che il Governo Federale paghi nel complesso soltanto il 3 per cento di più di quello che pagherebbe se eguagliasse i programmi contributivi del settore privato.
Quale è la giustificazione di Trump per negare a questi lavoratori un adeguamento al costo della vita? Egli dice che riguarda il collocarci su “un indirizzo di finanza pubblica sostenibile”, il che è estremamente gustoso per uno che ha appena imposto l’approvazione di un grande taglio delle tasse per le società e i ricchi. Quello che lo rende ancora più gustoso è che lo stesso giorno che annunciava di star cancellando l’aumento degli stipendi, Trump ha ventilato l’idea di usare una procedura esecutiva per indicizzare i profitti da capitale all’inflazione, un sostanziale taglio delle tasse che aumenterebbe il deficit, ed ha consegnato il 63 per cento dei suoi sussidi allo 0,1 per cento della popolazione più ricca, l’86 per cento all’1 per cento dei più ricchi.
Dunque, costa sta accadendo sul serio? Dare una fregatura ai lavoratori del pubblico impiego è una politica a lungo termine del Partito Repubblicano, ma anche così io ho il sospetto che i repubblicani del Congresso avrebbero preferito che Trump non facesse questi annunci due mesi prima delle elezioni a medio termine. La tempistica, all’opposto della generale ostilità dei funzionari statali, è probabilmente una scelta personale di Trump.
In questo caso, due cose sembrano in particolare rilevanti. La prima, Trump ha sempre dato fregature e ingannato quelli che lavorano per lui; la sua carriera di affarista è disseminata di racconti di lavoratori e appaltatori non pagati. Dal momento che non fa alcuna distinzione tra affari personali e Presidenza, strizzare un po’ di portafogli del pubblico impiego gli viene proprio naturale.
Oltre a ciò, Trump si sente sotto l’assedio dello Stato nello Stato”, il che per lui significa ogni settore del Governo che risponde allo Stato di diritto, anziché essere personalmente fedele a lui stesso. Il suo scherzetto sugli stipendi in parte può rappresentare un modo per attaccare tutti nel Governo: di questi tempi per lui assomigliano tutti a Robert Mueller.
Qualsiasi siano le precise ragioni, questo è un momento istruttivo, di quelli che rivelano non solo un altro aspetto della personale sgradevolezza di Trump, ma anche quello che i repubblicani intendono per davvero quando fingono di avere a cuore la responsabilità della finanza pubblica.
agosto 30, 2018
Aug. 26, 2018
By Paul Krugman
There are two articles currently on the Times home page – an opinion pieceby Corey Robin, and a news analysis by Neil Irwin — that I think should be read together. Taken as a pair, they get at a lot of what’s wrong with the neoliberal ideology (and yes, I do think that’s the right term here) that has dominated so much public discourse since the 1970s.
What, after all, were and are the selling points for low taxes and minimal regulation? Partly, of course, the claim that small government is the key to great economic performance, a rising tide that raises all boats. This claim persists – because there are powerful interests that want it to persist — even though the era of neoliberal dominance has in fact been marked by so-so economic growth that hasn’t been shared with ordinary workers:
The other claim, however, has been that free markets translate into personal freedom: that an unregulated market economy liberates ordinary people from the tyranny of bureaucracies. In a free market, the story goes, you don’t need to flatter your boss or the company selling you stuff, because they know you can always go to someone else.
What Robin points out is that the reality of a market economy is nothing like that. In fact, the daily experience of tens of millions of Americans – especially but not only those who don’t make a lot of money – is one of constant dependence on the good will of employers and other more powerful economic players.
It’s true that, as Brad DeLong says, many of Robin’s examples would actually apply in any complex economic system: I’ve wasted time dealing with both Verizon and the Social Security Administration, and in both cases my socioeconomic status surely made it a lot easier than it would have been for a minimum-wage worker. (I have, on the other hand, had consistently good experiences at the much-maligned DMV.) But the idea that free markets remove power relations from the equation is just naïve.
And it’s even more naïve now than it was a few decades ago, because, as Irwin points out, large economic players are dominating more and more of the economy. It’s increasingly clear, for example, that monopsony power is depressing wages; but that’s not all it does. Concentration of hiring among a few firms, plus things like noncompete clauses and tacit collusion that reinforce their market power, don’t just reduce your wage if you’re hired. They also reduce or eliminate your options if you’re mistreated: quit because you have an abusive boss or have problems with company policy, and you may have real trouble getting a new job.
