Blog di Krugman

L’aumento delle tasse di Schroedinger (dal blog di Krugman. 24 novembre 2017)

 

NOV 24 12:26 PM

 

Schroedinger’s Tax Hike

Paul Krugman

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Joint Committee on Taxation

Yes, I know that’s supposed to be an umlaut in the title. I just can’t persuade WordPress to do it.

So: There are many amazing things about the Republican tax pitch, where by “amazing” I mean terrible. But possibly the most amazing of all is the attempt to have it both ways on the question of middle-class taxes.

The Senate bill, as written, tries to be long-run deficit-neutral — allowing use of the Byrd rule to bypass a filibuster — by offsetting huge corporate tax cuts with higher taxes on individuals, so that by 2027 half the population, and most of the middle-class, would see taxes go up. But those tax hikes are initially offset by a variety of temporary tax breaks.

Now, Republicans are arguing that those tax breaks won’t actually be temporary, that future Congresses will extend them. But they also need to assume that those tax breaks really will expire in order to meet their budget numbers. So the temporary tax breaks need, for political purposes, to be both alive and dead.

If they succeed in this exercise in quantum budgeting, we’ll eventually open the box, collapsing the wave function, and discover whether the budget promise or the tax claim was a lie. But for now, they want to hold it all in suspension. Once upon a time you wouldn’t have imagined they could get away with it. Now …

 

L’aumento delle tasse di Schroedinger [1]

di Paul Krugman

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Comitato Congiunto sulla tassazione

[2]

 

È vero, sono al corrente che nel titolo dovrebbe esserci un umlaut. Ma non riesco a convincere Word Press a farlo.

Dunque: ci sono molte cose stupefacenti nelle promozioni delle proposte repubblicane sulle tasse, dove per stupefacenti intendo ‘terribili’. Ma probabilmente la più stupefacente di tutte è il tentativo di avere la botte piena e la moglie ubriaca sulla questione delle tasse sulla classe media.

La proposta di legge repubblicana, per come è scritta, cerca di essere neutrale dal punto di vista del deficit di lungo periodo – per permettere loro di utilizzare la regola di Byrd per aggirare l’ostruzionismo – bilanciando i grandi tagli fiscali alle società con tasse più elevate sulle persone singole, in modo tale che nel 2017 metà della popolazione, e la maggioranza delle classi medie, vedrebbero le tasse salire. Ma quegli aumenti delle tasse, agli inizi, sono bilanciati da una varietà d sgravi fiscali.

Ora, i repubblicani stanno sostenendo che questi sgravi fiscali in realtà non sarebbero provvisori, che i futuri Congressi li prorogheranno. Ma al tempo stesso hanno bisogno di assumere che quegli sgravi fiscali avranno davvero un termine, allo scopo di soddisfare i loro numeri del bilancio. Dunque, i provvisori sgravi devono, per ragioni politiche, essere sia vivi che morti.

Se avranno successo in questo esercizio di bilancio quantistico, alla fine apriranno la scatola, e scopriranno se le promesse sul bilancio o la pretesa sulle tasse siano state una bugia. Ma per adesso vogliono lasciare tutto il sospeso. Una volta non vi sareste immaginati che potessero cavarsela in questo modo. Ma oggi ….

 

 

[1] Erwin Schrödinger è stato un fisico e matematico austriaco, di grande importanza per i contributi fondamentali alla meccanica quantistica e in particolare per l’equazione a lui intitolata, per la quale vinse il premio Nobel per la fisica nel 1933. Wikipedia

È probabile che lo Schroedinger (in realtà, Schrödinger) del titolo sia il fisico austriaco che vinse il Nobel nel 1933. Il riferimento dovrebbe essere all’esperimento cosiddetto del ‘gatto vivo e del gatto morto’, ovvero di una situazione teorica nella quale le due possibilità – relative ad un gatto in una scatola di acciaio – si presentano ‘intrecciate’ l’una con l’altra e mostrano un gatto sia vivo che morto. Non aggiungo niente, non avendolo capito granché, ma il paragone con la proposta sulle tasse si intuisce.

[2] La tabella mostra le modifiche, in miliardi di dollari, sulle tasse sulle società – che dopo essere diminuite nel 2018, dopo il 2020 restano grosso modo stabili nel godimento di quei benefici – e sulle persone fisiche – che invece, in particolare a partire dal 2025, risalgono a picco.

