Blog di Krugman

Nessuna fata, nessun pianto (dal blog di Paul Krugman, 9 febbraio 2018)

 

No Fairy, No Cry

Paul Krugman FEB. 9, 2018

 

Republicans preached fiscal austerity when the economy needed stimulus, and have turned to fiscal profligacy now that it doesn’t. If this surprises you, either you’ve been completely oblivious to the reality of the modern GOP for the past decade, or you’re a reflexive centrist – which is pretty much the same thing.

But how bad a thing is this fiscal profligacy? It’s not good – it means higher debt, which will in turn reduce the “fiscal space” for responding to the next crisis. It will also crowd out investment, hurting long-run growth. But I’ve been seeing some people suggesting that rising deficits are going to hurt the economy in the short run, perhaps even cause a recession. Will they?

Well, much as I’d like to believe this proposition for political reasons, it doesn’t make sense. The same analysis that told us that austerity was a bad thing in the depths of the slump says that deficit spending now won’t be contractionary. The cases aren’t symmetric – this deficit will do much less good than austerity did harm. But still, we should be consistent.

Remember, the direct effect of fiscal policy is to change overall spending in the economy: a fiscal expansion means more spending, a fiscal contraction means less spending. When the economy is depressed, as it was for years after the financial crisis, the number of jobs is constrained by the overall level of spending. And because the Fed had limited influence – short-term interest rates, which the Fed controls, were already zero – fiscal contraction translated into major job loss.

True, advocates of austerity tried to claim otherwise; for a while, a lot of policymakers bought into the doctrine of “expansionary austerity,” in which slashing government spending in a depressed economy would somehow lead to a big rise in private spending. But this doctrine, as I wrote at the time, depended on belief in the “confidence fairy” – belief that somehow consumers and investors would be so reassured by the government’s willingness to inflict pain that the economy would surge.

It didn’t work out that way: austerity hurt economies every bit as much as Keynesians said it would.

But if we didn’t believe that the confidence fairy would come to rescue us then, we shouldn’t believe that it will desert us now. What the GOP has done is hugely irresponsible, but don’t expect that to have much effect on private-sector spending.

But what about interest rates? Won’t this ill-timed stimulus drive them up? Yes, a bit – but it’s important to understand why.

As I said, the Fed sets short-term interest rates; and longer-term interest rates are mostly driven by expectations about future short rates, that is, by expectations about future Fed policy.

So why will the blowup in the deficit cause the Fed to raise rates? Precisely because it will tend to make the economy grow faster in the short run, raising the perceived risk of inflation, and the Fed will raise rates to head that risk off. You may think the Fed is over-worried on that front, but still, that’s how it will work.

And what that means is that you shouldn’t worry about higher interest rates causing a recession – rates will be going up only to the extent that the Fed believes this fiscal blowout will cause economic expansion.

Now, the Fed’s role will limit the expansionary effects of the deficit. The Fed couldn’t offset the effects of austerity policies in 2010-2013 by cutting rates, but it can and will offset the effects of unwarranted stimulus now by raising rates. But it will limit the magnitude of the expansionary effect, not turn it into contraction.

OK, there’s one slight wild card here: if there was a bubble in asset prices, the prospect of Fed rate hikes could be the pinprick that bursts the bubble. But we don’t know that, and even if it turns out to be the story, the bubble would have burst eventually regardless.

Bottom line: the G.O.P.’s fiscal behavior has been hypocritical, irresponsible, and reprehensible. But it won’t cause a recession.

 

Nessuna fata, nessun pianto,

di Paul Krugman

I repubblicani predicavano l’austerità nelle finanze pubbliche quando l’economia aveva bisogno di stimoli, e si sono spostati allo sperpero della finanza pubblica adesso che non ne ha bisogno. Se questo vi sorprende, o non eravate consapevoli della realtà del Partito Repubblicano nell’ultimo decennio, oppure siete d’istinto dei centristi – che è più o meno la stessa cosa.

Ma quanto è negativo questo sperpero della finanza pubblica? Non è positivo – significa un debito più alto, che a sua volta ridurrà lo “spazio di finanza pubblica” quando si tratterà di rispondere alla prossima crisi. Peraltro spiazzerà gli investimenti, danneggiando la crescita a lungo termine. Ma sto notando che alcuni suggeriscono che i deficit crescenti sono destinati a danneggiare l’economia nel breve periodo, forse anche a provocare una recessione. È quello che accadrà?

Ebbene, seppure mi farebbe piacere credere a questo concetto per ragioni politiche, esso non ha senso. La stessa analisi che l’austerità era una soluzione negativa nel pieno della crisi, adesso ci dice che la spesa in deficit non provocherà una contrazione. I casi non sono simmetrici – questo deficit sarà molto meno sopportabile del danno provocato dall’austerità. Tuttavia, dovremmo essere coerenti.

Si ricordi, l’effetto diretto della politica della finanza pubblica è modificare la spesa complessiva nell’economia: una espansione della finanza pubblica significa più spesa, una contrazione meno spesa. Quando l’economia è depressa, come fu per anni dopo la crisi finanziaria, il numero dei posti di lavoro è limitato dal livello complessivo della spesa. È poiché la Fed aveva una influenza limitata – i tassi di interesse a breve scadenza che la Fed controlla, erano vicini allo zero – la contrazione della finanza pubblica si tradusse in una perdita importante di posti di lavoro.

È vero, i sostenitori dell’austerità provarono ad argomentare in un altro modo: per un certo periodo, molti operatori della politica fecero propria la dottrina della “austerità espansiva”, per la quale abbattere la spesa pubblica in un’economia depressa in qualche modo avrebbe portato ad una grande crescita della spesa privata. Ma questa dottrina, come scrissi a quel tempo, dipendeva dalla fede nella “fata della fiducia” – la fede che in qualche modo i consumatori e gli investitori sarebbero stati talmente rassicurati dalla volontà del Governo di infliggere sofferenza, che l’economia avrebbe avuto un’impennata.

Non andò in quel modo: l’austerità danneggiò le economie esattamente quanto i keynesiani dicevano sarebbe accaduto.

Ma se non credemmo allora che la fata della fiducia sarebbe venuta a salvarci, non dovremmo credere che essa adesso ci abbandoni. Quello che il Partito Repubblicano ha fatto è enormemente irresponsabile, ma non aspettiamoci che abbia un grande effetto sulla spesa del settore privato.

Ma cosa dire dei tassi di interesse? Questo stimolo intempestivo non li spingerà in alto? Sì, un po’ – ma è importante comprendere il perché.

Come ho detto, la Fed stabilisce i tassi di interesse a breve termine; e i tassi di interesse a più lungo termine sono in gran parte guidati dalle aspettative sui futuri tassi a breve, vale a dire dalle aspettative sulla futura politica della Fed.

Dunque, perché l’esplosione del deficit spingerà la Fed ad alzare i tassi? Precisamente perché essa tenderà a far crescere l’economia più velocemente nel breve periodo, alzando il rischio percepito di inflazione, e la Fed eleverà i tassi per evitare quel rischio. Potete pensare che la Fed sia eccessivamente preoccupata di quel rischio, eppure le cose andranno in quel modo.

E quello che tutto ciò significa è che non dovremmo preoccuparci che tassi di interesse più elevati provochino una recessione – i tassi saliranno solo nella misura in cui la Fed ritiene che questa esplosione della finanza pubblica provocherà una espansione economica.

Ora, il ruolo della Fed limiterà gli effetti espansivi del deficit. La Fed non poteva bilanciare gli effetti delle politiche di austerità nel 2010-2013 tagliando i tassi, ma oggi può bilanciare gli effetti di uno stimolo ingiustificato tagliando i tassi, e lo farà. Ma ciò limiterà la dimensione dell’effetto espansivo, non lo capovolgerà in una contrazione.

È vero, in questo caso c’è un modesto jolly: se ci fosse una bolla nei prezzi degli asset, la prospettiva di un rialzo dei tassi da parte della Fed sarebbe la puntura di spillo che farebbe scoppiare la bolla. Ma quello non lo sappiamo, e persino se si scoprisse che è quella la storia vera, alla fine la bolla sarebbe scoppiata a prescindere.

Morale della favola: il comportamento di finanza pubblica del Partito Repubblicano è stato ipocrita, irresponsabile e condannabile. Ma non provocherà una recessione.

 

 

 

 

 

I deficit gemelli di Trump (per esperti), (dal blog di Paul Krugman, 16 febbraio 2018)

febbraio 17, 2018

 

Trump’s Twin Deficits (Wonkish)

Paul Krugman FEB. 16, 2018

 

Many years ago, when dinosaurs roamed the earth and some Republicans still talked sense, the Reagan administration pursued a policy of tax cuts and military buildup even as the Fed was tightening monetary policy to fight inflation. This policy mix bore some obvious resemblance to Trumponomics. And two things happened at more or less the same time: for the first time ever, the U.S. began running large peacetime full-employment budget deficits, and we began running large, sustained trade deficits.

At the time, Martin Feldstein famously linked the two, calling them “twin deficits.” While this oversimplified matters – in the late 1990s we ran both budget surpluses and trade deficits, thanks to booming investment – the logic made sense. Fiscal stimulus directly raised trade deficits by boosting overall spending, and the fiscal-monetary collision raised interest rates, pushing up the dollar and shifting spending from U.S. to foreign goods.

Now the always interesting Brad Setser suggests that a similar story might be unfolding now, with tax cuts feeding a rising trade deficit – an irony given Trump’s obsession with trade deficits as the root of all economic evil. His post is well worth a read, but I have a few suggestions/modifications to make.

One is simply to note that so far we’ve seen only modest increases in interest rates and no rise at all in the dollar. So this doesn’t look much like Reaganomics yet. Maybe it’s still something that will happen; or maybe the Trump tax cuts won’t deliver much fiscal stimulus, just pile up in retained earnings or get used for stock buybacks that don’t do much for consumer spending. Or maybe, as Setser implicitly suggests, we need to do a “but for”: but for the tax cut other factors, like the very real strengthening in the European economy, would be driving the dollar sharply lower.

Meanwhile, I’m trying to make sense of Setser’s remarks on investment income. He writes:

The U.S. now has a large stock of external debt, so a higher nominal interest rate in the U.S. mechanically leads to higher interest payments on that external debt (interest payments are big part of the income balance in the current account, along with the dividend income on foreign direct investment). The United States’ external debt has quietly increased to about 50 percent of GDP, so a 1 percentage point increase in the nominal interest rate translates into half a percentage point of GDP increase in the amount of interest the U.S. will need to pay to the world.

OK, I’m not quite sure which external debt number he’s referring to. The U.S. net international investment position is about -44 percent of GDP. Our gross liabilities are far larger, about 170 percent of GDP, with the debt component of those liabilities around 70 percent. Any interest effect should come on the gross liabilities, so I think it’s bigger than he suggests.

And there are two more points.

First, while foreigners now have a lot of equity in the U.S., we’re still something of a hedge fund among nations: we owe debt in dollars, and hold assets that are effectively in foreign currencies. This has the peculiar consequence that, unlike what happens with most debtor nations, any rise in the dollar worsens our net investment position: liabilities rise along with our currency, assets don’t. This also means that a rising dollar tends to have a negative effect on our investment income balance, quite aside from interest rates, because the income of U.S. corporations overseas becomes worth less in dollars.

Second, while many of our overseas liabilities are debt, there’s a lot of equity there too – so much that Rosenthal estimates that about 35 percent of the corporate tax cut will go to foreigners. That’s another significant hit to the balance on investment income.

So are we looking at an era of Trumpian twin deficits? Yes, probably. But the channels will be a bit different from those of the Reagan era.

 

I deficit gemelli di Trump (per esperti),

di Paul Krugman

Molti anni fa, quando i dinosauri girovagavano sulla terra e alcuni repubblicani dicevano ancora cose sensate, l’Amministrazione Reagan perseguì una politica di tagli alle tasse e di sviluppo militare, anche se la Fed stava restringendo la politica monetaria per combattere l’inflazione. Questa combinazione politica aveva qualche evidente somiglianza con l’economia di Trump. E, più o meno nello stesso periodo, accaddero due cose: per la prima volta in assoluto, gli Stati Uniti gestirono ampi deficit di bilancio in tempo di pace e di piena occupazione, e cominciammo ad avere deficit commerciali cospicui e prolungati.

È noto che a quel tempo Martin Feldstein collegò le due cose, definendole “deficit gemelli”. Se questo semplificava eccessivamente le questioni – negli ultimi anni ’90 abbiamo avuto sia avanzi di bilancio che deficit commerciali, grazie al boom degli investimenti – la logica aveva senso. Lo stimolo della finanza pubblica rialzò i deficit commerciali incoraggiando la spesa complessiva, e la collisione delle politiche della finanza pubblica e monetaria sollevò i tassi di interesse, spingendo in alto il dollaro e spostando la spesa dagli Stati Uniti verso i beni esteri.

Oggi il sempre interessante Brad Setser suggerisce che una storia simile potrebbe stare accadendo adesso, con i tagli al fisco che alimentano un crescente deficit commerciale – situazione comica considerata l’ossessione di Trump sui deficit commerciali come la radice di tutto il male dell’economia. Il suo post è sicuramente meritevole di una lettura, ma io ho qualche suggerimento e correzione da avanzare.

