Paul Krugman FEB. 11, 2018
Here in the English-speaking world, most of us in the econo-pundit business have been focusing a lot on the US economy post-Trump, and secondarily on the British economy post-Brexit. But once in a while we ought to look further afield. And there’s a pretty big story that isn’t getting much play in the US, at least: the significant recovery finally taking place in Europe.
For years, the euro area drastically lagged the United States: where America began a sustained recovery in late 2009, Europe, buffeted by debt crises and the problems of misaligned costs among member nations, continued to suffer into 2013. Germany, of course, did well throughout – largely because its economy was supported by huge trade surpluses, largely at its neighbors’ expense.
Since 2013, however, we’ve seen significant growth in Europe, with the fastest growth occurring in the areas (other than Greece) that were hardest hit by the euro crisis, especially Spain:
So what turned around in Europe? One important answer was three words from Mario Draghi: “whatever it takes”. The ECB’s promise to buy government bonds if necessary almost instantly ended a panic in southern European bond markets, drastically narrowing the spread against Germany and setting the stage for growth:
The other thing that happened was internal devaluation – that is, relative deflation by countries that had been left overvalued by massive capital inflows and inflation during the pre-crisis years. Spain, in particular, gradually squeezed down its labor costs relative to the euro area as a whole:
This has in turn fueled a big export boom, especially in autos.
So is all well that ends well? No. Southern Europe paid a terrible price during the crisis years. The fact that internal devaluation eventually works, after years of high unemployment, is neither a surprise nor a vindication of the huge suffering during the interim. If there was a surprise, it was political: the willingness of political elites to pay this price rather than break with the euro.
Still, it’s important to be aware that Europe 2018 looks very different from Europe 2013. For now, at least, Europe is back as a functioning economic system.
Note sulla ripresa europea (per esperti), di Paul Krugman
Qua, nei paesi di lingua inglese, la maggioranza di noi, occupati nel settore dei commenti economici, ci siamo venuti concentrando soprattutto sull’economia degli Stati Uniti dopo Trump, e in secondo luogo sull’economia britannica dopo la Brexit. Ma ogni tanto dovremmo guardare più lontano. E c’è almeno una storia piuttosto rilevante che non sta ricevendo molta attenzione: la significativa ripresa che alla fine sta prendendo piede in Europa.
Per anni, l’area euro è rimasta sensibilmente indietro rispetto agli Stati Uniti: laddove l’America cominciò nel tardo 2009 una ripresa sostenuta, l’Europa, scossa dalle crisi del debito e dai problemi dei costi disallineati tra le nazioni che la compongono, ha continuato a soffrire fino al 2013. La Germania, ovviamente, ha continuato ad andare bene per tutto il periodo – in gran parte perché la sua economia era sostenuta da vasti surplus commerciali, in buona misura a spese dei suoi vicini.
Dal 2013, tuttavia, abbiamo osservato una crescita significativa in Europa, più rapida nelle aree (ad eccezione della Grecia) maggiormente colpite dalla crisi dell’euro, in particolare la Spagna:
Dunque, cosa ha trasformato l’Europa? Una risposta importante venne dalle tre parole pronunciate da Mario Draghi: “tutto quello che serve”. La promessa della BCE di acquistare se necessario obbligazioni degli Stati interruppe quasi istantaneamente il panico nei mercati obbligazionari dell’Europa del Sud, restringendo in modo drastico lo spread con la Germania e definendo lo scenario per la crescita:
L’altra cosa che è successa è stata la svalutazione interna – ovvero, la deflazione relativa da parte di paesi che, negli anni precedenti alla crisi, erano rimasti sopravvalutati per i flussi massicci di capitali e per l’inflazione. In particolare la Spagna ha gradualmente compresso i suoi costi del lavoro in rapporto all’area euro nel suo complesso:
A sua volta, questo ha alimentato un grande boom delle esportazioni, particolarmente delle auto.
Dunque, tutto è bene quel che finisce bene? No. Durante gli anni della crisi, l’Europa Meridionale ha pagato un prezzo terribile. Il fatto che la svalutazione interna alla fine funzioni, dopo anni di elevata disoccupazione, non è né una sorpresa né un risarcimento per le vaste sofferenze nel periodo di transizione. Se c’è stata una sorpresa, è stata quella politica: la volontà dei gruppi dirigenti politici di pagare questo prezzo anziché rompere con l’euro.
Eppure è importante essere consapevoli che l’Europa del 2018 appare molto diversa dall’Europa del 2013. Almeno per adesso, l’Europa è tornata ad essere un sistema economico funzionante.
febbraio 12, 2018
Paul Krugman FEB. 10, 2018
Back in the days of austerity amidst depression, some of us spent a lot of time thinking and writing about fiscal multipliers. Reading Neil Irwin on the effects of the GOP’s new what-me-worry approach to deficits, I found myself thinking back to that discussion, and what it implies for the short-run economic impact. Specifically: what kind of multiplier effect should we expect to see here?
The most convincing evidence on multipliers, in my view, has always come from natural experiments: cases in which we know from the historical political record that governments were imposing large changes in taxes and/or spending, and we can see the effects of these fiscal shocks on growth relative to what was previously expected. (Attempts to use fancy statistical techniques to extract fiscal shocks have worked much less well.)
A lot of this work came from the IMF. In 2010 the Fund produced a report on austerity policies (Chapter 3) that was in effect a response to the “expansionary austerity” literature, using the historical record to assess past austerity policies. That analysis suggested a multiplier of about 0.5 – that is, a 1 point cut in government spending as a percentage of GDP would reduce output by half a percent.
However, past austerity took place under normal monetary conditions – that is, central banks could and did offset fiscal contraction by cutting interest rates. By contrast, austerity after 2009 took place in countries where interest rates were already zero and could not be cut further. You would expect the multiplier to be larger under these conditions, and sure enough, a variety of studies – most influentially Blanchard and Leigh – found a multiplier of around 1.5, three times as large. (Nakamura and Steinsson’s clever use of regional data on defense spending within the U.S. as a measure of the multiplier came up with a similar number.)
So now we have a stimulus from tax cuts and spending increases in an economy already down to 4 percent unemployment, where the Fed is already raising rates to head off potential inflation. That is, we’re looking at normal monetary conditions, where we’d expect a smallish multiplier.
Quanto è grande l’affare che Trump sta facendo (per esperti)? Di Paul Krugman
Nel passato periodo dell’austerità nel bel mezzo della depressione, alcuni di noi spesero molto tempo a ragionare e a scrivere sui moltiplicatori della spesa pubblica. Nel leggere Neil Irwin sugli effetti del nuovo approccio del Partito Repubblicano ai deficit (“non ce ne può importare di meno”), mi sono ritrovato a tornare a ragionare su quel dibattito, e su cosa esso implichi per l’impatto di breve periodo sull’economia. In particolare: che genere di effetto moltiplicatore dovremmo aspettarci in questo caso?
Secondo me, le prove più convincenti sui moltiplicatori sono sempre venute da esperimenti naturali: casi nei quali sappiamo dalle serie politiche della storia quando i Governi avevano deciso ampie modifiche nelle tasse o nelle spese pubbliche, e abbiamo potuto verificare gli effetti di questi shock della finanza pubblica sulla crescita in rapporto a quello che ci si era precedentemente immaginati (i tentativi di utilizzare sofisticate tecniche statistiche per dedurne shock nelle finanze pubbliche hanno funzionato molto meno bene).
Gran parte di questo lavoro deriva dal FMI. Nel 2010 il Fondo pubblicò un rapporto sulle politiche dell’austerità (Capitolo 3) che era in effetti una risposta alle tesi sull’ “austerità espansiva”, utilizzando le serie storiche per definire le passate politiche di austerità. Quell’analisi suggeriva un moltiplicatore di circa lo 0,5 – ovvero, un punto di tagli nella spesa pubblica come percentuale del PIL avrebbe ridotto la produzione di mezzo punto.
Tuttavia, l’austerità del passato aveva preso piede in condizioni monetarie normali – vale a dire che le banche centrali potevano bilanciare la contrazione della finanza pubblica tagliando i tassi di interesse, e in effetti lo fecero. All’opposto, l’austerità dopo il 2009 prese piede in paesi nei quali i tassi di interesse erano già allo zero e non potevano essere tagliati ulteriormente. Vi sareste aspettati che il moltiplicatore, in queste condizioni, fosse più ampio, e di fatto una varietà di studi – il più influente quello di Blanchard e Leigh – scoprirono un moltiplicatore di circa 1,5, tre volte superiore (l’uso intelligente da parte di Nakamura e Steinsson dei dati regionali sulle spese nel settore della difesa all’interno degli Stati Uniti come misura del moltiplicatore giunsero ad un dato simile).
Dunque, adesso abbiamo uno stimolo per effetto di tagli fiscali e incrementi di spesa in un’economia che è già sotto il 4 per cento di disoccupazione, dove la Fed sta già rialzando i tassi per bloccare una inflazione potenziale. Ovvero, siamo in presenza a normali condizioni monetarie, con le quali ci dovremmo aspettare un moltiplicatore assai modesto.
febbraio 8, 2018
Paul Krugman FEB. 4, 2018
In a now-deleted tweet, which has nonetheless already become notorious, Paul Ryan tried to hype the benefits of his massive corporate tax cut by celebrating the example of a worker who’s getting $1.50 more per week. That’s roughly the price of a small French fries at McDonald’s.
Should we keep giving Ryan grief over that tweet? Yes, we should – and not just because it shows how out of touch he is. By highlighting the tiny tax cut some workers will get as if that were the point and main result of a bill that blows up the deficit by more than $1 trillion, he helps illustrate the bait-and-switch at the core of the whole G.O.P. agenda.
For tax cuts aren’t free. Sooner or later, the federal government has to pay its way. Even if you don’t think the budget deficit is currently a big problem, except under very special circumstances anything that reduces revenue will eventually have to be offset by later tax increases or spending cuts.
And those special circumstances – basically a depressed economy that needs a fiscal boost – don’t apply now, with the U.S. close to full employment.
So Ryan is patting himself on the back for giving a schoolteacher some French fries. What’s he planning to take away?
Well, we know the answer: Republicans constantly use the alleged dangers of budget deficits to argue for sharp cuts in social programs. You might have thought they’d lay off that rhetoric for a while after passing an unfunded $1.5 trillion tax cut, but in fact they barely paused; even at the height of the tax “reform” debate, people like Orrin Hatch declared that we can’t “spend billions and billions and trillions of trillions of dollars to help people who won’t help themselves.” Right now they’re dragging their feet on funding for community health centers, complaining about the cost.
So here’s how the bait and switch goes: pass a huge tax cut that overwhelmingly benefits the rich, but gives ordinary workers a few crumbs — or actually a bag of fries now and then. Then point to the big deficits created by that tax cut as a reason social programs essential to many ordinary families must be slashed. Lather, rinse, repeat.
It’s such an obvious scam that you might think either that its perpetrators would get embarrassed or that the public would get wise. But the first won’t happen. The second – well, we’ll see in November.
Dategli da mangiare patatine fritte, di Paul Krugman
In un tweet ora cancellato, che però ha già fatto in tempo a diventare famoso, Paul Ryan ha cercato di esaltare i vantaggi del suo massiccio taglio delle tasse celebrando l’esempio di un lavoratore che guadagna un dollaro e mezzo in più alla settimana. Grosso modo quanto costa da McDonald’s un pacchetto di patatine fritte.
Dovremmo insistere a punzecchiare Ryan per quel Tweet? Proprio così, dovremmo farlo – e non solo perché dimostra quanto sia fuori dalla realtà. Sottolineando il minuscolo sgravio fiscale che alcuni lavoratori incasseranno, come se quello fosse il senso e il principale risultato di una proposta di legge che fa scoppiare il deficit per più di mille miliardi di dollari, egli contribuisce a illustrare lo specchietto per le allodole che è al centro dell’intera agenda del Partito Repubblicano.
Perché i tagli al fisco non sono gratis. Presto o tardi, il Governo federale dovrà ripagarli a suo modo. Anche se non credete che il deficit di bilancio sia attualmente un grande problema, se non per circostanze molto particolari, tutto quello che riduce le entrate alla fine dovrà essere bilanciato da successivi aumenti delle tasse o tagli alla spesa.
E tali particolari circostanze – fondamentalmente un’economia depressa che ha bisogno di una spinta da parte della finanza pubblica – non si danno in questo momento, con gli Stati Uniti vicini alla piena occupazione.
Dunque, Ryan si dà una pacca sulle spalle perché concede ad un insegnante un po’ di patatine fritte? Cosa sta mettendo in conto di portar via?
Beh, conosciamo la risposta: i repubblicani usano costantemente i pretesi pericoli dei deficit di bilancio per bruschi tagli ai programmi sociali. Potevate aver pensato che avessero per un po’ smesso con quella retorica, dopo aver approvato un taglio alle tasse senza coperture di 1.500 miliardi di dollari, ma si erano solo presi una pausa: persino al culmine del dibattito sulla “riforma” del fisco, individui come Orrin Hatch dichiarava che non possiamo “spendere miliardi e miliardi e miliardi di migliaia di miliardi per aiutare gente che non vuole aiutarsi da sola”. Proprio adesso stanno tirandola alla lunga sul finanziamento dei centri di salute delle comunità, lamentandosi del costo.
