Blog di Krugman

Ammalati, fallisci e poi muori, (dal blog di Paul Krugman, 3 settembre 2018)

 

Sept. 3, 2018

Get Sick, Go Bankrupt and Die

By Paul Krugman

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Let’s be honest: Despite his reputation as a maverick, John McCain spent most of his last decade being a very orthodox Republican, toeing the party line no matter how irresponsible it became. Think of the way he abandoned his onetime advocacy of action to limit climate change.

But he redeemed much of that record with one action: He cast the crucial vote against G.O.P. attempts to repeal the Affordable Care Act. That single “nay” saved health care for tens of millions of Americans, at least for a while.

But now McCain is gone, and with him, as far as we can tell, the only Republican in Congress with anything resembling a spine. As a result, if Republicans hold Congress in November, they will indeed repeal Obamacare. That’s not a guess: It’s an explicit promise, made by Vice President Mike Pence last week.

But what about the problems that sank the repeal effort in 2017? Surely Republicans have spent the past year rethinking their policy ideas, trying to come up with ways to undo the A.C.A. without inflicting enormous harm on ordinary Americans, especially those with pre-existing medical conditions. Right?

See, I made a joke.

Of course, Republicans haven’t rethought their ideas on health care (or, actually, anything else). Partly that’s because the modern G.O.P. doesn’t do policy analysis. Democrats have a network of think tanks and sympathetic independent experts who look hard at evidence, try to devise solutions to real problems and sometime affect actual legislative proposals. Republicans have nothing comparable; their tame “experts” are basically in the business of saying whatever their political masters want to hear.

In the case of health care, however, there’s an even deeper problem: The G.O.P. can’t come up with an alternative to the Affordable Care Act because no such alternative exists. In particular, if you want to preserve protection for people with pre-existing conditions — the health issue that matters most to voters, including half of Republicans — Obamacare is the most conservative policy that can do that. The only other options are things like Medicare for all that would involve moving significantly to the left, not the right.

Health economists have explained this point many times over the years; but as always, it’s difficult to get a man to understand something when his salary depends on his not understanding it. Still, let’s try one more time.

If you want private insurers to cover people with pre-existing conditions, you have to ban discrimination based on medical history. But that in itself isn’t enough, because if policies cost the same for everyone, those who sign up will be sicker than those who don’t, creating a bad risk pool and forcing high premiums. That was the case in New York, where premiums for individual policies were very high before the A.C.A. — and promptly fell by half when Obamacare went into effect.

For what Obamacare did was provide incentives to get healthy people to sign up, too. On one side there was a penalty for not having insurance (the individual mandate). On the other, there were subsidies designed to limit health expenses as a share of income. Republicans have tried to sabotage health care by doing away with the mandate, and have succeeded in driving premiums higher; but the system is still standing thanks to those subsidies.

The point, again, is that Obamacare is the most conservative option for covering pre-existing conditions, and if Republicans really cared about the scores of millions of Americans with such conditions, they would support and indeed try to strengthen the A.C.A.

Instead, they’re going to kill it if they hold on in two months. But covering pre-existing conditions is popular; therefore, they’re pretending that they’ll do that, while offering proposals that would, in fact, do no such thing.

Why do they imagine they can get away with such brazen fraud, because that’s what it is? Do they imagine that voters are stupid?

Well, yes. In recent rallies Donald Trump has been declaring that Democrats want to “raid Medicare to pay for socialism.”

But the more important target is the news media, many members of which still haven’t learned to cope with the pervasive bad faith of modern conservatism.

When someone like, say, Senator Dean Heller of Nevada co-sponsors a bill that purports to protect pre-existing conditions but actually doesn’t, what he hopes for are headlines that say “Heller Announces Plan to Protect Americans With Pre-existing Conditions,” with the key fact — that his bill wouldn’t do that at all — buried in the 17th paragraph.

Or better yet, from his point of view, that 17th paragraph would state only that “some Democrats” say his bill is a fraud, while Republicans disagree. Both sides, you know.

So if you’re an American who suffers from a pre-existing medical condition, or fear that you might develop such a condition in the future, you need to be clear about the reality: Republicans are coming for your health care. If they hold the line in November, health insurance at an affordable price — maybe at any price — will be gone in a matter of months.

 

Ammalati, fallisci e poi muori,

di Paul Krugman

Siamo onesti: nonostante la sua reputazione di ‘battitore libero’, John McCain ha speso gran parte del suo ultimo decennio come un repubblicano molto ortodosso, seguendo la linea del partito a prescindere da quanto diventava irresponsabile. Si pensi al modo in cui ha abbandonato il suo sostegno di un tempo alle iniziative per limitare il cambiamento climatico.

Ma ha riscattato gran parte di quelle prestazioni con una sola iniziativa: espresse il suo voto fondamentale contro i tentativi repubblicani di abrogare la legge di riforma sanitaria. Quel solo ‘diniego’ salvò l’assistenza sanitaria per decine di milioni di americani, almeno per un po’ di tempo.

Ma adesso McCain se ne è andato, e con lui, per quanto possiamo dire, l’unico repubblicano nel Congresso che avesse qualcosa che assomigliava ad una spina dorsale. Di conseguenza, se i repubblicani manterranno a novembre il controllo del Congresso, di fatto abrogheranno la riforma di Obama. Non è una congettura: è una esplicita promessa, avanzata la scorsa settimana dal Vice Presidente Mike Pence.

Ma che dire dei problemi che affondarono il proposito della abrogazione nel 2017? Certamente i repubblicani hanno passato l’anno trascorso ripensando ai loro propositi politici, cercando di farsi venire in mente i modi per disfare la riforma sanitaria senza infliggere un danno enorme agli americani comuni, particolarmente a quelli con preesistenti patologie sanitarie. Giusto?

Come avete capito, sto scherzando.

Ovviamente, i repubblicani non hanno ripensato alle loro idee sulla assistenza sanitaria (come, in realtà, su nient’altro). I democratici hanno una rete di gruppi di ricerca e di esperti indipendenti che sono loro simpatizzanti che osserva con attenzione i fatti, cerca di individuare soluzioni ai problemi reali e talvolta influenza effettive proposte legislative. I repubblicani non hanno niente di simile; i loro docili “esperti” fondamentalmente partecipano all’esercizio di dire tutto quello che i loro capi politici vogliono sentir dire.

Nel caso della assistenza sanitaria, tuttavia, c’è un problema anche più profondo: il Partito Repubblicano non può venirsene fuori con una alternativa alla Legge sulla Assistenza Sostenibile perché una tale alternativa non esiste. In particolare, se volete difendere la protezione per le persone con preesistenti patologie sanitarie – la questione sanitaria che sta a cuore alla maggioranza degli elettori, compresa una metà dei repubblicani – la legge di Obama è la politica più conservatrice che possa farlo. Le uniche altre opzioni sono cose come ‘Medicare per tutti’, che comporterebbero un significativo spostamento a sinistra, non a destra.

Nel corso degli anni, gli economisti sanitari hanno spiegato questo aspetto molte volte; ma come sempre, è difficile ottenere che un uomo capisca qualcosa quando il suo stipendio dipende dal non capirlo. Tuttavia, proviamo un’altra volta.

Se volete che gli assicuratori privati coprano persone con patologie preesistenti [1], dovete impedire le discriminazioni sulla base delle condizioni sanitarie. Ma solo quello non sarebbe sufficiente, perché se il costo delle polizze è lo stesso per tutti, coloro che si iscrivono saranno in media più malati di quelli che non si iscrivono, creando una situazione negativa nella ‘platea’ delle posizioni assicurative e costringendo a premi elevati. Era questo il caso di New York, dove i premi per le polizze individuali erano molto alti prima della legge di riforma – e scesero rapidamente di quasi la metà quando la riforma di Obama entrò in funzione.

Perché quello che fece la riforma di Obama fu fornire incentivi per far iscrivere anche le persone in salute. Da una parte fu stabilita una penalizzazione per coloro che non avevano l’assicurazione (il cosiddetto “mandato” individuale [2]). Dall’altra, ci furono sussidi rivolti a limitare le spese sanitarie come quote di reddito. I repubblicani hanno provato a sabotare l’assistenza sanitaria eliminando il “mandato” e sono riusciti a spingere i premi in alto; ma il sistema è rimasto in piedi grazie a quei sussidi.

Resta il punto che la riforma di Obama è l’opzione più conservatrice per la copertura delle patologie preesistenti, e se i repubblicani davvero si preoccupassero dei numerosi milioni di americani con tali patologie, sosterrebbero e in effetti cercherebbero di rafforzare la Legge sulla Assistenza Sostenibile.

Invece, andranno nella direzione di sopprimerla se entro due mesi avranno il controllo del Congresso. Ma la copertura delle patologie preesistenti è popolare; di conseguenza, essi stanno fingendo di non volerlo fare, nel mentre avanzano proposte che, di fatto, non farebbero niente di quello che annunciano.

Come fanno a immaginarsi di farla franca con un tale imbroglio sfacciato, giacché di questo si tratta? Si immaginano che gli elettori siano stupidi?

Ebbene, sì. In recenti comizi Donald Trump ha dichiarato che i democratici vogliono “saccheggiare Medicare per pagare il socialismo”.

Ma l’obbiettivo più importante sono i media dell’informazione, molti componenti dei quali non hanno ancora imparato a fare i conti con la pervasiva malafede del conservatorismo moderno.

Quando qualcuno come, ad esempio, il Senatore del Nevada Dean Heller aderisce ad una proposta di legge che propone di proteggere coloro che hanno patologie preesistenti ma in realtà non lo fa, quello che egli spera sono titoli dei giornali che dicano “Heller annuncia un programma per proteggere gli americani con patologie pre esistenti”, con la proposta centrale – che la sua legge non realizzerà affatto – seppellita al 17° paragrafo.

O meglio ancora, dal suo punto di vista, quel 17° paragrafo affermerebbe soltanto che “alcuni democratici” dicono che la sua proposta è un inganno, mentre i repubblicani non sono d’accordo. L’eguaglianza dei due schieramenti, come sapete.

Dunque, se siete un americano che soffre di preesistenti patologie sanitarie, o che temete di poter sviluppare una tale condizione nel futuro, avete bisogno di essere chiari sulla realtà: i repubblicani stanno venendo a prendersi la vostra assistenza sanitaria. Se manterranno le loro posizioni a novembre, l’assicurazione sanitaria ad un prezzo sostenibile – forse a qualsiasi prezzo – se ne andrà nel giro di pochi mesi.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] I costi insostenibile delle patologie “preesistenti” erano una condizione tipica precedente alla riforma di Obama. Quando un lavoratore doveva cambiare assicurazione, la nuova polizza metteva nel conto l’esistenza di serie malattie preesistenti, in quei casi con costi molto elevati. La riforma di Obama proibì tali pratiche e stabilì l’obbligo per le assicurazioni di garantire gli stessi costi a tutti. Perché tale obbligo fosse rispettato venne previsto che tutti i protetti dalla assicurazione, ammalati o sani, acquistassero una assicurazione; i meno abbienti avrebbero ricevuto sussidi pubblici per poterselo permettere. In tal modo la ‘platea’ degli assicurati avrebbe mantenuto una redditività media adeguata ai costi delle assicurazioni.

[2] “Individual Mandate” significa mandato, delega, obbligo a carico degli utenti. Ovvero è un modo in cui gli utenti aiutano a mantenere l’equilibrio dei costi assicurativi, non di tasca propria – esistendo i sussidi – ma per effetto di una ‘platea’ di assicurati composta di persone sane, oltre che di ammalati anche cronici.

 

 

 

 

 

 

 

Dare una fregatura ai lavoratori del pubblico impiego, (dal blog di Paul Krugman, 31 agosto 2018)

settembre 4, 2018

 

Aug. 31 2018

Giving Government Workers the Shaft

By Paul Krugman

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You sometimes hear the claim that Republicans hate public spending. In practice, however, their hatred is selective. They tend to be OK with spending that flows into the pockets of private-sector friends, whether it’s mercenaries or for-profit colleges. No, what they really hate are two kinds of spending: outlays that help Americans afford life’s essentials, like food and health care, and paying wages to government employees.

So there’s a sense in which Donald Trump’s decision to use executive authority to deny all federal workers a cost-of-living adjustment is squarely in the Republican mainstream. But the timing is odd.

After all, the jihad against government workers probably reached its high point in 2010-2011, along with the Tea Party movement. Denunciations of big government were all the rage, bolstered in part by false claims that Barack Obama had presided over an explosion in federal employment. (What actually happened was a temporary spike associated with the 2010 census – something that happens every 10 years whoever is president.)

Since then, however, the public has, I think, gradually become aware of the realities of the situation. The vast majority of government workers are employed by state and local governments – and more than half of these state and local workers are in education, with much of the remaining employment in public safety (police and firefighting.) So the typical government employee isn’t a bureaucrat doing nothing; he or (often) she is a schoolteacher.

And schoolteachers are hardly living high off the hog. On the contrary, their pay has lagged ever farther behind that of comparably qualified people in the private sector, not to mention the fact that thanks to budget cuts many teachers end up buying school supplies out of their own pockets. The squeeze on teachers has led to a nationwide walkout movement – and the public seems broadly supportive.

So this is, as I said, sort of an odd moment for Trump to put a squeeze on government workers. True, these are federal workers, so we’re not talking about schoolteachers. But we are talking about people who keep us safe, or care for those who previously helped keep us safe: about two-thirds of the amount the federal government spends on employee compensation goes to the Department of Defense, the Department of Veterans Affairs, or the Department of Homeland Security.

How well are these workers paid? Federal workers with low levels of education are paid more than their counterparts in the private sector – but do you really want our government to emulate the always-low-wages policies of, say, fast food chains? More educated workers, on the other hand, are paid substantially less than private-sector equivalents, and CBOfinds that overall the federal government pays only about 3 percent more than it would if it matched private pay schedules.

What is Trump’s justification for denying these workers a cost of living adjustment? He says that it’s about putting us on a “fiscally sustainable course,” which is extremely rich for someone who just rammed through a huge tax cut for corporations and the wealthy. What makes it even richer is that on the same day that he announced that he was cancelling the pay rise, Trump floated the idea of using executive action to index capital gains to inflation, a de facto tax cut that would increase the deficit, and deliver 63 percent of its benefits to the wealthiest 0.1 percent of the population, 86 percent to the top 1 percent.

So what’s really going on? Giving government workers the shaft is long-term G.O.P. policy, but even so I suspect that Congressional Republicans would have preferred that Trump not make this announcement two months before the midterm elections. The timing, as opposed to the general hostility to public servants, is probably personal to Trump.

Two things in particular seem relevant here. First, Trump has always chiseled and cheated those who work for him: his business career is littered with tales of unpaid workers and contractors. Since he makes no distinction between personal business and being president, squeezing a few bucks out of the federal workforce just comes naturally.

Beyond that, Trump is feeling under siege from the “deep state,” which to him means any part of the government that answers to rule of law as opposed to being personally loyal to him. His wage chiseling may in part represent a way of lashing out at everyone in government: these days they all look like Robert Mueller to him.

Whatever the precise motivations, this is a teachable moment, one that reveals not only another layer of Trump’s personal awfulness but what Republicans really mean when they pretend to care about fiscal responsibility.

 

Dare una fregatura ai lavoratori del pubblico impiego, di Paul Krugman

Qualche volta c’è chi sostiene che i repubblicani odiano la spesa pubblica. In pratica, tuttavia, il loro odio è selettivo. Essi tendono a non avere problemi con la spesa che finisce nei portafogli degli amici del settore privato, che siano mercenari o università a scopo di lucro. Quello che realmente odiano, in realtà, sono due tipi di spesa: gli esborsi che aiutano gli americani a permettersi le cose essenziali della vita, come il cibo e l’assistenza sanitaria, e pagare gli stipendi dei lavoratori del pubblico impiego.

Dunque c’è un senso per il quale la decisione di Donald Trump di utilizzare la sua autorità esecutiva per negare a tutti i lavoratori federali un adeguamento al costo della vita è esattamente nella tradizione repubblicana. È invece curiosa la tempistica.

Dopo tutto, la guerra santa contro i lavoratori pubblici raggiunse il suo punto più alto nel 2010-2011, assieme al movimento del Tea Party. Le denunce del ‘grande Governo’ erano di gran moda, in parte sostenute dalle false pretese che Barack Obama avesse governato per una esplosione dell’occupazione federale (quello che in realtà accadde fu un innalzamento temporaneo collegato col Censimento del 2010 – qualcosa che accade ogni dieci anni, chiunque sia il Presidente).

Da allora, tuttavia, l’opinione pubblica è diventata gradualmente consapevole delle realtà della situazione. La grande maggioranza dei lavoratori pubblici sono occupati dagli Stati e dai governi locali – e più della metà di questi lavoratori degli Stati e dei governi locali operano nel settore dell’istruzione, con gran parte della restante occupazione nel settore della sicurezza pubblica (polizia e pompieri). Dunque, la tipica occupazione pubblica non sono burocrati che non fanno niente; sono (spesso) maestre e maestri.

E i maestri è difficile che vivano nel lusso. Al contrario, i loro stipendi sono sempre rimasti assai indietro rispetto a quelli delle paragonabili persone qualificate del settore privato, per non dire che grazie ai tagli sui bilanci molti insegnanti finiscono con l’acquistare di tasca loro le forniture scolastiche. Spremere gli insegnanti ha provocato un movimento di astensioni dal lavoro di dimensioni nazionali – con un generale sostegno, sembra, dell’opinione pubblica.

Questo, dunque, come ho detto, è una specie di strano momento per Trump per spremere il pubblico impiego. È vero, sono lavoratori federali, dunque non stiamo parlando di insegnanti. Ma stiamo parlando di persone che ci fanno stare al sicuro, o si occupano di coloro che in passato contribuivano a farci stare al sicuro: circa due terzi di quanto il Governo Federale spende sulle retribuzioni degli impiegati vanno al Dipartimento della Difesa, al Dipartimento degli Affari dei Militari in Congedo, o al Dipartimento della Sicurezza Nazionale.