Una è semplicemente che sinora abbiamo visto solo modesti incrementi nei tassi di interesse e nessuna crescita in assoluto del dollaro. Dunque, tutto questo non assomiglia ancora molto all’economia di Reagan. Forse c’è ancora qualcosa che deve accadere; o forse i tagli al fisco di Trump non produrranno molto stimolo di finanza pubblica, solo accumulandosi in profitti trattenuti o utilizzati per riacquistare azioni, il che non provocherà granché sulla spesa dei consumatori. O forse, come Setser implicitamente suggerisce, abbiamo bisogno di aggiungere un “se non”: se non i tagli fiscali, altri fattori – come il rafforzamento molto concreto dell’economia europea – spingerà drasticamente più in basso il dollaro.

Nel frattempo, mi provo a dare senso alle osservazioni di Setser sul reddito da investimenti. Egli scrive:

“Gli Stati Uniti hanno adesso un’ampia riserva di debito estero, cosicché un più alto tasso di interesse nominale negli Stati Uniti porta meccanicamente a un più elevato interesse nei pagamenti di quel debito estero (pagamenti sugli interessi che sono una gran parte dell’equilibrio del reddito nel conto corrente, assieme al reddito dai dividendi sugli investimenti diretti all’estero). Il debito estero degli Stati Uniti si è tranquillamente accresciuto sino a circa il 50 per cento del PIL, cosicché un punto di incremento percentuale del tasso di interesse nominale si traduce in mezzo punto di PIL di incremento della quantità di interesse che gli Stati Uniti dovranno pagare al mondo”.

Devo dire che non sono del tutto sicuro del dato del debito estero al quale si riferisce. La posizione dell’investimento netto degli Stati Uniti è circa il 44 per cento del PIL. Le nostre passività lorde sono assai più elevate, circa il 170 per cento del PIL, con la componente del debito su quelle passività a circa il 70 per cento. Ogni effetto dell’interesse dovrebbe manifestarsi a carico delle passività lorde, cosicché io penso che il dato sia maggiore di quello che egli suggerisce.

Inoltre ci sono due aspetti ulteriori.

Il primo, mentre adesso gli stranieri hanno una grande quantità di capitali propri negli Stati Uniti, tra le nazioni noi siamo ancora qualcosa come un fondo speculativo: abbiamo debito in dollari e manteniamo asset che sono di fatto in valute straniere. Questo ha la peculiare conseguenza che, diversamente da quello che accade con la maggioranza delle nazioni debitrici, ogni crescita del dollaro peggiora la nostra posizione di investimento netto; le passività crescono assieme alla nostra valuta, gli asset non crescono. Questo significa anche che un dollaro che cresce tende ad avere un effetto negativo nel nostro equilibrio reddituale degli investimenti, abbastanza a prescindere dai tassi di interesse, perché il reddito delle società statunitensi all’estero perde valore in dollari.

Il secondo, mentre molte delle nostre passività all’estero sono debiti, c’è anche una grande quantità di capitali propri – così tanti che Rosenthal stima che circa il 35 per cento degli sgravi fiscali andrà agli stranieri. Questo è un altro colpo significativo all’equilibrio sui redditi da investimenti.

Stiamo dunque assistendo con Trump ad un’epoca di deficit gemelli? Sì, è probabile. Ma i canali saranno un po’ diversi da quelli dell’epoca di Reagan.   

 

 

 

 

 

Note sulla ripresa europea (per esperti), (dal blog di Paul Krugman, 11 febbraio 2018)

febbraio 12, 2018

 

Notes on European Recovery (Wonkish)

Paul Krugman FEB. 11, 2018

 

Here in the English-speaking world, most of us in the econo-pundit business have been focusing a lot on the US economy post-Trump, and secondarily on the British economy post-Brexit. But once in a while we ought to look further afield. And there’s a pretty big story that isn’t getting much play in the US, at least: the significant recovery finally taking place in Europe.

For years, the euro area drastically lagged the United States: where America began a sustained recovery in late 2009, Europe, buffeted by debt crises and the problems of misaligned costs among member nations, continued to suffer into 2013. Germany, of course, did well throughout – largely because its economy was supported by huge trade surpluses, largely at its neighbors’ expense.

Since 2013, however, we’ve seen significant growth in Europe, with the fastest growth occurring in the areas (other than Greece) that were hardest hit by the euro crisis, especially Spain:

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So what turned around in Europe? One important answer was three words from Mario Draghi: “whatever it takes”. The ECB’s promise to buy government bonds if necessary almost instantly ended a panic in southern European bond markets, drastically narrowing the spread against Germany and setting the stage for growth:

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The other thing that happened was internal devaluation – that is, relative deflation by countries that had been left overvalued by massive capital inflows and inflation during the pre-crisis years. Spain, in particular, gradually squeezed down its labor costs relative to the euro area as a whole:

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This has in turn fueled a big export boom, especially in autos.

So is all well that ends well? No. Southern Europe paid a terrible price during the crisis years. The fact that internal devaluation eventually works, after years of high unemployment, is neither a surprise nor a vindication of the huge suffering during the interim. If there was a surprise, it was political: the willingness of political elites to pay this price rather than break with the euro.

Still, it’s important to be aware that Europe 2018 looks very different from Europe 2013. For now, at least, Europe is back as a functioning economic system.

 

Note sulla ripresa europea (per esperti), di Paul Krugman

Qua, nei paesi di lingua inglese, la maggioranza di noi, occupati nel settore dei commenti economici, ci siamo venuti concentrando soprattutto sull’economia degli Stati Uniti dopo Trump, e in secondo luogo sull’economia britannica dopo la Brexit. Ma ogni tanto dovremmo guardare più lontano. E c’è almeno una storia piuttosto rilevante che non sta ricevendo molta attenzione: la significativa ripresa che alla fine sta prendendo piede in Europa.

Per anni, l’area euro è rimasta sensibilmente indietro rispetto agli Stati Uniti: laddove l’America cominciò nel tardo 2009 una ripresa sostenuta, l’Europa, scossa dalle crisi del debito e dai problemi dei costi disallineati tra le nazioni che la compongono, ha continuato a soffrire fino al 2013. La Germania, ovviamente, ha continuato ad andare bene per tutto il periodo – in gran parte perché la sua economia era sostenuta da vasti surplus commerciali, in buona misura a spese dei suoi vicini.

Dal 2013, tuttavia, abbiamo osservato una crescita significativa in Europa, più rapida nelle aree (ad eccezione della Grecia) maggiormente colpite dalla crisi dell’euro, in particolare la Spagna:

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Dunque, cosa ha trasformato l’Europa? Una risposta importante venne dalle tre parole pronunciate da Mario Draghi: “tutto quello che serve”. La promessa della BCE di acquistare se necessario obbligazioni degli Stati interruppe quasi istantaneamente il panico nei mercati obbligazionari dell’Europa del Sud, restringendo in modo drastico lo spread con la Germania e definendo lo scenario per la crescita:

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L’altra cosa che è successa è stata la svalutazione interna – ovvero, la deflazione relativa da parte di paesi che, negli anni precedenti alla crisi, erano rimasti sopravvalutati per i flussi massicci di capitali e per l’inflazione. In particolare la Spagna ha gradualmente compresso i suoi costi del lavoro in rapporto all’area euro nel suo complesso:

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A sua volta, questo ha alimentato un grande boom delle esportazioni, particolarmente delle auto.

Dunque, tutto è bene quel che finisce bene? No. Durante gli anni della crisi, l’Europa Meridionale ha pagato un prezzo terribile. Il fatto che la svalutazione interna alla fine funzioni, dopo anni di elevata disoccupazione, non è né una sorpresa né un risarcimento per le vaste sofferenze nel periodo di transizione. Se c’è stata una sorpresa, è stata quella politica: la volontà dei gruppi dirigenti politici di pagare questo prezzo anziché rompere con l’euro.

Eppure è importante essere consapevoli che l’Europa del 2018 appare molto diversa dall’Europa del 2013. Almeno per adesso, l’Europa è tornata ad essere un sistema economico funzionante.

 

 

 

 

 

Quanto è grande l’affare che Trump sta facendo (per esperti)? (dal blog di Paul Krugman, 10 febbraio 2018)

febbraio 12, 2018

 

How Big a Bang for Trump’s Buck? (Wonkish)

Paul Krugman FEB. 10, 2018

 

Back in the days of austerity amidst depression, some of us spent a lot of time thinking and writing about fiscal multipliers. Reading Neil Irwin on the effects of the GOP’s new what-me-worry approach to deficits, I found myself thinking back to that discussion, and what it implies for the short-run economic impact. Specifically: what kind of multiplier effect should we expect to see here?

The most convincing evidence on multipliers, in my view, has always come from natural experiments: cases in which we know from the historical political record that governments were imposing large changes in taxes and/or spending, and we can see the effects of these fiscal shocks on growth relative to what was previously expected. (Attempts to use fancy statistical techniques to extract fiscal shocks have worked much less well.)

A lot of this work came from the IMF. In 2010 the Fund produced a report on austerity policies (Chapter 3) that was in effect a response to the “expansionary austerity” literature, using the historical record to assess past austerity policies. That analysis suggested a multiplier of about 0.5 – that is, a 1 point cut in government spending as a percentage of GDP would reduce output by half a percent.

However, past austerity took place under normal monetary conditions – that is, central banks could and did offset fiscal contraction by cutting interest rates. By contrast, austerity after 2009 took place in countries where interest rates were already zero and could not be cut further. You would expect the multiplier to be larger under these conditions, and sure enough, a variety of studies – most influentially Blanchard and Leigh – found a multiplier of around 1.5, three times as large. (Nakamura and Steinsson’s clever use of regional data on defense spending within the U.S. as a measure of the multiplier came up with a similar number.)

So now we have a stimulus from tax cuts and spending increases in an economy already down to 4 percent unemployment, where the Fed is already raising rates to head off potential inflation. That is, we’re looking at normal monetary conditions, where we’d expect a smallish multiplier.

 

Quanto è grande l’affare che Trump sta facendo (per esperti)? Di Paul Krugman

Nel passato periodo dell’austerità nel bel mezzo della depressione, alcuni di noi spesero molto tempo a ragionare e a scrivere sui moltiplicatori della spesa pubblica. Nel leggere Neil Irwin sugli effetti del nuovo approccio del Partito Repubblicano ai deficit (“non ce ne può importare di meno”), mi sono ritrovato a tornare a ragionare su quel dibattito, e su cosa esso implichi per l’impatto di breve periodo sull’economia. In particolare: che genere di effetto moltiplicatore dovremmo aspettarci in questo caso?

Secondo me, le prove più convincenti sui moltiplicatori sono sempre venute da esperimenti naturali: casi nei quali sappiamo dalle serie politiche della storia quando i Governi avevano deciso ampie modifiche nelle tasse o nelle spese pubbliche, e abbiamo potuto verificare gli effetti di questi shock della finanza pubblica sulla crescita in rapporto a quello che ci si era precedentemente immaginati (i tentativi di utilizzare sofisticate tecniche statistiche per dedurne shock nelle finanze pubbliche hanno funzionato molto meno bene).

Gran parte di questo lavoro deriva dal FMI. Nel 2010 il Fondo pubblicò un rapporto sulle politiche dell’austerità (Capitolo 3) che era in effetti una risposta alle tesi sull’ “austerità espansiva”, utilizzando le serie storiche per definire le passate politiche di austerità. Quell’analisi suggeriva un moltiplicatore di circa lo 0,5 – ovvero, un punto di tagli nella spesa pubblica come percentuale del PIL avrebbe ridotto la produzione di mezzo punto.

Tuttavia, l’austerità del passato aveva preso piede in condizioni monetarie normali – vale a dire che le banche centrali potevano bilanciare la contrazione della finanza pubblica tagliando i tassi di interesse, e in effetti lo fecero. All’opposto, l’austerità dopo il 2009 prese piede in paesi nei quali i tassi di interesse erano già allo zero e non potevano essere tagliati ulteriormente.  Vi sareste aspettati che il moltiplicatore, in queste condizioni, fosse più ampio, e di fatto una varietà di studi – il più influente quello di Blanchard e Leigh – scoprirono un moltiplicatore di circa 1,5, tre volte superiore (l’uso intelligente da parte di Nakamura e Steinsson dei dati regionali sulle spese nel settore della difesa all’interno degli Stati Uniti come misura del moltiplicatore giunsero ad un dato simile).

Dunque, adesso abbiamo uno stimolo per effetto di tagli fiscali e incrementi di spesa in un’economia che è già sotto il 4 per cento di disoccupazione, dove la Fed sta già rialzando i tassi per bloccare una inflazione potenziale. Ovvero, siamo in presenza a normali condizioni monetarie, con le quali ci dovremmo aspettare un moltiplicatore assai modesto.

 

 

 

 

 

 

Dategli da mangiare patatine fritte. (dal blog di Paul Krugman, 4 febbraio 2018)

febbraio 8, 2018

 

Let Them Eat French Fries

Paul Krugman FEB. 4, 2018

 

In a now-deleted tweet, which has nonetheless already become notorious, Paul Ryan tried to hype the benefits of his massive corporate tax cut by celebrating the example of a worker who’s getting $1.50 more per week. That’s roughly the price of a small French fries at McDonald’s.

Should we keep giving Ryan grief over that tweet? Yes, we should – and not just because it shows how out of touch he is. By highlighting the tiny tax cut some workers will get as if that were the point and main result of a bill that blows up the deficit by more than $1 trillion, he helps illustrate the bait-and-switch at the core of the whole G.O.P. agenda.