È lì che porta il gioco degli specchietti per allodole: approvare un enorme sgravio fiscale dal quale traggono benefici in modo schiacciante i ricchi, ma dare ai normali lavoratori poche briciole – proprio un pacchetto di patatine di tanto in tanto. Poi indicare i grandi deficit creati da quegli sgravi fiscali come il motivo per il quale devono essere tagliati i programmi sociali vitali per molte famiglie comuni. Insaponare, risciacquare, ripetere l’operazione [1].
È un imbroglio così chiaro che potreste pensare che i suoi autori abbiano un certo imbarazzo o che l’opinione pubblica sia diventata accorta. Ma la prima cosa non è destinata a succedere. Per la seconda – beh, lo vedremo a novembre.
[1] “Lather, rinse, repeat” è una espressione idiomatica che allude al linguaggio pubblicitario di alcune marche di shampoo (il “repeat” pare fosse semplicemente un buon modo per consumare prima il prodotto e venderne di più).
febbraio 6, 2018
Paul Krugman FEB. 2, 2018
This morning’s job market report was definitely good. Job creation was surprisingly strong for this late in an economic expansion; wages are finally rising, although still far more slowly than they were before the Great Recession. You never want to make too much of one month’s report, but this was clearly positive.
And stocks plunged. What?
One answer is that stocks gonna do what they’re gonna do – as Paul Samuelson famously put it, the market predicted nine of the last five recessions. But there’s a bit of economic logic here too. One way of looking at recent economic data is that they’re actually telling us that future U.S. growth will be lower than one might have hoped.
If we care about the medium term – say, 5 or 10 years – prospects for U.S. growth depend on two things. First, how much slack is there in the economy? How many people who aren’t working can still be drawn into employment without inflation taking off?
Second, how fast will productivity – output per person-hour – rise?
The first question has posed something of a puzzle. Standard indicators like the unemployment rate and the quit rate suggest an economy at more or less full employment. (Quits matter because they tell us how easily workers expect to find new jobs.) But low wage growth suggested that there might still be substantial room to run.
Now, finally, we may be seeing some significant wage gains:
Again, you don’t want to make too much of one month’s number. But the wage gain strengthens the case that we really are near full employment; interest rates rose because the odds of Fed rate hikes to limit inflation have risen. And that hit stocks.
Meanwhile, productivity numbers have been pretty dismal:
So what the data are suggesting, although not with a lot of confidence, is that America is about to settle into a low-growth rut, maybe 1.5% a year. And yes, that’s only half what Trump is promising.
Le cattive notizie nelle buone notizie,
di Paul Krugman
Il rapporto di stamane sul mercato del lavoro è certamente positivo. La creazione di posti di lavoro è stata sorprendentemente forte per questo periodo tardivo della espansione economica; i salari stanno finalmente crescendo, sebbene ancora assai più lentamente di quanto facevano prima della Grande Recessione. Non si dovrebbe mai attribuire troppo significato al rapporto di un mese, ma questo è stato chiaramente positivo.
E le azioni stanno crollando. Come è possibile?
Una risposta è che le azioni si comportano come si comportano – come si espresse notoriamente Paul Samuelson, il mercato ha previsto nove delle ultime cinque recessioni. Ma anche in questo c’è un po’ di logica economica. Un modo di guardare ai recenti dati dell’economia è che essi ci stanno dicendo che la crescita futura degli Stati Uniti sarà più bassa di quanto non ci si sarebbe aspettati.
Se ci occupiamo del medio termine – diciamo, 5 o 10 anni – le prospettive di crescita degli Stati Uniti dipendono da due fattori. Il primo, quanto è fiacca l’economia? Quante persone che non stanno lavorando possono ancora essere attratte nell’occupazione, senza che decolli l’inflazione?
Il secondo, con quanta velocità crescerà la produttività – la produzione per ora lavorativa di una persona?
La prima domanda ha costituito una specie di enigma. Gli indicatori consueti come il tasso di disoccupazione e il tasso di abbandono dei passati posti di lavoro indicano un’economia più o meno di piena occupazione (gli abbandoni sono importanti perché ci dicono quanto facilmente i lavoratori si aspettano di trovare nuovi posti di lavoro). Ma la bassa crescita dei salari indicava che lo spazio per correre poteva ancora essere sostanziale.
Adesso, finalmente, possiamo osservare qualche significativo miglioramento nei salari:
Lo ripeto, non si può dare troppa importanza al dato di un mese. Ma il miglioramento dei salari rafforza l’ipotesi che siamo realmente vicini alla piena occupazione; i tassi di interesse salgono perché le probabilità che la Fed aumenti il tasso di riferimento per limitare l’inflazione sono cresciute. E questo influisce sulle azioni.
Nel contempo, i dati sulla produttività sono stati abbastanza scadenti:
Dunque, quello che i dati ci stanno suggerendo, sebbene non con assoluta certezza, è che l’America è prossima ad abituarsi ad una monotonia di bassa crescita, forse l’1,5% all’anno. Ed è vero che questa è solo la metà di quello che Trump sta promettendo.
febbraio 6, 2018
Paul Krugman JAN. 31, 2018
A lot of Trump’s speech — and an even greater share of the emotional energy, since he seemed bored reciting misleading economic numbers — was devoted to lamenting a wave of violent crime by immigrants. Was this racist? Yes, of course. But saying that doesn’t capture the full evil of what he was doing (and I use the term “evil” advisedly).
For he wasn’t exaggerating a problem, or placing the blame on the wrong people. He was inventing a problem that doesn’t exist, and using that imaginary problem to demonize brown people.
Racist dog-whistles are, of course, nothing new in American politics. Indeed, much of the rise of the modern, far-right GOP rested on the politics of racial division, with even “respectable” Republicans perfectly willing to exploit racial fear and hostility — most famously, Bush the elder’s Willy Horton ad.
But here’s the thing: back in the 70s and 80s there really was a crime wave, and a lot of it did involve blacks. That’s no excuse for racism, let alone the cynical political exploitation of that racism. But at least the panic was about something real.
This time, by contrast, there is no crime wave — there have been a few recent bobbles, but many of our big cities have seen both a surge in the foreign-born population and a dramatic, indeed almost unbelievable, decline in violent crime:
FBI
Most notably of all, New York — once the emblem of the supposed collapse of law and order — is safer than it has ever been, despite being run by a mayor who, strange to say, has tried to rein in racist behavior by the police.
So Trump wants us to be scared of brown people based on nothing at all. That’s really ugly.
Peggio che per Willy Horton,
di Paul Krugman
Una gran parte del discorso di Trump – e una parte anche maggiore della sua energia emotiva, dato che egli sembrava annoiarsi recitando disorientanti numeri economici – è stata dedicata a lamentare un’ondata di crimini violenti da parte di immigrati. Un atteggiamento razzista? Ovviamente sì. Ma dir così non esprime pienamente il male di quello che faceva (e uso il termine “male” a buona ragione).
Perché non stava esagerando un problema, o dandone la colpa alle persone sbagliate. Stava inventandosi un problema che non esiste, e usando quel problema immaginario per demonizzare la gente di colore.
Naturalmente, i richiami razzisti non sono una novità nella politica americana. Infatti, gran parte della ascesa dell’attuale Partito Repubblicano di estrema destra si è basata sulla politica della divisione razziale, con anche i repubblicani “rispettabili” perfettamente disponibili a sfruttare il timore e l’ostilità razziale – il caso più famoso, la propaganda di Bush padre su Willy Horton [1].
Ma il punto è proprio lì: nei passati anni ’70 e ’80 c’era davvero un’ondata di criminalità, e in gran parte riguardava i neri. Questo non scusa il razzismo, per non dire il cinico sfruttamento di quel razzismo. Ma almeno il panico era per qualcosa di reale.
Oggi, all’opposto, non c’è alcuna ondata di criminalità – ci sono stati pochi casi recenti di individui fuori di testa [2], ma molte delle nostre grandi città hanno conosciuto sia una crescita di comunità straniere che uno spettacolare, in effetti quasi incredibile, declino dei crimini violenti:
FBI [3]
Il caso più rilevante, New York – una volta l’emblema del presunto collasso della legge e dell’ordine – è più sicura di quanto non sia mai stata, nonostante sia amministrata da un sindaco che, strano a dirsi, abbia cercato di tenere a freno comportamenti razzisti da parte della polizia.
Dunque Trump vuole che si sia terrorizzati dalla gente di colore basandosi su nulla. Il che è davvero disgustoso.
[1] Willy Horton era un individuo di colore che uscì da un carcere del Massachusetts per un permesso provvisorio e commise un nuovo crimine, nel 1988. Nella competizione elettorale tra Bush senior e Dukakis, il primo sfruttò efficacemente quel pretesto contro il candidato democratico e vinse le elezioni. Vorrei notare che è significativo che nella memoria dei progressisti questo sia rimasto come un episodio particolarmente indicativo di una brutale predisposizione ad argomenti razzistici nella lotta politica; in fondo Horton aveva commesso crimini veri, mentre il nigeriano che è stato all’origine di un regolamento di conti da parte di un fascista a Macerata contro persone di colore non sembra essere accusato di omicidio. Ma editoriali di giornali ‘benpensanti’ non trovano strano che il secondo episodio sia usato come argomento per definire tutti gli immigrati come una “bomba a orologeria”.
[2] Non sono riuscito a trovare un significato certo del termine “bobbles”, in particolare riferito a persone di colore. Il “bobble” è un copricapo con un piccolo pennacchio, ed ho pensato che potrebbe essere riferito ad una certa predilezione per tale abbigliamento da parte di giovani persone di colore o anche di individui marginali. Ma non ho trovato alcuna conferma. Ma “bobble-head” pare che si possa riferire a persone che somigliano a pupazzi, e possa significare anche “individui fuori di testa, casi clinici, rimbambiti”.
[3] La tabella a cura dell’FBI è relativa al “tasso di omicidi” negli Stati Uniti, nel periodo tra il 1960 e il 2014.
febbraio 6, 2018
Paul Krugman JAN. 30, 2018
Trump’s main goal in the State of the Union speech was to sound serious and presidential. Did he succeed? I don’t think so – I found the fear-mongering over immigrant crime disgusting. But mostly I don’t care. I’ve never seen much merit in the theater-criticism school of political punditry.
What matters is the substance, of which, let’s be honest, there usually isn’t much in a SOTU. Still, Trump was trying to sound as if he was offering serious new policy initiatives, notably on infrastructure.
So let’s be clear: while we desperately need new investment in public capital, Trump’s proposal – Trumpfrastructure? – isn’t remotely serious. At best, it would be a trivial sum of money pretending to be something big. At worst, it would amount to an orgy of crony capitalism, privatizing public assets while generating little new investment.
So, what’s being sold here? Trump gave a big number, $1.5 trillion. But a leaked draft of the plan says that it will involve only $200 billion of federal money. The rest is supposed to be induced spending from private investors. That’s quite a trick. How does it work?
The answer is, basically, that it doesn’t. Private investors won’t spend on public infrastructure unless guaranteed a return. This only works if they’re given ownership, and the ability to collect future revenue from the public.
First point: lots of infrastructure just can’t work that way. There’s no way to turn sewer systems, protective levees on rivers, and lots of other stuff into profit centers.
Second, even where it does work — say, on toll roads and bridges — that private investment doesn’t come free; it’s in return for the ability to collect fees from the public, which is just taxation in another form. And there’s no evidence that doing public investment this way saves any money. On the contrary, it usually ends up costing taxpayers more than just having the government build the thing.
Wait, it gets worse. Where does even the $200 billion come from? It’s not at all clear that it’s new money; much of it would probably be money that would have been spent on public projects anyway.
What this means is that we aren’t talking about a program to build infrastructure so much as a plan to convert what should have been public projects into private ventures, presumably with big tax breaks.
And who would get in on these lucrative privatization schemes? Do we even have to ask?
Le infrastrutture di Trump sono un inganno,
di Paul Krugman
Il principale obbiettivo di Trump nel discorso sullo Stato dell’Unione era apparire serio e ‘presidenziale’. C’è riuscito? Io non lo penso – ho trovato disgustoso il suo seminare paure sui crimini degli immigrati. Ma soprattutto non mi interessa. Non ho mai dato molto credito alla scuola da critiche da teatro dei commentatori politici.
Quello che conta è la sostanza, che come al solito non abbonda nei discorsi sullo Stato dell’Unione. Eppure Trump stava cercando di apparire come se stesse offrendo nuove serie iniziative politiche, in particolare sulle infrastrutture.
Siamo chiari, dunque: mentre abbiamo disperatamente bisogno di nuovi investimenti nel capitale pubblico, la proposta di Trump – la vogliamo chiamare ‘Trumpfrastruttura’ [1]? – non è neanche lontanamente seria. Nel migliore di casi è una quantità modesta di denaro che si finge sia qualcosa di cospicuo. Nel peggiore dei casi corrisponde ad un’orgia di capitalismo clientelare, che privatizza asset pubblici nel mentre genera pochi nuovi investimenti.