Quanto sono ben pagati questi lavoratori?  I lavoratori federali con bassi livelli di istruzione sono pagati di più dei loro omologhi del settore privato – ma vogliamo davvero che il nostro Governo emuli le politiche degli stipendi costantemente bassi o, diciamo, delle catene dei fast food. D’altra parte, i lavoratori più istruiti sono pagati sostanzialmente meno dei loro equivalenti del settore privato e l’Ufficio Congressuale del Bilancio stima che il Governo Federale paghi nel complesso soltanto il 3 per cento di più di quello che pagherebbe se eguagliasse i programmi contributivi del settore privato.

Quale è la giustificazione di Trump per negare a questi lavoratori un adeguamento al costo della vita? Egli dice che riguarda il collocarci su “un indirizzo di finanza pubblica sostenibile”, il che è estremamente gustoso per uno che ha appena imposto l’approvazione di un grande taglio delle tasse per le società e i ricchi. Quello che lo rende ancora più gustoso è che lo stesso giorno che annunciava di star cancellando l’aumento degli stipendi, Trump ha ventilato l’idea di usare una procedura esecutiva per indicizzare i profitti da capitale all’inflazione, un sostanziale taglio delle tasse che aumenterebbe il deficit, ed ha consegnato il 63 per cento dei suoi sussidi allo 0,1 per cento della popolazione più ricca, l’86 per cento all’1 per cento dei più ricchi.

Dunque, costa sta accadendo sul serio? Dare una fregatura ai lavoratori del pubblico impiego è una politica a lungo termine del Partito Repubblicano, ma anche così io ho il sospetto che i repubblicani del Congresso avrebbero preferito che Trump non facesse questi annunci due mesi prima delle elezioni a medio termine. La tempistica, all’opposto della generale ostilità dei funzionari statali, è probabilmente una scelta personale di Trump.

In questo caso, due cose sembrano in particolare rilevanti. La prima, Trump ha sempre dato fregature e ingannato quelli che lavorano per lui; la sua carriera di affarista è disseminata di racconti di lavoratori e appaltatori non pagati. Dal momento che non fa alcuna distinzione tra affari personali e Presidenza, strizzare un po’ di portafogli del pubblico impiego gli viene proprio naturale.

Oltre a ciò, Trump si sente sotto l’assedio dello Stato nello Stato”, il che per lui significa ogni settore del Governo che risponde allo Stato di diritto, anziché essere personalmente fedele a lui stesso. Il suo scherzetto sugli stipendi in parte può rappresentare un modo per attaccare tutti nel Governo: di questi tempi per lui assomigliano tutti a Robert Mueller.

Qualsiasi siano le precise ragioni, questo è un momento istruttivo, di quelli che rivelano non solo un altro aspetto della personale sgradevolezza di Trump, ma anche quello che i repubblicani intendono per davvero quando fingono di avere a cuore la responsabilità della finanza pubblica.

 

 

 

 

 

 

 

Capitalismo, socialismo e mancanza di libertà, (dal blog di Paul Krugman, 26 agosto 2018)

agosto 30, 2018

 

Aug. 26, 2018

Capitalism, Socialism, and Unfreedom

By Paul Krugman

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There are two articles currently on the Times home page – an opinion pieceby Corey Robin, and a news analysis by Neil Irwin — that I think should be read together. Taken as a pair, they get at a lot of what’s wrong with the neoliberal ideology (and yes, I do think that’s the right term here) that has dominated so much public discourse since the 1970s.

What, after all, were and are the selling points for low taxes and minimal regulation? Partly, of course, the claim that small government is the key to great economic performance, a rising tide that raises all boats. This claim persists – because there are powerful interests that want it to persist — even though the era of neoliberal dominance has in fact been marked by so-so economic growth that hasn’t been shared with ordinary workers:

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The other claim, however, has been that free markets translate into personal freedom: that an unregulated market economy liberates ordinary people from the tyranny of bureaucracies. In a free market, the story goes, you don’t need to flatter your boss or the company selling you stuff, because they know you can always go to someone else.

What Robin points out is that the reality of a market economy is nothing like that. In fact, the daily experience of tens of millions of Americans – especially but not only those who don’t make a lot of money – is one of constant dependence on the good will of employers and other more powerful economic players.

It’s true that, as Brad DeLong says, many of Robin’s examples would actually apply in any complex economic system: I’ve wasted time dealing with both Verizon and the Social Security Administration, and in both cases my socioeconomic status surely made it a lot easier than it would have been for a minimum-wage worker. (I have, on the other hand, had consistently good experiences at the much-maligned DMV.) But the idea that free markets remove power relations from the equation is just naïve.

And it’s even more naïve now than it was a few decades ago, because, as Irwin points out, large economic players are dominating more and more of the economy. It’s increasingly clear, for example, that monopsony power is depressing wages; but that’s not all it does. Concentration of hiring among a few firms, plus things like noncompete clauses and tacit collusion that reinforce their market power, don’t just reduce your wage if you’re hired. They also reduce or eliminate your options if you’re mistreated: quit because you have an abusive boss or have problems with company policy, and you may have real trouble getting a new job.

But what can be done about it? Corey Robin says “socialism” – but as far as I can tell he really means social democracy: Denmark, not Venezuela. Government-mandated employee protections may restrict the ability of corporations to hire and fire, but they also shield workers from some very real forms of abuse. Unions do somewhat limit workers’ options, but they also offer an important counterweight against corporate monopsony power.

Oh, and social safety net programs can do more than limit misery: they can be liberating. I’ve known many people who stuck with jobs they disliked for fear of losing health coverage; Obamacare, flawed as it is, has noticeably reduced that kind of “lock in”, and a full guarantee of health coverage would make our society visibly freer.

The other day I had some fun with the Cato Institute index of economic freedom across states, which finds Florida the freest and New York the least free. (Is it OK for me to write this, comrade commissar?) As I pointed out, freedom Cato-style seems to be associated with, among other things, high infant mortality. Live free and die! (New Hampshire is just behind Florida.)

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But seriously, do the real differences between New York and Florida make New Yorkers less free? New York is a highly unionized state – 25.3 percent of the work force – while only 6.6 percent of Florida workers are represented by unions. Does this make NY workers less free, or does it empower them in the face of corporate power?

Also, New York has expanded Medicaid and tried to make the ACA exchanges work, so that only 8 percent of nonelderly adults are uninsured, compared with 18 percent in Florida. Are New Yorkers chafing under the heavy hand of health law, or do they feel freer knowing that they’re at much less risk of being ruined by medical emergency – or cast into the abyss if they lose their job?

If you’re a highly paid professional, it probably doesn’t make much difference. But my guess is that most workers feel at least somewhat freer in New York than they do in FL.

Now, there are no perfect answers to the inevitable sacrifice of some freedom that comes with living in a complex society; utopia is not on the menu. But the advocates of unrestricted corporate power and minimal worker protection have been getting away for far too long with pretending that they’re the defenders of freedom – which is not, in fact, just another word for nothing left to lose.

 

Capitalismo, socialismo e mancanza di libertà,

di Paul Krugman

Ci sono adesso due articoli sulla home page del Time – un articolo di opinione di Corey Robin [1] e una analisi delle notizie di Neil Irwin [2] – che penso dovrebbero essere letti assieme. Presi assieme, essi dicono molto di quello che è sbagliato nell’ideologia neoliberista (e in effetti, penso davvero che in questo caso sia il termine giusto) che ha imperversato così tanto nel dibattito pubblico a partire dagli anni ’70.

Dopo tutto, che cosa sono stati e sono gli argomenti che hanno consentito di rivendere le basse tasse e una regolamentazione minima? In parte, naturalmente, la pretesa che un abbattimento delle funzioni pubbliche sia la chiave per grandi prestazioni economiche, la marea crescente che alza tutte le barche.  Questa pretesa persiste – dato che ci sono interessi potenti che vogliono che persista – anche se l’epoca del dominio neoliberista ha segnato una crescita economica modesta che non è stata condivisa dai lavoratori comuni:

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L’altro argomento, tuttavia, è stato che i liberi mercati si traducono in libertà personale: che una economia di un mercato senza regole libera le persone comuni dalla tirannia delle burocrazie. In un mercato libero, così si è raccontato, non avete bisogno di adulare il vostro capo o la società che vende la vostra merce, perché sanno che potete sempre andare da qualcun altro.

Quello che Robin mette in evidenza è la realtà di un’economia di mercato del tutto diversa. Di fatto, l’esperienza quotidiana di decine di milioni di americani – specialmente, ma non solo, di coloro che non fanno molti soldi – è alla dipendenza continua della buona volontà dei datori di lavoro e di altri più potenti soggetti economici.

È vero che, come dice Brad DeLong, che molti degli esempi di Robin in realtà varrebbero in ogni sistema economico complesso: ho buttato via molto tempo nel misurarmi con Verizon [3] e con la Amministrazione della Previdenza Sociale, e in entrambi i casi il mio status socioeconomico ha reso la cosa molto più facile di quanto sarebbe stata per un lavoratore con un salario minimo (d’altra parte, ho avuto esperienze regolarmente positive presso il tanto vituperato Dipartimento dei Veicoli a Motore della California). Ma l’idea che i liberi mercati sottraggano le relazioni di potere dal loro normale equilibrio è solo ingenua.

Ed è persino più ingenua al giorno d’oggi di quanto non fosse qualche decina d’anni fa, perché, come mette in evidenza Irwin, i grandi soggetti economici stanno sempre di più dominando l’economia. È sempre più chiaro, ad esempio, che il potere di monopsonio [4] sta deprimendo i salari; ma non fa solo questo. La concentrazione delle assunzioni tra poche imprese, in aggiunta a cose come le ‘clausole di non competizione’ [5] e la tacita complicità che rafforza il loro potere sul mercato, non riducendo soltanto il vostro salario se siete assunti. Riduce anche o elimina le vostre possibilità se siete vessati: lasciate il lavoro perché avete un capo che abusa o avete problemi con la politica dell’impresa, e potreste avere una reale difficoltà ad avere un nuovo posto di lavoro.

Ma cosa può essere fatto al proposito? Corey Robin dice ‘il socialismo’ – che per quanto intendo significa effettivamente la socialdemocrazia: la Danimarca, non il Venezuela.  Le protezioni del posto di lavoro su delega del Governo possono ridurre le possibilità delle imprese di assumere e di licenziare, ma proteggono anche i lavoratori da qualche concretissima forma di abuso. In qualche modo i sindacati limitano le opzioni dei lavoratori, ma offrono anche un importante   contrappeso contro il potere di monopsonio delle società.

Inoltre, i programmi delle reti della sicurezza sociale possono fare di più che contenere la miseria: possono avere un effetto liberatorio. Abbiamo conosciuto molte persone bloccate nei loro posti di lavoro che detestavano per paura di perdere l’assistenza sanitaria; la riforma di Obama, con tutti i suoi difetti, ha notevolmente ridotto quel genere di “trappola” e una piena garanzia di copertura sanitaria renderebbe la nostra società visibilmente più libera. L’altro giorno mi sono divertito un po’ con l’indice di libertà economia tra tutti gli Stati del Cato Institute, che trova la Florida la più libera e lo Stato di New York il meno libero (posso scriverlo, compagno commissario?). Come misi in evidenza, la libertà nello stile del Cato sembra andare di pari passo, tra le altre cose, con una elevata mortalità infantile. Vivi liberamente e muori! (il New Hampshire è appena avanti la Florida).

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[6]

Ma, sul serio, le effettive differenze tra New York e la Florida rendono i newyorkesi meno liberi? New York è una zona fortemente sindacalizzata – il 25,3 per cento della forza lavoro – mentre soltanto il 6,6 per cento dei lavoratori della Florida sono rappresentati dai sindacati. Questo rende i lavoratori di New York meno liberi, oppure li rafforza di fronte al potere delle imprese?

Inoltre, New York ha ampliato Medicaid ed ha cercato di far funzionare la riforma sanitaria, cosicché soltanto l’8,8 per cento degli adulti non anziani [7] non sono assicurati, a confronto del 18 per cento in Florida. I newyorkesi sono infastiditi dalla mano ruvida della legislazione sanitaria, oppure si sentono più liberi sapendo che corrono un rischio minore di essere rovinati dalle emergenze sanitarie – o di precipitare nell’abisso se perdono il loro posto di lavoro?

Se siete un professionista con un elevato stipendio, questo probabilmente non fa una grande differenza. Ma la mia impressione è che la maggioranza dei lavoratori si sente almeno un po’ più libera a New York di quanto non si sentano quelli della Florida.

Ora, non ci sono risposte perfette all’inevitabile sacrificio di qualche libertà che deriva dal vivere in società complesse; l’utopia non fa parte del menu. Ma i sostenitori di un illimitato potere delle imprese e di una protezione minima del lavoratore se la sono cavata anche troppo a lungo con la pretesa di essere i difensori della libertà – che non è, di fatto, semplicemente un’altra parola per dire che non si ha niente da perdere.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Politologo americano e docente all’Università della Città di New York:

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[2] Neil Irwin è un corrispondente per i temi economici del New York Times.

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[3] Verizon Communications è un fornitore di banda larga e di telecomunicazioni statunitense. Il nome è un neologismo composto da due parole latine: Veritas (che significa “verità“) e Horizon (che significa “orizzonte”). Nel 2015 Verizon ha esteso la propria attività acquisendo AOL e due anni dopo rilevando Yahoo!. AOL e Yahoo sono stati amalgamati in una nuova divisione denominata Oath Inc. A partire dal 2017 è la seconda società di telecomunicazioni per fatturato dopo AT & T. (Wikipedia)

[4] Situazione di mercato caratterizzata dall’accentramento della domanda da parte di un solo soggetto economico e dall’impossibilità per altri acquirenti di entrare sul mercato.

[5] In molti contratti di lavoro è previsto il divieto per il lavoratore di trasferirsi in una impresa analoga, con il pretesto di un passaggio di informazioni alla concorrenza. Il che ha evidentemente effetto sulla competizione salariale, praticamente imponendo al lavoratore un obbligo di appartenenza all’impresa originaria e impedendogli di cercare posti di lavoro più remunerativi.

[6] Come si vede, la stima della Fondazione della destra Cato sull’indice di ‘libertà’ è favorevole alla Florida e molto sfavorevole a New York; ma l’indice della mortalità infantile dice l’opposto.

[7] Gli adulti non anziani sono esclusi, probabilmente, perché sono per legge protetti da Medicare.

La faziosità, i parassiti e la polarizzazione. Gli imbrogli del direct-marketing stanno distruggendo la repubblica? Una questione seria. (dal blog di Paul Krugman, 21 agosto 2018)

agosto 26, 2018

Partisanship, Parasites, and Polarization

Are direct-marketing scams destroying the republic? A serious question.

By Paul Krugman

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Parasites are a huge force in the natural world. For the most part they simply feed on their hosts. But there are a number of cases in which they exert a more insidious influence: they actually change their hosts’ behavior, in ways that benefit the parasites but damage and perhaps eventually kill their victims.

And lately I’ve been wondering if that’s what’s happening to America. How much of our political sickness is the result of a parasitic infection? What I have in mind specifically is an infestation of direct-marketing scams that exploit and reinforce political partisanship, largely on the right, basically to sell merchandise.

If this sounds absurd to you, bear with me a bit. I’m not the first person to make this suggestion – Rick Perlstein, our leading historian of modern conservatism, made basically the same argument (without the biological analogy) back in 2012, and as I’ll explain, a lot of things have happened since then to reinforce his point.

What set me on this trail initially was learning that Ben Shapiro, the Young Conservative Intellectual du jour, is using his talk-show presence to market dietary supplements:

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I’ll come back to that. First, some notes on political economy.

When I try to understand political behavior, I, like many others, often find myself thinking about Mancur Olson’s classic The Logic of Collective Action. Olson’s simple yet profound insight was that political action on behalf of a group is, from the point of view of members of that group, a public good.

What do we mean by that? A public good is something that, if provided, benefits many people – but whoever provides it has no way to limit the benefits to himself or herself, and hence no way to cash in on the good’s provision. The classic example is a lighthouse that steers everyone away from shoals, whether or not they’ve paid the fee; public health measures that limit disease are in the same category. As a result, the fact that a public good is worth providing from society’s point of view is no guarantee that it will actually be provided; it has to be worth some individual’s while.

As Olson pointed out, the same goes for political action. Just because a political candidate’s victory would be good for, say, farmers doesn’t mean that farmers will give him or her money; each individual farmer will have an incentive to free ride on everyone else’s contributions. So political action is normally undertaken by individuals or small, organized groups that stand to benefit directly. Either that, or it’s a byproduct of other activities that are advantageous for their own reasons and can also be harnessed for political action, like memberships in trade associations or unions.

But don’t rich people give money to support the interests of their class? Actually, a lot of the money we see in politics ends up being money spent in the givers’ own, personal interests. For example, you can think of the Koch brothers’ political spending as an investment in themselves: they have benefited immensely from the recent tax cut, with a payoff that far exceeds the amount they spent promoting it.

So a lot of political action is driven by people trying to shape policy in a way that benefits them personally. But what the Shapiro/brain pills story drives home to me is that there’s another important factor in our current political scene: the use of political action as a marketing ploy, by people out to make a buck selling stuff that has little to do with politics per se.