For tax cuts aren’t free. Sooner or later, the federal government has to pay its way. Even if you don’t think the budget deficit is currently a big problem, except under very special circumstances anything that reduces revenue will eventually have to be offset by later tax increases or spending cuts.

And those special circumstances – basically a depressed economy that needs a fiscal boost – don’t apply now, with the U.S. close to full employment.

So Ryan is patting himself on the back for giving a schoolteacher some French fries. What’s he planning to take away?

Well, we know the answer: Republicans constantly use the alleged dangers of budget deficits to argue for sharp cuts in social programs. You might have thought they’d lay off that rhetoric for a while after passing an unfunded $1.5 trillion tax cut, but in fact they barely paused; even at the height of the tax “reform” debate, people like Orrin Hatch declared that we can’t “spend billions and billions and trillions of trillions of dollars to help people who won’t help themselves.” Right now they’re dragging their feet on funding for community health centers, complaining about the cost.

So here’s how the bait and switch goes: pass a huge tax cut that overwhelmingly benefits the rich, but gives ordinary workers a few crumbs — or actually a bag of fries now and then. Then point to the big deficits created by that tax cut as a reason social programs essential to many ordinary families must be slashed. Lather, rinse, repeat.

It’s such an obvious scam that you might think either that its perpetrators would get embarrassed or that the public would get wise. But the first won’t happen. The second – well, we’ll see in November.

 

Dategli da mangiare patatine fritte, di Paul Krugman

In un tweet ora cancellato, che però ha già fatto in tempo a diventare famoso, Paul Ryan ha cercato di esaltare i vantaggi del suo massiccio taglio delle tasse celebrando l’esempio di un lavoratore che guadagna un dollaro e mezzo in più alla settimana. Grosso modo quanto costa da McDonald’s un pacchetto di patatine fritte.

Dovremmo insistere a punzecchiare Ryan per quel Tweet? Proprio così, dovremmo farlo – e non solo perché dimostra quanto sia fuori dalla realtà. Sottolineando il minuscolo sgravio fiscale che alcuni lavoratori incasseranno, come se quello fosse il senso e il principale risultato di una proposta di legge che fa scoppiare il deficit per più di mille miliardi di dollari, egli contribuisce a illustrare lo specchietto per le allodole che è al centro dell’intera agenda del Partito Repubblicano.

Perché i tagli al fisco non sono gratis. Presto o tardi, il Governo federale dovrà ripagarli a suo modo. Anche se non credete che il deficit di bilancio sia attualmente un grande problema, se non per circostanze molto particolari, tutto quello che riduce le entrate alla fine dovrà essere bilanciato da successivi aumenti delle tasse o tagli alla spesa.

E tali particolari circostanze – fondamentalmente un’economia depressa che ha bisogno di una spinta da parte della finanza pubblica – non si danno in questo momento, con gli Stati Uniti vicini alla piena occupazione.

Dunque, Ryan si dà una pacca sulle spalle perché concede ad un insegnante un po’ di patatine fritte? Cosa sta mettendo in conto di portar via?

Beh, conosciamo la risposta: i repubblicani usano costantemente i pretesi pericoli dei deficit di bilancio per bruschi tagli ai programmi sociali. Potevate aver pensato che avessero per un po’ smesso con quella retorica, dopo aver approvato un taglio alle tasse senza coperture di 1.500 miliardi di dollari, ma si erano solo presi una pausa: persino al culmine del dibattito sulla “riforma” del fisco, individui come Orrin Hatch dichiarava che non possiamo “spendere miliardi e miliardi e miliardi di migliaia di miliardi per aiutare gente che non vuole aiutarsi da sola”. Proprio adesso stanno tirandola alla lunga sul finanziamento dei centri di salute delle comunità, lamentandosi del costo.

È lì che porta il gioco degli specchietti per allodole: approvare un enorme sgravio fiscale dal quale traggono benefici in modo schiacciante i ricchi, ma dare ai normali lavoratori poche briciole – proprio un pacchetto di patatine di tanto in tanto. Poi indicare i grandi deficit creati da quegli sgravi fiscali come il motivo per il quale devono essere tagliati i programmi sociali vitali per molte famiglie comuni. Insaponare, risciacquare, ripetere l’operazione [1].

È un imbroglio così chiaro che potreste pensare che i suoi autori abbiano un certo imbarazzo o che l’opinione pubblica sia diventata accorta. Ma la prima cosa non è destinata a succedere. Per la seconda – beh, lo vedremo a novembre.

 

 

 

 

[1] “Lather, rinse, repeat” è una espressione idiomatica che allude al linguaggio pubblicitario di alcune marche di shampoo (il “repeat” pare fosse semplicemente un buon modo per consumare prima il prodotto e venderne di più).

 

 

 

 

 

 

Le cattive notizie nelle buone notizie (dal blog di Paul Krugman, 2 febbraio 2018)

febbraio 6, 2018

The Bad News in the Good News

Paul Krugman FEB. 2, 2018

 

This morning’s job market report was definitely good. Job creation was surprisingly strong for this late in an economic expansion; wages are finally rising, although still far more slowly than they were before the Great Recession. You never want to make too much of one month’s report, but this was clearly positive.

And stocks plunged. What?

One answer is that stocks gonna do what they’re gonna do – as Paul Samuelson famously put it, the market predicted nine of the last five recessions. But there’s a bit of economic logic here too. One way of looking at recent economic data is that they’re actually telling us that future U.S. growth will be lower than one might have hoped.

If we care about the medium term – say, 5 or 10 years – prospects for U.S. growth depend on two things. First, how much slack is there in the economy? How many people who aren’t working can still be drawn into employment without inflation taking off?

Second, how fast will productivity – output per person-hour – rise?

The first question has posed something of a puzzle. Standard indicators like the unemployment rate and the quit rate suggest an economy at more or less full employment. (Quits matter because they tell us how easily workers expect to find new jobs.) But low wage growth suggested that there might still be substantial room to run.

Now, finally, we may be seeing some significant wage gains:

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Again, you don’t want to make too much of one month’s number. But the wage gain strengthens the case that we really are near full employment; interest rates rose because the odds of Fed rate hikes to limit inflation have risen. And that hit stocks.

Meanwhile, productivity numbers have been pretty dismal:

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So what the data are suggesting, although not with a lot of confidence, is that America is about to settle into a low-growth rut, maybe 1.5% a year. And yes, that’s only half what Trump is promising.

 

Le cattive notizie nelle buone notizie,

di Paul Krugman

 

Il rapporto di stamane sul mercato del lavoro è certamente positivo. La creazione di posti di lavoro è stata sorprendentemente forte per questo periodo tardivo della espansione economica; i salari stanno finalmente crescendo, sebbene ancora assai più lentamente di quanto facevano prima della Grande Recessione. Non si dovrebbe mai attribuire troppo significato al rapporto di un mese, ma questo è stato chiaramente positivo.

E le azioni stanno crollando. Come è possibile?

Una risposta è che le azioni si comportano come si comportano – come si espresse notoriamente Paul Samuelson, il mercato ha previsto nove delle ultime cinque recessioni. Ma anche in questo c’è un po’ di logica economica. Un modo di guardare ai recenti dati dell’economia è che essi ci stanno dicendo che la crescita futura degli Stati Uniti sarà più bassa di quanto non ci si sarebbe aspettati.

Se ci occupiamo del medio termine – diciamo, 5 o 10 anni – le prospettive di crescita degli Stati Uniti dipendono da due fattori. Il primo, quanto è fiacca l’economia? Quante persone che non stanno lavorando possono ancora essere attratte nell’occupazione, senza che decolli l’inflazione?

Il secondo, con quanta velocità crescerà la produttività – la produzione per ora lavorativa di una persona?

La prima domanda ha costituito una specie di enigma. Gli indicatori consueti come il tasso di disoccupazione e il tasso di abbandono dei passati posti di lavoro indicano un’economia più o meno di piena occupazione (gli abbandoni sono importanti perché ci dicono quanto facilmente i lavoratori si aspettano di trovare nuovi posti di lavoro). Ma la bassa crescita dei salari indicava che lo spazio per correre poteva ancora essere sostanziale.

Adesso, finalmente, possiamo osservare qualche significativo miglioramento nei salari:

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Lo ripeto, non si può dare troppa importanza al dato di un mese. Ma il miglioramento dei salari rafforza l’ipotesi che siamo realmente vicini alla piena occupazione; i tassi di interesse salgono perché le probabilità che la Fed aumenti il tasso di riferimento per limitare l’inflazione sono cresciute. E questo influisce sulle azioni.

Nel contempo, i dati sulla produttività sono stati abbastanza scadenti:

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Dunque, quello che i dati ci stanno suggerendo, sebbene non con assoluta certezza, è che l’America è prossima ad abituarsi ad una monotonia di bassa crescita, forse l’1,5% all’anno. Ed è vero che questa è solo la metà di quello che Trump sta promettendo.

 

 

 

 

 

Peggio che per Willy Horton (dal blog di Paul Krugman, 31 gennaio 2018)

febbraio 6, 2018

 

Worse Than Willy Horton

Paul Krugman JAN. 31, 2018

 

A lot of Trump’s speech — and an even greater share of the emotional energy, since he seemed bored reciting misleading economic numbers — was devoted to lamenting a wave of violent crime by immigrants. Was this racist? Yes, of course. But saying that doesn’t capture the full evil of what he was doing (and I use the term “evil” advisedly).

For he wasn’t exaggerating a problem, or placing the blame on the wrong people. He was inventing a problem that doesn’t exist, and using that imaginary problem to demonize brown people.

Racist dog-whistles are, of course, nothing new in American politics. Indeed, much of the rise of the modern, far-right GOP rested on the politics of racial division, with even “respectable” Republicans perfectly willing to exploit racial fear and hostility — most famously, Bush the elder’s Willy Horton ad.

But here’s the thing: back in the 70s and 80s there really was a crime wave, and a lot of it did involve blacks. That’s no excuse for racism, let alone the cynical political exploitation of that racism. But at least the panic was about something real.

This time, by contrast, there is no crime wave — there have been a few recent bobbles, but many of our big cities have seen both a surge in the foreign-born population and a dramatic, indeed almost unbelievable, decline in violent crime:

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FBI

Most notably of all, New York — once the emblem of the supposed collapse of law and order — is safer than it has ever been, despite being run by a mayor who, strange to say, has tried to rein in racist behavior by the police.

So Trump wants us to be scared of brown people based on nothing at all. That’s really ugly.

 

Peggio che per Willy Horton,

di Paul Krugman

 

Una gran parte del discorso di Trump – e una parte anche maggiore della sua energia emotiva, dato che egli sembrava annoiarsi recitando disorientanti numeri economici – è stata dedicata a lamentare un’ondata di crimini violenti da parte di immigrati. Un atteggiamento razzista? Ovviamente sì. Ma dir così non esprime pienamente il male di quello che faceva (e uso il termine “male” a buona ragione).

Perché non stava esagerando un problema, o dandone la colpa alle persone sbagliate. Stava inventandosi un problema che non esiste, e usando quel problema immaginario per demonizzare la gente di colore.

Naturalmente, i richiami razzisti non sono una novità nella politica americana. Infatti, gran parte della ascesa dell’attuale Partito Repubblicano di estrema destra si è basata sulla politica della divisione razziale, con anche i repubblicani “rispettabili” perfettamente disponibili a sfruttare il timore e l’ostilità razziale – il caso più famoso, la propaganda di Bush padre su Willy Horton [1].

Ma il punto è proprio lì: nei passati anni ’70 e ’80 c’era davvero un’ondata di criminalità, e in gran parte riguardava i neri. Questo non scusa il razzismo, per non dire il cinico sfruttamento di quel razzismo. Ma almeno il panico era per qualcosa di reale.

Oggi, all’opposto, non c’è alcuna ondata di criminalità – ci sono stati pochi casi recenti di individui fuori di testa [2], ma molte delle nostre grandi città hanno conosciuto sia una crescita di comunità straniere che uno spettacolare, in effetti quasi incredibile, declino dei crimini violenti:

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FBI [3]

Il caso più rilevante, New York – una volta l’emblema del presunto collasso della legge e dell’ordine – è più sicura di quanto non sia mai stata, nonostante sia amministrata da un sindaco che, strano a dirsi, abbia cercato di tenere a freno comportamenti razzisti da parte della polizia.

Dunque Trump vuole che si sia terrorizzati dalla gente di colore basandosi su nulla. Il che è davvero disgustoso.

 

 

 

 

[1] Willy Horton era un individuo di colore che uscì da un carcere del Massachusetts per un permesso provvisorio e commise un nuovo crimine, nel 1988. Nella competizione elettorale tra Bush senior e Dukakis, il primo sfruttò efficacemente quel pretesto contro il candidato democratico e vinse le elezioni. Vorrei notare che è significativo che nella memoria dei progressisti questo sia rimasto come un episodio particolarmente indicativo di una brutale predisposizione ad argomenti razzistici nella lotta politica; in fondo Horton aveva commesso crimini veri, mentre il nigeriano che è stato all’origine di un regolamento di conti da parte di un fascista a Macerata contro persone di colore non sembra essere accusato di omicidio. Ma editoriali di giornali ‘benpensanti’ non trovano strano che il secondo episodio sia usato come argomento per definire tutti gli immigrati come una “bomba a orologeria”.