But what can be done about it? Corey Robin says “socialism” – but as far as I can tell he really means social democracy: Denmark, not Venezuela. Government-mandated employee protections may restrict the ability of corporations to hire and fire, but they also shield workers from some very real forms of abuse. Unions do somewhat limit workers’ options, but they also offer an important counterweight against corporate monopsony power.
Oh, and social safety net programs can do more than limit misery: they can be liberating. I’ve known many people who stuck with jobs they disliked for fear of losing health coverage; Obamacare, flawed as it is, has noticeably reduced that kind of “lock in”, and a full guarantee of health coverage would make our society visibly freer.
The other day I had some fun with the Cato Institute index of economic freedom across states, which finds Florida the freest and New York the least free. (Is it OK for me to write this, comrade commissar?) As I pointed out, freedom Cato-style seems to be associated with, among other things, high infant mortality. Live free and die! (New Hampshire is just behind Florida.)
But seriously, do the real differences between New York and Florida make New Yorkers less free? New York is a highly unionized state – 25.3 percent of the work force – while only 6.6 percent of Florida workers are represented by unions. Does this make NY workers less free, or does it empower them in the face of corporate power?
Also, New York has expanded Medicaid and tried to make the ACA exchanges work, so that only 8 percent of nonelderly adults are uninsured, compared with 18 percent in Florida. Are New Yorkers chafing under the heavy hand of health law, or do they feel freer knowing that they’re at much less risk of being ruined by medical emergency – or cast into the abyss if they lose their job?
If you’re a highly paid professional, it probably doesn’t make much difference. But my guess is that most workers feel at least somewhat freer in New York than they do in FL.
Now, there are no perfect answers to the inevitable sacrifice of some freedom that comes with living in a complex society; utopia is not on the menu. But the advocates of unrestricted corporate power and minimal worker protection have been getting away for far too long with pretending that they’re the defenders of freedom – which is not, in fact, just another word for nothing left to lose.
Capitalismo, socialismo e mancanza di libertà,
di Paul Krugman
Ci sono adesso due articoli sulla home page del Time – un articolo di opinione di Corey Robin [1] e una analisi delle notizie di Neil Irwin [2] – che penso dovrebbero essere letti assieme. Presi assieme, essi dicono molto di quello che è sbagliato nell’ideologia neoliberista (e in effetti, penso davvero che in questo caso sia il termine giusto) che ha imperversato così tanto nel dibattito pubblico a partire dagli anni ’70.
Dopo tutto, che cosa sono stati e sono gli argomenti che hanno consentito di rivendere le basse tasse e una regolamentazione minima? In parte, naturalmente, la pretesa che un abbattimento delle funzioni pubbliche sia la chiave per grandi prestazioni economiche, la marea crescente che alza tutte le barche. Questa pretesa persiste – dato che ci sono interessi potenti che vogliono che persista – anche se l’epoca del dominio neoliberista ha segnato una crescita economica modesta che non è stata condivisa dai lavoratori comuni:
L’altro argomento, tuttavia, è stato che i liberi mercati si traducono in libertà personale: che una economia di un mercato senza regole libera le persone comuni dalla tirannia delle burocrazie. In un mercato libero, così si è raccontato, non avete bisogno di adulare il vostro capo o la società che vende la vostra merce, perché sanno che potete sempre andare da qualcun altro.
Quello che Robin mette in evidenza è la realtà di un’economia di mercato del tutto diversa. Di fatto, l’esperienza quotidiana di decine di milioni di americani – specialmente, ma non solo, di coloro che non fanno molti soldi – è alla dipendenza continua della buona volontà dei datori di lavoro e di altri più potenti soggetti economici.
È vero che, come dice Brad DeLong, che molti degli esempi di Robin in realtà varrebbero in ogni sistema economico complesso: ho buttato via molto tempo nel misurarmi con Verizon [3] e con la Amministrazione della Previdenza Sociale, e in entrambi i casi il mio status socioeconomico ha reso la cosa molto più facile di quanto sarebbe stata per un lavoratore con un salario minimo (d’altra parte, ho avuto esperienze regolarmente positive presso il tanto vituperato Dipartimento dei Veicoli a Motore della California). Ma l’idea che i liberi mercati sottraggano le relazioni di potere dal loro normale equilibrio è solo ingenua.