Dunque, cosa ci viene rivenduto in questo caso? Trump ha sparato un grande numero, 1.500 miliardi di dollari. Ma una bozza fatta trapelare del programma dice che esso riguarderà soltanto 200 miliardi di dollari di risorse federali. Il resto si suppone sia una spesa indotta da parte di investitori privati. È più o meno una fregatura. Come funziona?
Fondamentalmente, la risposta è che non funziona. Gli investitori privati non investiranno in infrastrutture pubbliche se non hanno garantito un rendimento. Il tutto funziona se gli verrà data la proprietà, e dalla successiva capacità di raccogliere entrate dal pubblico degli utenti.
Primo punto: molte infrastrutture semplicemente non funzionano in quel modo. Non c’è modo di rivolgersi ai centri di profitto per i sistemi delle fognature, per gli argini dei fiumi e per una quantità di altre cose.
In secondo luogo, anche laddove funzionasse – diciamo sulle autostrade e sui ponti a pedaggio – quell’investimento privato non sarebbe gratis; esso verrebbe in cambio della possibilità di raccogliere canoni dal pubblico, che non sono niente altro che tasse in un’altra forma. E non c’è prova che facendo un investimento pubblico in tali modi, esso sarebbe un risparmio di soldi. Al contrario, di solito esso finisce col costare ai contribuenti che avere soltanto il Governo che provvede.
Ma un momento, è peggio ancora. Da dove vengono persino i 200 miliardi? Non è affatto chiaro che si tratti di finanziamenti aggiuntivi, gran parte di essi sarebbero probabilmente soldi che sarebbero stati spesi in ogni caso in progetti pubblici.
Il che significa che non stiamo parlando di un programma per costruire infrastrutture quanto di un piano per convertire quelli che sarebbero stati progetti pubblici in rischiose imprese private, presumibilmente con grandi sgravi fiscali.
E a chi andrebbero questi schemi di privatizzazioni redditizi? È il caso di fare la domanda?
[1] Queste invenzioni di parole tramite accostamento dell’oggetto al nome dell’uomo politico a noi appaiono tra il fantasioso e il cervellotico. Ma piacciono molto agli americani: Obamacare, Reaganomics, Abenomics etc. etc.
gennaio 30, 2018
Paul Krugman JAN. 28, 2018
It’s a sure thing that Donald Trump will spend much of his State of the Union boasting about the economy. So this seems like a good time for a refresher on some basic macroeconomics – and the reasons why the expansion of 2017, which continued the long expansion that began in 2010, is in no sense a justification for wildly optimistic growth projections looking forward.
As a reminder, the Trump Treasury department claims that tax cuts will pay for themselves because the economy will grow at almost 3 percent a year for the next decade. This growth projection didn’t come from any model; it was just pulled out of … well, you fill in the rest. But every time there’s a good quarter of growth, the usual suspects take time off from talking about deep state conspiracies to claim that the forecast is coming true. Why is this nonsense?
First, you need to know that quarter-to-quarter and even year-to-year growth rates are very variable. The economy grew at a 5 percent annual rate during much of the Carter administration (how many people know that?); it grew around 4 percent during the second Clinton administration:
What’s behind these growth fluctuations? The business cycle. Potential output – the economy’s productive capacity – grows fairly smoothly. But recessions leave some of that capacity idle, and the economy can temporarily grow fast as that capacity is put back to use. The unemployment rate is an imperfect measure of idle capacity; still, there’s a strong relationship – Okun’s Law – between changes in the unemployment rate – capacity going into or out of use – and short-run economic growth.
The thing is, however, that we’re currently close to full employment. The unemployment rate is historically low. Other indicators, like the rate at which workers are quitting jobs (a sign of how confident they are of finding new jobs) also point to a more or less full employment economy. Wage growth and inflation are still subdued, but it’s still unlikely that unemployment can fall a lot from here. This means that growth over the next decade will have to come from rising capacity, meaning growth in potential output.
So is there any sign that potential output growth is anywhere near 3 percent, or in fact that it has accelerated? No. Here’s Okun’s Law for the past decade:
The relationship isn’t perfect, because this is economics, but it’s pretty strong. It suggests a potential growth rate – growth consistent with constant unemployment – of maybe 1.5 percent. And 2017 isn’t an outlier.
Why is potential growth so low? Unfavorable demographics are one big culprit: the baby-boomers are getting old (you kids get off my lawn), so the working-age population is barely growing. Oh, and cracking down on immigration is, you know, not likely to help on that front.
Productivity growth is also lackluster, despite all the hype about robots and all that.
So if you think about it, 2017 offers no evidence to support big talk about future growth. On the contrary, the fact that unemployment declined despite not-so-fast growth is a sign that growth will be a lot slower going forward, now that we don’t have a lot of unemployed Americans to put back to work.
Che cosa i dati economici non ci dicono,
di Paul Krugman
È certo che Donald Trump spenderà buona parte del discorso sullo Stato dell’Unione a vantarsi dell’economia. Questo dunque sembra un momento opportuno per un aggiornamento su alcuni aspetti di base della macroeconomia – e sulle ragioni per le quali l’espansione del 2017, che ha proseguito la lunga espansione che cominciò nel 2010, non è in alcun senso una giustificazione per dissennate previsioni ottimistiche sulla crescita del futuro.
Come promemoria, le pretese del Dipartimento del Tesoro di Trump secondo le quali i tagli delle tasse si ripagheranno da soli perché l’economia nel prossimo decennio crescerà di quasi il 3 per cento all’anno. Questa previsione di crescita non è derivata da alcun modello; è stata tirata fuori … beh, riempite voi il resto. Ma ogni volta che c’è un buon trimestre di crescita, i soliti noti si prendono una pausa dal parlare di gravi cospirazioni allo Stato per sostenere che la previsione si sta avverando. Perché si tratta di una sciocchezza?
In primo luogo dovete sapere che i tassi di crescita trimestre su trimestre e persino anno su anno sono estremamente variabili. L’economia crebbe ad un tasso annuale del 5 per cento durante buona parte della Amministrazione Carter (in quanti lo sanno?); crebbe attorno al 4 per cento durante la seconda Amministrazione Clinton:
Cosa c’è dietro queste fluttuazioni della crescita? Il ciclo economico. La produzione potenziale – la capacità produttiva dell’economia – cresce abbastanza regolarmente. Ma le recessioni lasciano un po’ di quella capacità produttiva nell’inerzia, e l’economia può crescere temporaneamente in modo veloce quando quella capacità è rimessa in uso. Il tasso di disoccupazione è una misura imperfetta della capacità produttiva inutilizzata; inoltre, c’è una forte relazione – la Legge di Okun [1] – tra i mutamenti nel tasso di disoccupazione – la capacità che esce o rientra in uso – e la crescita economica di breve periodo.
Il punto è, tuttavia, che attualmente siamo vicini alla piena occupazione. Il tasso di disoccupazione è storicamente basso. Anche altri indicatori, come il tasso al quale i lavoratori lasciano le loro occupazioni (un segno di quanto sono fiduciosi di trovarne di nuove) indicano un’economia più o meno di piena occupazione. La crescita salariale e l’inflazione sono ancora tenui, ma resta improbabile che la disoccupazione possa scendere molto dal punto in cui si trova. Questo significa che la crescita nel prossimo decennio dovrà venire da una crescente capacità produttiva, ovvero come crescita della produzione potenziale.
C’è dunque qualche segno che la crescita della produzione potenziale sia dappertutto vicina al 3 per cento, o che di fatto sia accelerata? No. Ecco l’andamento della Legge di Okun nel decennio passato:
La relazione non è perfetta, perché si tratta di economia, ma è abbastanza forte. Essa indica un tasso di crescita potenziale – crescita coerente con una disoccupazione costante – attorno all’1,5 per cento. E il 2017 non è una eccezione.
Perché la crescita potenziale è così bassa? Una grande causa è la demografia sfavorevole: la generazione dei baby-boomers sta diventando anziana (ragazzi, fuori dal mio giardino! [3]), cosicché la popolazione in età lavorativa cresce appena. Ragione per cui, sapete, il giro di vite sugli immigrati non è probabile che su quel fronte sia di alcun aiuto. Anche la crescita della produttività è fiacca, nonostante il gran chiasso sui robot e su tutto il resto.
Cosicché, se ci riflettete, il 2017 non offre alcuna prova a sostegno del gran parlare della crescita futura. Al contrario, il fatto che la disoccupazione sia calata nonostante una crescita non così veloce è un segno che la crescita sarà un bel po’ più lenta andando avanti, ora che non abbiamo più una gran quantità di americani disoccupati da rimettere al lavoro.
[1] In economia, la legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962) è una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia con le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazione diminuirà in misura meno che proporzionale. Negli Stati Uniti durante il periodo che va dal 1965, questa legge ha interpretato la situazione economica, stabilendo che per ogni punto percentuale del tasso di disoccupazione, o meglio del tasso naturale di disoccupazione, il PIL reale si riduce dai 2 ai 3 punti percentuali. (Wikipedia)
[2] La tabella mostra i dieci anni del decennio considerato (i puntini blu, tra i quali viene evidenziato quello relativo al 2017). Sulla linea verticale la crescita del PIL, su quella orizzontale le variazioni della disoccupazione. Come si vede ci sono tre anni nei quali la disoccupazione cresce anche considerevolmente (il 2008, il 2009 e il 2010, probabilmente); un anno nel quale resta immutata, gli altri anni nei quali cala per effetto della ripresa (la recessione americana durò un biennio, anche se la ripresa non fu velocissima). Ogni puntino blu indica due valori: la crescita o la decrescita del PIL, la crescita o la decrescita della disoccupazione. La linea blu tratteggiata indica la mediana dell’intero periodo.
[3] Si tratta di una frase idiomatica vecchia di un secolo; letteralmente indica una persona anziana che ammonisce dei fanciulli a non calpestare il suo giardino. Ma in termini più generali suppongo sia anche un modo ironico per indicare l’età di chi la pronuncia. In questo caso, ad esempio, indica che Krugman ha memoria di cosa fosse il periodo post-bellico del boom dei figli (la generazione dei baby-boomers), diversamente da molti suoi lettori.
gennaio 30, 2018
Paul Krugman JAN. 26, 2018
I haven’t been paying a lot of attention to quarterly GDP numbers. For one thing, they do tend to bounce around a lot; for another, claims that a good number in a particular quarter somehow validates the Trumpian claim to be able to achieve high growth for a decade are almost too stupid to argue with.
But there are a couple of points I think are worth making about growth over the past year.
First, as Jason Furman notes, a good part of the 2.5% growth seems to be cyclical – the result of the economy moving closer to full employment, not a pickup in the underlying growth rate of potential output, which looks more like 1% than the 3% Trump et al need to make their numbers work.
Second, as Jason also notes, that cyclical expansion doesn’t look too healthy when you look at it closely. It is not being driven mainly by rising business investment. Here’s biz investment as a share of GDP in recent years: it bounces around some, largely because of the rise, fall, and partial recovery of fracking, but is not especially high:
What we see instead is a large decline in personal savings, which are now down to levels not seen since before the financial crisis:
Why is saving down? Maybe it’s the stock market (which is starting to feel more like a bubble than it did even a few months ago), maybe it’s eat, drink, and be merry, for tomorrow we have a constitutional crisis/a nuclear war/Skynet kills us all. Whatever: saving can’t keep falling, and you wonder whether households are getting overstretched again.
I’m not predicting a crisis; this doesn’t look nearly as bad as the U.S. economy in the housing bubble years. (And I’m trying extra hard, given my election night freakout, not to let my political dismay distort my economic judgment.) But as I said, this growth doesn’t look very healthy.
L’economia spendacciona,
di Paul Krugman
Non ho prestato molta attenzione ai dati trimestrali del PIL. Da una parte, essi tendono davvero ad andare molto su e giù; dall’altra, gli argomenti per i quali un buon dato in un particolare trimestre convalidi la pretesa di Trump di essere capace di realizzare una crescita elevata per un decennio sono praticamente troppo stupidi per discuterne.
Ma ci sono un paio di aspetti che penso meriti avanzare sulla crescita nel corso dell’anno passato.
In primo luogo, come osserva Jason Furman, una buona parte della crescita del 2,5 per cento sembra essere ciclica – il risultato di un’economia che si avvicina alla piena occupazione, non una risalita del sottostante tasso di crescita della produzione potenziale, che pare più probabile si collochi nei pressi dell’1% che non del 3%. Trump e compagnia hanno bisogno di far funzionare i loro dati.
In secondo luogo, come osserva anche Jason, quando la guardate attentamente quella espansione ciclica non sembra molto sana. Essa non è guidata principalmente da una crescita degli investimenti di impresa. Ecco, negli anni recenti, l’investimento delle imprese come percentuale del PIL: esso balzella avanti e indietro, in gran parte a causa della crescita, della caduta e della parziale ripresa della industria della fratturazione degli scisti bituminosi, ma non è particolarmente elevato:
Quello che invece è in ampia caduta sono i risparmi individuali, che adesso sono in basso a livelli non visti da prima della crisi finanziaria:
Perché i risparmi scendono? Forse per il mercato azionario (che sta cominciando a dare maggiormente l’impressione di una bolla di quanto non facesse persino pochi mesi fa), forse dipende dalla spensieratezza, dal fatto che si annuncia una crisi costituzionale/una guerra nucleare/una ecatombe provocata da Skynet [1]. In ogni modo: i risparmi non possono continuare a scendere, e c’è da chiedersi se le famiglie non stiano di nuovo diventando troppo stressate.