[2] Non sono riuscito a trovare un significato certo del termine “bobbles”, in particolare riferito a persone di colore. Il “bobble” è un copricapo con un piccolo pennacchio, ed ho pensato che potrebbe essere riferito ad una certa predilezione per tale abbigliamento da parte di giovani persone di colore o anche di individui marginali. Ma non ho trovato alcuna conferma. Ma “bobble-head” pare che si possa riferire a persone che somigliano a pupazzi, e possa significare anche “individui fuori di testa, casi clinici, rimbambiti”.

[3] La tabella a cura dell’FBI è relativa al “tasso di omicidi” negli Stati Uniti, nel periodo tra il 1960 e il 2014.

 

 

 

 

 

Le infrastrutture di Trump sono un inganno (dal blog di Paul Krugman, 30 gennaio 2018)

febbraio 6, 2018

 

Trumpfrastructure Is a Scam

Paul Krugman JAN. 30, 2018

 

Trump’s main goal in the State of the Union speech was to sound serious and presidential. Did he succeed? I don’t think so – I found the fear-mongering over immigrant crime disgusting. But mostly I don’t care. I’ve never seen much merit in the theater-criticism school of political punditry.

What matters is the substance, of which, let’s be honest, there usually isn’t much in a SOTU. Still, Trump was trying to sound as if he was offering serious new policy initiatives, notably on infrastructure.

So let’s be clear: while we desperately need new investment in public capital, Trump’s proposal – Trumpfrastructure? – isn’t remotely serious. At best, it would be a trivial sum of money pretending to be something big. At worst, it would amount to an orgy of crony capitalism, privatizing public assets while generating little new investment.

So, what’s being sold here? Trump gave a big number, $1.5 trillion. But a leaked draft of the plan says that it will involve only $200 billion of federal money. The rest is supposed to be induced spending from private investors. That’s quite a trick. How does it work?

The answer is, basically, that it doesn’t. Private investors won’t spend on public infrastructure unless guaranteed a return. This only works if they’re given ownership, and the ability to collect future revenue from the public.

First point: lots of infrastructure just can’t work that way. There’s no way to turn sewer systems, protective levees on rivers, and lots of other stuff into profit centers.

Second, even where it does work — say, on toll roads and bridges — that private investment doesn’t come free; it’s in return for the ability to collect fees from the public, which is just taxation in another form. And there’s no evidence that doing public investment this way saves any money. On the contrary, it usually ends up costing taxpayers more than just having the government build the thing.

Wait, it gets worse. Where does even the $200 billion come from? It’s not at all clear that it’s new money; much of it would probably be money that would have been spent on public projects anyway.

What this means is that we aren’t talking about a program to build infrastructure so much as a plan to convert what should have been public projects into private ventures, presumably with big tax breaks.

And who would get in on these lucrative privatization schemes? Do we even have to ask?

 

Le infrastrutture di Trump sono un inganno,

di Paul Krugman

Il principale obbiettivo di Trump nel discorso sullo Stato dell’Unione era apparire serio e ‘presidenziale’. C’è riuscito? Io non lo penso – ho trovato disgustoso il suo seminare paure sui crimini degli immigrati. Ma soprattutto non mi interessa. Non ho mai dato molto credito alla scuola da critiche da teatro dei commentatori politici.

Quello che conta è la sostanza, che come al solito non abbonda nei discorsi sullo Stato dell’Unione. Eppure Trump stava cercando di apparire come se stesse offrendo nuove serie iniziative politiche, in particolare sulle infrastrutture.

Siamo chiari, dunque: mentre abbiamo disperatamente bisogno di nuovi investimenti nel capitale pubblico, la proposta di Trump – la vogliamo chiamare ‘Trumpfrastruttura’ [1]? –  non è neanche lontanamente seria. Nel migliore di casi è una quantità modesta di denaro che si finge sia qualcosa di cospicuo. Nel peggiore dei casi corrisponde ad un’orgia di capitalismo clientelare, che privatizza asset pubblici nel mentre genera pochi nuovi investimenti.

Dunque, cosa ci viene rivenduto in questo caso? Trump ha sparato un grande numero, 1.500 miliardi di dollari. Ma una bozza fatta trapelare del programma dice che esso riguarderà soltanto 200 miliardi di dollari di risorse federali. Il resto si suppone sia una spesa indotta da parte di investitori privati. È più o meno una fregatura. Come funziona?

Fondamentalmente, la risposta è che non funziona. Gli investitori privati non investiranno in infrastrutture pubbliche se non hanno garantito un rendimento. Il tutto funziona se gli verrà data la proprietà, e dalla successiva capacità di raccogliere entrate dal pubblico degli utenti.

Primo punto: molte infrastrutture semplicemente non funzionano in quel modo. Non c’è modo di rivolgersi ai centri di profitto per i sistemi delle fognature, per gli argini dei fiumi e per una quantità di altre cose.

In secondo luogo, anche laddove funzionasse – diciamo sulle autostrade e sui ponti a pedaggio – quell’investimento privato non sarebbe gratis; esso verrebbe in cambio della possibilità di raccogliere canoni dal pubblico, che non sono niente altro che tasse in un’altra forma. E non c’è prova che facendo un investimento pubblico in tali modi, esso sarebbe un risparmio di soldi. Al contrario, di solito esso finisce col costare ai contribuenti che avere soltanto il Governo che provvede.

Ma un momento, è peggio ancora. Da dove vengono persino i 200 miliardi? Non è affatto chiaro che si tratti di finanziamenti aggiuntivi, gran parte di essi sarebbero probabilmente soldi che sarebbero stati spesi in ogni caso in progetti pubblici.

Il che significa che non stiamo parlando di un programma per costruire infrastrutture quanto di un piano per convertire quelli che sarebbero stati progetti pubblici in rischiose imprese private, presumibilmente con grandi sgravi fiscali.

E a chi andrebbero questi schemi di privatizzazioni redditizi? È il caso di fare la domanda?

 

 

 

 

 

[1] Queste invenzioni di parole tramite accostamento dell’oggetto al nome dell’uomo politico a noi appaiono tra il fantasioso e il cervellotico. Ma piacciono molto agli americani: Obamacare, Reaganomics, Abenomics etc. etc.

 

 

 

 

 

Che cosa i dati economici non ci dicono, (dal blog di Paul Krugman, 28 gennaio 2018)

gennaio 30, 2018

 

What the Economic Data Don’t Tell Us

Paul Krugman JAN. 28, 2018

 

It’s a sure thing that Donald Trump will spend much of his State of the Union boasting about the economy. So this seems like a good time for a refresher on some basic macroeconomics – and the reasons why the expansion of 2017, which continued the long expansion that began in 2010, is in no sense a justification for wildly optimistic growth projections looking forward.

As a reminder, the Trump Treasury department claims that tax cuts will pay for themselves because the economy will grow at almost 3 percent a year for the next decade. This growth projection didn’t come from any model; it was just pulled out of … well, you fill in the rest. But every time there’s a good quarter of growth, the usual suspects take time off from talking about deep state conspiracies to claim that the forecast is coming true. Why is this nonsense?

First, you need to know that quarter-to-quarter and even year-to-year growth rates are very variable. The economy grew at a 5 percent annual rate during much of the Carter administration (how many people know that?); it grew around 4 percent during the second Clinton administration:

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What’s behind these growth fluctuations? The business cycle. Potential output – the economy’s productive capacity – grows fairly smoothly. But recessions leave some of that capacity idle, and the economy can temporarily grow fast as that capacity is put back to use. The unemployment rate is an imperfect measure of idle capacity; still, there’s a strong relationship – Okun’s Law – between changes in the unemployment rate – capacity going into or out of use – and short-run economic growth.

The thing is, however, that we’re currently close to full employment. The unemployment rate is historically low. Other indicators, like the rate at which workers are quitting jobs (a sign of how confident they are of finding new jobs) also point to a more or less full employment economy. Wage growth and inflation are still subdued, but it’s still unlikely that unemployment can fall a lot from here. This means that growth over the next decade will have to come from rising capacity, meaning growth in potential output.

So is there any sign that potential output growth is anywhere near 3 percent, or in fact that it has accelerated? No. Here’s Okun’s Law for the past decade:

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The relationship isn’t perfect, because this is economics, but it’s pretty strong. It suggests a potential growth rate – growth consistent with constant unemployment – of maybe 1.5 percent. And 2017 isn’t an outlier.

Why is potential growth so low? Unfavorable demographics are one big culprit: the baby-boomers are getting old (you kids get off my lawn), so the working-age population is barely growing. Oh, and cracking down on immigration is, you know, not likely to help on that front.

Productivity growth is also lackluster, despite all the hype about robots and all that.

So if you think about it, 2017 offers no evidence to support big talk about future growth. On the contrary, the fact that unemployment declined despite not-so-fast growth is a sign that growth will be a lot slower going forward, now that we don’t have a lot of unemployed Americans to put back to work.

 

Che cosa i dati economici non ci dicono,

di Paul Krugman

È certo che Donald Trump spenderà buona parte del discorso sullo Stato dell’Unione a vantarsi dell’economia. Questo dunque sembra un momento opportuno per un aggiornamento su alcuni aspetti di base della macroeconomia – e sulle ragioni per le quali l’espansione del 2017, che ha proseguito la lunga espansione che cominciò nel 2010, non è in alcun senso una giustificazione per dissennate previsioni ottimistiche sulla crescita del futuro.

Come promemoria, le pretese del Dipartimento del Tesoro di Trump secondo le quali i tagli delle tasse si ripagheranno da soli perché l’economia nel prossimo decennio crescerà di quasi il 3 per cento all’anno. Questa previsione di crescita non è derivata da alcun modello; è stata tirata fuori … beh, riempite voi il resto. Ma ogni volta che c’è un buon trimestre di crescita, i soliti noti si prendono una pausa dal parlare di gravi cospirazioni allo Stato per sostenere che la previsione si sta avverando. Perché si tratta di una sciocchezza?

In primo luogo dovete sapere che i tassi di crescita trimestre su trimestre e persino anno su anno sono estremamente variabili. L’economia crebbe ad un tasso annuale del 5 per cento durante buona parte della Amministrazione Carter (in quanti lo sanno?); crebbe attorno al 4 per cento durante la seconda Amministrazione Clinton:

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Cosa c’è dietro queste fluttuazioni della crescita? Il ciclo economico. La produzione potenziale – la capacità produttiva dell’economia – cresce abbastanza regolarmente. Ma le recessioni lasciano un po’ di quella capacità produttiva nell’inerzia, e l’economia può crescere temporaneamente in modo veloce quando quella capacità è rimessa in uso. Il tasso di disoccupazione è una misura imperfetta della capacità produttiva inutilizzata; inoltre, c’è una forte relazione – la Legge di Okun [1] – tra i mutamenti nel tasso di disoccupazione – la capacità che esce o rientra in uso – e la crescita economica di breve periodo.

Il punto è, tuttavia, che attualmente siamo vicini alla piena occupazione. Il tasso di disoccupazione è storicamente basso. Anche altri indicatori, come il tasso al quale i lavoratori lasciano le loro occupazioni (un segno di quanto sono fiduciosi di trovarne di nuove) indicano un’economia più o meno di piena occupazione. La crescita salariale e l’inflazione sono ancora tenui, ma resta improbabile che la disoccupazione possa scendere molto dal punto in cui si trova. Questo significa che la crescita nel prossimo decennio dovrà venire da una crescente capacità produttiva, ovvero come crescita della produzione potenziale.

C’è dunque qualche segno che la crescita della produzione potenziale sia dappertutto vicina al 3 per cento, o che di fatto sia accelerata? No. Ecco l’andamento della Legge di Okun nel decennio passato:

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[2]

La relazione non è perfetta, perché si tratta di economia, ma è abbastanza forte. Essa indica un tasso di crescita potenziale – crescita coerente con una disoccupazione costante – attorno all’1,5 per cento. E il 2017 non è una eccezione.

Perché la crescita potenziale è così bassa? Una grande causa è la demografia sfavorevole: la generazione dei baby-boomers sta diventando anziana (ragazzi, fuori dal mio giardino! [3]), cosicché la popolazione in età lavorativa cresce appena. Ragione per cui, sapete, il giro di vite sugli immigrati non è probabile che su quel fronte sia di alcun aiuto. Anche la crescita della produttività è fiacca, nonostante il gran chiasso sui robot e su tutto il resto.

Cosicché, se ci riflettete, il 2017 non offre alcuna prova a sostegno del gran parlare della crescita futura. Al contrario, il fatto che la disoccupazione sia calata nonostante una crescita non così veloce è un segno che la crescita sarà un bel po’ più lenta andando avanti, ora che non abbiamo più una gran quantità di americani disoccupati da rimettere al lavoro.