Ed è persino più ingenua al giorno d’oggi di quanto non fosse qualche decina d’anni fa, perché, come mette in evidenza Irwin, i grandi soggetti economici stanno sempre di più dominando l’economia. È sempre più chiaro, ad esempio, che il potere di monopsonio [4] sta deprimendo i salari; ma non fa solo questo. La concentrazione delle assunzioni tra poche imprese, in aggiunta a cose come le ‘clausole di non competizione’ [5] e la tacita complicità che rafforza il loro potere sul mercato, non riducendo soltanto il vostro salario se siete assunti. Riduce anche o elimina le vostre possibilità se siete vessati: lasciate il lavoro perché avete un capo che abusa o avete problemi con la politica dell’impresa, e potreste avere una reale difficoltà ad avere un nuovo posto di lavoro.
Ma cosa può essere fatto al proposito? Corey Robin dice ‘il socialismo’ – che per quanto intendo significa effettivamente la socialdemocrazia: la Danimarca, non il Venezuela. Le protezioni del posto di lavoro su delega del Governo possono ridurre le possibilità delle imprese di assumere e di licenziare, ma proteggono anche i lavoratori da qualche concretissima forma di abuso. In qualche modo i sindacati limitano le opzioni dei lavoratori, ma offrono anche un importante contrappeso contro il potere di monopsonio delle società.
Inoltre, i programmi delle reti della sicurezza sociale possono fare di più che contenere la miseria: possono avere un effetto liberatorio. Abbiamo conosciuto molte persone bloccate nei loro posti di lavoro che detestavano per paura di perdere l’assistenza sanitaria; la riforma di Obama, con tutti i suoi difetti, ha notevolmente ridotto quel genere di “trappola” e una piena garanzia di copertura sanitaria renderebbe la nostra società visibilmente più libera. L’altro giorno mi sono divertito un po’ con l’indice di libertà economia tra tutti gli Stati del Cato Institute, che trova la Florida la più libera e lo Stato di New York il meno libero (posso scriverlo, compagno commissario?). Come misi in evidenza, la libertà nello stile del Cato sembra andare di pari passo, tra le altre cose, con una elevata mortalità infantile. Vivi liberamente e muori! (il New Hampshire è appena avanti la Florida).
Ma, sul serio, le effettive differenze tra New York e la Florida rendono i newyorkesi meno liberi? New York è una zona fortemente sindacalizzata – il 25,3 per cento della forza lavoro – mentre soltanto il 6,6 per cento dei lavoratori della Florida sono rappresentati dai sindacati. Questo rende i lavoratori di New York meno liberi, oppure li rafforza di fronte al potere delle imprese?
Inoltre, New York ha ampliato Medicaid ed ha cercato di far funzionare la riforma sanitaria, cosicché soltanto l’8,8 per cento degli adulti non anziani [7] non sono assicurati, a confronto del 18 per cento in Florida. I newyorkesi sono infastiditi dalla mano ruvida della legislazione sanitaria, oppure si sentono più liberi sapendo che corrono un rischio minore di essere rovinati dalle emergenze sanitarie – o di precipitare nell’abisso se perdono il loro posto di lavoro?
Se siete un professionista con un elevato stipendio, questo probabilmente non fa una grande differenza. Ma la mia impressione è che la maggioranza dei lavoratori si sente almeno un po’ più libera a New York di quanto non si sentano quelli della Florida.
Ora, non ci sono risposte perfette all’inevitabile sacrificio di qualche libertà che deriva dal vivere in società complesse; l’utopia non fa parte del menu. Ma i sostenitori di un illimitato potere delle imprese e di una protezione minima del lavoratore se la sono cavata anche troppo a lungo con la pretesa di essere i difensori della libertà – che non è, di fatto, semplicemente un’altra parola per dire che non si ha niente da perdere.
[1] Politologo americano e docente all’Università della Città di New York:
[2] Neil Irwin è un corrispondente per i temi economici del New York Times.
[3] Verizon Communications è un fornitore di banda larga e di telecomunicazioni statunitense. Il nome è un neologismo composto da due parole latine: Veritas (che significa “verità“) e Horizon (che significa “orizzonte”). Nel 2015 Verizon ha esteso la propria attività acquisendo AOL e due anni dopo rilevando Yahoo!. AOL e Yahoo sono stati amalgamati in una nuova divisione denominata Oath Inc. A partire dal 2017 è la seconda società di telecomunicazioni per fatturato dopo AT & T. (Wikipedia)
[4] Situazione di mercato caratterizzata dall’accentramento della domanda da parte di un solo soggetto economico e dall’impossibilità per altri acquirenti di entrare sul mercato.