Non sto prevedendo una crisi; tutto questo non sembra lontanamente così negativo da come era l’economia statunitense negli anni della bolla immobiliare (e io sto cercando in tutti i modi, considerato come uscii dai gangheri la notte delle elezioni, di non consentire al mio sconcerto per i fatti della politica di distorcere il mio giudizio economico [2]). Ma, come ho detto, questa crescita non sembra molto sana.
[1] Skynet è un’immaginaria rete di supercomputer descritta nel ciclo cinematografico di Terminator.
[2] Nella notte delle elezioni Krugman ipotizzò che la vittoria di Trump avrebbe portato ad una crisi dell’economia. Dopo poche ore si scusò per l’esagerazione. Ma quell’eccesso gli ha comunque provocato un “premio” da parte di Trump per la più grande ‘falsa notizia’ dell’anno.
gennaio 16, 2018
Paul Krugman JAN. 15, 2018
Portrait of a young man, circa 1864, representing the nativist ideal of the Know Nothing party.
These days calling someone a “know-nothing” could mean one of two things.
If you’re a student of history, you might be comparing that person to a member of the Know Nothing party of the 1850s, a bigoted, xenophobic, anti-immigrant group that at its peak included more than a hundred members of Congress and eight governors. More likely, however, you’re suggesting that said person is willfully ignorant, someone who rejects facts that might conflict with his or her prejudices.
The sad thing is that America is currently ruled by people who fit both definitions. And the know-nothings in power are doing all they can to undermine the very foundations of American greatness.
The parallels between anti-immigrant agitation in the mid-19th century and Trumpism are obvious. Only the identities of the maligned nationalities have changed.
After all, Ireland and Germany, the main sources of that era’s immigration wave, were the shithole countries of the day. Half of Ireland’s population emigrated in the face of famine, while Germans were fleeing both economic and political turmoil. Immigrants from both countries, but the Irish in particular, were portrayed as drunken criminals if not subhuman. They were also seen as subversives: Catholics whose first loyalty was to the pope. A few decades later, the next great immigration wave — of Italians, Jews and many other peoples — inspired similar prejudice.
And here we are again. Anti-Irish prejudice, anti-German prejudice, anti-Italian prejudice are mostly things of the past (although anti-Semitism springs eternal), but there are always new groups to hate.
But today’s Republicans — for this isn’t just about Donald Trump, it’s about a whole party — aren’t just Know-Nothings, they’re also know-nothings. The range of issues on which conservatives insist that the facts have a well-known liberal bias just keeps widening.
One result of this embrace of ignorance is a remarkable estrangement between modern conservatives and highly educated Americans, especially but not only college faculty. The right insists that the scarcity of self-identified conservatives in the academy is evidence of discrimination against their views, of political correctness run wild.
Yet conservative professors are rare even in hard sciences like physics and biology, and it’s not difficult to see why. When the more or less official position of your party is that climate change is a hoax and evolution never happened, you won’t get much support from people who take evidence seriously.
But conservatives don’t see the rejection of their orthodoxies by people who know what they’re talking about as a sign that they might need to rethink. Instead, they’ve soured on scholarship and education in general. Remarkably, a clear majority of Republicans now say that colleges and universities have a negative effect on America.
So the party that currently controls all three branches of the federal government is increasingly for bigotry and against education. That should disturb you for multiple reasons, one of which is that the G.O.P. has rejected the very values that made America great.
Think of where we’d be as a nation if we hadn’t experienced those great waves of immigrants driven by the dream of a better life. Think of where we’d be if we hadn’t led the world, first in universal basic education, then in the creation of great institutions of higher education. Surely we’d be a shrunken, stagnant, second-rate society.
And that’s what we’ll become if modern know-nothingism prevails.
I’ve been rereading an important 2012 book, Enrico Moretti’s “The New Geography of Jobs,” about the growing divergence of regional fortunes within the United States. Until around 1980, America seemed on the path toward broadly spread prosperity, with poor regions like the Deep South rapidly catching up with the rest. Since then, however, the gaps have widened again, with incomes in some parts of the nation surging while other parts fall behind.
Moretti argues, rightly in the view of many economists, that this new divergence reflects the growing importance of clusters of highly skilled workers — many of them immigrants — often centered on great universities, that create virtuous circles of growth and innovation. And as it happens, the 2016 election largely pitted these rising regions against those left behind, which is why counties carried by Hillary Clinton, who won only a narrow majority of the popular vote, account for a remarkable 64 percent of U.S. G.D.P., almost twice as much as Trump counties.
Clearly, we need policies to spread the benefits of growth and innovation more widely. But one way to think of Trumpism is as an attempt to narrow regional disparities, not by bringing the lagging regions up, but by cutting the growing regions down. For that’s what attacks on education and immigration, key drivers of the new economy’s success stories, would do.
So will our modern know-nothings prevail? I have no idea. What’s clear, however, is that if they do, they won’t make America great again — they’ll kill the very things that made it great.
I “Non-so-nulla” del Ventunesimo Secolo,
di Paul Krugman
Al giorno d’oggi, chiamare qualcuno “Non-so-nulla” può significare una di queste due cose.
Se siete uno studente, potreste voler paragonare quella persona al Partito del “Non-so-nulla” degli anni attorno al 1850, un gruppo fazioso, xenofobo, contro gli immigranti che nel suo fulgore comprendeva più di un centinaio di membri del Congresso e otto Governatori. È più probabile, tuttavia, che vogliate suggerire che tale persona è un ostinato ignorante, qualcuno che respinge i fatti che potrebbero entrare in conflitto con i suoi pregiudizi.
La cosa triste è che l’America è attualmente governata da individui che calzano alla perfezione con entrambe le definizioni. E i “Non-so-nulla” al potere stanno facendo tutto il possibile per mettere a repentaglio i veri fondamenti della grandezza americana.
I paralleli tra l’agitazione contro gli immigranti nella metà del diciannovesimo secolo e il trumpismo sono evidenti. Sono cambiati solo i riferimenti delle nazionalità diffamate.
In fin dei conti, l’Irlanda e la Germania, le principali fonti delle ondate migratorie di quell’epoca, erano i ‘paesi cesso’ all’ordine del giorno [1]. Metà della popolazione dell’Irlanda emigrò a fronte della carestia, mentre i tedeschi erano in fuga sia dal subbuglio economico che da quello politico. Gli immigranti di entrambi i paesi, ma gli irlandesi in particolare, venivano descritti come criminali ubriachi se non come subumani. Erano anche considerati sovversivi: cattolici soprattutto fedeli al Papa. Alcuni decenni dopo, la successiva grande ondata migratoria – degli italiani, degli ebrei e di molti altri popoli – ispirava simili pregiudizi.
E siamo di nuovo a quel punto. Il pregiudizio contro gli irlandesi, quello contro i tedeschi e quello contro gli italiani sono soprattutto cose del passato (sebbene il pregiudizio antisemita zampilli eternamente), ma ci sono sempre nuovi gruppi da odiare.
Sennonché i repubblicani odierni – la cosa non riguarda soltanto Donald Trump, riguarda il partito nel suo complesso – non sono solo i “Non-so-nulla” di quella tradizione storica, sono anche “non-so-nulla” letterali. La gamma dei temi sui quali i conservatori ribadiscono che i fatti hanno una ben nota inclinazione progressista continua proprio ad allargarsi.
Un risultato di questo sposare l’ignoranza è una rilevante separazione tra i conservatori contemporanei e gli americani di elevata istruzione, specialmente, ma non solo, quelli delle facoltà universitarie. La destra insiste che la scarsità di coloro che si definiscono conservatori negli ambienti accademici è la prova della discriminazione contro i loro punti di vista, del ‘politicamente corretto’ che dilaga.
Tuttavia i professori conservatori sono molto rari persino nelle scienze naturali come fisica e biologia, e non è difficile capire perché. Quando la più o meno ufficiale posizione del vostro partito è che il cambiamento climatico è una bufala e l’evoluzione non c’è mai stata, non avrete molto sostegno dalle persone che prendono sul serio le prove.
Ma i conservatori non considerano il rigetto delle loro ortodossie da parte di persone che sanno di cosa parlano, come un segno che forse dovrebbero pensarci meglio. Piuttosto, sono irritati con il sapere e con l’istruzione in generale. È rilevante che una chiara maggioranza di repubblicani adesso dica che i college e le università [2] hanno un effetto negativo sull’America.
Dunque, il Partito che attualmente controlla i tre rami del Governo Federale è sempre più favorevole al fanatismo e ostile alla istruzione. Il che dovrebbe preoccuparvi per varie ragioni, una delle quali è che il Partito Repubblicano rigetta i veri valori che hanno reso grande l’America.
Si pensi a dove saremmo come nazione se non avessimo conosciuto quelle grandi ondate di immigranti guidati dal sogno di una vita migliore. Si pensi a dove saremmo se non avessimo guidato il mondo, prima di tutto nella istruzione universale di base, poi nella creazione di grandi istituti di educazione superiore. Sicuramente saremmo una società rinsecchita, stagnante, di secondo livello.
Ed è quello che diventeremo, se il “non –so-nulla” odierno prevarrà.
Ho riletto un importante libro del 2012, “La nuova geografia dei posti di lavoro” di Enrico Moretti [3], sulla crescente divergenza delle fortune regionali all’interno degli Stati Uniti. Sino a circa il 1980, l’America sembrava sulla strada di una prosperità ampiamente diffusa, con regioni povere come il Profondo Sud che stavano raggiungendo tutte le altre. Da allora, tuttavia, i divari si sono nuovamente allargati, con i redditi che salivano in alcune parti della nazione, mentre in altre restavano indietro.
Moretti sostiene, giustamente secondo l’opinione di molti economisti, che questa nuova divergenza riflette la crescente importanza di distretti con lavoratori altamente specializzati – molti dei quali immigranti – spesso centrati su grandi Università, che creano circoli virtuosi di crescita e di innovazione. E accade che le elezioni del 2016 abbiano in gran parte messo in competizione queste regioni in crescita contro quelle rimaste indietro, che è il motivo per il quale le contee dove ha vinto Hillary Clinton, che guadagnò solo una stretta maggioranza del voto popolare, pesano per un considerevole 64 per cento del PIL degli Stati Uniti, quasi due volte tanto le contee di Trump.
Chiaramente, abbiamo bisogno di diffondere più ampiamente i benefici della crescita e dell’innovazione. Ma un modo di pensare al trumpismo è considerarlo come un tentativo di ridurre le disparità regionali, non portando in alto le regioni che restano indietro, bensì tagliando sulle regioni in crescita. Perché è quello che farebbero gli attacchi all’istruzione e all’immigrazione, fattori cruciali dei successi della nuova economia.
Dunque i nostri “Non-so-nulla” moderni prevarranno? Non ne ho idea. Quello che è chiaro, tuttavia, è che essi non renderanno di nuovo grande l’America – piuttosto ammazzeranno i fattori che l’hanno davvero resa grande.
[1] È noto che la definizione (”shithole countries”) è stata coniata da Trump, riferita ad Haiti, al Salvador e all’Africa intera.
[2] Nonostante spesso siano usati come sinonimi, il College e la University, negli Stati Uniti, sono due cose distinte. Sia perché, effettivamente, sono due tipi di istituti scolastici differenti, sia perché tra loro hanno molte differenze che inducono spesso a scegliere uno piuttosto che un altro. Una prima grande differenza sta nella dimensione dei due istituti; il college è un leggermente più piccolo, anche per la dimensione delle aule. Un’altra differenza la si registra nella durata del percorso di studi. Il college propone una scelta che si orienta in uno o due campi di studio. Chi sceglie l’università, invece, ha una scelta più ampia e variegata. Il college dura, solitamente, quattro anni e al termine di esso si ottiene il Bachelor. L’università ha una durata maggiore, terminata la quale si ottiene un Degree (Laurea) alla quale possono aggiungersi dottorati e/o master. Le risorse economiche disponibili dall’università (con relativo costo maggiore della retta annuale) sono maggiori rispetto a quelle del college e questo si registra anche nelle disponibilità in termini di mezzi e di strumenti per la ricerca. (Lettera 43)
[3] Il libro è pubblicato anche in Italia. Enrico Moretti, chiaramente italiano, è professore all’Università di Berkeley.
gennaio 7, 2018
Paul Krugman JAN. 5, 2018
I haven’t yet read Wolff’s book – do I really have to? — but the basic outlines of his story have long been familiar and uncontroversial to anyone with open eyes. Trump is morally and intellectually incapable of being president. He has also exploited his office for personal gain, obstructed justice, and colluded with a hostile foreign power. Everyone who doesn’t get their news from Fox has basically known this for a while, although Wolff helps focus our minds on the subject.