 

 

 

[1] In economia, la legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962) è una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia con le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazione diminuirà in misura meno che proporzionale. Negli Stati Uniti durante il periodo che va dal 1965, questa legge ha interpretato la situazione economica, stabilendo che per ogni punto percentuale del tasso di disoccupazione, o meglio del tasso naturale di disoccupazione, il PIL reale si riduce dai 2 ai 3 punti percentuali. (Wikipedia)

 

[2] La tabella mostra i dieci anni del decennio considerato (i puntini blu, tra i quali viene evidenziato quello relativo al 2017). Sulla linea verticale la crescita del PIL, su quella orizzontale le variazioni della disoccupazione. Come si vede ci sono tre anni nei quali la disoccupazione cresce anche considerevolmente (il 2008, il 2009 e il 2010, probabilmente); un anno nel quale resta immutata, gli altri anni nei quali cala per effetto della ripresa (la recessione americana durò un biennio, anche se la ripresa non fu velocissima). Ogni puntino blu indica due valori: la crescita o la decrescita del PIL, la crescita o la decrescita della disoccupazione. La linea blu tratteggiata indica la mediana dell’intero periodo.

[3] Si tratta di una frase idiomatica vecchia di un secolo; letteralmente indica una persona anziana che ammonisce dei fanciulli a non calpestare il suo giardino. Ma in termini più generali suppongo sia anche un modo ironico per indicare l’età di chi la pronuncia. In questo caso, ad esempio, indica che Krugman ha memoria di cosa fosse il periodo post-bellico del boom dei figli (la generazione dei baby-boomers), diversamente da molti suoi lettori.

 

 

 

 

 

 

L’economia spendacciona (dal blog di Paul Krugman, 26 gennaio 2018)

gennaio 30, 2018

 

The Spendthrift Economy

Paul Krugman JAN. 26, 2018

 

I haven’t been paying a lot of attention to quarterly GDP numbers. For one thing, they do tend to bounce around a lot; for another, claims that a good number in a particular quarter somehow validates the Trumpian claim to be able to achieve high growth for a decade are almost too stupid to argue with.

But there are a couple of points I think are worth making about growth over the past year.

First, as Jason Furman notes, a good part of the 2.5% growth seems to be cyclical – the result of the economy moving closer to full employment, not a pickup in the underlying growth rate of potential output, which looks more like 1% than the 3% Trump et al need to make their numbers work.

Second, as Jason also notes, that cyclical expansion doesn’t look too healthy when you look at it closely. It is not being driven mainly by rising business investment. Here’s biz investment as a share of GDP in recent years: it bounces around some, largely because of the rise, fall, and partial recovery of fracking, but is not especially high:

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What we see instead is a large decline in personal savings, which are now down to levels not seen since before the financial crisis:

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Why is saving down? Maybe it’s the stock market (which is starting to feel more like a bubble than it did even a few months ago), maybe it’s eat, drink, and be merry, for tomorrow we have a constitutional crisis/a nuclear war/Skynet kills us all. Whatever: saving can’t keep falling, and you wonder whether households are getting overstretched again.

I’m not predicting a crisis; this doesn’t look nearly as bad as the U.S. economy in the housing bubble years. (And I’m trying extra hard, given my election night freakout, not to let my political dismay distort my economic judgment.) But as I said, this growth doesn’t look very healthy.

 

L’economia spendacciona,

di Paul Krugman

Non ho prestato molta attenzione ai dati trimestrali del PIL. Da una parte, essi tendono davvero ad andare molto su e giù; dall’altra, gli argomenti per i quali un buon dato in un particolare trimestre convalidi la pretesa di Trump di essere capace di realizzare una crescita elevata per un decennio sono praticamente troppo stupidi per discuterne.

Ma ci sono un paio di aspetti che penso meriti avanzare sulla crescita nel corso dell’anno passato.

In primo luogo, come osserva Jason Furman, una buona parte della crescita del 2,5 per cento sembra essere ciclica – il risultato di un’economia che si avvicina alla piena occupazione, non una risalita del sottostante tasso di crescita della produzione potenziale, che pare più probabile si collochi nei pressi dell’1% che non del 3%. Trump e compagnia hanno bisogno di far funzionare i loro dati.

In secondo luogo, come osserva anche Jason, quando la guardate attentamente quella espansione ciclica non sembra molto sana. Essa non è guidata principalmente da una crescita degli investimenti di impresa. Ecco, negli anni recenti, l’investimento delle imprese come percentuale del PIL: esso balzella avanti e indietro, in gran parte a causa della crescita, della caduta e della parziale ripresa della industria della fratturazione degli scisti bituminosi, ma non è particolarmente elevato:

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Quello che invece è in ampia caduta sono i risparmi individuali, che adesso sono in basso a livelli non visti da prima della crisi finanziaria:

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Perché i risparmi scendono? Forse per il mercato azionario (che sta cominciando a dare maggiormente l’impressione di una bolla di quanto non facesse persino pochi mesi fa), forse dipende dalla spensieratezza, dal fatto che si annuncia una crisi costituzionale/una guerra nucleare/una ecatombe provocata da Skynet [1]. In ogni modo: i risparmi non possono continuare a scendere, e c’è da chiedersi se le famiglie non stiano di nuovo diventando troppo stressate.

Non sto prevedendo una crisi; tutto questo non sembra lontanamente così negativo da come era l’economia statunitense negli anni della bolla immobiliare (e io sto cercando in tutti i modi, considerato come uscii dai gangheri la notte delle elezioni, di non consentire al mio sconcerto per i fatti della politica di distorcere il mio giudizio economico [2]). Ma, come ho detto, questa crescita non sembra molto sana.

 

 

 

 

[1] Skynet è un’immaginaria rete di supercomputer descritta nel ciclo cinematografico di Terminator.

[2] Nella notte delle elezioni Krugman ipotizzò che la vittoria di Trump avrebbe portato ad una crisi dell’economia. Dopo poche ore si scusò per l’esagerazione. Ma quell’eccesso gli ha comunque provocato un “premio” da parte di Trump per la più grande ‘falsa notizia’ dell’anno.

 

 

 

 

 

I “Non-so-nulla” del Ventunesimo Secolo, (dal blog di Paul Krugman, 15 gennaio 2018)

gennaio 16, 2018

 

Know-Nothings for the 21st Century

Paul Krugman JAN. 15, 2018

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Portrait of a young man, circa 1864, representing the nativist ideal of the Know Nothing party.

 

 

These days calling someone a “know-nothing” could mean one of two things.

If you’re a student of history, you might be comparing that person to a member of the Know Nothing party of the 1850s, a bigoted, xenophobic, anti-immigrant group that at its peak included more than a hundred members of Congress and eight governors. More likely, however, you’re suggesting that said person is willfully ignorant, someone who rejects facts that might conflict with his or her prejudices.

The sad thing is that America is currently ruled by people who fit both definitions. And the know-nothings in power are doing all they can to undermine the very foundations of American greatness.

The parallels between anti-immigrant agitation in the mid-19th century and Trumpism are obvious. Only the identities of the maligned nationalities have changed.

After all, Ireland and Germany, the main sources of that era’s immigration wave, were the shithole countries of the day. Half of Ireland’s population emigrated in the face of famine, while Germans were fleeing both economic and political turmoil. Immigrants from both countries, but the Irish in particular, were portrayed as drunken criminals if not subhuman. They were also seen as subversives: Catholics whose first loyalty was to the pope. A few decades later, the next great immigration wave — of Italians, Jews and many other peoples — inspired similar prejudice.

 

And here we are again. Anti-Irish prejudice, anti-German prejudice, anti-Italian prejudice are mostly things of the past (although anti-Semitism springs eternal), but there are always new groups to hate.

But today’s Republicans — for this isn’t just about Donald Trump, it’s about a whole party — aren’t just Know-Nothings, they’re also know-nothings. The range of issues on which conservatives insist that the facts have a well-known liberal bias just keeps widening.

One result of this embrace of ignorance is a remarkable estrangement between modern conservatives and highly educated Americans, especially but not only college faculty. The right insists that the scarcity of self-identified conservatives in the academy is evidence of discrimination against their views, of political correctness run wild.

Yet conservative professors are rare even in hard sciences like physics and biology, and it’s not difficult to see why. When the more or less official position of your party is that climate change is a hoax and evolution never happened, you won’t get much support from people who take evidence seriously.

But conservatives don’t see the rejection of their orthodoxies by people who know what they’re talking about as a sign that they might need to rethink. Instead, they’ve soured on scholarship and education in general. Remarkably, a clear majority of Republicans now say that colleges and universities have a negative effect on America.

So the party that currently controls all three branches of the federal government is increasingly for bigotry and against education. That should disturb you for multiple reasons, one of which is that the G.O.P. has rejected the very values that made America great.

Think of where we’d be as a nation if we hadn’t experienced those great waves of immigrants driven by the dream of a better life. Think of where we’d be if we hadn’t led the world, first in universal basic education, then in the creation of great institutions of higher education. Surely we’d be a shrunken, stagnant, second-rate society.

And that’s what we’ll become if modern know-nothingism prevails.

I’ve been rereading an important 2012 book, Enrico Moretti’s “The New Geography of Jobs,” about the growing divergence of regional fortunes within the United States. Until around 1980, America seemed on the path toward broadly spread prosperity, with poor regions like the Deep South rapidly catching up with the rest. Since then, however, the gaps have widened again, with incomes in some parts of the nation surging while other parts fall behind.

Moretti argues, rightly in the view of many economists, that this new divergence reflects the growing importance of clusters of highly skilled workers — many of them immigrants — often centered on great universities, that create virtuous circles of growth and innovation. And as it happens, the 2016 election largely pitted these rising regions against those left behind, which is why counties carried by Hillary Clinton, who won only a narrow majority of the popular vote, account for a remarkable 64 percent of U.S. G.D.P., almost twice as much as Trump counties.

Clearly, we need policies to spread the benefits of growth and innovation more widely. But one way to think of Trumpism is as an attempt to narrow regional disparities, not by bringing the lagging regions up, but by cutting the growing regions down. For that’s what attacks on education and immigration, key drivers of the new economy’s success stories, would do.

So will our modern know-nothings prevail? I have no idea. What’s clear, however, is that if they do, they won’t make America great again — they’ll kill the very things that made it great.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I “Non-so-nulla” del Ventunesimo Secolo,

di Paul Krugman

Al giorno d’oggi, chiamare qualcuno “Non-so-nulla” può significare una di queste due cose.

Se siete uno studente, potreste voler paragonare quella persona al Partito del “Non-so-nulla” degli anni attorno al 1850, un gruppo fazioso, xenofobo, contro gli immigranti che nel suo fulgore comprendeva più di un centinaio di membri del Congresso e otto Governatori. È più probabile, tuttavia, che vogliate suggerire che tale persona è un ostinato ignorante, qualcuno che respinge i fatti che potrebbero entrare in conflitto con i suoi pregiudizi.

La cosa triste è che l’America è attualmente governata da individui che calzano alla perfezione con entrambe le definizioni. E i “Non-so-nulla” al potere stanno facendo tutto il possibile per mettere a repentaglio i veri fondamenti della grandezza americana.

I paralleli tra l’agitazione contro gli immigranti nella metà del diciannovesimo secolo e il trumpismo sono evidenti. Sono cambiati solo i riferimenti delle nazionalità diffamate.

In fin dei conti, l’Irlanda e la Germania, le principali fonti delle ondate migratorie di quell’epoca, erano i ‘paesi cesso’ all’ordine del giorno [1]. Metà della popolazione dell’Irlanda emigrò a fronte della carestia, mentre i tedeschi erano in fuga sia dal subbuglio economico che da quello politico. Gli immigranti di entrambi i paesi, ma gli irlandesi in particolare, venivano descritti come criminali ubriachi se non come subumani. Erano anche considerati sovversivi: cattolici soprattutto fedeli al Papa. Alcuni decenni dopo, la successiva grande ondata migratoria – degli italiani, degli ebrei e di molti altri popoli – ispirava simili pregiudizi.

E siamo di nuovo a quel punto. Il pregiudizio contro gli irlandesi, quello contro i tedeschi e quello contro gli italiani sono soprattutto cose del passato (sebbene il pregiudizio antisemita zampilli eternamente), ma ci sono sempre nuovi gruppi da odiare.

Sennonché i repubblicani odierni – la cosa non riguarda soltanto Donald Trump, riguarda il partito nel suo complesso – non sono solo i “Non-so-nulla” di quella tradizione storica, sono anche “non-so-nulla” letterali. La gamma dei temi sui quali i conservatori ribadiscono che i fatti hanno una ben nota inclinazione progressista continua proprio ad allargarsi.

Un risultato di questo sposare l’ignoranza è una rilevante separazione tra i conservatori contemporanei e gli americani di elevata istruzione, specialmente, ma non solo, quelli delle facoltà universitarie. La destra insiste che la scarsità di coloro che si definiscono conservatori negli ambienti accademici è la prova della discriminazione contro i loro punti di vista, del ‘politicamente corretto’ che dilaga.

Tuttavia i professori conservatori sono molto rari persino nelle scienze naturali come fisica e biologia, e non è difficile capire perché. Quando la più o meno ufficiale posizione del vostro partito è che il cambiamento climatico è una bufala e l’evoluzione non c’è mai stata, non avrete molto sostegno dalle persone che prendono sul serio le prove.

Ma i conservatori non considerano il rigetto delle loro ortodossie da parte di persone che sanno di cosa parlano, come un segno che forse dovrebbero pensarci meglio. Piuttosto, sono irritati con il sapere e con l’istruzione in generale. È rilevante che una chiara maggioranza di repubblicani adesso dica che i college e le università [2] hanno un effetto negativo sull’America.

Dunque, il Partito che attualmente controlla i tre rami del Governo Federale è sempre più favorevole al fanatismo e ostile alla istruzione. Il che dovrebbe preoccuparvi per varie ragioni, una delle quali è che il Partito Repubblicano rigetta i veri valori che hanno reso grande l’America.