[5] In molti contratti di lavoro è previsto il divieto per il lavoratore di trasferirsi in una impresa analoga, con il pretesto di un passaggio di informazioni alla concorrenza. Il che ha evidentemente effetto sulla competizione salariale, praticamente imponendo al lavoratore un obbligo di appartenenza all’impresa originaria e impedendogli di cercare posti di lavoro più remunerativi.
[6] Come si vede, la stima della Fondazione della destra Cato sull’indice di ‘libertà’ è favorevole alla Florida e molto sfavorevole a New York; ma l’indice della mortalità infantile dice l’opposto.
[7] Gli adulti non anziani sono esclusi, probabilmente, perché sono per legge protetti da Medicare.
agosto 26, 2018
By Paul Krugman
Parasites are a huge force in the natural world. For the most part they simply feed on their hosts. But there are a number of cases in which they exert a more insidious influence: they actually change their hosts’ behavior, in ways that benefit the parasites but damage and perhaps eventually kill their victims.
And lately I’ve been wondering if that’s what’s happening to America. How much of our political sickness is the result of a parasitic infection? What I have in mind specifically is an infestation of direct-marketing scams that exploit and reinforce political partisanship, largely on the right, basically to sell merchandise.
If this sounds absurd to you, bear with me a bit. I’m not the first person to make this suggestion – Rick Perlstein, our leading historian of modern conservatism, made basically the same argument (without the biological analogy) back in 2012, and as I’ll explain, a lot of things have happened since then to reinforce his point.
What set me on this trail initially was learning that Ben Shapiro, the Young Conservative Intellectual du jour, is using his talk-show presence to market dietary supplements:
I’ll come back to that. First, some notes on political economy.
When I try to understand political behavior, I, like many others, often find myself thinking about Mancur Olson’s classic The Logic of Collective Action. Olson’s simple yet profound insight was that political action on behalf of a group is, from the point of view of members of that group, a public good.
What do we mean by that? A public good is something that, if provided, benefits many people – but whoever provides it has no way to limit the benefits to himself or herself, and hence no way to cash in on the good’s provision. The classic example is a lighthouse that steers everyone away from shoals, whether or not they’ve paid the fee; public health measures that limit disease are in the same category. As a result, the fact that a public good is worth providing from society’s point of view is no guarantee that it will actually be provided; it has to be worth some individual’s while.
As Olson pointed out, the same goes for political action. Just because a political candidate’s victory would be good for, say, farmers doesn’t mean that farmers will give him or her money; each individual farmer will have an incentive to free ride on everyone else’s contributions. So political action is normally undertaken by individuals or small, organized groups that stand to benefit directly. Either that, or it’s a byproduct of other activities that are advantageous for their own reasons and can also be harnessed for political action, like memberships in trade associations or unions.
But don’t rich people give money to support the interests of their class? Actually, a lot of the money we see in politics ends up being money spent in the givers’ own, personal interests. For example, you can think of the Koch brothers’ political spending as an investment in themselves: they have benefited immensely from the recent tax cut, with a payoff that far exceeds the amount they spent promoting it.
So a lot of political action is driven by people trying to shape policy in a way that benefits them personally. But what the Shapiro/brain pills story drives home to me is that there’s another important factor in our current political scene: the use of political action as a marketing ploy, by people out to make a buck selling stuff that has little to do with politics per se.
As I said, Rick Perlstein has already written the basic text here. As he documents, right-wing websites largely act as marketing centers for stuff like this:
Dear Reader, I’m going to tell you something, but you must promise to keep it quiet. You have to understand that the “elite” would not be at all happy with me if they knew what I was about to tell you. That’s why we have to tread carefully. You see, while most people are paying attention to the stock market, the banks, brokerages and big institutions have their money somewhere else . . . [in] what I call the hidden money mountain . . . All you have to know is the insider’s code (which I’ll tell you) and you could make an extra $6,000 every single month.
And some of the most influential voices on the right haven’t just sold advertising space to purveyors of snake oil, they’ve gotten directly into the snake-oil business themselves.