 

 

 

 

 

 

I tagli delle tasse, la crescita e gli gnomi (dal blog di Paul Krugman, 21 novembre 2017)

novembre 23, 2017

 

NOV 21 10:00 AM 

Tax Cuts, Growth, and Leprechauns

Paul Krugman

 

Yesterday the Tax Policy Center released its macroeconomic analysis of the House tax cut bill. TPC is not impressed: their model says that GDP would be only 0.3 percent higher than baseline in 2027, and that revenue effects of this growth would make only a tiny dent in the deficit.

But Brad DeLong reminds me of a point I and others have been making: focusing on GDP is itself misleading, because we’re a financially open economy with a lot of foreign ownership already, and a large part of the alleged benefit of corporate tax cuts is that they will supposedly draw in lots of foreign investment. As a result, we should expect a significant fraction of the benefits of corporate tax cuts to go to foreigners, not domestic residents; income of domestic residents should rise less than GDP.

So I’ve been trying a back-of-the-envelope estimate of the difference leprechaun economics (so named because Ireland is the ultimate example of a country where national income is much less than GDP, because of foreign corporations) makes to the analysis.

Start with the direct effects of a corporate tax cut. The JCT puts the revenue loss at $171 billion in 2027. Assume, as is roughly the consensus, that 1/3 of this accrues to workers, but two-thirds to capital. Steve Rosenthal says that about 35 percent of this gain, in turn, accrues to foreign investors. So right there we have about $40 billion in additional investment income paid to foreigners.

Then there are the effects of the trade deficit. I can’t figure out TPC’s estimate there, but typical numbers from other modelers say that we’re looking at around $80 billion a year, or $800 billion in increased net foreign liabilities. BEA numbers say that foreign investors in the US earn on average about 2%, U.S. investors abroad around 3%. So this suggests an average return of maybe 2.5%? My guess is that this is low, because the changes would be focused on direct investment, which earns higher returns. But let’s go with it: in that case we’re talking about another $20 billion in investment income paid to foreigners.

Put it together, and for 2027 I get $60 billion in reduced GNI relative to GDP. Potential GDP is supposed to be about $28 trillionby then, so we’re talking a bit over 0.2% of GDP.

Remember, TPC estimates the extra growth in GDP at 0.3%. So according to the back of my envelope, leprechaun economics — extra payments to foreigners — basically wipe out all of that growth.

And let me say that I am not entirely clear, given this result, why there should be any dynamic revenue gains. Given how scrupulous TPC normally is, they probably have an answer. But as far as I can see there’s no obvious reason to believe that dynamic scoring helps the tax cut case at all, not even a little bit.

I’m sure that people can improve on my back-of-the-envelope here. But for now, it looks to me as if, properly counted, these tax cuts would do nothing for growth.

 

I tagli delle tasse, la crescita e gli gnomi

di Paul Krugman

Ieri Tax Policy Center ha pubblicato la sua analisi macroeconomica sulla proposta di legge dei tagli al fisco della Camera dei Rappresentanti. TPC non si fa impressionare: il loro modello dice che nel 2027 il PIL sarebbe più alto del punto di riferimento soltanto dello 0,3 per cento, e che gli effetti sul gettito di questa crescita provocherebbero solo una minuscola riduzione nel deficit.

Ma Brad DeLong mi ricorda un aspetto che io ed altri abbiamo avanzato: concentrarci sul PIL è di per sé fuorviante, perché noi siamo già un’economia aperta con una grande quantità di proprietà straniere, e una larga parte dei pretesi benefici dei tagli delle tasse sulle società consiste nel fatto che si suppone che essi attrarranno grandi quantità di investimenti stranieri. Di conseguenza, dovremmo aspettarci che una parte significativa dei benefici dei tagli alle tasse sulle società vadano ai residenti stranieri, non a quelli interni; il reddito dei residenti interni dovrebbe crescere meno del PIL.

Sto dunque provando a stimare a spanne la differenza che l’economia degli gnomi (chiamata così perché l’Irlanda (lo gnomo è una figura tipica della mitologia irlandese, NdT) è il massimo esempio di un paese nel quale il reddito nazionale è molto inferiore del PIL, a causa delle società straniere) provoca sull’analisi.

Cominciamo con gli effetti diretti di un taglio delle tasse sulle società. La Commissione Congiunta sulle Tasse del Congresso colloca a 171 miliardi di dollari la perdita di gettito nel 2027. Consideriamo, come grosso modo si ritiene unanimemente, che un terzo di quella somma vada ai lavoratori, ma due terzi al capitale. Steve Rosenthal sostiene che circa il 35 per cento di questo guadagno, a sua volta, maturi a vantaggio degli investitori stranieri. Dunque abbiamo la bellezza di circa 40 miliardi di dollari di reddito per gli investimenti aggiuntivi che vengono pagati agli stranieri.