Si pensi a dove saremmo come nazione se non avessimo conosciuto quelle grandi ondate di immigranti guidati dal sogno di una vita migliore. Si pensi a dove saremmo se non avessimo guidato il mondo, prima di tutto nella istruzione universale di base, poi nella creazione di grandi istituti di educazione superiore. Sicuramente saremmo una società rinsecchita, stagnante, di secondo livello.

Ed è quello che diventeremo, se il “non –so-nulla” odierno prevarrà.

Ho riletto un importante libro del 2012, “La nuova geografia dei posti di lavoro” di Enrico Moretti [3], sulla crescente divergenza delle fortune regionali all’interno degli Stati Uniti. Sino a circa il 1980, l’America sembrava sulla strada di una prosperità ampiamente diffusa, con regioni povere come il Profondo Sud che stavano raggiungendo tutte le altre. Da allora, tuttavia, i divari si sono nuovamente allargati, con i redditi che salivano in alcune parti della nazione, mentre in altre restavano indietro.

Moretti sostiene, giustamente secondo l’opinione di molti economisti, che questa nuova divergenza riflette la crescente importanza di distretti con lavoratori altamente specializzati – molti dei quali immigranti – spesso centrati su grandi Università, che creano circoli virtuosi di crescita e di innovazione. E accade che le elezioni del 2016 abbiano in gran parte messo in competizione queste regioni in crescita contro quelle rimaste indietro, che è il motivo per il quale le contee dove ha vinto Hillary Clinton, che guadagnò solo una stretta maggioranza del voto popolare, pesano per un considerevole 64 per cento del PIL degli Stati Uniti, quasi due volte tanto le contee di Trump.

Chiaramente, abbiamo bisogno di diffondere più ampiamente i benefici della crescita e dell’innovazione. Ma un modo di pensare al trumpismo è considerarlo come un tentativo di ridurre le disparità regionali, non portando in alto le regioni che restano indietro, bensì tagliando sulle regioni in crescita. Perché è quello che farebbero gli attacchi all’istruzione e all’immigrazione, fattori cruciali dei successi della nuova economia.

Dunque i nostri “Non-so-nulla” moderni prevarranno? Non ne ho idea. Quello che è chiaro, tuttavia, è che essi non renderanno di nuovo grande l’America – piuttosto ammazzeranno i fattori che l’hanno davvero resa grande.

 

 

 

 

 

[1] È noto che la definizione (”shithole countries”) è stata coniata da Trump, riferita ad Haiti, al Salvador e all’Africa intera.

[2] Nonostante spesso siano usati come sinonimi, il College e la University, negli Stati Uniti, sono due cose distinte. Sia perché, effettivamente, sono due tipi di istituti scolastici differenti, sia perché tra loro hanno molte differenze che inducono spesso a scegliere uno piuttosto che un altro. Una prima grande differenza sta nella dimensione dei due istituti; il college è un leggermente più piccolo, anche per la dimensione delle aule. Un’altra differenza la si registra nella durata del percorso di studi. Il college propone una scelta che si orienta in uno o due campi di studio. Chi sceglie l’università, invece, ha una scelta più ampia e variegata. Il college dura, solitamente, quattro anni e al termine di esso si ottiene il Bachelor. L’università ha una durata maggiore, terminata la quale si ottiene un Degree (Laurea) alla quale possono aggiungersi dottorati e/o master. Le risorse economiche disponibili dall’università (con relativo costo maggiore della retta annuale) sono maggiori rispetto a quelle del college e questo si registra anche nelle disponibilità in termini di mezzi e di strumenti per la ricerca. (Lettera 43)

[3] Il libro è pubblicato anche in Italia. Enrico Moretti, chiaramente italiano, è professore all’Università di Berkeley.

 

 

 

 

 

 

Faust sul Potomac (dal blog di Paul Krugman, 5 gennaio 2018)

gennaio 7, 2018

 

Faust on the Potomac

Paul Krugman JAN. 5, 2018

 

I haven’t yet read Wolff’s book – do I really have to? — but the basic outlines of his story have long been familiar and uncontroversial to anyone with open eyes. Trump is morally and intellectually incapable of being president. He has also exploited his office for personal gain, obstructed justice, and colluded with a hostile foreign power. Everyone who doesn’t get their news from Fox has basically known this for a while, although Wolff helps focus our minds on the subject.

It seems to me that that the real news now is the way Republicans in Congress are dealing with this national nightmare: rather than distancing themselves from Trump, they’re doubling down on their support and, in particular, on their efforts to cover for his defects and crimes. Remember when Paul Ryan was the Serious, Honest Conservative? (He never really was, but that was his public image.) Now he’s backing Devin Nunes in his efforts to help the Trump coverup.

As Brian Beutler says, Republicans have become the Grand Obstruction Party. Why?

The answer, I think, is that the cynical bargain that has been the basis of Republican strategy since Reagan has now turned into a moral trap. And as far as we can tell, no elected Republican – not one – has the strength of character to even attempt an escape.

The cynical bargain I’m talking about, of course, was the decision to exploit racism to advance a right-wing economic agenda. Talk about welfare queens driving Cadillacs, then slash income taxes. Do Willie Horton, then undermine antitrust. Tout your law and order credentials, then block health care.

For more than a generation, the Republican establishment was able to keep this bait-and-switch under control: racism was deployed to win elections, then was muted afterwards, partly to preserve plausible deniability, partly to focus on the real priority of enriching the one percent. But with Trump they lost control: the base wanted someone who was blatantly racist and wouldn’t pretend to be anything else. And that’s what they got, with corruption, incompetence, and treason on the side.

Nonetheless, aside from a handful of Never Trumpers, just about everyone in the Republican establishment decided that they could work with that. They knew what Trump was, but were willing to overlook it as long as they could push their usual agenda. What about the populism? They guessed, correctly, that this wouldn’t be a problem: Trump didn’t even hesitate about abandoning all his campaign promises and going all in for cutting taxes on the rich while slashing benefits for the poor.

Early on, some speculated that this would be a temporary alliance – that establishment Republicans would use Trump to get what they wanted, then turn on him. But it’s now clear that won’t happen. Trump has exceeded everyone’s worst expectations, yet Republicans, far from cutting him loose, are tying themselves even more closely to his fate. Why?

The answer, I’d argue, is that they’re stuck. They knowingly made a deal with the devil, and can’t back out.

More specifically, Trump’s very awfulness means that if he falls, the whole party will fall with him. Republicans could conceivably distance themselves from a president who turned out to be a bad manager, or even one who turned out to have engaged in small-time corruption. But when the corruption is big time, and it’s combined with obstruction of justice and collaboration with Putin, nobody will notice which Republicans were a bit less involved, a bit less obsequious, than others. If Trump sinks, he’ll create a vortex that sucks down everyone involved.

And so we now have the Republican party as a whole fully complicit in Trump’s crimes – because that’s what they are, whether or not he and those around him are ever brought to justice.

What this means, among other things, is that expecting the GOP to exercise any oversight or constrain Trump in any way is just foolish at this point. Massive electoral defeat – massive enough to overwhelm gerrymandering and other structural advantages of the right – is the only way out.

 

Faust sul Potomac,

di Paul Krugman

Non ho ancora letto il libro di Wolff – lo devo fare per davvero? – ma le linee di fondo del suo racconto erano familiari e scontate per chiunque prestasse un po’ di attenzione. Trump è intellettualmente e moralmente incapace di fare il Presidente. Per giunta, ha sfruttato la sua carica per guadagni personali, ha intralciato la giustizia e si è compromesso con una potenza straniera ostile. Chiunque non si informi su Fox, fondamentalmente è un po’ che si rende conto di questo, sebbene Wolff ci aiuti a concentrare su tale tema la nostra riflessione.

A questo punto, mi sembra che la vera notizia sia il modo in cui i repubblicani nel Congresso stanno facendo i conti con questo incubo nazionale: anziché prendere le distanze da Trump, raddoppiano il loro sostegno e, in particolare, i loro sforzi per coprire i suoi difetti e le sue colpe. Vi ricordate quando Paul Ryan era il Conservatore Serio ed Onesto (non lo è mai stato, ma la sua opinione pubblica così se lo immaginava)? Adesso va dietro a Devin Nunes e ai suoi sforzi per coprire Trump.

Come dice Brian Beutler [1], i repubblicani sono diventati il Grande Partito dell’Ostruzionismo [2]. Perché?

Penso che la risposta sia che il cinico accordo che è stato alla base della strategia repubblicana dai tempi di Reagan, si è ora trasformato in una trappola morale. E per quanto posso capire, non c’è alcun repubblicano eletto – proprio nessuno – che abbia la forza o il carattere neanche per tentare una via di fuga.

Il cinico accordo di cui sto parlando, naturalmente, è stata la decisione di sfruttare il razzismo per promuovere un programma economico di estrema destra. Parlare delle ‘regine dell’assistenza’ che guidano le Cadillac [3], per poi abbattere le tasse sul reddito. Sfruttare il caso di Willie Horton [4], per mettere a repentaglio la legislazione antitrust. Promuovere le loro credenziali su legge e ordine, per poi bloccare la riforma sanitaria.

Per più di una generazione, il gruppo dirigente repubblicano è riuscito a tenere sotto controllo questo specchietto per le allodole: il razzismo veniva messo in campo per vincere le elezioni, in seguito veniva messo da parte, un po’ per tutelare in modo plausibile la propria estraneità al razzismo, un po’ per concentrarsi sulla priorità vera dell’arricchire l’1 per cento dei più ricchi. Ma con Trump hanno perso il controllo: la base voleva qualcuno che fosse sfacciatamente razzista e che non fingesse d’essere qualcosa d’altro. Ed è quello che hanno ottenuto, con l’aggiunta della corruzione, dell’incompetenza e del tradimento.

Ciononostante, a parte una manciata di oppositori irriducibili di Trump, quasi tutti nel gruppo dirigente repubblicano hanno deciso che avrebbero potuto dare una mano. Sapevano chi fosse Trump, ma erano disponibili a soprassedere finché avessero potuto portare avanti i loro consueti affari. Cosa dire del populismo? Correttamente, hanno pensato che quello non sarebbe stato un problema: Trump non avrebbe avuto alcuna esitazione nell’abbandonare tutte quelle promesse elettorali e nell’aderire interamente ai tagli delle tasse sui ricchi e all’abbattimento dei sussidi sulla povera gente.

Agli inizi, qualcuno ipotizzava che questa sarebbe stata una alleanza provvisoria – il gruppo dirigente repubblicano avrebbe usato Trump per ottenere quello che voleva, poi gli avrebbe voltato le spalle. Ma adesso è chiaro che questo non accadrà. Trump ha superato le peggiori aspettative di chiunque, tuttavia i repubblicani, lungi dal lasciarlo, si stanno legando sempre più strettamente al suo destino. Perché?

Direi che la risposta è che sono impantanati. Hanno fatto consapevolmente un accordo col diavolo e non possono tornare indietro.

Più in particolare, gli aspetti più sconci di Trump comportano che se lui cade, l’intero Partito cade con lui. I repubblicani potrebbero comprensibilmente prendere le distanze da un Presidente che si è scoperto essere un pessimo gestore della cosa pubblica, o che si è persino scoperto essere coinvolto in piccole faccende di corruzione. Ma quando la corruzione è a pieno regime, ed è accompagnata da atti di intralcio alla giustizia e dalla collaborazione con Putin, nessuno si accorgerà di quali repubblicani siano stati un po’ meno coinvolti, un po’ meno ossequiosi degli altri. Se Trump affonda, creerà un vortice che risucchierà tutti coloro che in qualche modo sono stati partecipi.

E dunque adesso abbiamo l’intero Partito Repubblicano pienamente complice delle nefandezze di Trump – perché è questo che sono, a prescindere dal fatto che lui e quelli che gli stanno dintorno vengano mai portati nei tribunali.

Quello che tutto questo comporta, assieme ad altre cose, è che a questo punto aspettarsi che il Partito Repubblicano eserciti una qualche vigilanza o tenga in qualche modo Trump sotto controllo, è una pura sciocchezza. Una massiccia sconfitta elettorale – massiccia al punto da superare l’organizzazione truffaldina dei distretti elettorali ed altri vantaggi strutturali della destra [5] – è l’unico modo per venirne fuori.

 

 

 

 

[1] Un giornalista che ha scritto (vedi la connessione) un articolo sul tema sulla rivista “Crooked”.

[2] Il Partito Repubblicano è normalmente chiamato GOP (Great Old Party, Grande Vecchio Partito), dunque con lo stesso acronimo.

[3] È una famosa polemica di Reagan, che si riferiva a donne di colore con macchine di lusso e sussidi assistenziali.

[4] Willie Horton era un individuo di colore responsabile di gravi crimini, che aveva ottenuto un congedo provvisorio dal penitenziario e durante quel periodo si rese responsabile di ulteriori crimini,  e che venne abbondantemente utilizzato nella campagna elettorale di Bush padre del 1988.

[5] Per una migliore comprensione, in particolare, degli aspetti ulteriori del carattere non poco truffaldino delle elezioni americane – oltre alla geografia dei distretti elettorali che venne inaugurata due secoli fa da un congressista americano, Elbridge “Gerry”, detto anche “salamandra” per la tortuosa configurazione di distretti elettorali che ideò, che consentiva di aumentare i seggi a proprio favore in particolare nelle zone rurali –  si veda l’intervista a Greg Palast qua tradotta, nella sezione “Saggi e articoli su riviste”. In genere si tratta di misure burocratiche che ostacolano il diritto di voto degli elettori di colore e delle minoranze etniche.