As I said, Rick Perlstein has already written the basic text here. As he documents, right-wing websites largely act as marketing centers for stuff like this:

Dear Reader, I’m going to tell you something, but you must promise to keep it quiet. You have to understand that the “elite” would not be at all happy with me if they knew what I was about to tell you. That’s why we have to tread carefully. You see, while most people are paying attention to the stock market, the banks, brokerages and big institutions have their money somewhere else . . . [in] what I call the hidden money mountain . . . All you have to know is the insider’s code (which I’ll tell you) and you could make an extra $6,000 every single month.

And some of the most influential voices on the right haven’t just sold advertising space to purveyors of snake oil, they’ve gotten directly into the snake-oil business themselves.

Thus:

Glenn Beck in his heyday juiced up his viewers by telling them that Obama was going to unleash hyperinflation any day now; he personally cashed in by hawking overpriced gold coins.

Alex Jones makes a splash by claiming that school massacres are fake news, and the victims are really actors. But he makes his money by selling diet supplements.

Ben Shapiro writes critiques of liberal academics that conservatives consider erudite (remember Ezra Klein’s lineabout a stupid person’s idea of what a thoughtful person sounds like?), but makes his money the same way Alex Jones does.

Why should marketing scams be linked to political extremism? It’s all about affinity fraud: once you establish a persona that appeals to angry, aging white guys, you can sell them stuff that will supposedly protect their virility, their waistline, and their wealth.

And at a grander level, isn’t that what Fox News is really about? Consider it not as an ideological organization per se but as a business: it offers cheap programming (because there isn’t much reporting) that appeals to the prejudices of angry old white guys who like to sit on the couch and rant at their TV, and uses its viewership to help advertisers selling weight-loss plans.

Now, normally we think of individuals’ views and interests as the forces driving politics, including the ugly polarization increasingly dominating the scene. The commercial exploitation of that polarization, if we mention it at all, is treated as a sort of surface phenomenon that feeds off the fundamental dynamic.

But are we sure that’s right? The Alex Joneses, Ben Shapiros, and Fox Newses of the world couldn’t profit from extremism unless there were some underlying predisposition of angry old white guys to listen to this stuff. But maybe the commercial exploitation of political anger is what has concentrated and weaponized that anger. In other words, going back to where I started this essay, maybe the reason we’re in a political nightmare is that our political behavior has, in effect, been parasitized by marketing algorithms.

I know I’m not the only one thinking along these lines. Charlie Stross argues that “paperclip maximizers” – not people, but social systems and algorithms that try to maximize profits, market share, or whatever – have increasingly been directing the direction of society, in ways that hurt humanity. He’s mostly focused on corporate influence over policy, as opposed to mobilization of angry people in the service of direct-order scams, but both could be operating.

Anyway, I think it’s really important to realize the extent to which peddling political snake oil, whether it’s about the economy, race, the effects of immigration, or whatever, is to an important extent a way to peddle actual snake oil: magic pills that will let you lose weight without ever feeling hungry and restore your youthful manhood.

 

La faziosità, i parassiti e la polarizzazione.

Gli imbrogli del direct-marketing [1] stanno distruggendo la repubblica? Una questione seria.

Di Paul Krugman

Nel mondo della natura i parassiti sono una grande forza. Per la massima parte essi si alimentano semplicemente sui loro ospiti. Ma c’è un certo numero di casi nei quali esercitano una influenza più insidiosa: in realtà essi modificano il comportamento dei loro ospiti, in modi che effettivamente favoriscono i parassiti ma provocano danni e magari alla fine uccidono le loro vittime.

E negli ultimi tempi mi vengo chiedendo se non sia quello che sta accadendo in America. In che misura la nostra malattia politica è il risultato di una infezione di parassiti? Quello a cui sto pensando in particolare è una infestazione delle truffe del direct marketing che, specialmente a destra, sfruttano e rafforzano la faziosità politica, fondamentalmente allo scopo di vendere merci.

Se vi sembra assurdo, seguitemi con un po’ di pazienza. Non sono il primo ad avanzare questa suggestione – Rick Perlstein, il nostro principale storico del conservatorismo moderno, avanzò fondamentalmente lo stesso argomento (senza la analogia con la biologia) nel passato 2012, e, come spiegherò, da allora sono accadute molte cose che rafforzano questa tesi. Quello che agli inizi mi ha messo su questa traccia è stato l’apprendere che Ben Shapiro, il giovane intellettuale conservatore del momento, sta usando la presenza sul suo talk-show per promuovere integratori alimentari:

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Verrò successivamente a questo aspetto. Anzitutto, alcune considerazioni di economia politica.

Quando cerco di comprendere un comportamento politico, io, come molti altri, spesso mi ritrovo a ragionare della classica Logica della azione collettiva di Mancur Olson. La semplice e tuttavia profonda intuizione di Olson fu che l’azione politica nell’interesse di un gruppo, dal punto di vista dei componenti di quel gruppo, è un bene pubblico.

Cosa intendo con questo? Un bene pubblico è qualcosa che, se viene fornito, va a vantaggio di molte persone – ma chiunque lo fornisce non ha modo di limitare i benefici a sé stesso, e quindi non ha modo di speculare sulla fornitura del bene. L’esempio classico è il segnale luminoso che indirizza ciascuno fuori dagli assembramenti: le misure di salute pubblica che limitano una malattia sono della stessa specie. Di conseguenza, il fatto che un bene pubblico sia meritevole di essere fornito, dal punto di vista della società, non garantisce che esso sia effettivamente fornito; esso deve avere un interesse per il singolo.

Come Olson mise in evidenza, lo stesso avviene per l’azione politica. Solo perché una vittoria politica di un candidato sarebbe positiva, ad esempio, per gli agricoltori non significa che gli agricoltori gli daranno contributi finanziari; ogni singolo agricoltore avrà un incentivo a vivere di rendita sui contributi di tutti gli altri. Dunque, l’azione politica è normalmente intrapresa da individui o da piccoli gruppi organizzati che si propongono di beneficiarne direttamente. Che si tratti di questo, o che sia un sottoprodotto di altre attività che sono vantaggiose per ragioni loro proprie e che possano anche essere sfruttate per l’azione politica, come la partecipazione ad associazioni commerciali o a sindacati.

Ma i ricchi non danno contributi per sostenere gli interessi della loro classe? Effettivamente, un gran quantità del denaro che osserviamo nella politica finisce con l’essere spesa nell’interesse personale degli stessi sottoscrittori. Per esempio, potete pensare alla spesa politica dei Fratelli Koch come un investimento su sé stessi: essi hanno tratto immensi benefici dal recente taglio alle tasse, con un compenso che eccede di gran lunga la somma che hanno speso per promuoverlo.

Dunque, una buona parte dell’azione politica è guidata da individui che cercano di conformare la politica in un modo che vada personalmente a loro vantaggio. Ma quello che la storia delle pillole per il cervello di Shapiro mi fa ben capire è che c’è un altro importante fattore nella attuale nostra scena politica: l’uso della azione politica come un espediente di mercato, da parte di persone che fanno affari vendendo roba che ha poco a che fare con la politica in sé.

Come ho detto, Rick Perlstein aveva già scritto a questo proposito le cose fondamentali. Come egli documenta, i siti informatici della destra agiscono in buona misura come centri commerciali per cose come questa:

“Caro Lettore, sto per dirti qualcosa ma devi promettermi di tenerla riservata. Devi capire che le “classi dirigenti” non sarebbero affatto contente di me se sapessero cosa sto per dirti. È questa la ragione per la quale dobbiamo procedere con scrupolo. Fai attenzione, mentre la maggioranza delle persone stanno attente ai mercati azionari, alle banche, alle attività dei broker, le grandi istituzioni tengono i soldi da qualche altra parte … in quella che io definisco la montagna nascosta del denaro … Tutto quello che devi conoscere è il codice degli addetti ai lavori (che io ti fornirò) e ti potrai realizzare un guadagno di 6.000 dollari per ogni mese.”

E alcune delle voci più influenti della destra non hanno solo venduto spazio pubblicitario ai ciarlatani delle pozioni magiche, sono entrati essi stessi direttamente nell’affare della pozione magica.

Quindi:

Glenn Beck nel suo pieno fulgore ha eccitato i suoi telespettatori raccontandogli che Obama era in procinto di sguinzagliare l’iperinflazione in ogni momento; personalmente incassava dalla attività di ‘falco’ monete d’oro sopravvalutate.

Alex Jones fa un gran clamore sostenendo che i massacri nelle scuole sono false notizie e che le vittime sono in realtà attori. Ma fa soldi vendendo integratori alimentari.     

Ben Shapiro scrive critiche sui docenti universitari progressisti che i conservatori considerano eruditi (vi ricordate la frase di Ezra Klein sull’idea di una persona stupida di quello che sembrerebbe proprio di una persona riflessiva?), ma fa soldi nello stesso modo in cui li fa Alex.

Perché questi imbrogli di mercato dovrebbero essere connessi con l’estremismo politico? È una questione che riguarda il cosiddetto ‘reato basato sull’appartenenza’ [2]: una volta che si stabilisce che una persona è attratta da personaggi di razza bianca arrabbiati e di una certa età, si può vendere loro roba che si suppone proteggerà la loro virilità, il loro ‘girovita’ e la loro ricchezza.

E ad un livello più grande, non è quello di cui si occupa Fox News? La si consideri non come una organizzazione ideologica di per sé, ma come un affare: essa offre programmi convenienti (perché non ci sono molti resoconti) che si rivolgono ai pregiudizi di individui di razza bianca arrabbiati e di una certa età ai quali fa piacere star seduti sui loro divani e imprecare presso i loro televisori, e utilizza i propri telespettatori per contribuire a pubblicità che vendono programmi di diete per dimagrire.

Ora, normalmente noi pensiamo ai punti di vista ed agli interessi dei singoli come forze che guidano la politica, compresa la indegna polarizzazione che sempre di più domina la scena. Lo sfruttamento di quella polarizzazione, ammesso che se ne parli, è trattato come una sorta di fenomeno di superficie che trae energia dalla dinamica principale.

Ma siamo sicuri che sia giusto? Gli Alex Jones, i Ben Shapiro e le Fox News del mondo non potrebbero trarre profitto dall’estremismo se non ci fosse qualche predisposizione sottostante degli individui di razza bianca arrabbiati e anzianotti ad ascoltare roba del genere. Ma forse è lo sfruttamento commerciale della rabbia politica quello che ha concentrato ed utilizzato come un’arma quella rabbia. In altre parole, tornando al punto da cui ero partito all’inizio di questo intervento, può darsi che la ragione per la quale siamo in un incubo della politica sia che il nostro comportamento politico è stato, in effetti, aggredito in forme parassitarie dagli algoritmi di mercato.

So che non sono l’unico a ragionare in questi termini. Charlie Stross sostiene che gli ‘ottimizzatori delle graffette” [3] – non le persone, ma i sistemi sociali e gli algoritmi che cercano di massimizzare i profitti, le quote di mercato e cose del genere – stanno sempre di più indirizzando la direzione della società, in modi che danneggiano l’umanità. Esso è soprattutto concentrato sull’influenza sulla politica delle grandi società, in modo opposto alla mobilitazione delle persone faziose al servizio di truffe sulla base di ordini diretti, ma entrambe le modalità potrebbero funzionare assieme.

In ogni modo penso che sia davvero importante comprendere in quale misura mettere in circolazione le pozioni magiche, che riguardino l’economia, la razza, gli effetti dell’immigrazione o cose del genere, sia in misura importante davvero un modo per smerciare pozioni magiche: pillole magiche che vi consentiranno di perdere peso senza mai sentir fame e di ripristinare la vostra virilità giovanile.     

 

 

 

 

 

 

 

[1] Il direct marketing comprende ogni comunicazione informativa o promozionale direttamente rivolta al consumatore che è finalizzata a generare da parte di quest’ultimo una risposta quantificabile e misurabile.

[2] È un effettivo reato nel codice americano, e consiste nello sfruttare ai fini affaristici l’appartenenza delle vittime ad una categoria di persone caratterizzata da medesime ‘inclinazioni’. Ad esempio, la famosa vicenda dello speculatore Madoff, che imbrogliava individui – facendosi dare soldi – caratterizzati dalla stessa dabbenaggine (in quel caso verso presunte iniziative sociali che in realtà erano una mascheratura degli affari che venivano proposti).

[3] La traduzione è letterale, “paperclip” significa “fermaglio, graffetta”. Il significato preciso, la ragione, di questo neologismo mi sfugge un po’.

Ma Wikipedia spiega che il paperclip maximizer “è un esperimento di pensiero che mostra come una generale intelligenza artificiale, persino una immaginata con competenza e senza malizia, alla fine può distruggere l’umanità. L’esperimento di pensiero dimostra che I valori apparentemente innocui potrebbero costituire una minaccia esistenziale … Un ottimizzatore estremamente potente (un agente di elevata potenza) potrebbe proporsi obbiettivi completamente estranei ai nostri e, come effetto collaterale, impedirci di consumare risorse essenziali alla nostra sopravvivenza”.

Sembra inoltre che l’origine della espressione sulla ‘graffetta’ possa essere molto banale: in un esempio relativo alla valutazione delle prospettive della Intelligenza Artificiale del 2003, l’esperto Nick Bostrom partiva dall’ipotesi che si volesse aumentare la produzione di graffette da una macchina. Quindi, forse l’espressione non ha alcun particolare significato e richiama semplicemente quell’esempio.

 

 

 

 

 

 

 

Festeggiare come se fosse il 1998, (dal blog di Paul Krugman, 11 agosto 2018)

agosto 13, 2018

 

Aug. 11 2018

Partying Like It’s 1998

By Paul Krugman

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And now for something completely similar.

For a while, those of us who devoted a lot of time to understanding the Asian financial crisis two decades ago were wondering whether Turkey was going to stage a re-enactment. Sure enough, that’s what seems to be happening.

Here’s the script: start with a country that, for whatever reason, became a favorite of foreign lenders, and experienced a large inflow of foreign capital over a number of years. Crucially, the debt thus incurred is denominated in foreign currency, not domestic (which is why the U.S., also a recipient of large inflows in the past, isn’t similarly vulnerable — we borrow in dollars).

At some point, however, the party comes to an end. It doesn’t matter much what causes a “sudden stop” in foreign lending: it could be domestic events, like appointing your son-in-law to oversee economic policy, it could be a rise in U.S. interest rates, it could be a crisis in another country investors see as being similar to you.

Whatever the shock, the crucial thing is that foreign debt has made your economy vulnerable to a death spiral. Loss of confidence causes your currency to drop; this makes it harder to repay debts in foreign currency; this hurts the real economy and further reduces confidence, leading to a further decline in your currency; and so on.

The result is that foreign debt explodes as a share of GDP. Indonesia came into the ’90s financial crisis with foreign debt less than 60 percent of GDP, roughly comparable to Turkey early this year. By 1998 a plunging rupiah had sent that debt to almost 170 percent of GDP.

How does such a crisis end? If there is no effective policy response, what happens is that the currency drops and debt measured in domestic currency balloons until everyone who can go bankrupt, does. At that point the weak currency fuels an export boom, and the economy starts a recovery built around huge trade surpluses. (This may come as a surprise to Donald Trump, who appears to be levying punitive tariffs on Turkey as punishment for its weak currency.)

Is there any way to short-circuit this doom loop? Yes, but it’s tricky. What you need to reduce the costs of crisis is a combination of short-run heterodoxy and credible assurances of a longer-run return to orthodoxy.

How it works: stop the explosion of the debt ratio with some combination of temporary capital controls, to place a curfew on panicked capital flight, and possibly the repudiation of some foreign-currency debt. Meanwhile, get things in place for a fiscally sustainable regime once the crisis is over. If all goes well, confidence will gradually return, and you’ll eventually be able to remove the capital controls.

Malaysia did this in 1998; South Korea, with U.S. aid, effectively did something like it at the same time, by pressuring banks into maintaining their short-term credit lines. A decade later, Iceland did very well with a combination of capital controls and debt repudiation (strictly speaking, refusing to take public responsibility for the debts run up by private bankers).

Argentina also did quite well with heterodox policies in 2002 and for a few years after, effectively repudiating 2/3 of its debt. But the Kirchner regime didn’t know when to stop and turn orthodox again, setting the stage for the country’s return to crisis.

And maybe that example shows how hard dealing with this kind of crisis is. You need a government that is both flexible and responsible, not to mention technically competent enough to implement special measures and honest enough to carry out that implementation without massive corruption.

That, unfortunately, doesn’t sound like Erdogan’s Turkey. Of course, it doesn’t sound like Trump’s America, either. So it’s a good thing our debts are in dollars.

 

Festeggiare come se fosse il 1998,

di Paul Krugman

E adesso per qualcosa di completamente simile.

Da un po’, coloro tra noi che impiegavano molto tempo alla comprensione della crisi finanziaria asiatica di due decenni orsono si stavano chiedendo se la Turchia fosse destinata a mettere in scena una rievocazione.

Ecco il copione: si parte con un paese che, per qualsiasi ragione, è finito nei favori di prestatori stranieri, ed ha conosciuto per un certo numero di anni ampi flussi di capitali stranieri. Fondamentalmente, il debito in tal modo sottoscritto è denominato in valuta straniera, non in quella nazionale (che è la ragione per la quale gli Stati Uniti, anch’essi destinatari di vasti flussi nel passato, non sono nello stesso modo vulnerabili – noi ci indebitiamo in dollari).

Ad un certo punto, tuttavia, la festa va a finire. Non è molto importante cosa provochi la “improvvisa interruzione” nei prestiti stranieri: potrebbero essere eventi interni, come nominare vostro genero alla supervisione della politica economica, potrebbe essere una crescita dei tassi di interesse, potrebbe essere una crisi tra gli investitori di un altro paese considerati simili a voi.

Qualsiasi sia la causa del trauma, l’aspetto cruciale è che il debito estero ha reso la vostra economia vulnerabile ad una spirale fatale. La perdita di fiducia fa cadere la vostra valuta; questo rende più difficile ripagare i debiti in valuta estera; dà un colpo all’economia reale e riduce ulteriormente la fiducia nella vostra valuta; e così via.