It seems to me that that the real news now is the way Republicans in Congress are dealing with this national nightmare: rather than distancing themselves from Trump, they’re doubling down on their support and, in particular, on their efforts to cover for his defects and crimes. Remember when Paul Ryan was the Serious, Honest Conservative? (He never really was, but that was his public image.) Now he’s backing Devin Nunes in his efforts to help the Trump coverup.
As Brian Beutler says, Republicans have become the Grand Obstruction Party. Why?
The answer, I think, is that the cynical bargain that has been the basis of Republican strategy since Reagan has now turned into a moral trap. And as far as we can tell, no elected Republican – not one – has the strength of character to even attempt an escape.
The cynical bargain I’m talking about, of course, was the decision to exploit racism to advance a right-wing economic agenda. Talk about welfare queens driving Cadillacs, then slash income taxes. Do Willie Horton, then undermine antitrust. Tout your law and order credentials, then block health care.
For more than a generation, the Republican establishment was able to keep this bait-and-switch under control: racism was deployed to win elections, then was muted afterwards, partly to preserve plausible deniability, partly to focus on the real priority of enriching the one percent. But with Trump they lost control: the base wanted someone who was blatantly racist and wouldn’t pretend to be anything else. And that’s what they got, with corruption, incompetence, and treason on the side.
Nonetheless, aside from a handful of Never Trumpers, just about everyone in the Republican establishment decided that they could work with that. They knew what Trump was, but were willing to overlook it as long as they could push their usual agenda. What about the populism? They guessed, correctly, that this wouldn’t be a problem: Trump didn’t even hesitate about abandoning all his campaign promises and going all in for cutting taxes on the rich while slashing benefits for the poor.
Early on, some speculated that this would be a temporary alliance – that establishment Republicans would use Trump to get what they wanted, then turn on him. But it’s now clear that won’t happen. Trump has exceeded everyone’s worst expectations, yet Republicans, far from cutting him loose, are tying themselves even more closely to his fate. Why?
The answer, I’d argue, is that they’re stuck. They knowingly made a deal with the devil, and can’t back out.
More specifically, Trump’s very awfulness means that if he falls, the whole party will fall with him. Republicans could conceivably distance themselves from a president who turned out to be a bad manager, or even one who turned out to have engaged in small-time corruption. But when the corruption is big time, and it’s combined with obstruction of justice and collaboration with Putin, nobody will notice which Republicans were a bit less involved, a bit less obsequious, than others. If Trump sinks, he’ll create a vortex that sucks down everyone involved.
And so we now have the Republican party as a whole fully complicit in Trump’s crimes – because that’s what they are, whether or not he and those around him are ever brought to justice.
What this means, among other things, is that expecting the GOP to exercise any oversight or constrain Trump in any way is just foolish at this point. Massive electoral defeat – massive enough to overwhelm gerrymandering and other structural advantages of the right – is the only way out.
Faust sul Potomac,
di Paul Krugman
Non ho ancora letto il libro di Wolff – lo devo fare per davvero? – ma le linee di fondo del suo racconto erano familiari e scontate per chiunque prestasse un po’ di attenzione. Trump è intellettualmente e moralmente incapace di fare il Presidente. Per giunta, ha sfruttato la sua carica per guadagni personali, ha intralciato la giustizia e si è compromesso con una potenza straniera ostile. Chiunque non si informi su Fox, fondamentalmente è un po’ che si rende conto di questo, sebbene Wolff ci aiuti a concentrare su tale tema la nostra riflessione.
A questo punto, mi sembra che la vera notizia sia il modo in cui i repubblicani nel Congresso stanno facendo i conti con questo incubo nazionale: anziché prendere le distanze da Trump, raddoppiano il loro sostegno e, in particolare, i loro sforzi per coprire i suoi difetti e le sue colpe. Vi ricordate quando Paul Ryan era il Conservatore Serio ed Onesto (non lo è mai stato, ma la sua opinione pubblica così se lo immaginava)? Adesso va dietro a Devin Nunes e ai suoi sforzi per coprire Trump.
Come dice Brian Beutler [1], i repubblicani sono diventati il Grande Partito dell’Ostruzionismo [2]. Perché?
Penso che la risposta sia che il cinico accordo che è stato alla base della strategia repubblicana dai tempi di Reagan, si è ora trasformato in una trappola morale. E per quanto posso capire, non c’è alcun repubblicano eletto – proprio nessuno – che abbia la forza o il carattere neanche per tentare una via di fuga.
Il cinico accordo di cui sto parlando, naturalmente, è stata la decisione di sfruttare il razzismo per promuovere un programma economico di estrema destra. Parlare delle ‘regine dell’assistenza’ che guidano le Cadillac [3], per poi abbattere le tasse sul reddito. Sfruttare il caso di Willie Horton [4], per mettere a repentaglio la legislazione antitrust. Promuovere le loro credenziali su legge e ordine, per poi bloccare la riforma sanitaria.
Per più di una generazione, il gruppo dirigente repubblicano è riuscito a tenere sotto controllo questo specchietto per le allodole: il razzismo veniva messo in campo per vincere le elezioni, in seguito veniva messo da parte, un po’ per tutelare in modo plausibile la propria estraneità al razzismo, un po’ per concentrarsi sulla priorità vera dell’arricchire l’1 per cento dei più ricchi. Ma con Trump hanno perso il controllo: la base voleva qualcuno che fosse sfacciatamente razzista e che non fingesse d’essere qualcosa d’altro. Ed è quello che hanno ottenuto, con l’aggiunta della corruzione, dell’incompetenza e del tradimento.
Ciononostante, a parte una manciata di oppositori irriducibili di Trump, quasi tutti nel gruppo dirigente repubblicano hanno deciso che avrebbero potuto dare una mano. Sapevano chi fosse Trump, ma erano disponibili a soprassedere finché avessero potuto portare avanti i loro consueti affari. Cosa dire del populismo? Correttamente, hanno pensato che quello non sarebbe stato un problema: Trump non avrebbe avuto alcuna esitazione nell’abbandonare tutte quelle promesse elettorali e nell’aderire interamente ai tagli delle tasse sui ricchi e all’abbattimento dei sussidi sulla povera gente.
Agli inizi, qualcuno ipotizzava che questa sarebbe stata una alleanza provvisoria – il gruppo dirigente repubblicano avrebbe usato Trump per ottenere quello che voleva, poi gli avrebbe voltato le spalle. Ma adesso è chiaro che questo non accadrà. Trump ha superato le peggiori aspettative di chiunque, tuttavia i repubblicani, lungi dal lasciarlo, si stanno legando sempre più strettamente al suo destino. Perché?
Direi che la risposta è che sono impantanati. Hanno fatto consapevolmente un accordo col diavolo e non possono tornare indietro.
Più in particolare, gli aspetti più sconci di Trump comportano che se lui cade, l’intero Partito cade con lui. I repubblicani potrebbero comprensibilmente prendere le distanze da un Presidente che si è scoperto essere un pessimo gestore della cosa pubblica, o che si è persino scoperto essere coinvolto in piccole faccende di corruzione. Ma quando la corruzione è a pieno regime, ed è accompagnata da atti di intralcio alla giustizia e dalla collaborazione con Putin, nessuno si accorgerà di quali repubblicani siano stati un po’ meno coinvolti, un po’ meno ossequiosi degli altri. Se Trump affonda, creerà un vortice che risucchierà tutti coloro che in qualche modo sono stati partecipi.
E dunque adesso abbiamo l’intero Partito Repubblicano pienamente complice delle nefandezze di Trump – perché è questo che sono, a prescindere dal fatto che lui e quelli che gli stanno dintorno vengano mai portati nei tribunali.
Quello che tutto questo comporta, assieme ad altre cose, è che a questo punto aspettarsi che il Partito Repubblicano eserciti una qualche vigilanza o tenga in qualche modo Trump sotto controllo, è una pura sciocchezza. Una massiccia sconfitta elettorale – massiccia al punto da superare l’organizzazione truffaldina dei distretti elettorali ed altri vantaggi strutturali della destra [5] – è l’unico modo per venirne fuori.
[1] Un giornalista che ha scritto (vedi la connessione) un articolo sul tema sulla rivista “Crooked”.
[2] Il Partito Repubblicano è normalmente chiamato GOP (Great Old Party, Grande Vecchio Partito), dunque con lo stesso acronimo.
[3] È una famosa polemica di Reagan, che si riferiva a donne di colore con macchine di lusso e sussidi assistenziali.
[4] Willie Horton era un individuo di colore responsabile di gravi crimini, che aveva ottenuto un congedo provvisorio dal penitenziario e durante quel periodo si rese responsabile di ulteriori crimini, e che venne abbondantemente utilizzato nella campagna elettorale di Bush padre del 1988.
[5] Per una migliore comprensione, in particolare, degli aspetti ulteriori del carattere non poco truffaldino delle elezioni americane – oltre alla geografia dei distretti elettorali che venne inaugurata due secoli fa da un congressista americano, Elbridge “Gerry”, detto anche “salamandra” per la tortuosa configurazione di distretti elettorali che ideò, che consentiva di aumentare i seggi a proprio favore in particolare nelle zone rurali – si veda l’intervista a Greg Palast qua tradotta, nella sezione “Saggi e articoli su riviste”. In genere si tratta di misure burocratiche che ostacolano il diritto di voto degli elettori di colore e delle minoranze etniche.
gennaio 4, 2018
Paul Krugman JAN. 1, 2018
On election night 2016, I gave in temporarily to a temptation I warn others about: I let my political feelings distort my economic judgment. A very bad man had just won the Electoral College; and my first thought was that this would translate quickly into a bad economy. I quickly retracted the claim, and issued a mea culpa. (Being an old-fashioned guy, I try to admit and learn from my mistakes.)
What I should have clung to, despite my dismay, was the well-known proposition that in normal times the president has very little influence on macroeconomic developments — far less influence than the chair of the Federal Reserve.
This only stops being true when the economy is so depressed that monetary policy loses traction, as was the case in 2009-10; at that point it mattered a lot that Obama was willing to engage in fiscal stimulus, and it also mattered a lot, unfortunately, that Republican opposition plus Obama’s own caution meant that the stimulus was much smaller than it should have been. By 2016, however, the aftershocks of the financial crisis had faded away to the point that the usual rules once again applied.
Indeed, if we could find an economist who didn’t know that there was an election in 2016, and showed her the economic data for the past couple of years, she would have no clue that something drastic happened:
For that matter, economic developments in the U.S. during Trump’s first year were remarkably similar to developments in other advanced countries. Europe, in particular, has at least for now emerged from the shadow of the euro crisis, and is steadily growing — if you take its lower population growth into account, it’s doing a bit better than the US:
So we’re living in an era of political turmoil and economic calm. Can it last?
My answer is that it probably can’t, because the return to normalcy is fragile. Sooner or later, something will go wrong, and we’re very poorly placed to respond when it does. But I can’t tell you what that something will be, or when it will happen.
The key point is that while the major advanced economies are currently doing more or less OK, they’re doing so thanks to very low interest rates by historical standards. That’s not a critique of central bankers. All indications are that for whatever reason — probably low population growth and weak productivity performance — our economies need those low, low rates to achieve anything like full employment. And this in turn means that it would be a terrible, recession-creating mistake to “normalize” rates by raising them to historical levels.
But given that rates are already so low when things are pretty good, it will be hard for central bankers to mount an effective response if and when something not so good happens. What if something goes wrong in China, or a second Iranian revolution disrupts oil supplies, or it turns out that tech stocks really are in a 1999ish bubble? Or what if Bitcoin actually starts to have some systemic importance before everyone realizes it’s nonsense?
I’m not predicting any of these things, and when the next big shock comes it will probably come from some direction I haven’t thought of. But when it does come, we’ll need an effective, coherent response from officials beyond the world of central banking.
So imagine such an event happening soon. How confident would you feel in the team of Donald Trump and Steve Mnuchin? How much leadership could a weakened Angela Merkel exert in a fragmented Europe?
You might have thought that such concerns would weigh on markets even now. But for whatever reason, investors are currently in what-me-worry mode. And let’s hope that they’re right — that by the time stuff happens, we’ll actually have non-delusional people in charge.
L’economia può mantenere la calma e andare avanti?
Di Paul Krugman
Nella notte delle elezioni del 2016, cedetti temporaneamente alla tentazione di mettere in guardia gli altri su una possibilità; permisi che le mie sensazioni politiche distorcessero il mio giudizio economico. Un pessimo individuo aveva appena ottenuto i voti del Collegio Elettorale e il mio primo pensiero fu che questo si sarebbe tradotto rapidamente in una cattiva situazione economica. In breve tempo ritrattai quella pretesa e recitai un mea culpa (essendo una persona all’antica, cerco di ammettere i miei errori e di imparare da essi).
Avrei dovuto restare fedele, nonostante il mio sgomento, al concetto ben noto secondo il quale in tempi normali un Presidente ha ben poca influenza sugli sviluppi macroeconomici – una influenza assai minore di quella del Presidente della Federal Reserve.