 

 

 

 

 

L’economia può mantenere la calma e andare avanti? (dal blog di Paul Krugman, 1 gennaio 2018)

gennaio 4, 2018

 

Can the Economy Keep Calm and Carry On?

Paul Krugman JAN. 1, 2018

 

On election night 2016, I gave in temporarily to a temptation I warn others about: I let my political feelings distort my economic judgment. A very bad man had just won the Electoral College; and my first thought was that this would translate quickly into a bad economy. I quickly retracted the claim, and issued a mea culpa. (Being an old-fashioned guy, I try to admit and learn from my mistakes.)

What I should have clung to, despite my dismay, was the well-known proposition that in normal times the president has very little influence on macroeconomic developments — far less influence than the chair of the Federal Reserve.

This only stops being true when the economy is so depressed that monetary policy loses traction, as was the case in 2009-10; at that point it mattered a lot that Obama was willing to engage in fiscal stimulus, and it also mattered a lot, unfortunately, that Republican opposition plus Obama’s own caution meant that the stimulus was much smaller than it should have been. By 2016, however, the aftershocks of the financial crisis had faded away to the point that the usual rules once again applied.

Indeed, if we could find an economist who didn’t know that there was an election in 2016, and showed her the economic data for the past couple of years, she would have no clue that something drastic happened:

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For that matter, economic developments in the U.S. during Trump’s first year were remarkably similar to developments in other advanced countries. Europe, in particular, has at least for now emerged from the shadow of the euro crisis, and is steadily growing — if you take its lower population growth into account, it’s doing a bit better than the US:

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So we’re living in an era of political turmoil and economic calm. Can it last?

My answer is that it probably can’t, because the return to normalcy is fragile. Sooner or later, something will go wrong, and we’re very poorly placed to respond when it does. But I can’t tell you what that something will be, or when it will happen.

The key point is that while the major advanced economies are currently doing more or less OK, they’re doing so thanks to very low interest rates by historical standards. That’s not a critique of central bankers. All indications are that for whatever reason — probably low population growth and weak productivity performance — our economies need those low, low rates to achieve anything like full employment. And this in turn means that it would be a terrible, recession-creating mistake to “normalize” rates by raising them to historical levels.

But given that rates are already so low when things are pretty good, it will be hard for central bankers to mount an effective response if and when something not so good happens. What if something goes wrong in China, or a second Iranian revolution disrupts oil supplies, or it turns out that tech stocks really are in a 1999ish bubble? Or what if Bitcoin actually starts to have some systemic importance before everyone realizes it’s nonsense?

I’m not predicting any of these things, and when the next big shock comes it will probably come from some direction I haven’t thought of. But when it does come, we’ll need an effective, coherent response from officials beyond the world of central banking.

So imagine such an event happening soon. How confident would you feel in the team of Donald Trump and Steve Mnuchin? How much leadership could a weakened Angela Merkel exert in a fragmented Europe?

You might have thought that such concerns would weigh on markets even now. But for whatever reason, investors are currently in what-me-worry mode. And let’s hope that they’re right — that by the time stuff happens, we’ll actually have non-delusional people in charge.

 

L’economia può mantenere la calma e andare avanti?

Di Paul Krugman

Nella notte delle elezioni del 2016, cedetti temporaneamente alla tentazione di mettere in guardia gli altri su una possibilità; permisi che le mie sensazioni politiche distorcessero il mio giudizio economico. Un pessimo individuo aveva appena ottenuto i voti del Collegio Elettorale e il mio primo pensiero fu che questo si sarebbe tradotto rapidamente in una cattiva situazione economica. In breve tempo ritrattai quella pretesa e recitai un mea culpa (essendo una persona all’antica, cerco di ammettere i miei errori e di imparare da essi).

Avrei dovuto restare fedele, nonostante il mio sgomento, al concetto ben noto secondo il quale in tempi normali un Presidente ha ben poca influenza sugli sviluppi macroeconomici – una influenza assai minore di quella del Presidente della Federal Reserve.

Tutto questo cessa di essere vero quando l’economia è così depressa che la politica monetaria perde la sua capacità di presa, come avvenne nel 2009-10; a quel punto contò molto che Obama fosse disposto ad impegnarsi nello stimolo della finanza pubblica, e contò anche molto, sfortunatamente, che l’opposizione repubblicana sommata alla cautela di Obama comportassero che lo stimolo fosse molto più piccolo di quello che avrebbe dovuto essere. Col 2016, tuttavia, le scosse di assestamento della crisi finanziaria si erano a tal punto affievolite che tornarono ad applicarsi le regole usuali.

In effetti, se potessimo trovare una economista che non era al corrente che nel 2016 c’erano state le elezioni, e le mostrassimo i dati economici dei due anni passati, ella [1] non avrebbe avuto alcun indizio che era accaduto qualcosa di grave:

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[2]

Per quella ragione, gli sviluppi economici negli Stati Uniti durante il primo anno di Trump sono stati considerevolmente simili agli sviluppi negli altri paesi avanzati. L’Europa in particolare è almeno sinora emersa dalle ombre della crisi dell’euro, e sta crescendo stabilmente – se mettete nel conto la crescita più bassa della popolazione, sta andando un po’ meglio degli Stati Uniti:

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[3]

Stiamo dunque vivendo in un’epoca di trambusto politico e di calma dell’economia? Può durare? La mia risposta è che probabilmente non può durare, perché il ritorno alla normalità è fragile. Prima o poi qualcosa andrà storto, e quando accadrà noi saremo collocati in modo molto disagevole per rispondere. Ma non posso dirvi cosa sarà quel qualcosa, o quando accadrà.

La questione centrale è che se attualmente le principali economie avanzate stanno andando più o meno bene, si stanno comportando così grazie ai tassi di interesse molto bassi secondo le serie storiche. Questa non è una critica ai banchieri centrali. Tutte le indicazioni ci dicono che per qualsiasivoglia ragione – probabilmente per una crescita bassa della popolazione e per un andamento debole della produttività – le nostre economie hanno bisogno di tassi molto bassi per realizzare qualcosa di simile alla piena occupazione. E questo a sua volta significa che sarebbe un terribile errore, che creerebbe recessione, “normalizzare” i tassi rialzandoli a livelli storici.

Ma dato che i tassi sono già così bassi quando le cose sono abbastanza positive, sarà difficile per i banchieri centrali organizzare una risposta efficace se e quando accadesse qualcosa di non così positivo. Cosa accade se qualcosa non va per il verso giusto in Cina, o se una seconda rivoluzione iraniana mette nel caos le offerte di petrolio, o cosa accadrebbe se le azioni nel settore dell’alta tecnologia fossero davvero dentro una bolla simile a quella del 1999? [4] Oppure cosa accade se il Bitcoin effettivamente comincia ad avere un qualche importanza di sistema prima che tutti comprendano la sua insensatezza?

Non sto predicendo nessuna di queste cose, e quando il prossimo grande trauma verrà, probabilmente deriverà da qualche direzione alla quale non ho pensato. Ma quando davvero arriverà, avremo bisogno di una efficace e coerente risposta da parte rei responsabili che stanno oltre il mondo delle banche centrali.

Immaginiamo dunque che un tale evento avvenga prossimamente. Quanta fiducia avreste nella squadra di Donald Trump e di Steve Mnuchin? Quanta capacità di direzione potrebbe esercitare una indebolita Angela Merkel in un’Europa frammentata?

Potreste aver pensato che preoccupazioni del genere dovrebbero pesare sui mercati anche adesso. Ma per una qualche ragione, gli investitori sono attualmente nella modalità del “chi se ne frega”. E speriamo che abbiano ragione – che nel tempo necessario perché le cose accadano, avremo effettivamente in carica individui non deliranti.

 

 

 

 

[1] Confesso la mia ignoranza, ma non conosco per quale eventuale regola talora – seppur raramente – si hanno queste versioni ‘al femminile’ di frasi ordinarie, senza che nessuna ragione apparente lo giustifichi. Potrebbe trattarsi di un semplice lodevole criterio di equità, applicato casualmente. Oppure potrebbe esistere un riferimento implicito che lo giustifica, che in questo caso non so quale possa essere.

[2] La tabella mostra l’andamento dal 2012 alla fine del 2017 degli occupati totali nei settori non agricoli.

[3] Gli andamenti del PIL reale in Europa (linea blu) e negli Stati Uniti (linea rossa), dal 2006 ad oggi.

[4] La Bolla nel settore delle nuove tecnologie (delle Dot-com; in inglese Dot-com Bubble) è stata una bolla speculativa sviluppatasi tra il 1997 e il 2000 (ovvero quando l’indice NASDAQ, il 10 marzo 2000, raggiunse il suo punto massimo a 5132.52 punti nel trading intraday prima di chiudere a 5048.62 punti). Durante questo periodo la capitalizzazione dei mercati dei paesi più industrializzati vide un rapido aumento del valore delle aziende attive nell’ambito di Internet e nei relativi settori.

Il periodo fu segnato dalla fondazione (e conseguenti fallimenti) di un numero elevato di nuove aziende con scopo sociale di svolgere attività nel settore Internet (e più in generale il settore informatico) generalmente chiamata Dot-com; erano compagnie scarsamente capitalizzate, di piccole dimensioni (in molti casi con un solo azionista fondatore), molto esposte in un settore fortemente sovrastimato ovvero una condizione fondamentale alla base delle bolle speculative.

Una combinazione di rapido incremento dei prezzi delle azioni, la convinzione del mercato che le società in oggetto avrebbero prodotto dei profitti in futuro, speculazione individuale sulle azioni e la presenza di numerosi Venture capital crearono un ambiente in cui molti investitori trascurarono i tradizionali parametri di valutazione come il Price earnings ratio in favore della convinzione nel progresso tecnologico.

Il collasso della bolla si ebbe tra il 2000 ed il 2001. Alcune società, come Pets.com, fallirono completamente, mentre altre persero una larga parte della loro capitalizzazione di mercato rimanendo comunque solide e redditizie come Cisco Systems, le cui azioni persero circa l’86%. Altre negli anni successivi sorpassarono il prezzo massimo raggiunto all’apice della bolla delle Dot-com come Amazon.com le cui azioni passarono da 107 a 7 dollari ma nel decennio successivo superarono i 950 dollari per azione. (Wikipedia)

 

 

 

 

 

La rovina del giocatore d’azzardo delle piccole città (per esperti), ( dal blog di Paul Krugman, 30 dicembre 2017)

gennaio 4, 2018

 

The Gambler’s Ruin of Small Cities (Wonkish)

Paul Krugman DEC. 30, 2017

 

I’m on vacation, keeping vague track of the news but basically taking a break and spending a lot of time communing with nature. But I’ve also been thinking a bit about economics, taking advantage of psychological distance to ruminate on stuff that isn’t closely connected to the news. And one of the areas I’ve been chewing over goes back to my old stomping ground of economic geography.

In particular, I’ve been trying to clarify my thoughts after reading Emily Badger’s stimulating piece on how megacities seem to have less and less need for smaller cities. I found myself asking what might seem like an odd question: what, in the modern economy, are small cities even for? What purpose do they serve? And this question leads me to a chain of thought that’s a bit different from Badger’s, although not necessarily contradictory.

Once upon a time, it was obvious what towns and small cities did: they served as central places serving a mainly rural population engaged in agriculture and other natural resource-based activities. The rural population was dispersed because arable land and other resources were dispersed, and so you had lots of small cities dotting the landscape.

Over time, however, agriculture has become ever less important as a share of the economy, and the rural population has correspondingly declined as a determinant of urban location. Nonetheless, many small cities survived and grew by becoming industrial centers, generally specialized in some cluster of industries held together by the Marshallian trinity of information exchange, specialized suppliers, and a pool of labor with specialized skills.

What determined which industries a small city developed? In some cases particular features of the location and nearby resources were important, but often it was more or less random chance at first, then a sequence in which one industry created conditions that favored another.

Take the (fairly celebrated) example of Rochester, New York. It started as a flour milling center, benefitting from the Erie Canal, then as a center for nurseries and seeds. So it was a resource-based center. Then, in 1853, John Jacob Bausch, a German immigrant, started a company making monocles, which became a major producer of glasses, microscopes, and all things lens related.

So Rochester became a place where people knew about optics, presumably creating the preconditions for the rise of Eastman Kodak, and much later Xerox. This was typical of small industrial cities: even if what a city was doing in, say, 1970 seemed very different from what it was doing in 1880, there was usually a sort of chain of external economies creating the conditions that allowed the city to take advantage of particular new technological and market opportunities when they arose.

Obviously, this was a chancy process. Some localized industries created fertile ground for new industries to replace them; others presumably became dead ends. And while a big, diversified city can afford a lot of dead ends, a smaller city can’t. Some small cities got lucky repeatedly, and grew big. Others didn’t; and when a city starts out fairly small and specialized, over a long period there will be a substantial chance that it will lose enough coin flips that it effectively loses any reason to exist.