Il risultato è che il debito estero esplode come percentuale del PIL. L’Indonesia entrò nella crisi finanziaria degli anni ’90 con un debito estero inferiore al 60 per cento del PIL, grosso modo confrontabile con il debito estero della Turchia agli inizi di quest’anno. Con il 1998 la crisi della rupia aveva spedito quel debito a quasi il 170 per cento del PIL.

Come va a finire una crisi del genere? Se non c’è una risposta politica efficace, quello che accade è che la valuta scende e il debito misurato in valuta nazionale si moltiplica sinché tutti coloro che possono andare in bancarotta non lo fanno. A quel punto la valuta debole alimenta un boom delle esportazioni, e l’economia comincia a riprendersi sulla base di ampi surplus commerciali (per Donald Trump questa può apparire come una sorpresa, lui sembra stia imponendo tariffe punitive sulla Turchia come punizione per la sua valuta debole).

C’è un qualche modo per aggirare questo circuito di sventura? Sì, ma è difficile. Quello che occorre per ridurre i costi della crisi è una combinazione di eterodossia nel breve termine e di assicurazioni di un ritorno all’ortodossia nel più lungo termine.

Ecco come funziona: si impedisce che il tasso del debito esploda con qualche combinazione di controlli temporanei dei capitali, per collocare una sorta di coprifuoco su fughe di capitali in preda al panico, e possibilmente per disconoscere una parte del debito in valuta estera. Nel frattempo, una volta che la crisi è alle spalle, si dispongono le cose in modo da favorire un regime della finanza pubblica sostenibile. Se tutto va bene, la fiducia gradualmente ritornerà e alla fine si potranno rimuovere i controlli dei capitali.

È quello che fece la Malesia nel 1998; la Corea del Sud, con l’aiuto degli Stati Uniti, fece nello stesso periodo qualcosa di simile, facendo pressione sulle banche per il mantenimento delle loro linee di credito a breve. Un decennio dopo, l’Islanda agì nel migliore dei modi con una combinazione di controllo dei capitali e di disconoscimento del debito (precisamente, rifiutandosi di accollarsi una responsabilità pubblica per i debiti accumulati dai banchieri privati).

Anche l’Argentina gestì la situazione abbastanza bene ricorrendo a politiche eterodosse nel 2002 e nei due anni successivi, di fatto disconoscendo due terzi del proprio debito. Ma il regime di Kirchner non seppe quando fermarsi e tornare ad essere ortodosso, creando le condizioni per il ritorno alla crisi del paese.

E forse quell’esempio mostra quanto sia difficile gestire quel genere di crisi.  Si ha bisogno di un Governo nello stesso tempo flessibile e responsabile, per non dire sufficientemente competente dal punto di vista tecnico per promuovere speciali misure e sufficientemente onesto per portarle a compimento senza una corruzione diffusa.

Sfortunatamente, questo non somiglia alla Turchia di Erdogan. Ovviamente, non somiglia neanche all’America di Trump. Cosicché è positivo che i nostri debiti siano in dollari.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note su una Repubblica del burro (dal blog di Paul Krugman, 5 agosto 2018)

agosto 8, 2018

 

Aug.5 2018

Notes on a Butter Republic

By Paul Krugman

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Still on vacation, and I’m currently in Denmark – in fact, just cycled from Copenhagen to Helsingor, aka Elsinore. Sad to say, I’m such a fearsome nerd that instead of thinking about Shakespeare, my thoughts have turned to … economics. For Denmark’s story is, I’d argue, of considerable interest to the rest of us.

To be clear, I am in no sense an expert on the Danish economy, now or in the past. I only know what I read and can pull out of readily available databases. So this is really about using Denmark as a mirror to hold up to the rest of the world. But it’s an interesting mirror (and much nicer to think about than the outrages at home.) There are, in particular, two lessons I think Denmark can teach us: a hopeful story about globalization, and another hopeful one about the possibilities of creating a decent society.

 

Blessed are the cheesemakers

OK, as a helpful bystander points out in Life of Brian, it’s a metaphor, not to be taken literally: the blessing extends to all manufacturers of dairy products. The blessing certainly worked in the case of Denmark.

During the creation of the first global economy, the one made possible by railroads, steamships, and telegraphs, the world seemed to bifurcate into industrial nations and the agricultural raw/material producers who catered to them. And the agricultural nations, even if they grew rich at first – e.g., Argentina – seemingly ended up getting much the worse of the deal, turning into banana republics crippled economically and politically by their role.

But Denmark became, not a banana republic, but a butter republic. Steamships and steam-powered cream separators allowed Denmark to become a huge exporter of butter (and pork) to the UK, leading in turn to impressive prosperity on the eve of World War I.

One interesting point about this export surge is that in a way it was value-added production, like the exports of modern developing economies that rely on imported inputs – except that in Denmark’s case it was imports of animal feed from North America that helped provide a crucial edge.

The good news was that this agricultural orientation didn’t turn out to be a dead end. Instead, it laid the foundation for excellent performance over the long run. And in Denmark’s case globalization seems to have been equalizing, both politically and economically: instead of fostering dominance by foreign corporations or domestic landowners, it led to dominance by rural cooperatives.

Why was the Danish story so happy? The Danes may have been lucky in the product in which they turned out to have a comparative advantage. Also, like the Asian countries that led the first wave of modern developing-country growth, they came into globalization with a well-educated population by world standards. They may also have been lucky in the enlightened behavior of their elites.

Anyway, I’m not pushing a universal lesson that globalization is great for everyone; just the opposite. The point is that the results depend on the details: a country can produce agricultural products, be “dependent” by most definitions, yet use that as the basis for permanent elevation into the first world.

And in today’s world, Denmark manages to be very open to world trade, while having very low levels of inequality both before and after redistribution. Globalization need not be in conflict with social justice. Speaking of which …

 

The non-horrors of “socialism”

A number of people on the U.S. right, and some self-proclaimed centrists, seem totally taken aback by the rise of politicians who call themselves socialist. But this rise was predictable and predicted.

Here’s what happened: for decades the right has tried to shout down any attempt to sand down some of the rough edges of capitalism, whether through health guarantees, income supports, or anything else, by yelling “socialism.” Sooner or later people were bound to say that if any attempt to make our system less harsh is socialism, well, they’re socialists.

The truth is that there are hardly any people in the U.S. who want the government to seize the means of production, or even the economy’s commanding heights. What they want is social democracy – the kinds of basic guarantees of health care, protection against poverty, etc., that almost every other advanced country provides.

Denmark, where tax receipts are 46 percent of GDP compared with 26 percent in the U.S., is arguably the most social-democratic country in the world. According to conservative doctrine, the combination of high taxes and aid to “takers” must really destroy incentives both to create jobs and to take them in any case. So Denmark must suffer from mass unemployment, right?

 

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Ahem:

Yep, Danish adults are more likely to be employed than their U.S. counterparts. They work somewhat shorter hours, although that may well be a welfare-improving choice. But what Denmark shows is that you can run a welfare state far more generous than we do – beyond the wildest dreams of U.S. progressives – and still have a highly successful economy.

Indeed, while GDP per capita in Denmark is lower than in the U.S. – basically because of shorter work hours – life satisfaction is notably higher.

 

Macro muddles

Despite all this good stuff, there is something rotten – OK, maybe just slightly off – in the state of Denmark. While the long-term performance has been great, Denmark hasn’t done too well since the 2008 financial crisis, with real GDP per capita falling substantially, then taking a long time to recover. In particular, Denmark has lagged far behind Sweden:

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There’s no mystery about this recent underperformance. Denmark isn’t on the euro, but unlike Sweden, it has pegged its currency to the euro. So it has shared in the euro area’s problems.

Leaving aside the general issue of exchange rate regimes, this is a reminder that microeconomics – things like the incentive effects of a strong welfare state – is different from macroeconomics. You can do great things on the micro front and still screw up your monetary policy.

So those are my notes on Denmark – plus one more observation: nothing in Danish is pronounced remotely the way the spelling suggests to an English speaker. (The famous astronomer Tyco Brahe was, if I got it right, something like Tuco Brawwww.) The same isn’t true for German. Why did they do this?

 

Note su una Repubblica del burro,

di Paul Krugman

Sono ancora in vacanza, attualmente in Danimarca – infatti, ho appena pedalato da Copenaghen a Helsingor, ovvero Elsinore. Triste a dirsi, sono un tale terribile fanatico che invece di pensare a Shakespeare, i miei pensieri si sono indirizzati … all’economia. Perché la storia della Danimarca direi che è di considerevole interesse per tutti gli altri.

Onestamente, non sono in nessun senso un esperto di economia danese, né di quella attuale né di quella passata. Conosco soltanto quello che leggo e che posso dedurre da database facilmente disponibili. Dunque, questo articolo in realtà riguarda l’utilizzo della Danimarca come uno specchio da usare nei confronti con il resto del mondo. Ma si tratta di uno specchio interessante (e molto più grazioso da riflettere rispetto agli scandali di casa nostra). Penso che, in particolare, ci siano due lezioni che la Danimarca ci può insegnare: un racconto ottimista sulla globalizzazione e un altro racconto ottimistico sulle possibilità di creare una società dignitosa.

 

Siano benedetti i produttori di formaggi

È vero, come indica uno spettatore fiducioso nella Vita di Brian [1], esso non va preso alla lettera, è una metafora: la benedizione si estende a tutti i prodotti manifatturieri dei caseifici. Certamente, la benedizione è appropriata nel caso della Danimarca.

Durante la creazione della prima economia globale, quella resa possibile dalle ferrovie, dalla navigazione a vapore e dal telegrafo, il mondo sembrava biforcarsi nelle nazioni industriali e nei produttori agricoli delle materie prime che ne soddisfacevano i bisogni. E le nazioni agricole, anche se agli inizi diventavano ricche – ad esempio, l’Argentina – alla fine sembravano ottenere soprattutto il peggio degli accordi, diventando repubbliche delle banane compromesse economicamente e politicamente dal loro ruolo.

Ma la Danimarca non diventò una repubblica delle banane, bensì una repubblica del burro. La navigazione a vapore e le scrematrici alimentate a vapore consentirono alla Danimarca di divenire un grande esportatore di burro (e di carne suina) verso il Regno Unito, indirizzandosi a sua volta verso una impressionante prosperità nel periodo della Prima Guerra Mondiale.

Un aspetto interessante di questa crescita delle esportazioni è che essa in un certo senso fu una produzione di valore aggiunto, come le esportazioni delle moderne economie in via di sviluppo che si basano su contributi importati – sennonché nel caso della Danimarca si trattava di importazioni di alimentazioni per animali dal Nord America, che contribuirono a fornire un vantaggio fondamentale.

L’aspetto positivo fu che questo orientamento agricolo non si risolse in una via senza sbocco. Fornì, invece, la base per una eccellente prestazione nel lungo periodo. E la globalizzazione nel caso della Danimarca sembra aver avuto effetti egualitari sia politicamente che economicamente: invece di promuovere il dominio delle società straniere e dei grandi proprietari di terre, ha portato al dominio delle cooperative rurali.

Perché la storia della Danimarca fu così felice? I danesi potrebbero esser stati fortunati nel prodotto nel quale risultarono avere un vantaggio comparativo. Inoltre, come i paesi asiatici che guidarono la prima ondata moderna di crescita dei paesi in via di sviluppo, essi entrarono nella globalizzazione con una popolazione ben istruita per gli standard mondiali. Potrebbero anche essere stati fortunati in conseguenza del comportamento illuminato delle loro classi dirigenti.

In ogni caso non sto promuovendo una lezione universale secondo la quale la globalizzazione è una gran cosa per tutti; proprio l’opposto. Il punto è che i risultati dipendono dai dettagli: un paese può produrre beni dell’agricoltura, essere “dipendente” secondo la maggioranza dei criteri, e tuttavia usare tutto questo come la base per una affermazione permanente nel primo mondo.

E nel mondo odierno, la Danimarca gestisce un commercio mondiale molto aperto, pur avendo livelli molto bassi di ineguaglianza sia prima che dopo la redistribuzione. Non c’è bisogno che la globalizzazione sia in conflitto con la giustizia sociale. Passando a quest’ultima …

 

L’assenza degli orrori del “socialismo”  

Un certo numero di persone nella destra degli Stati Uniti, ed alcuni sedicenti centristi, sembrano completamente sbalorditi dall’aumento di uomini politici che si definiscono socialisti. Ma questa crescita era prevedibile e prevista.

Ecco cosa è accaduto: per decenni la destra ha cercato di zittire ogni tentativo di attenuare i rozzi spigoli del capitalismo, che fossero le garanzie sanitarie, i sostegni ai redditi o qualsiasi altra cosa, gridando al “socialismo”. Prima o poi era destino che la gente dicesse che se ogni tentativo di rendere il nostro sistema meno aspro era socialismo, ebbene, allora loro erano socialisti.

La verità è che è difficile che ci sia qualcuno negli Stati Uniti che voglia che il Governo si impadronisca dei mezzi di produzione, o anche che comandi i vertici dell’economia. Quello che vogliono è la socialdemocrazia – quel genere di garanzie di base della assistenza sanitaria, di protezioni contro la povertà etc. che quasi tutti i paesi avanzati forniscono.

La Danimarca, dove le entrate fiscali sono il 46 per cento del PIL a confronto con il 26 per cento degli Stati Uniti, è probabilmente il paese più socialdemocratico al mondo. Secondo la dottrina conservatrice, la combinazione di alte tasse e di aiuti agli ‘assistiti’ dovrebbe in realtà distruggere gli incentivi a creare posti di lavoro e in ogni caso a riceverli. Dunque la Danimarca dovrebbe soffrire una disoccupazione massiccia, non è così?

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Ma guarda …

Accidenti, è più probabile che i danesi adulti abbiano una occupazione rispetto ai loro omologhi americani. Loro lavorano un po’ di ore in meno, sebbene questa potrebbe ben essere una scelta di miglioramento del welfare. Ma quello che la Danimarca dimostra è che si può amministrare uno Stato assistenziale assai più generoso del nostro – più generoso dei sogni più spinti dei progressisti statunitensi – ed avere una economia con elevate prestazioni.

Infatti, mentre il PIL procapite in Danimarca è più basso di quello degli Stati Uniti – principalmente in conseguenza delle minori ore lavorative – la soddisfazione di vita è notevolmente più elevata.

 

Confusioni macro

Nonostante tutte queste buone cose, c’è qualcosa di guasto – o forse soltanto di leggermente fuori posto – nello Stato della Danimarca. Mentre le prestazioni di lungo periodo sono state egregie, la Danimarca non è andata così bene dopo la crisi finanziaria del 2008, con un PIL procapite che è calato sostanzialmente, richiedendo poi un tempo lungo per la ripresa. In particolare, la Danimarca ha stentato alle spalle della Svezia:

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Non c’è alcun mistero in questo recente andamento non così positivo. La Danimarca non è nell’euro, ma, diversamente dalla Svezia, ha ancorato la propria valuta all’euro. Dunque, ha condiviso i problemi dell’area euro.

Lasciando da parte il tema generale dei regimi del tasso di cambio, queste note ci ricordano che la microeconomia – cose come gli effetti di incentivazione di un forte Stato assistenziale – è diversa dalla macroeconomia. Potete fare grandi cose sul fronte della microeconomia e tuttavia rovinare tutto con la vostra politica monetaria.

Dunque queste sono le mie note sulla Danimarca – alle quali aggiungo una osservazione: niente tra i danesi viene pronunciato neanche lontanamente come lo spelling suggerirebbe ad un individuo di lingua inglese (il famoso astronomo Tico Brahe, se ho ben compreso, si risolve in qualcosa come Tuco Brawwww). Non accade lo stesso con il tedesco. Perché lo fanno?

 

 

 

 

 

 

 

[1] La vita di Brian, o Brian di Nazareth, è un film commedia del 1979 diretto da Terry Jones e interpretato dal gruppo comico inglese Monty Python. Wikipedia

 

 

 

 

 

 

 

Il massimo tradimento di Trump (dal blog di Paul Krugman, 30 luglio 2018)

agosto 7, 2018

 

July 30, 2018

Trump’s Supreme Betrayal

By Paul Krugman

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By now, it’s almost a commonplace to say that Trump has systematically betrayed the white working class voters who put him over the top. He ran as a populist; he’s governed as an orthodox Republican, with the only difference being the way he replaced racial dog-whistles with raw, upfront racism.

Many people have made this point with respect to the Trump tax cut, which is so useless to ordinary workers that Republican candidates are trying to avoid talking about it. The same can be said about health care, where Democrats are making Trump’s assault on the Affordable Care Act a major issue while Republicans try to change the subject.

But I think we should be seeing more attention devoted to the way Trump’s nomination of Brett Kavanaugh for the Supreme Court fits into this picture. The Times had a good editorial on Kavanaugh’s anti-worker agenda, but by and large the news analyses I’ve seen focus on his apparently expansive views of presidential authority and privilege.

I agree that these are important in the face of a lawless president with authoritarian instincts. But the business and labor issues shouldn’t be neglected. Kavanaugh is, to put it bluntly, an anti-worker radical, opposed to every effort to protect working families from fraud and mistreatment.

The most spectacular example is his opinion that Sea World owed no liability for a killer whale attack that killed one of its workers, because she should have known the risks. He has declared the Consumer Financial Protection Bureau, which helps control the financial fraud against working families that played a major role in the 2008 crisis, unconstitutional. He’s taken an extremely expansive view of the rights of business to suppress union organizing.

This is all, by the way, the opposite of populism. The public strongly supports worker protections. The ongoing campaign to take them away is an act of conservative elites, people who have made their careers by carrying water for business interests, and is being implemented in effect by stealth under the noses of voters who thought Trump was on their side.