Thus:
Glenn Beck in his heyday juiced up his viewers by telling them that Obama was going to unleash hyperinflation any day now; he personally cashed in by hawking overpriced gold coins.
Alex Jones makes a splash by claiming that school massacres are fake news, and the victims are really actors. But he makes his money by selling diet supplements.
Ben Shapiro writes critiques of liberal academics that conservatives consider erudite (remember Ezra Klein’s lineabout a stupid person’s idea of what a thoughtful person sounds like?), but makes his money the same way Alex Jones does.
Why should marketing scams be linked to political extremism? It’s all about affinity fraud: once you establish a persona that appeals to angry, aging white guys, you can sell them stuff that will supposedly protect their virility, their waistline, and their wealth.
And at a grander level, isn’t that what Fox News is really about? Consider it not as an ideological organization per se but as a business: it offers cheap programming (because there isn’t much reporting) that appeals to the prejudices of angry old white guys who like to sit on the couch and rant at their TV, and uses its viewership to help advertisers selling weight-loss plans.
Now, normally we think of individuals’ views and interests as the forces driving politics, including the ugly polarization increasingly dominating the scene. The commercial exploitation of that polarization, if we mention it at all, is treated as a sort of surface phenomenon that feeds off the fundamental dynamic.
But are we sure that’s right? The Alex Joneses, Ben Shapiros, and Fox Newses of the world couldn’t profit from extremism unless there were some underlying predisposition of angry old white guys to listen to this stuff. But maybe the commercial exploitation of political anger is what has concentrated and weaponized that anger. In other words, going back to where I started this essay, maybe the reason we’re in a political nightmare is that our political behavior has, in effect, been parasitized by marketing algorithms.
I know I’m not the only one thinking along these lines. Charlie Stross argues that “paperclip maximizers” – not people, but social systems and algorithms that try to maximize profits, market share, or whatever – have increasingly been directing the direction of society, in ways that hurt humanity. He’s mostly focused on corporate influence over policy, as opposed to mobilization of angry people in the service of direct-order scams, but both could be operating.
Anyway, I think it’s really important to realize the extent to which peddling political snake oil, whether it’s about the economy, race, the effects of immigration, or whatever, is to an important extent a way to peddle actual snake oil: magic pills that will let you lose weight without ever feeling hungry and restore your youthful manhood.
La faziosità, i parassiti e la polarizzazione.
Gli imbrogli del direct-marketing [1] stanno distruggendo la repubblica? Una questione seria.
Di Paul Krugman
Nel mondo della natura i parassiti sono una grande forza. Per la massima parte essi si alimentano semplicemente sui loro ospiti. Ma c’è un certo numero di casi nei quali esercitano una influenza più insidiosa: in realtà essi modificano il comportamento dei loro ospiti, in modi che effettivamente favoriscono i parassiti ma provocano danni e magari alla fine uccidono le loro vittime.
E negli ultimi tempi mi vengo chiedendo se non sia quello che sta accadendo in America. In che misura la nostra malattia politica è il risultato di una infezione di parassiti? Quello a cui sto pensando in particolare è una infestazione delle truffe del direct marketing che, specialmente a destra, sfruttano e rafforzano la faziosità politica, fondamentalmente allo scopo di vendere merci.
Se vi sembra assurdo, seguitemi con un po’ di pazienza. Non sono il primo ad avanzare questa suggestione – Rick Perlstein, il nostro principale storico del conservatorismo moderno, avanzò fondamentalmente lo stesso argomento (senza la analogia con la biologia) nel passato 2012, e, come spiegherò, da allora sono accadute molte cose che rafforzano questa tesi. Quello che agli inizi mi ha messo su questa traccia è stato l’apprendere che Ben Shapiro, il giovane intellettuale conservatore del momento, sta usando la presenza sul suo talk-show per promuovere integratori alimentari:
Verrò successivamente a questo aspetto. Anzitutto, alcune considerazioni di economia politica.
Quando cerco di comprendere un comportamento politico, io, come molti altri, spesso mi ritrovo a ragionare della classica Logica della azione collettiva di Mancur Olson. La semplice e tuttavia profonda intuizione di Olson fu che l’azione politica nell’interesse di un gruppo, dal punto di vista dei componenti di quel gruppo, è un bene pubblico.