Poi ci sono gli effetti del deficit commerciale. Su questo non riesco a capire la stima del TPC, ma i numeri consueti di altri modellatori dicono che siamo in presenza di circa 80 miliardi di dollari all’anno, ovvero di 800 miliardi di accresciute obbligazioni nette verso gli stranieri. I dati del Bureau of Economic Analysis dicono che gli investitori stranieri negli Stati Uniti hanno in media profitti di circa il 2%, gli investitori statunitensi all’estero di circa il 3%. Questo dunque suggerisce un rendimento medio di circa il 2,5%? La mia stima è che questo dato è basso, perché le modifiche si concentrerebbero sugli investimenti diretti, che realizzano rendimenti più elevati. Ma procediamo con quella ipotesi: in quel caso stiamo parlando di circa altri 20 miliardi in redditi da investimenti pagati agli stranieri.

Mettiamo tutto assieme e per il 2027 io ho 60 miliardi di dollari di riduzione del Reddito Lordo Nazionale, rispetto al PIL. Per allora si suppone che il PIL potenziale sia attorno ai 28 mila miliardi di dollari, dunque stiamo parlando di qualcosa che è un po’ superiore allo 0,2% del PIL.

Si ricordi che il TPC stima la crescita aggiuntiva del PIL attorno allo 0,3%. Dunque, secondo i miei calcoli a spanne, l’economia degli gnomi – i pagamenti aggiuntivi agli stranieri – fondamentalmente si portano via tutta quella crescita.

E fatemi dire che non mi è interamente chiaro, dato questo risultato, perché ci dovrebbe essere qualsiasi vantaggio in evoluzione nelle entrate. Considerato come il TPC è normalmente scrupoloso, probabilmente loro hanno una risposta. Ma per quello che posso vedere io non c’è nessuna ragione evidente per credere in alcun modo che quel punteggio in evoluzione aiuti la tesi dei tagli alle tasse, neppure in piccola misura.

Sono certo che le persone potranno in questo caso migliorare il mio calcolo a spanne. Ma per adesso, mi pare che questi tagli alle tasse, contabilizzati in modo appropriato, non facciano niente per la crescita.

 

 

 

 

Giorni di avidità e di disperazione (dal blog di Paul Krugman)

novembre 22, 2017

 

Days of Greed and Desperation

Paul Krugman

NOVEMBER 17, 2017 11:06 AM

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These are not good times, politically, for Republicans. The Virginia blowout showed that the Trump backlash is real, and will show up in actual votes, not just polls. A series of local elections have produced Democratic victories in hitherto deep-red regions. Despite gerrymandering and the inherent disadvantage caused by concentration of minority voters in urban districts, Democrats are probably mild favorites to take the House; thanks to Roy Moore, they even have a chance of taking the Senate, despite what was supposed to be an impossible map. “A wave is a’ coming” says the Cook Political Report.

And when it comes to governorships, in which, oddly enough, the winner is the person who gets the most votes, a huge flip to Dems seems likely.

Add in, too, events that are likely to damage the GOP brand even more. There’s really no question about Trump/Putin collusion, and Trump in fact continues to act like Putin’s puppet. The only question is how high the indictments will reach, and how much damage they’ll do. But it won’t be good.

You might think, given this background, that Republicans would moderate their policies in an attempt to limit the damage. But if anything they’re doing the opposite. The House tax bill is wildly regressive; the Senate bill actually raises taxes on most families, while including a special tax break for private planes. In effect, the GOP is giving middle-class Americans a giant middle finger. What’s going on?

A large part of the answer, I’d suggest, is that many Republicans now see themselves and/or their party in such dire straits that they’re no longer even trying to improve their future electoral position; instead, it’s all about grabbing as much for their big donors while they still can. Freedom’s just another word for nothing left to lose; in the GOP’s case, that means the freedom to be the party of, by, and for oligarchs they always wanted to be.

This calculus is clearest in the case of House members representing the kinds of districts — educated, relatively affluent, traditionally moderate Republican — that went Democratic by huge landslides in Virginia. If 2018 ends up being anything like what now seems likely, these members will need new jobs in 2019 whatever they do — and the best jobs will be as K Street lobbyists, except for a few who will get gigs as Fox News or “think tank” experts. In other words, one way or another their future lies in collecting wingnut welfare, which means that their incentives are entirely to be loyal ideologues even if it’s very much at their constituents’ expense.