And this betrayal matters much more for workers than, say, Trump’s trade bluster. There’s growing evidence that wage stagnation in America — the very stagnation that angers Trump voters — isn’t being driven by impersonal forces like technological change; to an important extent it’s the result of political changes that have weakened workers’ bargaining power. If Trump manages to install Kavanaugh, he’ll help institutionalize these anti-worker policies for decades to come.

 

Il massimo tradimento di Trump,

di Paul Krugman

A questo punto, è quasi un luogo comune dire che Trump ha sistematicamente tradito gli elettori della classe lavoratrice bianca che l’hanno messo al comando. Si è candidato come un populista; ha governato come un repubblicano ortodosso, la sola differenza essendo il modo in cui ha sostituito i richiami razzistici con un razzismo crudo e senza infingimenti.

Molte persone hanno avanzato lo stesso argomento in relazione al taglio delle tasse di Trump, che è così inutile per i lavoratori ordinari che i candidati repubblicani stanno cercando di evitare di parlarne. Si può dire lo stesso dell’assistenza sanitaria, dove i democratici stanno facendo dell’assalto di Trump alla Legge sulla Assistenza Sostenibile un argomento

importante, mentre i repubblicani cercano di cambiare tema.

Ma io penso che dovremmo prestare più attenzione al modo in cui la nomina di Brett Kavanaugh da parte di Trump alla Corte Suprema si colloca in questo quadro. Il Times ha pubblicato un bell’editoriale sulla agenda contro i lavoratori di Kavanaugh, ma in generale le analisi nei notiziari che ho visto si concentrano sulle sue opinioni apparentemente estensive dell’autorità e dei privilegi presidenziali.

Concordo che questi siano temi importanti, a fronte di un Presidente privo di senso di legalità e con istinti autoritari. Ma i temi dell’economia e del lavoro non dovrebbero essere trascurati. Per dirla senza giri di parole, Kavanaugh è ostile ai lavoratori in modo radicale, si è opposto in ogni modo alla protezione delle famiglie dei lavoratori dalle frodi e dai maltrattamenti.

L’esempio più spettacolare è stata la sua opinione secondo la quale la società SeaWorld [1] non doveva alcun compenso per un attacco di un’orca marina che ha ucciso una delle sue lavoratrici, giacché ella avrebbe dovuto conoscere i rischi. Egli ha stabilito che l’Ufficio per la Protezione finanziaria del Consumatore, che contribuisce a controllare le frodi finanziarie ai danni delle famiglie dei lavoratori che giocarono un ruolo importante nella crisi del 2008, è incostituzionale ed ha sposato un punto di vista estremamente radicale sui diritti delle imprese nel sopprimere le organizzazioni sindacali.

Per inciso, questo è tutto l’opposto del populismo. L’opinione pubblica sostiene con energia le protezioni dei lavoratori. La perdurante campagna per metterle da parte è una iniziativa dei gruppi dirigenti conservatori, gente che ha costruito le proprie carriere portando acqua agli interessi delle società, e che in sostanza vengono rafforzandosi di nascosto sotto il naso degli elettori che pensavano che Trump stesse dalla loro parte.

Questo tradimento conta per i lavoratori molto di più che non, ad esempio, le smargiassate sul commercio di Trump. Ci sono prove crescenti che la stagnazione dei salari in America – la vera e propria stagnazione che irrita i sostenitori di Trump – non viene guidata da forze impersonali come i mutamenti tecnologici; in una misura importante essa è il risultato di cambiamenti politici che hanno indebolito il potere contrattuale dei lavoratori. Se Trump riesce a mettere Kavanaugh in quel posto, aiuterà a istituzionalizzare queste politiche contro i lavoratori per i prossimi decenni.

 

 

 

 

 

 

 

[1] SeaWorld è una società di entertainment che appartiene ad una catena di acquari, con esibizione di mammiferi anche di grandi dimensioni.

 

 

 

 

 

Perché la crescita di un trimestre non ci dice nulla (dal blog di Paul Krugman, 28 luglio 2018)

luglio 28, 2018

 

July 28, 2018

Why One Quarter’s Growth Tells Us Nothing

By Paul Krugman

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For the most part, reporting on 2nd quarter growth has been pretty decent. But I haven’t seen clear explanations of why one quarter’s growth tells us so little about longer-term growth prospects. I’m sure that reporters get it; maybe they assume that readers already know (a very bad assumption), or maybe they’re afraid of sounding too technical. But anyway, it seems as if there’s a gap worth filling; so here it comes.

The key point when you look at real GDP is that the economy’s actual output depends both on its capacity – the amount it is capable of producing on a sustained basis – and the rate at which it is using that capacity. That is,

Output = capacity * capacity utilization

CBO actually produces an estimate of capacity – “potential GDP” – which you can argue with, but is a useful benchmark. And you can look at the ratio of actual GDP to potential, which is an indication of how hot the economy is running:

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Why does capacity utilization fluctuate? Mainly because the economy sometimes suffers from periods of inadequate demand, as it did after the 2008 financial crisis. Sometimes, also, the economy overheats, reaching levels of capacity utilization that will lead to rising inflation. The Fed thinks we’re in or near to that state now, although many economists disagree. Whoever’s right, the point is that there’s some limit to how hot the economy can run.

Now, suppose that for whatever reason capacity utilization rises. This will generate a period of rapid growth. To take a not at all arbitrary example, suppose that capacity is growing at a 2 percent annual rate, and capacity utilization rises 0.5 percent over the course of a quarter. Then growth in that quarter will be at an annual rate of 4 percent (because half a point in a quarter is two points at an annual rate.)

This, however, says nothing at all about whether the economy can achieve 3 or 4 percent growth over a longer period, say a decade. That would require evidence of an acceleration in the growth of capacity.

So does 2nd quarter growth say anything at all about the Trump economic agenda? The tax cut probably helped give the economy a bit of a bump: massive deficit spending will do that. (Obama could have presided over a much more rapid recovery if Republicans hadn’t insisted that deficits and debt are vast evils – but only when a Democrat is in the White House.) But deficit-based Keynesian stimulus wasn’t how the tax cut was sold, and isn’t a basis for sustained growth.

In short, one quarter’s growth is a nothingburger. The real news is that we’re still waiting for both the investment surge and the wage gains the tax cutters promised; as far as we can tell, they’re never coming.

 

Perché la crescita di un trimestre non ci dice nulla,

di Paul Krugman

Per la parte prevalente, i resoconti sulla crescita del secondo trimestre sono stati abbastanza decenti. Ma non ho visto spiegazioni chiare della ragione per la quale la crescita di un trimestre ci dice così poco delle prospettive di crescita a più lungo termine. Sono sicuro che i commentatori le conoscono; forse presuppongono che anche i lettori le conoscano (un assunto molto negativo), o forse sono timorosi di apparire troppo tecnicistici. Comunque sia, sembra ci sia un buco da riempire; dunque eccolo che arriva.

Il punto chiave, quando si osserva il PIL reale è che la produzione effettiva di un’economia dipende sia dalla sua capacità produttiva – quanto è capace di produrre su una base duratura – che dal tasso al quale essa sta usando tale capacità. Ovvero:

 

Produzione = Capacità produttiva * utilizzo di quella capacità

 

Effettivamente l’Ufficio Congressuale del Bilancio produce una stima della capacità – il “PIL potenziale” – con il quale si può essere o meno d’accordo, ma che è un utile punto di partenza. E si può osservare il rapporto tra il PIL effettivo e quello potenziale, che è un indicatore di quanto l’economia stia procedendo a pieno regime:

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Perché l’utilizzazione della capacità produttiva è fluttuante? Principalmente perché in certi momenti l’economia soffre di inadeguata domanda, come accadde dopo la crisi finanziaria del 2008. Talvolta accade anche che l’economia si surriscaldi, raggiungendo livelli di utilizzazione della capacità produttiva che porteranno ad una inflazione crescente. La Fed pensa che oggi siamo in tale condizione, o che ci stiamo avvicinando, sebbene molti economisti non siano d’accordo. Chiunque abbia ragione, il punto è che c’è qualche limite alla forza con la quale l’economia può correre.

Supponiamo adesso che per una ragione qualsiasi l’utilizzazione della capacità produttiva cresca. Questo produrrà un periodo di rapida crescita. Per prendere un esempio per nulla arbitrario, supponiamo che la capacità produttiva cresca ad un tasso del 2 per cento annuo, e l’utilizzazione di tale capacità cresca dello 0,5 per cento nel corso di un trimestre. In quel caso la crescita in quel trimestre porterà ad un tasso annuo del 4 per cento (giacché mezzo punto in un trimestre corrisponde a due punti nel tasso annuale).

Questo, tuttavia, non ci dice niente sul fatto che l’economia possa ottenere un 3 o 4 per cento di crescita su un periodo più lungo, ad esempio su un decennio. Per ciò sarebbe richiesta la prova di una accelerazione nella crescita della capacità produttiva.

Dunque, la crescita del secondo trimestre non dice proprio niente a proposito della agenda economica di Trump? Il taglio delle tasse probabilmente ha contribuito a dare all’economia un po’ di spinta, una massiccia spesa in deficit farà altrettanto (Obama potrebbe aver governato in un periodo di ripresa molto più rapido, se i repubblicani non avessero insistito che i deficit e il debito sono grandi mali – ma solo quando ci sono democratici alla Casa Bianca). Ma uno stimolo keynesiano basato sul deficit non è stato il modo in cui è stato pubblicizzato il taglio alle tasse, e non è una base per una crescita prolungata.

In poche parole, la crescita di un trimestre è come un panino senza companatico. La vera notizia è che stiamo ancora aspettando sia una crescita degli investimenti che gli incrementi salariali che i tagliatori delle tasse avevano promesso; e per quanto posso dire, non arriveranno mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sussidi, lavoro e povertà, (dal blog di Paul Krugman, 14 luglio 2018).

luglio 18, 2018

 

July 14, 2018

Benefits, Work, and Poverty

By Paul Krugman

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Back in 2014 Paul Ryan declared that the War on Poverty had failed, so it was time to slash spending on anti-poverty programs. Last week the Trump Council of Economic Advisers declared not only that the War on Poverty has in fact substantially reduced poverty – which is what progressives have been saying all along – but that poverty is “largely over”. (Do these people ever visit the real world?)

And because poverty is over, they say, we should impose lots of work requirements on Medicaid and food stamps, which would have the effect of slashing spending on these programs. Somehow a completely opposite reading of the facts leads to the same policy conclusion. Funny how that works.

But are benefits like Medicaid and food stamps really discouraging a lot of people from working? One way to answer that question is to look at who is receiving benefits without working. The White House analysis claims that many of those non-working adults could work; but I put a lot more trust in the Kaiser Family Foundation, which finds only a small number of potential workers among benefit recipients.

Anyway, another way to answer the question is to look at the international evidence. True, cross-country comparisons aren’t controlled experiments; but given how much Republicans like to talk about the “failing welfare states of Europe,” it might be worth asking whether prime-age adults are, in fact, a lot less likely to work in countries where benefits are far more generous than they are in the United States.

So here’s a chart, using OECD data, that compares in-kind benefits as a percentage of GDP with the employment rate for adults aged 25-54, for a selected group of countries:

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Hmm. Prime-aged Americans are actually less likely to be employed than residents of those failing welfare states. And that’s despite the fact that U.S. macroeconomic policy has been better, and we’re much closer to full employment.

On the other hand, high social expenditures do seem to be associated with low rates of poverty (measured using the international standard of half median income):

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So do anti-poverty programs discourage work, as conservatives incessantly claim? If there is such an effect, it’s small enough to be invisible in the data. One thing anti-poverty programs do seem to do, however, is … reduce poverty.

 

Sussidi, lavoro e povertà. Di Paul Krugman

Nel 2014 Paul Ryan dichiarò che la Guerra sulla Povertà era fallita, dunque era tempo di abbattere la spesa sui programmi contro la povertà. La scorsa settimana il Comitato dei Consiglieri Economici di Trump ha dichiarato che non solo la Guerra sulla Povertà ha di fatto sostanzialmente ridotto la povertà – che è quanto i progressisti dicono da tempo – ma che la povertà è “largamente superata” (questa gente visita mai il mondo reale?)

E poiché la povertà è superata, dicono, dovremmo imporre una gran quantità di obblighi di lavoro su coloro che fruiscono di Medicaid e degli aiuti alimentari, che avrebbero l’effetto di abbattere la spesa su questi programmi. In qualche modo, una lettura completamente opposta dei fatti conduce alla medesima conclusione politica. È buffo come funziona.

Ma i sussidi come Medicaid e gli aiuti alimentari, davvero scoraggiano molte persone dal lavoro? Un modo per rispondere a tale domanda è guardare chi sta ricevendo sussidi senza lavorare. L’analisi della Casa Bianca sostiene che molti di quegli adulti che non lavorano potrebbero lavorare; ma io ho molta più fiducia nella Fondazione della Famiglia Kaiser, che scopre un minimo numero di lavoratori potenziali tra i percettori dei sussidi.

Comunque, un altro modo di rispondere alla domanda è osservare le testimonianze internazionali. È vero, i confronti all’interno del paese non sono esperimenti controllati; ma considerato quanto i repubblicani amano parlare degli “Stati assistenziali falliti dell’Europa”, potrebbe valere la pena di chiedersi se gli adulti nella principale età lavorativa sia, davvero, molto meno probabile che lavorino in paesi nei quali i sussidi sono di gran lunga molto più generosi che negli Stati Uniti.

Dunque ecco un diagramma, utilizzando dati dell’OCSE, che compara sussidi simili come percentuale del PIL con i tassi di occupazione per gli adulti di età tra i 25 e i 54 anni, in un gruppo selezionato di paesi:

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Ma guarda! É in effetti meno probabile che gli americani nella principale età lavorativa siano occupati dei residenti di quegli stati assistenziali prossimi al fallimento. E questo nonostante che la politica economica degli Stati Uniti sia stata migliore, e che noi si sia più vicini alla piena occupazione.

D’altra parte, le elevate spese sociali sembrano davvero essere associate con bassi tassi di povertà (misurati utilizzando il comune procedimento internazionale della metà del reddito mediano):

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[1]

Dunque, i programmi contro la povertà scoraggiano il lavoro, come incessantemente i conservatori sostengono? Se c’è un tale effetto, deve essere talmente piccolo da essere invisibile nei dati. Una cosa che i programmi contro la povertà sembrano fare, tuttavia, è … ridurre la povertà.

 

 

 

 

 

[1] Le due tabelle mostrano il peso in percentuale sul PIL dei sussidi nei vari paesi (linea orizzontale), il rapporto al tasso di occupazione nel periodo lavorativo tra 25 e 54 anni (prima tabella) e il tasso di povertà (seconda tabella). Come si vede, negli Stati Uniti gli effetti sull’occupazione di sussidi minori sono i più modesti, e il tasso di povertà con sussidi minori resta il più elevato.

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La Brexit incontra la forza di gravità, (dal blog di Paul Krugman, 10 luglio 2018)

luglio 17, 2018

 

July 10, 2018

Brexit Meets Gravity

By Paul Krugman

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These days I’m writing a lot about trade policy. I know there are more crucial topics, like Alan Dershowitz. Maybe a few other things? But getting and spending go on; and to be honest, in a way I’m doing trade issues as a form of therapy and/or escapism, focusing on stuff I know as a break from the grim political news.

Anyway, as Britain’s self-inflicted Brexit crisis (self-inflicted with some help from Putin, it seems) comes to a head, it seems to me worth trying to explain some aspects of the economics involved that should be obvious – surely are obvious to many British economists – but aren’t, apparently, as obvious either to Brexiteers or to the general public.

These aspects explain why Theresa May is trying to do a soft Brexit or even, as some say, BINO – Brexit In Name Only; and why the favored alternative of Brexiteers, trade agreements with the United States and perhaps others to replace the EU, won’t fly.

Now, many of the arguments for Brexit were lies pure and simple. But their claims about trade, both before and after the vote, may arguably be seen as misunderstandings rather than sheer dishonesty.

In the world according to Brexiteers, Britain needn’t lose much by leaving the EU, because it can still negotiate a free trade agreement with the rest of Europe, or, at worst, face the low tariffs the EU imposes on other non-EU economies. Meanwhile, Britain can negotiate better trade deals elsewhere, especially the US, that will make up for any losses on the EU side.

What’s wrong with this story? The first thing to understand is that the EU is not a free trade agreement like NAFTA; it’s a customs union, which is substantially stronger and more favorable to trade.

What’s the difference? In NAFTA, most Mexican products can enter the U.S. tariff-free. But Mexico and the U.S. don’t charge the same tariffs on imports from third parties. This means that Mexican goods entering the U.S. still have to face a customs inspection, to make sure that they’re actually Mexican, not, say, Chinese goods unloaded in Mexico and trucked across the border to bypass U.S. tariffs.

And actually it’s worse than that, because what is a Mexican good, anyway? NAFTA has elaborate rules about how much Mexican content is required to qualify for zero tariffs, and this adds a lot of paperwork and frictions to intra-NAFTA trade.

By contrast, the EU sets common external tariffs, which means that once you’re in, you’re in: once goods are unloaded at Rotterdam they can be shipped on to France or Germany without further customs checks. So there’s much less friction.

And frictions, not tariffs, are what businesses are complaining about as Brexit draws near. For example, the British auto industry relies on “just-in-time” production, maintaining low inventories of parts, because it has been able to count on prompt arrival of parts from Europe. If Britain leaves the customs union, the risk of customs delays would make this infeasible, substantially raising costs.

These frictions are also why estimates of the cost of Brexit are comparable to estimates of the cost of a global tariff war, even though the predicted reduction in trade volumes is much smaller.

Still, even if leaving the customs union would be costly, couldn’t Britain make up for that by getting a really good deal with Donald Trump’s America? No.