Cosa intendo con questo? Un bene pubblico è qualcosa che, se viene fornito, va a vantaggio di molte persone – ma chiunque lo fornisce non ha modo di limitare i benefici a sé stesso, e quindi non ha modo di speculare sulla fornitura del bene. L’esempio classico è il segnale luminoso che indirizza ciascuno fuori dagli assembramenti: le misure di salute pubblica che limitano una malattia sono della stessa specie. Di conseguenza, il fatto che un bene pubblico sia meritevole di essere fornito, dal punto di vista della società, non garantisce che esso sia effettivamente fornito; esso deve avere un interesse per il singolo.
Come Olson mise in evidenza, lo stesso avviene per l’azione politica. Solo perché una vittoria politica di un candidato sarebbe positiva, ad esempio, per gli agricoltori non significa che gli agricoltori gli daranno contributi finanziari; ogni singolo agricoltore avrà un incentivo a vivere di rendita sui contributi di tutti gli altri. Dunque, l’azione politica è normalmente intrapresa da individui o da piccoli gruppi organizzati che si propongono di beneficiarne direttamente. Che si tratti di questo, o che sia un sottoprodotto di altre attività che sono vantaggiose per ragioni loro proprie e che possano anche essere sfruttate per l’azione politica, come la partecipazione ad associazioni commerciali o a sindacati.
Ma i ricchi non danno contributi per sostenere gli interessi della loro classe? Effettivamente, un gran quantità del denaro che osserviamo nella politica finisce con l’essere spesa nell’interesse personale degli stessi sottoscrittori. Per esempio, potete pensare alla spesa politica dei Fratelli Koch come un investimento su sé stessi: essi hanno tratto immensi benefici dal recente taglio alle tasse, con un compenso che eccede di gran lunga la somma che hanno speso per promuoverlo.
Dunque, una buona parte dell’azione politica è guidata da individui che cercano di conformare la politica in un modo che vada personalmente a loro vantaggio. Ma quello che la storia delle pillole per il cervello di Shapiro mi fa ben capire è che c’è un altro importante fattore nella attuale nostra scena politica: l’uso della azione politica come un espediente di mercato, da parte di persone che fanno affari vendendo roba che ha poco a che fare con la politica in sé.
Come ho detto, Rick Perlstein aveva già scritto a questo proposito le cose fondamentali. Come egli documenta, i siti informatici della destra agiscono in buona misura come centri commerciali per cose come questa:
“Caro Lettore, sto per dirti qualcosa ma devi promettermi di tenerla riservata. Devi capire che le “classi dirigenti” non sarebbero affatto contente di me se sapessero cosa sto per dirti. È questa la ragione per la quale dobbiamo procedere con scrupolo. Fai attenzione, mentre la maggioranza delle persone stanno attente ai mercati azionari, alle banche, alle attività dei broker, le grandi istituzioni tengono i soldi da qualche altra parte … in quella che io definisco la montagna nascosta del denaro … Tutto quello che devi conoscere è il codice degli addetti ai lavori (che io ti fornirò) e ti potrai realizzare un guadagno di 6.000 dollari per ogni mese.”
E alcune delle voci più influenti della destra non hanno solo venduto spazio pubblicitario ai ciarlatani delle pozioni magiche, sono entrati essi stessi direttamente nell’affare della pozione magica.
Quindi:
Glenn Beck nel suo pieno fulgore ha eccitato i suoi telespettatori raccontandogli che Obama era in procinto di sguinzagliare l’iperinflazione in ogni momento; personalmente incassava dalla attività di ‘falco’ monete d’oro sopravvalutate.
Alex Jones fa un gran clamore sostenendo che i massacri nelle scuole sono false notizie e che le vittime sono in realtà attori. Ma fa soldi vendendo integratori alimentari.
Ben Shapiro scrive critiche sui docenti universitari progressisti che i conservatori considerano eruditi (vi ricordate la frase di Ezra Klein sull’idea di una persona stupida di quello che sembrerebbe proprio di una persona riflessiva?), ma fa soldi nello stesso modo in cui li fa Alex.
Perché questi imbrogli di mercato dovrebbero essere connessi con l’estremismo politico? È una questione che riguarda il cosiddetto ‘reato basato sull’appartenenza’ [2]: una volta che si stabilisce che una persona è attratta da personaggi di razza bianca arrabbiati e di una certa età, si può vendere loro roba che si suppone proteggerà la loro virilità, il loro ‘girovita’ e la loro ricchezza.