Tutto questo cessa di essere vero quando l’economia è così depressa che la politica monetaria perde la sua capacità di presa, come avvenne nel 2009-10; a quel punto contò molto che Obama fosse disposto ad impegnarsi nello stimolo della finanza pubblica, e contò anche molto, sfortunatamente, che l’opposizione repubblicana sommata alla cautela di Obama comportassero che lo stimolo fosse molto più piccolo di quello che avrebbe dovuto essere. Col 2016, tuttavia, le scosse di assestamento della crisi finanziaria si erano a tal punto affievolite che tornarono ad applicarsi le regole usuali.
In effetti, se potessimo trovare una economista che non era al corrente che nel 2016 c’erano state le elezioni, e le mostrassimo i dati economici dei due anni passati, ella [1] non avrebbe avuto alcun indizio che era accaduto qualcosa di grave:
Per quella ragione, gli sviluppi economici negli Stati Uniti durante il primo anno di Trump sono stati considerevolmente simili agli sviluppi negli altri paesi avanzati. L’Europa in particolare è almeno sinora emersa dalle ombre della crisi dell’euro, e sta crescendo stabilmente – se mettete nel conto la crescita più bassa della popolazione, sta andando un po’ meglio degli Stati Uniti:
Stiamo dunque vivendo in un’epoca di trambusto politico e di calma dell’economia? Può durare? La mia risposta è che probabilmente non può durare, perché il ritorno alla normalità è fragile. Prima o poi qualcosa andrà storto, e quando accadrà noi saremo collocati in modo molto disagevole per rispondere. Ma non posso dirvi cosa sarà quel qualcosa, o quando accadrà.
La questione centrale è che se attualmente le principali economie avanzate stanno andando più o meno bene, si stanno comportando così grazie ai tassi di interesse molto bassi secondo le serie storiche. Questa non è una critica ai banchieri centrali. Tutte le indicazioni ci dicono che per qualsiasivoglia ragione – probabilmente per una crescita bassa della popolazione e per un andamento debole della produttività – le nostre economie hanno bisogno di tassi molto bassi per realizzare qualcosa di simile alla piena occupazione. E questo a sua volta significa che sarebbe un terribile errore, che creerebbe recessione, “normalizzare” i tassi rialzandoli a livelli storici.
Ma dato che i tassi sono già così bassi quando le cose sono abbastanza positive, sarà difficile per i banchieri centrali organizzare una risposta efficace se e quando accadesse qualcosa di non così positivo. Cosa accade se qualcosa non va per il verso giusto in Cina, o se una seconda rivoluzione iraniana mette nel caos le offerte di petrolio, o cosa accadrebbe se le azioni nel settore dell’alta tecnologia fossero davvero dentro una bolla simile a quella del 1999? [4] Oppure cosa accade se il Bitcoin effettivamente comincia ad avere un qualche importanza di sistema prima che tutti comprendano la sua insensatezza?
Non sto predicendo nessuna di queste cose, e quando il prossimo grande trauma verrà, probabilmente deriverà da qualche direzione alla quale non ho pensato. Ma quando davvero arriverà, avremo bisogno di una efficace e coerente risposta da parte rei responsabili che stanno oltre il mondo delle banche centrali.
Immaginiamo dunque che un tale evento avvenga prossimamente. Quanta fiducia avreste nella squadra di Donald Trump e di Steve Mnuchin? Quanta capacità di direzione potrebbe esercitare una indebolita Angela Merkel in un’Europa frammentata?
Potreste aver pensato che preoccupazioni del genere dovrebbero pesare sui mercati anche adesso. Ma per una qualche ragione, gli investitori sono attualmente nella modalità del “chi se ne frega”. E speriamo che abbiano ragione – che nel tempo necessario perché le cose accadano, avremo effettivamente in carica individui non deliranti.
[1] Confesso la mia ignoranza, ma non conosco per quale eventuale regola talora – seppur raramente – si hanno queste versioni ‘al femminile’ di frasi ordinarie, senza che nessuna ragione apparente lo giustifichi. Potrebbe trattarsi di un semplice lodevole criterio di equità, applicato casualmente. Oppure potrebbe esistere un riferimento implicito che lo giustifica, che in questo caso non so quale possa essere.
[2] La tabella mostra l’andamento dal 2012 alla fine del 2017 degli occupati totali nei settori non agricoli.
[3] Gli andamenti del PIL reale in Europa (linea blu) e negli Stati Uniti (linea rossa), dal 2006 ad oggi.
[4] La Bolla nel settore delle nuove tecnologie (delle Dot-com; in inglese Dot-com Bubble) è stata una bolla speculativa sviluppatasi tra il 1997 e il 2000 (ovvero quando l’indice NASDAQ, il 10 marzo 2000, raggiunse il suo punto massimo a 5132.52 punti nel trading intraday prima di chiudere a 5048.62 punti). Durante questo periodo la capitalizzazione dei mercati dei paesi più industrializzati vide un rapido aumento del valore delle aziende attive nell’ambito di Internet e nei relativi settori.
Il periodo fu segnato dalla fondazione (e conseguenti fallimenti) di un numero elevato di nuove aziende con scopo sociale di svolgere attività nel settore Internet (e più in generale il settore informatico) generalmente chiamata Dot-com; erano compagnie scarsamente capitalizzate, di piccole dimensioni (in molti casi con un solo azionista fondatore), molto esposte in un settore fortemente sovrastimato ovvero una condizione fondamentale alla base delle bolle speculative.
Una combinazione di rapido incremento dei prezzi delle azioni, la convinzione del mercato che le società in oggetto avrebbero prodotto dei profitti in futuro, speculazione individuale sulle azioni e la presenza di numerosi Venture capital crearono un ambiente in cui molti investitori trascurarono i tradizionali parametri di valutazione come il Price earnings ratio in favore della convinzione nel progresso tecnologico.
Il collasso della bolla si ebbe tra il 2000 ed il 2001. Alcune società, come Pets.com, fallirono completamente, mentre altre persero una larga parte della loro capitalizzazione di mercato rimanendo comunque solide e redditizie come Cisco Systems, le cui azioni persero circa l’86%. Altre negli anni successivi sorpassarono il prezzo massimo raggiunto all’apice della bolla delle Dot-com come Amazon.com le cui azioni passarono da 107 a 7 dollari ma nel decennio successivo superarono i 950 dollari per azione. (Wikipedia)
gennaio 4, 2018
Paul Krugman DEC. 30, 2017
I’m on vacation, keeping vague track of the news but basically taking a break and spending a lot of time communing with nature. But I’ve also been thinking a bit about economics, taking advantage of psychological distance to ruminate on stuff that isn’t closely connected to the news. And one of the areas I’ve been chewing over goes back to my old stomping ground of economic geography.
In particular, I’ve been trying to clarify my thoughts after reading Emily Badger’s stimulating piece on how megacities seem to have less and less need for smaller cities. I found myself asking what might seem like an odd question: what, in the modern economy, are small cities even for? What purpose do they serve? And this question leads me to a chain of thought that’s a bit different from Badger’s, although not necessarily contradictory.
Once upon a time, it was obvious what towns and small cities did: they served as central places serving a mainly rural population engaged in agriculture and other natural resource-based activities. The rural population was dispersed because arable land and other resources were dispersed, and so you had lots of small cities dotting the landscape.
Over time, however, agriculture has become ever less important as a share of the economy, and the rural population has correspondingly declined as a determinant of urban location. Nonetheless, many small cities survived and grew by becoming industrial centers, generally specialized in some cluster of industries held together by the Marshallian trinity of information exchange, specialized suppliers, and a pool of labor with specialized skills.
What determined which industries a small city developed? In some cases particular features of the location and nearby resources were important, but often it was more or less random chance at first, then a sequence in which one industry created conditions that favored another.
Take the (fairly celebrated) example of Rochester, New York. It started as a flour milling center, benefitting from the Erie Canal, then as a center for nurseries and seeds. So it was a resource-based center. Then, in 1853, John Jacob Bausch, a German immigrant, started a company making monocles, which became a major producer of glasses, microscopes, and all things lens related.
So Rochester became a place where people knew about optics, presumably creating the preconditions for the rise of Eastman Kodak, and much later Xerox. This was typical of small industrial cities: even if what a city was doing in, say, 1970 seemed very different from what it was doing in 1880, there was usually a sort of chain of external economies creating the conditions that allowed the city to take advantage of particular new technological and market opportunities when they arose.
Obviously, this was a chancy process. Some localized industries created fertile ground for new industries to replace them; others presumably became dead ends. And while a big, diversified city can afford a lot of dead ends, a smaller city can’t. Some small cities got lucky repeatedly, and grew big. Others didn’t; and when a city starts out fairly small and specialized, over a long period there will be a substantial chance that it will lose enough coin flips that it effectively loses any reason to exist.
I’m not saying that there weren’t patterns of success and failure. Small cities were and are more likely to fail if they have miserable winters, more likely to come up with new tricks if they’re college towns and/or destinations for immigrants. Still, if you back up enough, it makes sense to think of urban destinies as a random process of wins and losses in which small cities face a relatively high likelihood of experiencing gambler’s ruin.
Again, it was not always thus: once upon a time dispersed agriculture ensured that small cities serving rural hinterlands would survive. But for generations we have lived in an economy in which smaller cities have nothing going for them except historical luck, which eventually tends to run out.
Notice, by the way, that globalization and all that isn’t central to this story. If I’m right, the conditions for small-city decline and fall have been building for a very long time, and we’d be seeing much the same story – maybe more slowly – even without the growth of world trade.
Are there policy implications from this diagnosis? Maybe. There are arguably social costs involved in letting small cities implode, so that there’s a case for regional development policies that try to preserve their viability. But it’s going to be an uphill struggle. In the modern economy, which has cut loose from the land, any particular small city exists only because of historical contingency that sooner or later loses its relevance.
La rovina del giocatore d’azzardo delle piccole città (per esperti),
di Paul Krugman
Sono in vacanza, mantengo un vago collegamento con quel che accade ma fondamentalmente mi sto prendendo una pausa e spendo molto tempo in comunione con la natura. Ma ragiono anche un po’ di economia, avvantaggiandomi della distanza psicologica per riflettere su cose che non sono strettamente connesse con le notizie. Ed una delle aree sulle quali rimugino torna ad essere il mio terreno, che un tempo battevo, della geografia economica.
In particolare, sto cercando di chiarirmi le idee dopo aver letto lo stimolante articolo di Emily Badger su come le grandi metropoli sembrano aver sempre meno bisogno delle piccole città. Mi ritrovo a pormi quella che potrebbe sembrare una domanda bizzarra: a che cosa servono, addirittura, le piccole città in una economia moderna? Qual’è il loro scopo? E questa domanda mi conduce ad una catena di pensieri che è un po’ diversa da quella di Badger, sebbene non necessariamente in contraddizione.
Una volta, era evidente a cosa servivano i paesi e le piccole città: erano i luoghi centrali che servivano principalmente una popolazione rurale ed altre attività basate sulle risorse naturali. La popolazione rurale era dispersa perché la terra arabile e le altre risorse erano disperse, e così si aveva un gran numero di piccole cittadine che punteggiavano il territorio.
Col tempo, tuttavia, l’agricoltura è diventata sempre meno importante come parte dell’economia, e corrispondentemente la popolazione rurale è declinata come fattore determinante della localizzazione urbana. Ciononostante, molte piccole città sono sopravvissute e sono cresciute diventando centri industriali, in genere specializzati in alcuni distretti di industrie tenute assieme dalla ‘trinità’ marshalliana dello scambio di informazioni, delle offerte specialistiche e di gruppi di lavoratori con elevate competenze.
Cosa decideva quali industrie una piccola città avrebbe sviluppato? In alcuni casi particolari caratteristiche della loro collocazione e delle risorse circostanti erano importanti, ma spesso si trattava agli inizi di una scelta più o meno casuale, poi una sequenza nella quale una industria creava condizioni che ne favorivano un’altra.
Si prenda il caso, giustamente celebrato, di Rochester. Cominciò come un centro di mulini di farina, beneficiando del Canale Erie, poi come un centro di vivai e di sementi. In tal modo era un centro che si basava sulle risorse. Poi, nel 1853, John Jacob Bausch, un immigrato tedesco, avviò una società che fabbricava monocoli, che divenne una importante produzione di occhiali, di microscopi e di tutte le cose collegate con le lenti.
Dunque Rochester divenne un luogo dove la gente si intendeva di ottica, presumibilmente creando le precondizioni per l’avvento della Eastman Kodak, e molto più tardi della Xerox. Questo era tipico delle piccole città industriali: persino se quello che una città fabbricava, diciamo nel 1970, sembrava assai diverso da quello che faceva nel 1880, c’era di solito una specie di catena di economie esterne che creavano le condizioni che permettevano alla città di avvantaggiarsi di particolare nuove opportunità tecnologiche e di mercato, quando esse si presentavano.
Ovviamente, si trattò di un processo rischioso. Alcune industrie localizzate crearono un terreno fertile perché nuove industrie le rimpiazzassero; altre presumibilmente divennero vicoli ciechi. E mentre una grande città diversificata può permettersi vicoli ciechi, una città più piccola non può permetterseli. Alcune piccole città ebbero frequenti colpi di fortuna e divennero grandi. Ad altre non accadde; e quando una città parte discretamente piccola e specializzata, nel lungo periodo ci sarà una possibilità sostanziale che essa perda un numero tale di scommesse da dover rinunciare sostanzialmente ad ogni ragione per esistere.