Certainly the U.S. couldn’t offer hugely valuable tariff reductions, for the simple reason that our tariffs on EU products – like EU tariffs on our products – are already quite low. You can find examples of high tariffs, like our 25 percent tariff on light trucks, but overall there just isn’t much to give.

What about a Britain-U.S. customs union? That would be hugely problematic, among other things because given the asymmetry in size Britain would effectively be giving Washington complete control over its policy. Beyond that, no deal with the U.S. could be worth as much as Britain’s customs union with its neighbors, because of gravity.

What? One of the best-established relationships in economics is the so-called gravity equation for trade between any two countries, which says that the amount of trade depends positively on the size of the two countries’ economies but negatively on the distance between them. You can see this very clearly in British exports. Here’s British exports to selected countries as a percentage of the importing country’s GDP, plotted against the distance to that country:

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The point is that while America offers a market comparable in size to that of the EU, it’s much further away, so that even if the UK could make an incredible deal with us, it wouldn’t be worth nearly as much as the customs union they have.

All of this explains why May is trying to negotiate a deal that keeps the customs union intact. But that, of course, ain’t much of an exit: Brussels will still set UK trade policy, except that Britain will no longer have a vote. So what was the point of Brexit in the first place?

Good question. Too bad more people didn’t ask it before the referendum.

 

La Brexit incontra la forza di gravità, di Paul Krugman

In questi giorni sto scrivendo molto sulla politica commerciale.  So che ci sono altri temi cruciali, come quello di Alan Dershowitz [1]. Forse poche altre cose? Ma la vita quotidiana procede e a essere onesti, in un certo senso mi sto occupando dei temi del commercio come una forma di terapia e/o di fuga, concentrandomi su cose che conosco come una pausa dalle cupe informazioni della politica.

In ogni modo, dato che l’autoprovocata crisi inglese della Brexit (auto inflitta con qualche aiuto, a quanto sembra, da parte di Putin) viene al pettine, mi sembra che sia il caso di cercar di spiegare alcuni aspetti dell’economia che la riguarda che dovrebbero essere evidenti – certamente sono evidenti per molti economisti inglesi – ma, a quanto sembra, non sono così evidenti per i sostenitori della Brexit o per l’opinione pubblica in generale.

Questi aspetti spiegano perché Theresa May stia cercando di adottare una Brexit leggera o persino, come alcuni dicono, una BINO (una Brexit solo di nome); e perché l’alternativa favorita dei sostenitori della Brexit, accordi commerciali con gli Stati Uniti e forse con altri per sostituire l’Unione Europea, non decollerà.

Ora, molti argomenti della Brexit erano pure e semplici bugie. Ma le loro tesi sul commercio, sia prima che dopo il voto, possono probabilmente essere considerate come incomprensioni, anziché come vera e propria disonestà.

Nel mondo secondo i sostenitori della Brexit, l’Inghilterra non è destinata a rimetterci molto dall’abbandono dell’UE, giacché essa può ancora negoziare un accordo di libero commercio con il resto dell’Europa, o, nel peggiore dei casi, affrontare le basse tariffe che l’UE impone ad altre economie che non fanno parte dell’UE. Nel frattempo, l’Inghilterra può negoziare migliori accordi commerciali dappertutto, specialmente con gli Stati Uniti, che rimedieranno ad ogni perdita sul versante dell’UE.

Cosa non funziona in questa storia? La prima cosa da comprendere è che l’UE non è un accordo di libero commercio come il NAFTA; è un’unione doganale, ovvero qualcosa sostanzialmente più forte e più favorevole al commercio.

Qual è la differenza? Nel NAFTA, la maggioranza dei prodotti messicani possono entrare negli Stati Uniti senza pagare tariffe. Ma il Messico e gli Stati Uniti non caricano le stesse tariffe sulle importazioni da paesi terzi. Questo significa che i prodotti messicani che entrano negli Stati Uniti devono ancora far fronte ad una ispezione doganale per accertare che siano effettivamente messicani, e non, diciamo, prodotti cinesi caricati in Messico e trasportati su camion attraverso il confine per eludere le tariffe statunitensi.

E in realtà la seconda ipotesi è peggiore della prima, perché, in fin dei conti, cosa è un prodotto messicano? Il NAFTA contiene regole elaborate su quanto contenuto messicano è richiesto per essere idonei a nessuna tariffa, e questo aggiunge una gran quantità di scartoffie e di frizioni nel commercio all’interno del NAFTA.

All’opposto, l’UE stabilisce tariffe esterne comuni, il che significa che una volta che siete dentro, siete dentro: una volta che i prodotti sono scaricati a Rotterdam possono essere spediti per nave in Francia o in Germania senza ulteriori controlli doganali. Dunque c’è molta minore frizione.

E le frizioni, non le tariffe, sono ciò di cui le imprese si stanno lamentando nel momento in cui la Brexit si avvicina. Ad esempio, l’industria automobilista inglese si basa su una produzione “appena in tempo”, mantenendo una giacenza di componenti bassa, perché si è stati capaci di far conto su un rapido arrivo delle componenti dall’Europa. Se l’Inghilterra lascia l’unione doganale, i ritardi delle dogane renderanno questa soluzione impraticabile, elevando sostanzialmente i costi.

Queste frizioni sono anche la ragione per la quale le stime dei costi della Brexit sono paragonabili alle stime dei costi di una guerra commerciale, anche se la prevista riduzione del volume del commercio è molto più piccola.

Eppure, anche se lasciare l’unione doganale sarebbe costoso, l’Inghilterra non potrebbe compensarla ottenendo un accordo davvero buono con l’America di Donald Trump? No.

Certamente gli Stati Uniti non potrebbero offrire riduzioni delle tariffe di grande valore, per la semplice ragione che le nostre tariffe sui prodotti dell’UE – come le tariffe dell’UE sui nostri prodotti – sono già abbastanza basse. Si possono trovare esempi di alte tariffe, come la nostra tariffa del 25 per cento sui veicoli commerciali leggeri, ma nel complesso non c’è proprio molto da offrire.

Che cosa dire di un’unione doganale tra Inghilterra e Stati Uniti? Che sarebbe del tutto problematica, tra le altre cose perché l’asimmetria derivante dalle dimensioni dell’Inghilterra sarebbe sostanzialmente come dare a Washington il completo controllo sulla sua politica. Oltre a ciò, nessun accordo con gli Stati Uniti potrebbe valere altrettanto di una unione doganale dell’Inghilterra con i suoi vicini, per effetto della gravità.

Che cosa? Una delle relazioni meglio fondate in economia è la cosiddetta equazione di gravità per il commercio tra qualsiasi due paesi, che dice che la quantità di commercio dipende positivamente dalle dimensioni delle economie dei due paesi, ma negativamente dalla loro distanza. Lo si può vedere molto chiaramente nelle esportazioni inglesi. Ecco le esportazioni inglesi verso paesi selezionati sulla base della percentuale delle esportazioni sul PIL del paese importatore, e disegnata a confronto con la distanza verso quel paese:

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Il punto è che mentre l’America offre nelle dimensioni un mercato paragonabile con quello dell’UE, essa è molto più distante, cosicché persino se l’Inghilterra potesse concordare con noi un accordo incredibile, esso non avrebbe neanche lontanamente il valore dell’unione doganale che essi hanno.

Tutto questo spiega perché la May sta cercando di negoziare un accordo che mantenga intatta l’unione doganale. Ma questa, ovviamente, non è proprio un’uscita: Bruxelles continuerà a stabilire la politica commerciale per il Regno Unito, sennonché l’Inghilterra non avrà più il diritto di voto. Qual’era, dunque, l’argomento per la Brexit agli inizi?

Bella domanda. Troppe persone mediocri non se lo chiesero prima del referendum.

 

 

 

 

 

 

[1] Alan Dershowitz, celebre avvocato e professore di Harvard, era considerato un liberal. Aveva votato prima per Barack Obama, poi per Hillary Clinton. Ma negli ultimi mesi, partecipando a show televisivi soprattutto sulla Foxnews, la rete pro-Trump, ha criticato l’inchiesta sul Russiagate del procuratore speciale Robert Mueller e ha sostenuto che il presidente non poteva essere incriminato per ostruzione della giustizia, ricevendo gli applausi della Casa Bianca. In compenso le posizioni dell’eccentrico avvocato-professore, che nel passato difese anche O.J. Simpson, non sono piaciute ai democratici. Dershowitz, in un editoriale su The Hill, ha parlato di nuovo “clima maccartista”.

Che sia un “tema cruciale” del momento sembra una battuta ironica.

 

 

 

 

Ancora sulla garanzia del lavoro (per esperti) (dal blog di Paul Krugman, 5 luglio 2018)

luglio 13, 2018

 

July 5, 2018

More on a Job Guarantee (Wonkish)

By Paul Krugman

zz 516As I wrote the other day, Alexandria Ocasio-Cortez may call herself a socialist and represent the left wing of the Democratic party, but her policy ideas are pretty reasonable. In fact, Medicare for All is totally reasonable; any arguments against it are essentially political rather than economic.

A federal jobs guarantee is more problematic, and a number of progressive economists with significant platforms have argued against it: Josh BivensDean BakerLarry Summers. (Yes, Larry Summers: whatever you think of his role in the Clinton and Obama administrations, he’s a daring, unconventional thinker when not in office, with a strongly progressive lean.) And I myself don’t think it’s the best way to deal with the problem of low pay and inadequate employment; like Bivens and his colleagues at EPI, I’d go for a more targeted set of policies.

But I’m fine with candidates like AOC (can we start abbreviating?) proposing the jobs guarantee, for a couple of reasons. One is that realistically, a blanket jobs guarantee is unlikely to happen, so proposing one is more about highlighting the very real problems of wages and employment than about the specifics of a solution. Beyond that, some of the critiques are, I think, off base.

Here’s the way some of the critiques seem to run: a large share of the U.S. work force – Baker says 25 percent, but it looks like around a third to me – makes less than $15 an hour. So offering these workers a higher wage would bring a huge rush into public employment, implying a very expensive program.

What’s wrong with this argument? The key point is that all those sub-$15 workers aren’t just sitting around collecting paychecks: they’re producing goods and (mostly) services that the public wants. The public will still want those services even if the government guarantees alternative employment, so the firms providing those services won’t go away; they’ll just have to raise wages enough to hold on to their employees, who would now have an alternative.

Now, that doesn’t mean zero job loss. Employers might replace some workers with machines; they would have to raise prices, meaning that they would sell less; so private employment might go down.

But all this is true about increases in the minimum wage, too. And we have a lot of evidence on what minimum wage increases do, because we get a natural experiment every time a state raises its minimum wage but neighboring states don’t. What this evidence shows is that minimum wage hikes have very little effect on employment.

So if we think of a job guarantee as a minimum wage hike backstopped by a public option for employment, we should not expect a mass migration of workers from private to public jobs.

 

OK, a couple of caveats. First, while we have a lot of evidence on minimum wage hikes, these have generally been modest, leaving wages well below the level of the proposed federal guarantee. And even the leftiest of economists would agree that a sufficiently high minimum wage – say, $30 an hour – would reduce employment. Is $15 an hour high enough to get us into job-destroying territory? In high-income regions, probably not. But in America’s lagging, poorer regions there might be significant job losses.

Second, there are quite a few working-age adults who aren’t in the labor force at all, and at least some of them aren’t working because they see no job opportunities at all. A federal jobs guarantee might bring a substantial number of these non-working adults back into the work force. This would, of course, be a good thing from a social point of view – in fact, it’s kind of the point of the whole program – but could mean having to find work and money for a lot of new public employees.

How many? At its peak in 2001 the prime-aged employment rate was almost 3 percentage points above its current level. If a job guarantee brought such employment back to its peak, that would mean 3 ½ million additional workers. So we could be talking about a lot of people.

So I don’t want to minimize the potential problems with a job guarantee. But a wholesale migration from low-paid private to public employment isn’t one of those problems.

And to repeat what I said Tuesday, whatever problems you may have with the specifics of AOC’s proposals, they’re far more sensible than, say, Larry Kudlow or Sam Brownback-style voodoo economics, which passes for mainstream economic thinking on the other side of the aisle.

 

Ancora sulla garanzia del lavoro (per esperti), di Paul Krugman

Come ho scritto l’altro giorno, Alexandria Ocasio-Cortez può definirsi socialista e rappresentare l’ala sinistra del Partito Democratico, ma le sue idee politiche sono abbastanza ragionevoli. ‘Medicare per tutti’ è completamente ragionevole; ogni argomento contro di essa è sostanzialmente politico, piuttosto che economico.

Una garanzia federale sui posti di lavoro è più problematica, e un certo numero di economisti progressisti che hanno programmi impegnativi hanno avanzato obiezioni: Josh Bivens, Dean Baker, Larry Summers (sì, Larry Summers: qualsiasi cosa pensiate del suo ruolo nelle Amministrazioni Clinton e Obama, è una persona coraggiosa, un pensatore non convenzionale quando non ha una carica, con un orientamento fortemente progressista). Ed io stesso non penso che sia il modo migliore per misurarsi con i bassi salari e una occupazione inadeguata; come Bivens e i suoi colleghi dell’Istituto sulle Politiche dell’Occupazione, sarei a favore di un complesso di politiche più mirate.

Ma sono d’accordo con candidati come AOC (possiamo cominciare ad abbreviare il nome?) che propongono garanzie per i posti di lavoro, per un paio di ragioni. Una è che realisticamente, è improbabile che una copertura della garanzia dei posti di lavoro, cosicché proporne una riguarda soprattutto il mettere in evidenza i problemi assai reali dei salari e dell’occupazione che non i dettagli di una soluzione. Oltre a ciò, penso che alcuni critici siano in errore.

Ecco il modo in cui i critici sembrano ragionare: una larga quota del lavoro negli Stati Uniti – Baker dice il 25 per cento, ma a me sembra più vicina ad un terzo – realizza meno di 15 dollari all’ora. Dunque offrire a questi lavoratori un salario più elevato porterebbe ad un vasto esodo nell’occupazione pubblica, comportando un programma molto costoso.

Cosa c’è di sbagliato in questo argomento? Il punto chiave è che tutti quei lavoratori che sono sotto i 15 dollari non se ne stanno seduti in cerchio a raccogliere assegni: producono beni e soprattutto servizi che la gente richiede. La gente continuerà a volere tali servizi anche se il Governo garantisce una occupazione alternativa, cosicché le imprese che forniscono tali servizi non scompariranno; dovranno soltanto elevare i salari abbastanza da mantenere i loro occupati, che a quel punto avrebbero una alternativa.

Ora, questo non significa nessuna perdita di posti di lavoro. I datori di lavoro potrebbero sostituire i lavoratori con le macchine; potrebbero alzare i prezzi, giacché venderebbero di meno; in tal modo l’occupazione privata scenderebbe.

Ma tutto questo è vero anche nel caso di aumenti del minimo salariale. E abbiamo molte prove su ciò che provocano gli aumenti del minimo salariale, perché abbiamo un esperimento naturale ogni volta che uno Stato aumenta il suo minimo salariale mentre non lo aumentano gli Stati vicini. Quello che queste prove dimostrano è che gli aumenti del minimo salariale hanno un minimo effetto sull’occupazione.

Dunque, se pensiamo alla garanzia del posto di lavoro come un aumento del minimo salariale sorretto da una scelta pubblica per l’occupazione, non dovremmo aspettarci un esodo di massa di lavoratori dal lavoro privato a quello pubblico.

Però, un paio di avvertimenti. Il primo, mentre abbiamo molte prove sugli aumenti dei minimi salariali, in genere questi ultimi sono stati modesti, lasciando i salari molto al di sotto della proposta di garanzia federale. E persino gli economisti più di sinistra sarebbero d’accordo che un minimo salariale sufficientemente alto – diciamo, 30 dollari all’ora – ridurrebbe l’occupazione. 15 dollari all’ora sono sufficienti per avere una situazione di devastazione occupazionale? Nelle aree ad alto reddito, probabilmente no. Ma nell’America che resta indietro, nelle regioni più povere ci potrebbero essere perdite di occupazione significative.

In secondo luogo, c’è un buon numero di adulti in età lavorativa che non sono per niente nella forza lavoro, e almeno alcuni di loro non stanno lavorando perché non vedono affatto alcuna opportunità di lavoro. Una garanzia federale di posti di lavoro porterebbe un numero sostanziale di questi adulti che non lavorano nelle forze di lavoro. Questa, naturalmente, da un punto di vista sociale sarebbe una cosa buona – di fatto, in un certo senso è l’aspetto fondamentale dell’intero programma – ma potrebbe comportare di dover trovare lavoro e denaro per una grande quantità di occupati pubblici.

Quanti? Al suo punto più alto nel 2001, il tasso di occupazione nel principale periodo lavorativo era quasi di tre punti percentuali al di sopra del suo livello attuale. Se il lavoro garantito riportasse tale occupazione al suo livello più elevato, comporterebbe 3 milioni e mezzo di lavoratori aggiuntivi. Dunque, potremmo star ragionando di molte persone.

Dunque, non intendo minimizzare i problemi potenziali di una garanzia di lavoro. Ma un esodo su larga scala dal settore privato meno pagato al pubblico impiego non è uno di quei problemi.

E, per ripetere quello che ho detto martedì, qualsiasi problemi potete avere con i dettagli delle proposte di Alexandra Ocasio-Cortez, esse sono assai più ragionevoli, ad esempio, dell’economia di stile voodoo di Larry Kudlow o di Sam Brownback, che passa come il principale pensiero economico sull’altro versante dello schieramento politico.