The Senate is a bit different; there aren’t a lot of obviously doomed Republicans. But there’s very good reason to believe that the next few months will be the last chance they have to deliver on their promises to the Kochs and suchlike. After that, dominoes will start falling: maybe the loss of Alabama, reducing their narrow majority even further, maybe indictments that cripple the White House even further, eventually loss of one or both Houses of Congress. So their incentive is to stuff everything the donors want, no matter how outrageous — tax hikes on most of the population, tax breaks on private planes — through the sausage grinder right now.

I have to admit, I didn’t see this coming. And there’s a pretty good chance that this desperate grab will fail — remember, it only takes three Republican Senators with a shred of principle. But that’s where we are.

 

Giorni di avidità e di disperazione,

di Paul Krugman

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[1]

Politicamente, questi non sono bei giorni per i repubblicani. La netta sconfitta in Virginia ha mostrato che il contraccolpo per Trump è reale, e si manifesterà in voti effettivi, non solo nei sondaggi. Una serie di elezioni locali hanno prodotto vittorie democratiche in aree sino a questo momento profondamente repubblicane. Nonostante la suddivisione partigiana dei collegi elettorali e l’intrinseco svantaggio provocato dalla concentrazione degli elettori delle minoranze nei distretti urbani, i democratici sono con probabilità leggermente favoriti nella conquista della Camera dei Rappresentanti; grazie a Roy Moore [2] hanno persino una possibilità di conquistare il Senato, nonostante che lo si ritenesse un progetto impossibile. Cook Political Report dice che “sta arrivando un’ondata”.

Quando si passa alle cariche di Governatore, per le quali, sorprendentemente, il vincitore è quello che prende più voti, sembra probabile un ampio rovesciamento a favore dei democratici.

Inoltre, si aggiungano gli eventi che è probabile danneggino più ancora il marchio del Partito Repubblicano. In realtà non è in questione la collusione tra Trump e Putin, e di fatto Trump continua ad agire come una marionetta di Putin. L’unica domanda è quanto arriveranno in alto le messe in stato di accusa, e quanto danno provocheranno. Ma non sarà un passaggio semplice.

Potreste pensare, dato questo contesto, che i repubblicani moderino le loro politiche nel tentativo di limitare i danni. Ma stanno semmai facendo l’opposto. La proposta di legge sul fisco della Camera è apertamente regressiva; quella del Senato effettivamente alza le tasse sulla maggioranza delle famiglie, mentre include uno speciale sgravio fiscale per gli aeroplani privati. In sostanza, il Partito Repubblicano sta inviando alle classi medie un gigantesco gesto di irrisione col dito medio. Cosa sta succedendo?

Direi che in larga parte la risposta è che molti repubblicani adesso considerano sé stessi e/o il loro partito in tali terribili ambasce che non stanno più nemmeno cercando di migliorare la loro futura posizione elettorale; piuttosto tutto si risolve nel mantenere la presa sui loro finanziatori, per quanto è ancora possibile. La libertà è soltanto un’altra espressione per significare che non si ha più niente da perdere; nel caso del Partito Repubblicano, questo significa la libertà di essere quel partito degli oligarchi, al loro servizio e a loro favore, che hanno sempre voluto essere.

Questo calcolo è chiarissimo nel caso dei componenti della Camera che rappresentano quel genere di distretti elettorali – con una certa istruzione, relativamente benestanti, tradizionalmente repubblicani moderati – che sono andati ai democratici per effetto degli ampi smottamenti in Virginia. Se il 2018 finirà con l’essere qualcosa di simile a quello che adesso sembra probabile, qualsiasi cosa facciano questi congressisti avranno bisogno di nuovi posti di lavoro nel 2019 –  e i migliori posti di lavoro saranno come lobbisti di K Street [3] , ad eccezione di quei pochi che otterranno impieghi presso Fox News o come esperti di gruppi di ricerca della destra. In altre parole, in un modo o nell’altro il loro futuro consiste nel raccogliere forme di assistenza per i “trombati”, il che significa che i loro incentivi consistono esclusivamente nell’essere ideologhi fedeli, anche se in grandissima parte a spese della loro base elettorale.