E ad un livello più grande, non è quello di cui si occupa Fox News? La si consideri non come una organizzazione ideologica di per sé, ma come un affare: essa offre programmi convenienti (perché non ci sono molti resoconti) che si rivolgono ai pregiudizi di individui di razza bianca arrabbiati e di una certa età ai quali fa piacere star seduti sui loro divani e imprecare presso i loro televisori, e utilizza i propri telespettatori per contribuire a pubblicità che vendono programmi di diete per dimagrire.
Ora, normalmente noi pensiamo ai punti di vista ed agli interessi dei singoli come forze che guidano la politica, compresa la indegna polarizzazione che sempre di più domina la scena. Lo sfruttamento di quella polarizzazione, ammesso che se ne parli, è trattato come una sorta di fenomeno di superficie che trae energia dalla dinamica principale.
Ma siamo sicuri che sia giusto? Gli Alex Jones, i Ben Shapiro e le Fox News del mondo non potrebbero trarre profitto dall’estremismo se non ci fosse qualche predisposizione sottostante degli individui di razza bianca arrabbiati e anzianotti ad ascoltare roba del genere. Ma forse è lo sfruttamento commerciale della rabbia politica quello che ha concentrato ed utilizzato come un’arma quella rabbia. In altre parole, tornando al punto da cui ero partito all’inizio di questo intervento, può darsi che la ragione per la quale siamo in un incubo della politica sia che il nostro comportamento politico è stato, in effetti, aggredito in forme parassitarie dagli algoritmi di mercato.
So che non sono l’unico a ragionare in questi termini. Charlie Stross sostiene che gli ‘ottimizzatori delle graffette” [3] – non le persone, ma i sistemi sociali e gli algoritmi che cercano di massimizzare i profitti, le quote di mercato e cose del genere – stanno sempre di più indirizzando la direzione della società, in modi che danneggiano l’umanità. Esso è soprattutto concentrato sull’influenza sulla politica delle grandi società, in modo opposto alla mobilitazione delle persone faziose al servizio di truffe sulla base di ordini diretti, ma entrambe le modalità potrebbero funzionare assieme.
In ogni modo penso che sia davvero importante comprendere in quale misura mettere in circolazione le pozioni magiche, che riguardino l’economia, la razza, gli effetti dell’immigrazione o cose del genere, sia in misura importante davvero un modo per smerciare pozioni magiche: pillole magiche che vi consentiranno di perdere peso senza mai sentir fame e di ripristinare la vostra virilità giovanile.
[1] Il direct marketing comprende ogni comunicazione informativa o promozionale direttamente rivolta al consumatore che è finalizzata a generare da parte di quest’ultimo una risposta quantificabile e misurabile.
[2] È un effettivo reato nel codice americano, e consiste nello sfruttare ai fini affaristici l’appartenenza delle vittime ad una categoria di persone caratterizzata da medesime ‘inclinazioni’. Ad esempio, la famosa vicenda dello speculatore Madoff, che imbrogliava individui – facendosi dare soldi – caratterizzati dalla stessa dabbenaggine (in quel caso verso presunte iniziative sociali che in realtà erano una mascheratura degli affari che venivano proposti).
[3] La traduzione è letterale, “paperclip” significa “fermaglio, graffetta”. Il significato preciso, la ragione, di questo neologismo mi sfugge un po’.
Ma Wikipedia spiega che il paperclip maximizer “è un esperimento di pensiero che mostra come una generale intelligenza artificiale, persino una immaginata con competenza e senza malizia, alla fine può distruggere l’umanità. L’esperimento di pensiero dimostra che I valori apparentemente innocui potrebbero costituire una minaccia esistenziale … Un ottimizzatore estremamente potente (un agente di elevata potenza) potrebbe proporsi obbiettivi completamente estranei ai nostri e, come effetto collaterale, impedirci di consumare risorse essenziali alla nostra sopravvivenza”.
Sembra inoltre che l’origine della espressione sulla ‘graffetta’ possa essere molto banale: in un esempio relativo alla valutazione delle prospettive della Intelligenza Artificiale del 2003, l’esperto Nick Bostrom partiva dall’ipotesi che si volesse aumentare la produzione di graffette da una macchina. Quindi, forse l’espressione non ha alcun particolare significato e richiama semplicemente quell’esempio.
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