Non sto dicendo che ci furono modelli di successo e di fallimento. È più probabile che le piccole città falliscano se hanno inverni gelidi, è più probabile arrangiarsi con nuovi accorgimenti se sono cittadine universitarie e/o destinazioni per gli immigrati. Eppure, se andate abbastanza indietro col tempo, ha senso pensare ai destini urbani come un processo casuale di vittorie e sconfitte, durante il quale le piccole città fronteggiano una probabilità piuttosto elevata di fare l’esperienza della ‘rovina del giocatore d’azzardo’.
Di nuovo, non è sempre stato così: un tempo l’agricoltura dispersa assicurava che le piccole città al servizio di hinterland rurali sopravvivessero. Ma per generazioni abbiamo vissuto in un’economia nella quale le piccole città non avevano niente da inventare se non una buona sorte nella loro storia, che alla fine tendeva ad esaurirsi.
Si noti, per inciso, che la globalizzazione e tutto il resto, in questa storia, non occupa un posto centrale. Se sono nel giusto, le condizioni per un declino ed una caduta delle piccole città sono state predisposte in un tempo molto lungo, e avremmo assistito in gran parte alla stessa storia – forse con più lentezza – anche senza la crescita del commercio globale.
Da questa diagnosi ne derivano implicazioni politiche? Forse. Probabilmente ci sono costi sociali nel permettere che le piccole città implodano, cosicché c’è un argomento per politiche di sviluppo regionale che cerchino di preservare le loro possibilità di sopravvivenza. Ma è una lotta difficile. Nell’economia moderna, che si è messa alle spalle il legame col territorio, qualche particolare piccola città esiste solo per una contingenza storica che prima o poi perde la sua rilevanza.
gennaio 3, 2018
Paul Krugman DEC. 24, 2017
“You all just got a lot richer,” Trump reportedly told guests at Mar-a-Lago. But Republicans will nonetheless keep insisting that the corporate tax cut that is the main item in the tax bill is really for the benefit of workers. They will be aided in this claim by some recent corporate announcements of bonuses or wage hikes that they attribute to the tax cut.
It’s nonsense, of course. Think of the motivation: lots of companies are raising wages at least a bit in the face of tight labor markets; pretending that it’s because of the tax cut is a cheap way to curry favor with an administration that has no hesitation about using regulatory and antitrust decisions to reward friends and punish enemies. It’s basically Carrier all over: make a Trump-friendly splash by declaring that he persuaded you to save jobs, then lay off lots of workers after the cameras have moved on.
But there’s a larger point here: even if you believe economic analyses that suggest corporate tax cuts are good for wages, it shouldn’t happen right away. Any trickle-down should come about because the tax cuts lead to higher investment, which leads over time to a larger capital stock – and it’s the increase in the capital stock, which may take many years, that leads to the wage rise.
I keep finding it helpful to use a diagram representing the economy corporate tax-cutters imagine we have: a one-sector economy with no monopoly power, open to inflows of foreign capital. (Adding the reality of monopoly rents, noncorporate capital, and nontraded goods all reduce the extent of trickle-down.) This stylized economy looks like Figure 1:
Figure 1
The downward-sloping line is the marginal product of capital, which is equal (in this model) to the pre-tax rate of return r. The after-tax return is r(1-t), where t is the tax rate.
Given an initial capital stock K, GDP is the integral of the area under the rcurve up to K. Of this, rK goes to pre-tax profits, of which the government takes a share t and the rest goes to after-tax profits. What’s left, the triangle at the top, is wages.
Now suppose the corporate tax rate is cut to a lower level t’. This raises the after-tax rate of return for any given capital stock. The country faces a long-run supply curve for capital; this curve would be horizontal for a small open economy, is surely upward-sloping for the United States. Still, over time the capital stock rises to K’. This in turn leads to higher wages:
Figure 2
The crucial words, however, are “over time.” For a variety of reasons it would take a number of years for the capital stock to rise to its long-run level. And in the short run we wouldn’t expect wages to rise at all. Certainly not in the first week after the tax cut!
So if you suspect that these corporate announcements are political theater, not real economic events, the very models tax-cut enthusiasts like to cite back you up. There will be negligible wage effects of the tax cut in 2018; for the first few years, it’s basically all Mar-a-Lago.
Effetti a cascata? Nel migliore dei casi, non adesso e non per un po’ di tempo (per esperti),
di Paul Krugman
Secondo i resoconti, Trump ha detto ai suoi ospiti a Mar-a-Lago [1]: “Siete appena diventati un bel po’ più ricchi”. Ciononostante, i repubblicani continuano ad insistere che i tagli delle tasse alle società, che è il tema principale nella proposta di legge fiscale, siano realmente a vantaggio dei lavoratori. Saranno aiutati in questa pretesa da alcuni recenti annunci da parte di grandi società a proposito di gratifiche o di aumenti salariali che essi attribuiscono al taglio delle tasse.
È un nonsenso, ovviamente. Si pensi alla motivazione: molte società stanno elevando i salari almeno un po’ a fronte della ristrettezza dei mercati del lavoro; pretendere che dipenda dai tagli alle tasse è un modo conveniente per entrare nelle grazie di una Amministrazione che non ha esitazione a utilizzare decisioni antiregolamentari ed antitrust per premiare gli amici e punire gli avversari. È fondamentalmente la medesima storia della Carrier [2]: fate un’uscita favorevole a Trump dichiarando che vi ha persuaso a salvare posti di lavoro, poi licenziate una gran quantità di lavoratori quando i riflettori si sono spostati.
Ma c’è in questo caso un aspetto più generale: persino se credete alle analisi economiche che indicano come i tagli fiscali alle società siano positivi per i salari, tutto ciò non dovrebbe accadere in un attimo. Ogni effetto a cascata dovrebbe arrivare a seguito del fatto che i tagli al fisco portano a più elevate riserve di capitale – ed è la crescita di tali riserve, che può impiegare vari anni, che provoca aumenti salariali.
Continuo a ritenere che sia utile usare un diagramma che rappresenta l’economia che coloro che tagliano le tasse sulle società credono che abbiamo: una economia di un solo settore senza alcun potere di monopolio, aperta ai flussi in ingresso del capitale straniero (se si aggiunge la realtà delle rendite di monopolio, il capitale non posseduto dalle società ed i beni non destinati al commercio internazionale, tutto questo riduce la misura di un effetto a cascata). Questa economia stilizzata appare come nella Figura 1:
Figura 1
La linea che inclina verso il basso indica il prodotto marginale del capitale, che è eguale (in questo modello) al tasso di rendimento r prima delle tasse. Il tasso di rendimento dopo le tasse è r(1-t), dove t è l’aliquota fiscale.
Data una iniziale riserva di capitale K, il PIL è l’integrale dell’area sottostante la curva r sino a K. Di questo, rK va ai profitti prima delle tasse, dai quali il Governo prende una quota t e il resto va ai profitti dopo le tasse. Quello che resta, il triangolo in alto, sono i salari.
Ora supponiamo che l’aliquota fiscale della società sia tagliata sino ad un più basso livello t’. Questo aumenta, per ogni data riserva di capitale, il tasso di rendimento dopo le tasse. Il paese si ritrova con una curva dell’offerta di capitale di lungo periodo; per una piccola economia aperta, questa curva sarebbe orizzontale, nel caso degli Stati Uniti è sicuramente inclinata verso il basso. Ancora, nel corso del tempo la riserva di capitale sale sino a K’. Questo a sua volta porta a salari più alti:
Figura 2
Tuttavia, in questo caso, le parole cruciali sono “nel corso del tempo”. Per una varietà di ragioni, ci vorrebbe un certo numero di anni perché le riserve di capitale raggiungano il livello di lungo periodo. E nel breve periodo non dovremmo aspettarci che i salari crescano affatto. Certamente non nella prima settimana dopo il taglio delle tasse!
Se dunque sospettate che questi annunci delle società siano una messinscena politica, non reali eventi economici, i veri modelli che gli entusiasti dei tagli fiscali amano citare, vi danno ragione. Ci saranno effetti salariali trascurabili nel 2018, a seguito dei tagli fiscali; per i primi anni, è tutto fondamentalmente un Mar-a-Lago.
[1] Una residenza privata di Trump in Florida.
[2] Una società che nelle prime settimane annunciò di aderire alla richiesta di Trump di non spostare all’estero alcune sue lavorazioni. Fondamentalmente lo fece per ingraziarsi la nuova Amministrazione.
dicembre 14, 2017
Paul Krugman DEC. 12, 2017
Jonathan Chait raises a good point, which many of us were already thinking about: for all the debate about whether the tax bill will partially pay for itself, it’s actually more likely that it will end up worsening the deficit by far more than most estimates suggest. The reason is simple: the bill is junk, hastily drafted and full of exploitable loopholes. Once the tax lawyers and accountants get to work, they will probably find ways for their clients to avoid hundreds of billions in taxes that even the JCT estimates still assume will be paid.
Suppose this is indeed what happens. I’ve been trying to think through the next step: What effect will a ballooning deficit have on markets and the political climate?
When it comes to markets, my conclusion is, not much. The tax bill might lead to somewhat higher interest rates, but probably not to an interest rate spike. Why not?
You might think that I’m making the same argument I was making during the aftermath of the financial crisis, when I argued repeatedly – and correctly – against predictions that budget deficits would lead to soaring rates. But my reasoning now is different, because both the underlying economic situation and the source of the deficits is different.
Back in 2009-10, we had a deeply depressed economy with monetary policy at the zero lower bound, which meant basically that desired saving exceeded desired investment. So government borrowing wasn’t competing with the private sector for a limited supply of funds, it was giving idle potential saving a place to go.
These days we’re much closer to full employment, and the Fed is gradually raising rates, so it’s an entirely different situation. But if you want to claim that deficits will drastically raise rates, you need to spell out the channel; and I think that channel would be largely blocked.
First of all, the U.S. isn’t going to go bankrupt; it can’t run out of money to pay its bills (except for political holdups), because it can print money. And we’re a long way from the kind of situation in which America would become so dependent on the printing press that we’re looking at potential hyperinflation.
What this means is that monetary policy – basically, short-term interest rates — will be set by the Fed based on economic conditions. And long-term interest rates will, to a first approximation, be the average of expected future short rates, so they too will reflect expected economic conditions.
So the only way big deficits could drive up rates would be if they gave a big boost to demand, threatening to overheat the economy, and causing the Fed to raise rates to avert that overheating.
Which means that the market impact of deficits depends on how much we think these deficits will raise demand. And the answer is, probably not all that much – if you think of the tax bill as a form of demand stimulus, it’s a very ineffective one, and the piece of the deficit that comes from gaming incompetent legislation will be especially ineffective.
For one thing, the bulk of the gains will go to the rich, who probably spend less of a marginal dollar. And this will be especially true for rich people receiving what they suspect will be transient income gains.
So, imagine yourself as a wealthy, liquid taxpayer experiencing a surge in after-tax income because your accountant has found clever ways to exploit the idiocy of new legislation. It will be fun and lucrative, but you’d have to suspect that the fun will end eventually – that even this GOP, with this leadership, will eventually close the most outrageous loopholes. So we might see big deficits that have relatively little real effect, because the winners from system-gaming save most of their gains.
Notice, by the way, that this isn’t the conclusion I’d like to reach on political grounds. Given how terrible this bill is, I’d like to claim that it will lead to immediate market disaster. But I try not to engage in motivated reasoning (although sometimes I give in to temptation, then apologize); and I just don’t see a market disaster even if we see the expected epidemic of tax avoidance.
What about the politics? OK, here I don’t have a clear model, so this is much more speculative. Still, what happens if the deficit balloons, and it’s clear that gaming of the tax bill is a major factor?
We know what Ryan and McConnell will try to do: they’ll try to use deficits as an excuse to cut safety-net programs. But will they be able to get away with this with the memory of the tax scam still fresh in everyone’s memory? I’m pretty cynical about centrists and the propensity of the media to be taken in by charlatans, but I think this would probably be a bait and switch too far.
Put it this way: Republicans would surely use big deficits as an excuse to propose big cuts in social programs, but they’d face a barrage of hostile media coverage, plus lots of public demonstrations as in the case of health care, all reminding everyone that these deficits were created by their own dishonest promises just a few months earlier.
And imagine, as we should, that all of this would go along with many front-page stories about dubious business types abusing the new loopholes. Doesn’t this sound like a political disaster for the GOP?
They could, of course, simply ignore the deficit and leave Medicare alone. But my guess is that they won’t be able to help themselves, that they’ll be prisoners of their own rhetoric even as the most unpopular legislation in history becomes pure political poison.
So that’s my prediction: minor market impact, but quite probably a political disaster for the GOP as it becomes even clearer that their tax policies reward scammers.
Of course, all this may be overshadowed by constitutional crisis. But that’s for another essay.
Che succede se la legge fiscale è un disastro per le entrate, di Paul Krugman?