I’m not saying that there weren’t patterns of success and failure. Small cities were and are more likely to fail if they have miserable winters, more likely to come up with new tricks if they’re college towns and/or destinations for immigrants. Still, if you back up enough, it makes sense to think of urban destinies as a random process of wins and losses in which small cities face a relatively high likelihood of experiencing gambler’s ruin.

Again, it was not always thus: once upon a time dispersed agriculture ensured that small cities serving rural hinterlands would survive. But for generations we have lived in an economy in which smaller cities have nothing going for them except historical luck, which eventually tends to run out.

Notice, by the way, that globalization and all that isn’t central to this story. If I’m right, the conditions for small-city decline and fall have been building for a very long time, and we’d be seeing much the same story – maybe more slowly – even without the growth of world trade.

Are there policy implications from this diagnosis? Maybe. There are arguably social costs involved in letting small cities implode, so that there’s a case for regional development policies that try to preserve their viability. But it’s going to be an uphill struggle. In the modern economy, which has cut loose from the land, any particular small city exists only because of historical contingency that sooner or later loses its relevance.

 

La rovina del giocatore d’azzardo delle piccole città (per esperti),

di Paul Krugman

Sono in vacanza, mantengo un vago collegamento con quel che accade ma fondamentalmente mi sto prendendo una pausa e spendo molto tempo in comunione con la natura. Ma ragiono anche un po’ di economia, avvantaggiandomi della distanza psicologica per riflettere su cose che non sono strettamente connesse con le notizie. Ed una delle aree sulle quali rimugino torna ad essere il mio terreno, che un tempo battevo, della geografia economica.

In particolare, sto cercando di chiarirmi le idee dopo aver letto lo stimolante articolo di Emily Badger su come le grandi metropoli sembrano aver sempre meno bisogno delle piccole città. Mi ritrovo a pormi quella che potrebbe sembrare una domanda bizzarra: a che cosa servono, addirittura, le piccole città in una economia moderna? Qual’è il loro scopo? E questa domanda mi conduce ad una catena di pensieri che è un po’ diversa da quella di Badger, sebbene non necessariamente in contraddizione.

Una volta, era evidente a cosa servivano i paesi e le piccole città: erano i luoghi centrali che servivano principalmente una popolazione rurale ed altre attività basate sulle risorse naturali. La popolazione rurale era dispersa perché la terra arabile e le altre risorse erano disperse, e così si aveva un gran numero di piccole cittadine che punteggiavano il territorio.

Col tempo, tuttavia, l’agricoltura è diventata sempre meno importante come parte dell’economia, e corrispondentemente la popolazione rurale è declinata come fattore determinante della localizzazione urbana. Ciononostante, molte piccole città sono sopravvissute e sono cresciute diventando centri industriali, in genere specializzati in alcuni distretti di industrie tenute assieme dalla ‘trinità’ marshalliana dello scambio di informazioni, delle offerte specialistiche e di gruppi di lavoratori con elevate competenze.

Cosa decideva quali industrie una piccola città avrebbe sviluppato? In alcuni casi particolari caratteristiche della loro collocazione e delle risorse circostanti erano importanti, ma spesso si trattava agli inizi di una scelta più o meno casuale, poi una sequenza nella quale una industria creava condizioni che ne favorivano un’altra.

Si prenda il caso, giustamente celebrato, di Rochester. Cominciò come un centro di mulini di farina, beneficiando del Canale Erie, poi come un centro di vivai e di sementi. In tal modo era un centro che si basava sulle risorse. Poi, nel 1853, John Jacob Bausch, un immigrato tedesco, avviò una società che fabbricava monocoli, che divenne una importante produzione di occhiali, di microscopi e di tutte le cose collegate con le lenti.

Dunque Rochester divenne un luogo dove la gente si intendeva di ottica, presumibilmente creando le precondizioni per l’avvento della Eastman Kodak, e molto più tardi della Xerox. Questo era tipico delle piccole città industriali: persino se quello che una città fabbricava, diciamo nel 1970, sembrava assai diverso da quello che faceva nel 1880, c’era di solito una specie di catena di economie esterne che creavano le condizioni che permettevano alla città di avvantaggiarsi di particolare nuove opportunità tecnologiche e di mercato, quando esse si presentavano.

Ovviamente, si trattò di un processo rischioso. Alcune industrie localizzate crearono un terreno fertile perché nuove industrie le rimpiazzassero; altre presumibilmente divennero vicoli ciechi. E mentre una grande città diversificata può permettersi vicoli ciechi, una città più piccola non può permetterseli. Alcune piccole città ebbero frequenti colpi di fortuna e divennero grandi. Ad altre non accadde; e quando una città parte discretamente piccola e specializzata, nel lungo periodo ci sarà una possibilità sostanziale che essa perda un numero tale di scommesse da dover rinunciare sostanzialmente ad ogni ragione per esistere.

Non sto dicendo che ci furono modelli di successo e di fallimento. È più probabile che le piccole città falliscano se hanno inverni gelidi, è più probabile arrangiarsi con nuovi accorgimenti se sono cittadine universitarie e/o destinazioni per gli immigrati.  Eppure, se andate abbastanza indietro col tempo, ha senso pensare ai destini urbani come un processo casuale di vittorie e sconfitte, durante il quale le piccole città fronteggiano una probabilità piuttosto elevata di fare l’esperienza della ‘rovina del giocatore d’azzardo’.

Di nuovo, non è sempre stato così: un tempo l’agricoltura dispersa assicurava che le piccole città al servizio di hinterland rurali sopravvivessero. Ma per generazioni abbiamo vissuto in un’economia nella quale le piccole città non avevano niente da inventare se non una buona sorte nella loro storia, che alla fine tendeva ad esaurirsi.

Si noti, per inciso, che la globalizzazione e tutto il resto, in questa storia, non occupa un posto centrale. Se sono nel giusto, le condizioni per un declino ed una caduta delle piccole città sono state predisposte in un tempo molto lungo, e avremmo assistito in gran parte alla stessa storia – forse con più lentezza – anche senza la crescita del commercio globale.

Da questa diagnosi ne derivano implicazioni politiche? Forse. Probabilmente ci sono costi sociali nel permettere che le piccole città implodano, cosicché c’è un argomento per politiche di sviluppo regionale che cerchino di preservare le loro possibilità di sopravvivenza. Ma è una lotta difficile. Nell’economia moderna, che si è messa alle spalle il legame col territorio, qualche particolare piccola città esiste solo per una contingenza storica che prima o poi perde la sua rilevanza.

 

 

 

 

 

 

 

Effetti a cascata? Nel migliore dei casi, non adesso e non per un po’ di tempo (per esperti) (dal blog di Paul Krugman, 24 dicembre 2017)

gennaio 3, 2018

 

Trickle Down? Not Now, and Not for a While at Best (Wonkish)

Paul Krugman DEC. 24, 2017

 

“You all just got a lot richer,” Trump reportedly told guests at Mar-a-Lago. But Republicans will nonetheless keep insisting that the corporate tax cut that is the main item in the tax bill is really for the benefit of workers. They will be aided in this claim by some recent corporate announcements of bonuses or wage hikes that they attribute to the tax cut.

It’s nonsense, of course. Think of the motivation: lots of companies are raising wages at least a bit in the face of tight labor markets; pretending that it’s because of the tax cut is a cheap way to curry favor with an administration that has no hesitation about using regulatory and antitrust decisions to reward friends and punish enemies. It’s basically Carrier all over: make a Trump-friendly splash by declaring that he persuaded you to save jobs, then lay off lots of workers after the cameras have moved on.

But there’s a larger point here: even if you believe economic analyses that suggest corporate tax cuts are good for wages, it shouldn’t happen right away. Any trickle-down should come about because the tax cuts lead to higher investment, which leads over time to a larger capital stock – and it’s the increase in the capital stock, which may take many years, that leads to the wage rise.

I keep finding it helpful to use a diagram representing the economy corporate tax-cutters imagine we have: a one-sector economy with no monopoly power, open to inflows of foreign capital. (Adding the reality of monopoly rents, noncorporate capital, and nontraded goods all reduce the extent of trickle-down.) This stylized economy looks like Figure 1:

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Figure 1

 

The downward-sloping line is the marginal product of capital, which is equal (in this model) to the pre-tax rate of return r. The after-tax return is r(1-t), where t is the tax rate.

Given an initial capital stock K, GDP is the integral of the area under the rcurve up to K. Of this, rK goes to pre-tax profits, of which the government takes a share t and the rest goes to after-tax profits. What’s left, the triangle at the top, is wages.

Now suppose the corporate tax rate is cut to a lower level t’. This raises the after-tax rate of return for any given capital stock. The country faces a long-run supply curve for capital; this curve would be horizontal for a small open economy, is surely upward-sloping for the United States. Still, over time the capital stock rises to K’. This in turn leads to higher wages:

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Figure 2

 

The crucial words, however, are “over time.” For a variety of reasons it would take a number of years for the capital stock to rise to its long-run level. And in the short run we wouldn’t expect wages to rise at all. Certainly not in the first week after the tax cut!

So if you suspect that these corporate announcements are political theater, not real economic events, the very models tax-cut enthusiasts like to cite back you up. There will be negligible wage effects of the tax cut in 2018; for the first few years, it’s basically all Mar-a-Lago.

 

Effetti a cascata? Nel migliore dei casi, non adesso e non per un po’ di tempo (per esperti),

di Paul Krugman

Secondo i resoconti, Trump ha detto ai suoi ospiti a Mar-a-Lago [1]: “Siete appena diventati un bel po’ più ricchi”. Ciononostante, i repubblicani continuano ad insistere che i tagli delle tasse alle società, che è il tema principale nella proposta di legge fiscale, siano realmente a vantaggio dei lavoratori. Saranno aiutati in questa pretesa da alcuni recenti annunci da parte di grandi società a proposito di gratifiche o di aumenti salariali che essi attribuiscono al taglio delle tasse.

È un nonsenso, ovviamente. Si pensi alla motivazione: molte società stanno elevando i salari almeno un po’ a fronte della ristrettezza dei mercati del lavoro; pretendere che dipenda dai tagli alle tasse è un modo conveniente per entrare nelle grazie di una Amministrazione che non ha esitazione a utilizzare decisioni antiregolamentari ed antitrust per premiare gli amici e punire gli avversari. È fondamentalmente la medesima storia della Carrier [2]: fate un’uscita favorevole a Trump dichiarando che vi ha persuaso a salvare posti di lavoro, poi licenziate una gran quantità di lavoratori quando i riflettori si sono spostati.

Ma c’è in questo caso un aspetto più generale: persino se credete alle analisi economiche che indicano come i tagli fiscali alle società siano positivi per i salari, tutto ciò non dovrebbe accadere in un attimo. Ogni effetto a cascata dovrebbe arrivare a seguito del fatto che i tagli al fisco portano a più elevate riserve di capitale – ed è la crescita di tali riserve, che può impiegare vari anni, che provoca aumenti salariali.

Continuo a ritenere che sia utile usare un diagramma che rappresenta l’economia che coloro che tagliano le tasse sulle società credono che abbiamo: una economia di un solo settore senza alcun potere di monopolio, aperta ai flussi in ingresso del capitale straniero (se si aggiunge la realtà delle rendite di monopolio, il capitale non posseduto dalle società ed i beni non destinati al commercio internazionale, tutto questo riduce la misura di un effetto a cascata). Questa economia stilizzata appare come nella Figura 1:

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Figura 1

 

La linea che inclina verso il basso indica il prodotto marginale del capitale, che è eguale (in questo modello) al tasso di rendimento r prima delle tasse. Il tasso di rendimento dopo le tasse è r(1-t), dove t è l’aliquota fiscale.

Data una iniziale riserva di capitale K, il PIL è l’integrale dell’area sottostante la curva r sino a K. Di questo, rK va ai profitti prima delle tasse, dai quali il Governo prende una quota t e il resto va ai profitti dopo le tasse. Quello che resta, il triangolo in alto, sono i salari.

Ora supponiamo che l’aliquota fiscale della società sia tagliata sino ad un più basso livello t’. Questo aumenta, per ogni data riserva di capitale, il tasso di rendimento dopo le tasse. Il paese si ritrova con una curva dell’offerta di capitale di lungo periodo; per una piccola economia aperta, questa curva sarebbe orizzontale, nel caso degli Stati Uniti è sicuramente inclinata verso il basso. Ancora, nel corso del tempo la riserva di capitale sale sino a K’. Questo a sua volta porta a salari più alti:

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Figura 2

 

Tuttavia, in questo caso, le parole cruciali sono “nel corso del tempo”. Per una varietà di ragioni, ci vorrebbe un certo numero di anni perché le riserve di capitale raggiungano il livello di lungo periodo. E nel breve periodo non dovremmo aspettarci che i salari crescano affatto. Certamente non nella prima settimana dopo il taglio delle tasse!

Se dunque sospettate che questi annunci delle società siano una messinscena politica, non reali eventi economici, i veri modelli che gli entusiasti dei tagli fiscali amano citare, vi danno ragione. Ci saranno effetti salariali trascurabili nel 2018, a seguito dei tagli fiscali; per i primi anni, è tutto fondamentalmente un Mar-a-Lago.

 

 

 

 

[1] Una residenza privata di Trump in Florida.

[2] Una società che nelle prime settimane annunciò di aderire alla richiesta di Trump di non spostare all’estero alcune sue lavorazioni. Fondamentalmente lo fece per ingraziarsi la nuova Amministrazione.

 

 

 

 

 

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