 

 

 

 

 

I democratici radicali sono abbastanza ragionevoli, dal blog di Paul Krugman, 3 luglio 2018.

luglio 12, 2018

 

July 3, 2018

Radical Democrats Are Pretty Reasonable

By Paul Krugman

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Alexandria Ocasio-Cortez’s upset primary victory has produced a huge amount of punditry about the supposed radicalization of the Democratic party, how it’s going to hurt the party because her positions won’t sell in the Midwest (and how well would Steve King’s positionssell in the Bronx?), etc., etc.. But I haven’t seen much about the substance of the policies she advocates, which on economics are mainly Medicare for All and a federal job guarantee.

So here’s what you should know: the policy ideas are definitely bold, and you can make some substantive arguments against them. But they aren’t crazy. By contrast, the ideas of Tea Party Republicans are crazy; in fact, Ocasio-Cortez’s policy positions are a lot more sensible than those of the Republican mainstream, let alone the GOP’s more radical members.

Since Ocasio-Cortez is being compared to Dave Brat, who unseated Eric Cantor, consider this: Brat favors a constitutional amendment forcing a balanced budget every year, which 96 percent of economists think is a really bad idea. Also, by the way, remember that Republicans won big in the midterms that followed Cantor’s demise.

So, about Ocasio-Cortez’s positions: Medicare for all is a deliberately ambiguous phrase, but in practice probably wouldn’t mean pushing everyone into a single-payer system. Instead, it would mean allowing individuals and employers to buy into Medicare – basically a big public option. That’s really not radical at all.

And if we’re talking economics rather than politics, every advanced country except America has some form of guaranteed health insurance; decades of experience show that these systems are workable; and they all have lower costs than we do. Calling for us to do what everyone else has managed to do is perfectly reasonable.

What about a jobs guarantee? Ocasio-Cortez’s proposal can be thought of as a rise in the national minimum wage to $15, combined with a sort of public option for employment in case that wage rise leads either to private-sector job losses or an increase in labor force participation.

Now, there’s a huge amount of evidence to the effect that minimum wage hikes don’t significantly reduce employment. To be fair, however, $15 is outside the range of historical experience, and you can make a plausible case that in low-productivity regions like much of the south there would be some job losses. On the other hand, those are precisely the regions that could really use some aid.

And even progressive economists like Josh Bivens aren’t sure whether a job guarantee is a good idea, mainly because they wonder whether the government can figure out how to manage large numbers of workers hired under the program and are uncertain about the cost. For what it’s worth, I’m pretty much with Bivens here, although I think he may be overstating the difficulties a bit; the goal of the jobs guarantee is laudable, but there are better ways to get there.

Also for what it’s worth, estimates by the leading academic advocates of a jobs guarantee – Paul, Darity, and Hamilton – say that it would be expensive, costing more than $500 billion a year, although they believe that part of this cost would be offset by lower spending on safety-net programs and higher tax receipts.

My own take is that they’re both too optimistic and too pessimistic. On one side, they believe that a huge number of people would enter the work force — that U6, the broadest measure of unemployment, would fall to just 1.5 percent, far below anything we’ve seen even at the peak of previous booms:

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My guess is that they’re way too optimistic here, that many of those not working still wouldn’t be working for a variety of reasons even with a guaranteed job.

But if fewer people than they think took those guaranteed jobs, the program’s cost would be correspondingly lower. Say it only ended up costing half their projection, $270 billion a year: how irresponsible would that be?

Well, the Trump tax cut, according to CBO, will increase the fiscal 2019 deficit by $280 billion. And it will do that while delivering little or nothing to working-class families. Whether or not you support Ocasio-Cortez here, she’s advocating a more responsible policy than that actually enacted by Republican in Congress.

The point, in any case, is that while a jobs guarantee is probably further than most Democrats, even in the progressive wing, are willing to go, it’s a response to real problems, and it’s not at all a crazy idea.

So next time you hear someone on the right talk about the “loony left,” or some centrist pundit pretend that people like Ms. Ocasio-Cortez are the left equivalent of the Tea Party, ignore them. Radical Democrats are actually pretty reasonable.

 

I democratici radicali sono abbastanza ragionevoli, di Paul Krugman

La impressionante vittoria alle primarie di Alexandria Ocasio-Cortez ha provocato una grande quantità di commentatori sul tema della presunta radicalizzazione del Partito Democratico, su come essa sia destinata a danneggiare il partito perché le sue posizioni non saranno accettate nel Midwest (e con quanto favore le posizioni di Steve King [1] saranno accettate nel Bronx?) etc. etc. … Ma non ho visto granché sulla sostanza delle politiche che essa sostiene, che in economia sono fondamentalmente ‘Medicare per tutti’ e una garanzia federale sul posto di lavoro.

Ecco dunque qualcosa che dovreste sapere: le idee politiche sono di sicuro audaci, e contro di esse potete avanzare argomenti di una certa sostanza. Ma non sono folli. All’opposto, le idee dei repubblicani del Tea Party sono folli; di fatto le posizioni politiche di Ocasio-Cortez sono molto più sensate di quelle che prevalgono tra i repubblicani, per non dire di quelle dei componenti più radicali del Partito Repubblicano.

Dal momento che Ocasio-Cortez viene paragonata a Dave Brat, che scalzò Eric Cantor, si consideri questo: Brat è a favore di un emendamento costituzionale che costringa ogni anno ad un bilancio in equilibrio, mentre il 96 per cento degli economisti pensa che sia una pessima idea. Si ricordi, per inciso, che i repubblicani vinsero alla grande le elezioni di medio termine successive alla caduta di Cantor.

Dunque, a proposito delle posizioni della Ocasio-Cortez: ‘Medicare per tutti’ è volutamente una frase ambigua, ma in pratica probabilmente non comporterebbe di spingere tutti ad un sistema con un unico centro di pagamenti. Invece comporterebbe di consentire agli individui ed ai datori di lavoro di investire su Medicare – fondamentalmente una grande opzione pubblica. In realtà, questo non è affatto radicale.

E se parliamo di economia anziché di politica, ogni paese avanzato ad eccezione dell’America ha qualche forma di assicurazione sanitaria garantita; decenni di esperienze mostrano che questi sistemi funzionano; ed hanno tutti costi inferiori di quelli che abbiamo noi. Chiamarci a fare quello che tutti gli altri sono riusciti a fare è perfettamente ragionevole.

Che dire della assicurazione sui posti di lavoro? La proposta di Ocasio-Cortez può essere pensata come una crescita del salario minimo nazionale a 15 dollari, combinata con una sorta di opzione pubblica per l’assicurazione nel caso che la crescita del salario porti ad una perdita di posti di lavoro o ad un incremento della partecipazione alla forza lavoro.

Ora, c’è una gran quantità di prove che aumenti del salario minimo non riducono in modo significativo l’occupazione. Onestamente, tuttavia, 15 dollari vanno oltre la gamma della esperienza storica, e potreste avanzare la tesi plausibile che nelle regioni a bassa produttività come gran parte del Sud ci sarebbero alcune perdite di posti di lavoro. D’altra parte, quelle sono precisamente le regioni che in realtà potrebbero avere qualche forma di aiuto.

E persino economisti progressisti come Josh Bivens non sono sicuri che la garanzia del posto di lavoro sia una buona idea, principalmente perché si chiedono se il Governo possa avere un’idea di come gestire grandi numeri di lavoratori assunti con quel programma e sono incerti sul costo. Per quello che vale, io sono in questo caso abbastanza d’accordo con Bivens, sebbene pensi che egli sopravvaluti un po’ le difficoltà; l’obbiettivo della garanzia dei posti di lavoro è encomiabile, ma ci sono altri modi per arrivarci.

Sempre per quello che vale, le stime da parte dei principali sostenitori accademici della garanzia del posto di lavoro – Paul, Darity ed Hamilton – dicono che essa sarebbe costosa, più di 500 miliardi di dollari all’anno, sebbene essi ritengano che in parte questo costo sarebbe compensato da una spesa minore sui programmi della sicurezza sociale e da più elevate entrate fiscali.

La mia posizione è che essi sono sia troppo ottimisti che troppo pessimisti. Da una parte, credono che un gran numero di persone entrerebbero nella forza di lavoro – che l’U6, la misura più larga della disoccupazione, cadrebbe appena all’1,5 per cento, molto al di sotto di quello che non si è mai visto nei punti più alti delle precedenti espansioni:

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La mia impressione è che in questo caso si sia troppo ottimisti, che molti di coloro che ancora non lavorano continuerebbero per varie ragioni a non lavorare anche con un posto di lavoro garantito.

Ma se un numero minore di persone di quelle che loro credono prendessero quei posti di lavoro garantiti, il costo del programma sarebbe corrispondentemente più basso. Diciamo che esso finirebbe per costare soltanto la metà della loro previsione, 270 miliardi di dollari all’anno: quanto sarebbe inaffidabile una tale previsione?

Ebbene, il taglio delle tasse di Trump, secondo l’Ufficio Congressuale del Bilancio, aumenterà il deficit della finanza pubblica per 280 miliardi di dollari. E lo farà portando poco o niente alle famiglie della classe lavoratrice. In questo caso, che voi appoggiate o meno la Ocasio-Cortez, ella sta sostenendo una politica più responsabile di quella effettivamente messa in atto dai repubblicani del Congresso.

Il punto, in ogni caso, è che mentre la garanzia dei posti di lavoro è probabilmente superiore a quella che la maggioranza dei democratici, persino nell’area progressista, è disponibile a mettere in atto, è una risposta a problemi reali, e non è affatto un’idea pazzesca.

Dunque, la prossima volta che sentite parlare qualcuno della destra di una “sinistra pazzesca”, o qualche commentatore centrista che pretende che persone come la Ocasio-Cortez siano l’equivalente di sinistra del Tea Parti, ignorateli. I democratici radicali sono in realtà abbastanza ragionevoli.

 

 

 

 

 

 

[1] Steve King è un repubblicano, membro del Congresso da lungo tempo, che interloquisce con i neonazisti e sostiene posizioni apertamente razzistiche sui musulmani.

 

 

 

 

 

 

L’economia Potemkin di Trump (dal blog di Paul Krugman, 30 giugno 2018)

luglio 9, 2018

 

June 30, 2018

Trump’s Potemkin Economy

By Paul Krugman

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According to legend, Grigory Potemkin, one of Catherine the Great’s ministers (and her lover), created a false impression of prosperity when the empress toured Ukraine. He supposedly did this by setting up fake villages, or possibly just facades, along her route, then dismantling them after she passed, and setting them up again further down the road.

There probably isn’t much if any truth to the story — among other things, Catherine was too smart and tough-minded to be that easily deceived — but never mind: the legend has become a byword for the general idea of prettifying reality to please a tyrannical ruler. And it seems highly relevant to some of the economic “news” coming out of the Trump administration the past few days.

Just to be clear, the U.S. economy is still doing quite well overall, continuing the long expansion that began during Obama’s first term. Those of us who thought the economy would be hurt by political uncertainty have been wrong so far.

But Trump’s actual policy initiatives aren’t doing so well. His tax cut isn’t producing the promised surge in business investment, let alone the promised wage gains; all it has really done is lead to a lot of stock buybacks. Reflecting this reality, the tax cut is becoming less popular over time.

And the early phase of the trade war that was supposed to be “good, and easy to win” isn’t generating the kinds of headlines Trump wanted. Instead, we’re hearing about production shifting overseas to escape both U.S. tariffs on imported inputs and foreign retaliation against U.S. products. It’s really worth reading the submission by General Motors to the Commerce Department, urging a reconsideration of a tariff policy that “risks undermining GM’s competitiveness against foreign auto producers” and “will be detrimental to the future industrial strength and readiness of manufacturing operations in the United States.” In other words, “Don’t you understand global supply chains, you idiot?”

Actually, I’m waiting to hear that GM is really a Democratic company in league with the deep state.

But meanwhile, how is the administration responding? By making stuff up.

Now, making stuff up is actually standard operating procedure for these guys. We’re talking about an administration that’s taking children away from their parents and putting them in cages in response to a wave of violent immigrant crime that doesn’t, you know, actually exist. Trade policy itself is being driven by claims about the massive tariffs U.S. products face from, say, the European Union — tariffs that, like the immigrant crime wave, don’t actually exist.

But these are negative fictions, tales of wrongdoing by others. When it comes to Trump’s own economic policies, by contrast, it’s all puppies and rainbows — happy stories with no basis in reality.

Some of these come from Trump himself. For example, he declared that the head of U.S. Steel called him to say that the company was opening six new plants. It isn’t, and as far as we can tell the phone call never happened.

Meanwhile, reports say that the Council of Economic Advisers did an internal report concluding that Trump trade policy will cost jobs, not create them; Kevin Hassett, the chairman, pressed on these reports, said that he could neither confirm nor deny them; in other words, they’re true. But meanwhile Hassett is declaring that last year’s corporate tax cut has led to a “massive amount of activity coming home” — which is just false. Some companies are rearranging their accounting, producing what looks on paper like money coming back to the U.S., but this has no real effect on investment or employment.

But the most Potemkinesque story of the past week was the declaration by Larry Kudlow, the administration’s top economic official, that the budget deficit is “coming down rapidly” as “those revenues come rolling in.”

Actually, the deficit is rising fast, mainly because of a plunge in corporate tax receipts — the direct result of the tax cut:

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The administration later tried to walk back Kudlow’s claim, saying that he was talking about great things that will happen in the future, not current events. Right.

OK, so Trump and company are making claims about the results of their policies that bear no relationship to reality. But reality has a well-known liberal bias. Will Trump’s habit of making things up, and his advisors’ willingness to celebrate imaginary policy triumphs, make any difference?

Actually, I think they might. The trade war is rapidly escalating, with our trading partners retaliating against US actions and reports that Trump wants to withdraw from the World Trade Organization. The best hope for breaking the cycle of retaliation would be for Trump to realize that the trade war is going badly, take a deep breath, and step back from the brink.

But who will tell him how things are really going? Given what we’ve seen the past few days, they’ll respond to plant closings and economic disruption with fantasies of triumph, while Trump will dismiss reports of problems as fake news. Reality will take a long time to break through, if it ever does. And by then the world trading system may be broken beyond repair.

 

 

 

L’economia Potemkin di Trump, di Paul Krugman

 Secondo la leggenda, Grigory Potemkin, uno dei Ministri di Caterina la Grande (e suo amante), creava una falsa impressione di prosperità quando l’Imperatrice viaggiava in Ucraina. Si suppone che lo facesse tirando su falsi villaggi lungo il suo percorso, o forse solo le facciate, poi smantellandoli dopo che era passata, e tirandoli nuovamente su più avanti lungo la strada.

Probabilmente non c’è molta verità nel racconto – tra le altre cose Caterina era troppo intelligente e risoluta per essere ingannata così facilmente – ma non è importante: la leggenda è diventata sinonimo dell’idea generale di abbellire la realtà per compiacere un governante tirannico. E sembra molto pertinente per alcune delle “notizie” economiche che nei giorni scorsi sono state messe in circolazione dalla Amministrazione di Trump.

Solo per chiarezza, l’economia degli Stati Uniti sta andando nel complesso ancora abbastanza bene, proseguendo la lunga espansione che cominciò nel primo mandato di Obama. Chi tra di noi pensava che l’economia sarebbe stata danneggiata dall’incertezza politica, sinora ha avuto torto.

Ma le attuali iniziative politiche di Trump non stanno andando altrettanto bene. Il suo taglio delle tasse non sta producendo la promessa crescita degli investimenti delle imprese, per non dire i promessi vantaggi salariali; tutto quello che effettivamente ha realizzato è provocare una grande quantità di riacquisti di azioni. In conseguenza di questa realtà, il taglio alle tasse sta diventando col tempo meno popolare.

E la prima fase della guerra commerciale che si pensava fosse “positiva e facile da vincere” non sta generando quel genere di titoli sui giornali che Trump voleva. Piuttosto, sentiamo parlare di spostamenti delle produzioni all’estero per sfuggire sia alle tariffe degli Stati Uniti sui beni importati che alle ritorsioni straniere sui prodotti statunitensi. È veramente il caso di leggere la presentazione delle osservazioni della General Motors al Dipartimento del Commercio, che spingono a una riconsiderazione della politica tariffaria che “rischia di mettere in difficoltà la competitività della GM nei confronti dei produttori stranieri di automobili” e che “andrà a detrimento alla forza futura dell’industria ed alla rapidità delle operazioni manifatturiere negli Stati Uniti”. Per dirla con altre parole: “Non capite le catene globali dell’offerta, scemi?”

In effetti, sto aspettando di sentir dire che la GM è davvero una società collegata ai democratici in combutta col cosiddetto “ventre molle” del potere statale.

Ma nel frattempo come sta reagendo l’Amministrazione? Sta facendo del casino.

Ora, fare del casino è effettivamente la procedura operativa standard per questi individui. Stiamo parlando di una Amministrazione che toglie i figli ai loro genitori e li mette nelle gabbie in risposta ad una ondata di violenta criminalità degli immigrati che, come sapete, in realtà non esiste. La politica commerciale stessa viene guidata dalle pretese di massicce tariffe cui i prodotti statunitensi debbono far fronte, ad esempio, dall’Unione Europea – tariffe che, come l’ondata di criminalità degli immigrati, in realtà non esistono.

Ma queste sono simulazioni negative, racconti su misfatti altrui. Quando si passa alle politiche economiche di Trump stesso, all’opposto, esse sono tutte rose e fiori – racconti felici con nessuna base di realtà.

Alcuni di questi racconti provengono dallo stesso Trump. Ad esempio, è stato lui a dichiarare che il capo della US Steel l’aveva chiamato per dirgli che la società stava aprendo sei nuovi stabilimenti. Non è così e, per quanto si può dire, non ci fu mai alcuna telefonata.