Johnathan Chait pone una bella questione, alla quale molti di noi stavano già pensando: perché tutto il dibattito è relativo alla ipotesi che la legge sulle tasse si ripaghi in parte da sola, mentre è effettivamente più probabile che essa finisca col peggiorare il deficit molto di più di quanto la maggioranza delle stime indichi. La ragione è semplice: la legge è una paccottiglia, confezionata avventatamente e piena di scappatoie che si possono sfruttare. Una volta che i legali del fisco e i commercialisti si metteranno al lavoro, probabilmente troveranno per i loro clienti modi per eludere centinaia di miliardi di tasse che persino la stima del Comitato Congiunto del Congresso sulla Tassazione ancora considera verranno ripagate.
Supponiamo in effetti che accada questo. Ho cercato di ragionare sul passo successivo: quali effetti avrà una crescita a vista d’occhio del deficit sui mercati e sul clima politico?
Per quello che riguarda i mercati, la mia conclusione è che non accadrà molto. La legge sulle tasse può portare a tassi di interesse un po’ più alti, ma probabilmente non ad un picco dei tassi di interesse. Perché no?
Potreste pensare che sto avanzando lo stesso argomento che avanzai nel periodo successivo alla crisi finanziaria, quando usai ripetutamente – e correttamente – l’argomento opposto alle previsioni che i deficit finanziari avrebbero portato i tassi alle stelle. Ma il mio ragionamento ora è diverso, perché sia la sottostante situazione economica che l’origine dei deficit è diversa.
Nel passato 2009-2010 avevamo un’economia profondamente depressa con una politica monetaria al limite inferiore di tassi di interesse, il che comportava che i risparmi attesi eccedevano gli investimenti attesi. Dunque l’indebitamento del Governo non era in competizione con il settore privato per una offerta limitata di finanziamenti, esso dava ad un potenziale risparmio inerte un posto dove andare.
Di questi tempi siamo molto più vicini alla piena occupazione, e la Fed sta gradualmente elevando i tassi, cosicché si tratta di una situazione interamente diversa. Ma se volete sostenere che i deficit alzeranno drasticamente i tassi, avete bisogno di individuare chiaramente il canale; e io penso che quel canale sarebbe largamente bloccato.
Prima di tutto, gli Stati Uniti non sono destinati a finire in bancarotta; non possono esaurire i soldi per pagare i loro conti (se non per contrattempi politici), perché possono stampare soldi. E noi siamo molto lontani da un genere di situazione nella quale l’America potrebbe divenire così dipendente dallo stampare soldi da farci immaginare una potenziale iperinflazione.
Quello che questo comporta è che la politica monetaria – fondamentalmente, i tassi di interesse a breve termine – sarebbe stabilita dalla Fed basandosi sulle condizioni dell’economia. E i tassi di interesse a lungo termine saranno, ad una prima approssimazione, la media dei futuri tassi a breve termine attesi, in tal modo riflettendo le condizioni economiche attese.
Dunque l’unico modo nel quale grandi deficit potrebbero spingere in alto i tassi sarebbe se essi dessero una grande spinta alla domanda, minacciando di surriscaldare l’economia e spingendo la Fed ad innalzare i tassi per evitare quel surriscaldamento.
Il che significa che l’impatto dei deficit sul mercato dipende da quanto pensiamo che questi deficit aumenteranno la domanda. E la risposta è, probabilmente non molto – se pensate che la proposta di legge sul fisco sia una forma di stimolazione della domanda, essa sarebbe tale in modi molto inefficaci e la parte di deficit derivante dall’azzardo di una legislazione incompetente sarebbe particolarmente inefficace.
Prima di tutto, il grosso dei vantaggi andrebbe ai ricchi, che probabilmente spendono il meno di un dollaro marginale. E questo sarebbe particolarmente vero per le persone ricche che riceverebbero quelli che sospetteranno essere provvisori vantaggi di reddito.
Immaginatevi dunque di essere un ricco, un contribuente liquido che sperimenta una crescita del reddito dopo le tasse perché il vostro commercialista ha trovato modi intelligenti per sfruttare l’idiozia della nuova legislazione. Potrebbe essere divertente e lucrativo, ma avete il sospetto che alla fine il divertimento finirà – che persino questo Partito Repubblicano, con la sua dirigenza, alla fine interromperà le elusioni più scandalose. Potremmo dunque assistere a grandi deficit che hanno effetti reali relativamente modesti, perché i vincitori del gioco d’azzardo di sistema risparmiano la maggioranza dei loro guadagni.
Si noti, per inciso, che non è questa la conclusione alla quale mi piacerebbe arrivare, in termini politici. Considerato quanto è sconcia questa proposta di legge, mi piacerebbe sostenere che essa porterà ad un disastro immediato sul mercato. Ma cerco di non indulgere in ragionamenti interessati (sebbene qualche volta cada in tentazione, nel qual caso chiedo scusa); ed io proprio non mi immagino un disastro sul mercato neanche se ci troveremo di fronte ad una attesa epidemia di elusione del fisco.
Cosa dire degli aspetti politici? È vero, in questo caso non possiedo un modello chiaro, dunque questa è soprattutto una speculazione. Eppure, cosa accade se il deficit esplode, ed è chiaro che giocare d’azzardo sulla legge fiscale è un fattore importante?
Sappiamo cosa cercheranno di fare Ryan e McConnell: cercheranno di usare i deficit come un pretesto per tagliare i programmi della sicurezza sociale. Ma saranno capaci di cavarsela in questo modo, con il ricordo dell’imbroglio sulle tasse ancora fresco nella memoria di ognuno? Io sono abbastanza pessimista sui centristi e sulla propensione dei media ad essere imbrogliati dai ciarlatani, ma penso che questo sarebbe un gioco delle tre carte eccessivo.
Diciamo così: i repubblicani certamente userebbero i grandi deficit come un pretesto per proporre grandi tagli sui programmi sociali, ma si troverebbero di fronte ad uno sbarramento di copertura ostile da parte dei media, in aggiunta a tante manifestazioni pubbliche come nel caso della assistenza sanitaria, che rammenterebbero a tutti che questi grandi deficit sono stati creati dalle loro stesse disoneste promesse di pochi mesi prima.
E si immagini, come dovremmo fare, che tutto questo vada di pari passo con molti racconti sulle prime pagine su affari di dubbio genere che abusano delle nuove scappatoie. Tutto questo non assomiglia ad un disastro politico per il Partito Repubblicano?
Potrebbero, naturalmente, semplicemente ignorare i deficit e lasciare in pace Medicare. Ma la mia impressione è che non sarebbero capaci di aiutarsi da soli, che sarebbero prigionieri della loro stessa propaganda, anche se, nella storia, la maggioranza delle leggi impopolari diventa veleno politico puro.
Dunque, la mia previsione è questa: un impatto sui mercati modesto, ma un disastro politico abbastanza probabile per il Partito Repubblicano quando diventerà ancora più chiaro che le loro politiche sulle tasse premiano gli imbroglioni.
Naturalmente, tutto questo potrebbe essere messo in ombra da una crisi costituzionale. Ma quella lo lascio ad un altro saggio.
dicembre 13, 2017
Paul Krugman DEC. 9, 2017
Unemployment, not so structural after all Federal Reserve Bank of St. Louis
The latest job report was very good, except for one thing: wage growth is still much lower than it was before the financial crisis. And this reminds me of a controversy that raged around four or five years ago, during what now seems like a golden age – an era when it seemed as if facts and reasoned debate might actually matter for policy.
Anyway, at the time unemployment was still very high compared with its pre-crisis level, and some of us were urging strong policies – especially infrastructure spending — to boost demand. But some economists argued that high unemployment was “structural” – that there was a mismatch between the skills the workforce had and those the economy needed. This was probably a minority view within the profession, but was pretty much dominant among Beltway pundits.
The structural view had clear policy implications, because if you believed it the case for employment-boosting stimulus was much weaker than if you believed that high unemployment really, truly represented lots of Americans willing to work.
Anti-structuralists – demand siders? – tried to point out that if the structural story were true, there should be a lot of upward pressure on the wages of those workers who did have the right skills; in fact, nobody was seeing much in the way of wage gains. But this argument made little headway among Serious People.
But here we are: there hasn’t been a significant change in the skills of the workforce, but unemployment is now lower than it was in 2007, and wage growth is still low. The demand siders were right.
Does it matter? After all, at this point we are indeed more or less back to full employment, although those wage numbers suggest that we still have a bit further to go. But we spent a long time with supernormal unemployment: it was 9 years before the unemployment rate got back down to its December 2007 level of 4.7 percent, and the average rate over that period was 7.3 percent. Using Okun’s Law, this implies something like average underutilization of capacity by 5 percent over that period – so a loss of 45 percent of one year’s GDP, say $8 trillion.
And this $8 trillion loss didn’t have to happen: adequate, sustained stimulus could have eliminated most of it.
So why did the structuralist view prevail? There was some left-right aspect, as there is with everything these days – any analysis suggesting that the government can do positive things is automatically rejected by half the political spectrum. But there was also the problem Keynesian economics always faces: it just doesn’t sound serious enough to Serious People. The idea that mass unemployment is fundamentally just a problem of inadequate demand – that all we have is magneto trouble – and that it is easily solved by spending more, sounds too easy.
I’d like to think that the way things turned out would serve as a lesson in future crises. But I wouldn’t bet on it.
Il pessimismo e la paralisi in seguito alla crisi finanziaria, di Paul Kugman
La disoccupazione, dopo tutto non così strutturale, Federal Reserve Banca di St. Louis
[1]
L’ultimo rapporto sul lavoro era molto buono, eccetto che per un aspetto: la crescita dei salari è ancora molto più bassa di quanto fosse prima della crisi finanziaria. E questo mi rammenta una controversia che infuriava quattro o cinque anni fa, durante quella che a confronto di oggi sembra un’età aurea – quando sembrava che i fatti e il dibattito ragionato effettivamente potessero essere importanti per la politica. In ogni modo, a quel tempo la disoccupazione era ancora molto alta a confronto con il suo livello precedente alla crisi, e alcuni di noi premevano per politiche energiche – specialmente spese sulle infrastrutture – per incoraggiare la domanda. Ma alcuni economisti sostenevano che l’alta disoccupazione era “strutturale” – che non c’era coincidenza tra le competenze possedute dalla forza lavoro e quelle di cui l’economia aveva bisogno. Era probabilmente un punto di vista minoritario nella disciplina, ma era assai prevalente tra i commentatori di Washington. Il punto di vista strutturale aveva chiare implicazioni politiche, perché se si credeva ciò, l’ipotesi di uno stimolo per incoraggiare l’occupazione diventava assai più debole che non credendo che la disoccupazione fosse realmente elevata, effettivamente rappresentando grandi quantità di americani disponibili a lavorare.
Gli anti strutturalisti – diciamo gli economisti dal lato della domanda – cercavano di mettere in evidenza che se il racconto strutturale fosse stato vero, avrebbe dovuto esserci un bel po’ di spinta al rialzo per i salari di quei lavoratori che avevano davvero le giuste competenze; di fatto, nessuno stava osservando granchè dal lato dei miglioramenti salariali. Ma questo argomento fece pochi progressi tra le Persone Serie.
Ma siamo a questo punto: non c’è stato un mutamento significativo nelle competenze della forza lavoro, ma la disoccupazione oggi è più bassa di quello che era nel 2007, e la crescita dei salari è ancora lenta. Gli economisti dal lato della domanda avevano ragione.
È importante? Dopo tutto, a questo punto in effetti siamo più o meno tornati alla piena occupazione, sebbene quei dati sui salari indicano che c’è altra strada da fare. Ma abbiamo passato molto tempo con una disoccupazione sopra la norma: sono passati 9 anni prima che il tasso di disoccupazione scendesse al suo livello del 4,7 per cento del 2007, e in questo periodo il tasso medio è stato il 7,3 per cento. Usando la legge di Okun [2] , questo implica in quel periodo qualcosa come una sottoutilizzazione media della capacità produttiva pari al 5 per cento – dunque una perdita del 45 per cento di un anno di PIL, diciamo 8 mila miliardi di dollari. E questa perdita di 8 mila miliardi di dollari poteva non esserci: uno stimolo adeguato e prolungato ne avrebbe eliminata la massima parte.
Perché dunque prevalse in punto di vista strutturalista? Ci fu qualche problema a sinistra – ogni analisi che indica che il Governo può fare cose positive è automaticamente respinta dalla metà delle tendenze politiche. Ma ci fu anche il problema che l’economia keynesiana sempre deve froteggiare: essa non è proprio seria abbastanza per le Persone Serie. L’idea che una disoccupazione di massa sia fondamentalmente solo un problema di domanda inadeguata – che abbiamo un guaio all’impianto elettrico dell’economia – e che sia facilmente risolvibile spendendo di più, sembra semplicistica.
[1] La linea blu indica l’andamento del tasso di disoccupazione nella popolazione civile (eccetto l’esercito o le persone recluse per ragioni sanitarie o di giustizia). La linea rossa indica i guadagni medi orari nel settore privato.
[2] La Legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962) è una legge empirica che associa ad ogni punto aggiuntivo di disoccupazione ciclica (differenza tra tasso di disoccupazione naturale e disoccupazione totale), 2 punti percentuali di gap di produzione.
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