Contemporaneamente, i resoconti dicono che il Comitato dei Consulenti Economici ha fatto un rapporto interno concludendo che la politica del commercio di Trump costerà posti di lavoro, non ne creerà; Kevin Hasset, il Presidente, sollecitato su questi rapporti, ha detto che non poteva né confermarli né negarli; in altre parole, essi erano veri. Ma nello stesso tempo Hasset sta dichiarando che i tagli alle tasse dell’anno scorso hanno portato ad “una massiccia attività di ritorno in patria” – il che è semplicemente falso. Alcune società stanno rimodulando le loro contabilità, producendo quello che sulla carta sembra un ritorno di denaro negli Stati Uniti, ma questo non ha alcun effetto reale sugli investimenti e sull’occupazione.

Ma il racconto più ‘potemkinesco’ della scorsa settimana è stata la dichiarazione di Larry Kudlow, il principale dirigente economico della Amministrazione, secondo il quale il deficit di bilancio “si sta abbassando rapidamente” dal momento che “quelle entrate stanno arrivando”.

In realtà il deficit sta crescendo rapidamente, principalmente a causa di un crollo delle ricevute fiscali delle società – la conseguenza diretta dei tagli delle tasse:

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[1]

Successivamente, l’Amministrazione ha cercato di fare un passo indietro sulla pretesa di Kudlow, dicendo che stava parlando delle grandi cose che accadranno in futuro, non di eventi attuali. Esattamente.

Va bene, dunque Trump e compagni stanno facendo affermazioni sulle loro politiche che non hanno alcun nesso con la realtà. Ma la realtà ha una ben nota inclinazione progressista. L’abitudine di Trump di gonfiare le cose, e la disponibilità dei suoi consiglieri a celebrare trionfi politici immaginari, cambieranno qualcosa?

In effetti potrebbero farlo. La Guerra commerciale sta crescendo rapidamente, con I nostri partner commerciali che mettono in atto ritorsioni contro le iniziative statunitensi e i resoconti secondo i quali Trump intenderebbe uscire dalla Organizzazione Mondiale del Commercio. La migliore speranza per rompere il ciclo delle ritorsioni sarebbe che Trump comprendesse che la guerra commerciale sta andando male, facesse un respiro profondo e un passo indietro dal burrone.

Ma chi gli dirà come le cose stanno realmente procedendo? Dato quello che abbiamo visto nei giorni passati, risponderanno alla chiusura degli stabilimenti e al disordine economico con fantasie di trionfo, mentre Trump liquiderà i resoconti sui problemi come false notizie. Se mai accadrà, ci vorrà molto tempo perché la realtà si affermi. E per allora il sistema commerciale mondiale potrebbe essere guastato in modo irreparabile.

 

 

 

 

 

 

[1] La tabella mostra l’andamento negli utimi anni delle ricevute fiscali del Governo Federale.

 

 

 

 

 

 

 

Usi ed abusi del formalismo economico, dal blog di Paul Krugman, 27 giugno 2018.

luglio 8, 2018

 

June 27, 2018

Uses and Abuses of Economic Formalism (Wonkish and Self-referential)

By Paul Krugman

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OK, this is a bit self-indulgent, aimed at a very narrow audience, and maybe also whiny too. But via Mark ThomaI see that Nicholas Gruen has a celebratory piece on Max Corden that for some reason is largely devoted to a sort of back-handed attack on yours truly. Money quote: “I think of Krugman as about the most brilliant and useful economist we have. But his most brilliant work wasn’t useful, and his most useful work isn’t brilliant.”

First, a word about Max Corden: his work has been wonderfully useful. In particular, his book “Trade Policy and Economic Welfare” is still, more than 40 years after its first publication, the best single guide to how to think about trade policy. It is, for example, lurking behind the recent stuff I’ve written about trade war and Brexit. Everything Gruen says about Max is totally true.

So what’s Gruen’s beef with me? He really, really doesn’t like the formalization of economies of scale and imperfect competition in trade that went along with the rise of the “new trade theory”, and compares it to the excessive faith in formalism that I myself have condemned in much of macroeconomics.

Obviously I don’t think that’s fair, and could say a lot about why I think the formalism was helpful. What’s really important here, however, is to point out the essential difference between the attitudes of new trade theory and “freshwater” macroeconomics toward real-world experience.

What the freshwater school did was to take the actual experience of business cycles and say, “We don’t see how to formalize this experience in terms of maximizing equilibrium models; therefore it doesn’t exist.” It only looks as if recessions result from inadequate demand and that monetary or fiscal expansion can create jobs; our models tell us that can’t happen, so it’s all an optical illusion.

This attitude, I’ve argued, had major negative consequences, not just for research, but for policy: it helped cultivate a sense of learned helplessness in the face of mass unemployment.

What about new trade theory? What us new trade theorists did was say, “It looks as if there’s a lot going on in world trade that can’t be explained in existing formal models. So let’s see if there’s a different approach to modeling that can make sense of what we see.” In other words, the attitude toward formalization was almost the opposite of the macro wrong turn: it was there to help clarify our reality sense, not deny it.

Now, we can argue about how much good this formalization did. I still believe that the formal models provided a level of clarity and legitimacy to trade discussion that wasn’t there before; your mileage may differ. Certainly nothing I wrote on trade has done as much to provide policy guidance as, say, my writing on the liquidity trap.

But one thing new trade theory certainly didn’t do was lend support to really bad ideas, or induce policy paralysis. And another thing it didn’t do was divert trade economists away from studying the real world. On the contrary, trade has become a far more empirical, open-minded field than it was when I first entered it.

Anyway, this isn’t about me (well, it sort of is, but never mind.) The important point shouldn’t be “don’t formalize”; it should be that formalism is there to open your mind, not close it, and if the real world seems to be telling you something inconsistent with your model, the problem lies in the model, not the world.

 

Usi ed abusi del formalismo economico, dal blog di Paul Krugman

È vero, questo è un post un po’ indulgente con me stesso, rivolto a un pubblico molto ristretto, e forse anche un po’ lamentoso. Ma, tramite Mark Thoma, noto che Nicholas Gruen pubblica un articolo celebratorio su Max Corden che per qualche ragione si dedica ampiamente ad una sorta di attacco mascherato al sottoscritto. Una citazione in soldoni: “Di Krugman penso che sia il più brillante e utile economista che abbiamo. Ma il suo lavoro più brillante non fu granché utile, e il suo più utile lavoro non è brillante”.

Anzitutto, una parola su Max Corden: il suo lavoro è stato meravigliosamente utile. In particolare, il suo libro “Politica commerciale e benessere economico” è ancora, più di 40 anni dopo la sua prima pubblicazione, la migliore guida unitaria su come ragionare sulla politica commerciale. Ad esempio, è nascosto dietro le cose che di recente ho scritto sulla guerra commerciale e la Brexit. Tutto quello che sostiene Gruen su Max è completamente vero.

Dunque, di cosa si lamenta Gruen a mio proposito? A lui non piace affatto la formalizzazione delle economie di scala e della imperfetta competizione nel commercio che si si sono accompagnate all’ascesa della “nuova teoria del commercio”, e la paragona alla eccessiva fiducia nel formalismo che io stesso ho condannato in molta macroeconomia.

Ovviamente io non penso che questo sia giusto e potrei dire molto sulle ragioni per le quali penso che il formalismo sia stato utile. Ma quello che è realmente importante in questo caso è mettere in evidenza la differenza sostanziale tra le caratteristiche della nuova teoria del commercio e la macroeconomia dell’“acqua dolce” (1)  nei confronti dell’esperienza del mondo reale.

Quello che la scuola dell’”acqua dolce” faceva era assumere l’esperienza effettiva dei cicli economici e dire: “Non vediamo come formalizzare questa esperienza in termini di massimo sfruttamento dei modelli di equilibrio, di conseguenza essa non esiste”.  Essa osserva soltanto se le recessioni derivano da una domanda inadeguata e se l’espansione monetaria o della finanza pubblica può creare posti di lavoro; i nostri modelli ci dicono che non può accadere, dunque essa è un’illusione ottica.

Questo orientamento, ho convenuto, ha importanti conseguenze negative, non solo per la ricerca, ma per la politica; essa contribuisce a coltivare una sensazione di erudita impotenza di fronte ad una disoccupazione di massa.

Cosa dire della nuova teoria del commercio? Quello che hanno fatto per noi i nuovi teorici del commercio è stato dire: “È come se ci fossero molte cose in corso nel commercio mondiale che non possono essere spiegate nei modelli formali esistenti. Dunque, fateci vedere se c’è un diverso approccio di modellazione che possa dare un senso a quello che osserviamo”. In altre parole, la tendenza alla formalizzazione è stata quasi l’opposto della svolta sbagliata della macroeconomia: ne è derivato un aiuto a chiarire la nostra percezione della realtà, non a negarla.

Ora, si può discutere quanto bene abbia fatto questa formalizzazione. Io credo ancora che i modelli formali abbiano fornito un livello di chiarezza e di credibilità al dibattito sul commercio che non c’era prima; la vostra misurazione può essere diversa. Certamente, niente di quello che ho scritto sul commercio ha fatto altrettanto per fornire un indirizzo alla politica come, ad esempio, il mio scritto sulla trappola di liquidità.

Ma una cosa che la nuova teoria del commercio certamente non ha fatto è stato dare sostegno a idee cattive, o indurre alla paralisi della politica. E un’altra cosa che non ha fatto è stato distrarre gli economisti del commercio dallo studiare il mondo reale. Al contrario, il commercio è diventato una disciplina assai più empirica, senza pregiudizi rispetto a quando me ne sono occupato per la prima volta.

In ogni modo, tutto questo non riguarda me (ebbene, in un certo senso mi riguarda personalmente, ma non è importante). Il punto importante non dovrebbe essere “non formalizzare”; dovrebbe essere che il formalismo esiste per aprire la vostra intelligenza, non per rinchiuderla, e se il mondo reale sembra vi stia dicendo qualcosa che non è coerente con il vostro modello, il problema sta nel modello, non nel mondo reale.

 

 

 

 

 

(1) Per un brave descrizione delle due scuole economiche americane – definite dell’ “acqua dolce e dell’acqua salata”, in riferimento al loro successo e insediamento nelle università delle aree dei grandi laghi o delle coste oceaniche – vedi le note sulla Traduzione.

 

 

 

 

 

 

La Brexit e la Trumpit (per esperti), dal blog di Paul Krugman, 22 giugno 2018.

luglio 6, 2018

 

June 22, 2018

Brexit Versus Trumpit (Wonkish)

By Paul Krugman

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A correspondent asks a very good question. The other day I posted a wonkish piece about the economics of a trade war, which argued that there would be huge disruption but the overall cost would be smaller than many people imagine — maybe 2-3% of GDP. The correspondent asked how to reconcile this with typical estimates of the cost of Brexit.

Such estimates — I’ve done my own back-of-the-envelope version, which is more in less in the same ballpark (cricket field?) as other estimates — typically run somewhere around 2 percent of British GDP. Yet even pessimists predict a much smaller impact of Brexit on British trade than the huge declines I’ve been suggesting from a Trump-created trade war, which I have just decided to call Trumpit. Aren’t these estimates inconsistent?

No, not really, because Brexit isn’t about higher tariffs; it’s about higher trade costs, higher costs of doing business across borders. And that makes a huge difference.

Figure 1 shows the standard textbook picture (hey, I wrote the standard textbook!) of the effects of a tariff. A tariff helps domestic producers who compete with imports, hurts domestic consumers, and generates revenue for the government. These three effects add up to a net loss, because the tariff distorts incentives: the good is produced by firms who have higher costs than it would cost to import the good, consumers refrain from buying even though it’s worth more to them than its price on world markets. These distorted incentives — the “deadweight loss” from a tariff — are shown by the areas of the triangles in the figure.

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Figure 1

And these triangles correspond to the single triangle I used in the figure that went with my exercise in wonkdom, here shown as Figure 2.

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Figure 2

But Brexit won’t raise prices by imposing a tariff, which will generate government revenue. It will, instead, make doing business more expensive: extra paperwork, longer waits for trucks waiting to be onloaded and offloaded, higher invisible costs of trading services. So you need to add the rectangle in Figure 1 labeled “government revenue” to the overall economic losses.

Or to put it differently, you get a picture like Figure 3, in which higher trade costs as well as distorted incentives reduce real income. (The incentives aren’t actually distorted given Brexit, but they are compared with what you’d face without it.)

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Figure 3

How big a deal is that difference? I’ve previously guessed that Brexit will reduce British trade with the rest of Europe by a third, from 15 to 10 percent of GDP. If the elasticity of demand is 3, that would require trade costs on the order of 13 percent of import prices.

If that 13 percent number were a tariff, the overall cost would be 0.13*2.5 percent of GDP (half the import decline). That’s about 0.3 percent of GDP — not tiny, but fairly small.

But if we’re talking about higher trade costs, you need to multiply these by the average of pre- and post-Brexit imports, or 12.5 percent of GDP. Now we’re up to 1.6 percent of GDP.

So that’s why Brexit estimates are so much higher than trade-war logic might suggest. Brexit won’t tax trade, it will make it really, truly, deeply more expensive to conduct — and that’s a big deal.

 

La Brexit e la Trumpit (per esperti), dal blog di Paul Krugman

Un nostro interlocutore avanza un’ottima domanda. L’altro giorno ho pubblicato un pezzo per esperti sull’economia delle guerre commerciali, nel quale sostenevo che ci sarebbe stata una vasta turbolenza, ma il costo complessivo sarebbe stato inferiore a quello che molti immaginano – forse il 2-3% del PIL. L’interlocutore ora ci chiede come conciliare questa stima con quelle consuete sui costi della Brexit.

Tali stime – ho fatto una mia versione di un calcolo approssimativo che ha più o meno la stessa dimensione di campo di gioco di altre stime (un campo da cricket?) – si colloca come di consueto attorno al 2 per cento del PIL inglese. Tuttavia persino i pessimisti prevedono un impatto della Brexit sul commercio britannico molto minore di quel vasto decremento che io sto suggerendo per la guerra commerciale provocata da Trump, che ho appena deciso di chiamare Trumpit. Queste stime sono contraddittorie?

No, in realtà no, perché la Brexit non riguarda tariffe più alte; riguarda costi commerciali più alti, costi più elevati nel gestire imprese trans frontaliere. E questo provoca una grande differenza.

La Figura 1 mostra il quadro consueto di un libro di testo di economia (ricordatevi che quel tradizionale libro di testo l’ho scritto io!) sugli effetti di una tariffa. Una tariffa aiuta i produttori che competono con le importazioni, danneggia i consumatori nazionali e genera entrate per il Governo. Questi tre effetti si aggiungono ad una perdita netta, giacché la tariffa distorce gli incentivi: il bene è prodotto da imprese che hanno costi più elevati di quelli che avrebbero importando quel bene, i consumatori si astengono dal comprare anche se esso ha per loro più valore del suo prezzo sui mercati mondiali. La distorsione di questi incentivi – la “perdita inutile” derivante dalla tariffa – sono mostrate dalle aree dei triangoli nella figura.

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Figura 1 [1]

 

E questi triangoli corrispondono al singolo triangolo che avevo utilizzato nel diagramma che accompagnava il mio esercizio per esperti, qua mostrato come Figura 2.

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Figura 2 [2]

 

Ma la Brexit non alzerà i prezzi con l’imposizione di una tariffa, che produrrà entrate per lo Stato. Piuttosto, essa renderà più costosa l’attività dell’impresa: burocrazia aggiuntiva, le lunghe attese per i camion che aspettano di essere caricati e scaricati, superiori costi invisibili per i servizi commerciali. Dunque si deve aggiungere il rettangolo definito nella figura 1 come “entrate pubbliche” alle perdite economiche complessive. O, per dirla diversamente, si ottiene un quadro come quello della Figura 3, nel quale anche i maggiori costi del commercio, come gli incentivi distorti, riducono il reddito effettivo (gli incentivi non sono realmente distorti per effetto della Brexit, ma lo sono a confronto di quello che si avrebbe senza di essa).

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Figura 3

 

Quanto è grande quella differenza? Ho precedentemente ipotizzato che la Brexit ridurrà il commercio britannico con il resto dell’Europa di un terzo, dal 15 al 10 per cento del PIL. Se l’elasticità della domanda è pari a 3, ciò richiederebbe costi commerciali aggiuntivi nell’ordine del 13 per cento dei prezzi all’importazione.

Se la tariffa corrispondesse a quel dato del 13 per cento, il costo complessivo sarebbe pari a 0,13*2,5 del PIL (metà del declino delle importazioni). Ovvero, circa lo 0,3 per cento del PIL – non minuscolo, ma abbastanza modesto.

Ma se stiamo parlando di più alti costi commerciali, si devono moltiplicare questi per la media delle importazioni precedenti e successive alla Brexit, ovvero per il 12,5 per cento del PIL. Con il che si sale all’1,6 per cento del PIL.

Questa è la ragione per la quale le stime sulla Brexit sono così tanto più alte di quello che una logica da guerra commerciale suggerirebbe. La Brexit non tasserà il commercio, lo renderà realmente, effettivamente, seriamente più costoso da gestire – e questo sarà un problema grave.

 

 

 

 

 

 

[1] La Figura mostra l’effetto dell’aggiunta di una tariffa alla importazione di un bene. Sull’asse verticale il prezzo, su quello orizzontale la quantità. L’aggiunta di una tariffa, che comporta una entrata per lo Stato – il rettangolo delle entrate (‘revenue’) dello Stato che la impone ma anche due aree di aggiunta sul prezzo – i triangoli che sono “pesi morti” – provoca una diversa torsione all’intero diagramma.

[2] In pratica, nella figura 2, il triangolo definito “welfare loss” – che tradurrei con “vantaggio perduto” – ha la stessa dimensione dei due triangoli “pesi morti” della Figura 1, ma è al netto delle entrate pubbliche derivanti dai dazi maggiori.

 

 

 

 

 

 

 

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