Il Senato è un po’ diverso; lì non c’è una gran quantità di repubblicani destinati all’insuccesso. Ma c’è un’ottima ragione per credere che i prossimi mesi rappresenteranno l’ultima possibilità che hanno portare a compimento quello che hanno promesso ai Koch e simili. Dopo quello, le tessere dl domino cominceranno a cadere: forse con la perdita dell’Alabama, riducendo persino ulteriormente la loro risicata maggioranza, forse le richieste di rinvio a giudizio che azzopperanno anche maggiormente la Casa Bianca, alla fine la perdita di uno o di entrambi i rami del Congresso. Dunque la loro motivazione è infilare subito tutto quello che vogliono i finanziatori nel tritacarne, non importa quanto sia scandaloso – rialzi delle tasse sulla maggioranza della popolazione, sgravi fiscali sugli aerei privati.

Devo riconoscere che non mi ero accorto di questi sviluppi. E c’è una buona possibilità che questo disperato aggrapparsi fallisca – si ricordi, ci vorrebbero solo tre Senatori repubblicani dotati di un minimo di principi. Ma siamo a quel punto.

 

 

 

 

[1] La tabella – che indica le variazioni di reddito previste per le varie categorie di contribuenti al 2027 – non è strettamente attinente al post. E’ una specie di ‘memo’ che indica quello che i congressisti repubblicani sono disposti a fare, ovvero grandi regali ai più ricchi e danni anche al loro elettorato.

[2] Candidato repubblicano alle prossime elezioni in Alabama, gravato da accuse di molestie sessuali. Trump in questi giorni è uscito a suo sostegno, anche se i dissensi sono vasti (ad esempio, i giovani repubblicani dell’Alabama).

[3] È la strada di Washington nella quale si concentrano le sedi delle ‘lobbies’, al punto che è diventata nel linguaggio politico americano un sinonimo di attività lobbistica.

 

 

 

 

 

 

I tagli alle tasse e il deficit commerciale (dal blog di Paul Krugman, 14 novembre 2017)

novembre 22, 2017

 

Tax Cuts And The Trade Deficit

Paul Krugman

 NOVEMBER 14, 2017 11:33

It’s a sad commentary on the state of affairs in America that we need to spend time debunking the Tax Foundation “model” of the effects of GOP tax cuts. But that model, with its extremely optimistic take on the growth and revenue effects of corporate tax cuts, is reportedly playing an important role in Senate discussions. So let’s talk some more about a point I’ve been trying to make: if you believe the TF analysis, you also have to believe that the Senate bill would lead to enormous trade deficits — and massive loss of manufacturing jobs.

TF provides very little detail on their model, which is itself a flashing red light: transparency is essential if you’re serious in this game. But if you read in a ways, there’s a table that tells us some of what we need to know:

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So they’re saying that in the long run — which they identify as a decade — the U.S capital stock will be 9.9% bigger than it would otherwise have been. Where do the savings for that increase in capital come from? Since there’s nothing in the bill that would increase domestic savings — on the contrary, the budget deficit would reduce national savings — they come from inflows of foreign capital.

How much inflow are we talking about? Currently, private fixed assets are approximately $43 trillion. A good baseline for private capital in 2027 would be to assume that it would grow with potential GDP. If so, in the absence of the Senate bill private capital would be $65 trillion in 2027.

So the Tax Foundation is claiming that the Senate bill would raise that by 9.9%, or $6.4 trillion.

Now, it’s just an accounting identity that current account + financial account = 0 — that is, $6.4 trillion in capital inflows means an extra $6.4 trillion in trade deficits over the next decade, more than $600 billion a year. Somehow, TF isn’t advertising that point, even though it’s an unavoidable conclusion from their analysis.

What would adding $600 billion per year to the trade deficit do? Mainly it would come from manufacturing, although part of that would reflect indirect losses in service industries that supply manufacturing. So let’s say 60% comes from reduced value added in U.S. manufacturing. That’s more than 20% of U.S. value-added in manufacturing. So the U.S. manufacturing sector would be around 20% smaller than it would have been otherwise.

How would this happen? Huge capital inflows would drive up the dollar, making U.S. manufacturing much less competitive.

And to a first approximation, it would also mean 20% fewer manufacturing jobs. Starting with 12.5 million current manufacturing workers, this means around 2.5 million fewer manufacturing jobs.

So let me say this clearly: if you believe the Tax Foundation analysis, you should also believe that the Senate bill would reduce manufacturing employment by around 2 1/2 million. Yes, jobs would be added in other sectors. But it’s not exactly what Trump has been promising, is it?

So why isn’t Tax Foundation talking about any of this? Actually, it’s pretty clear that they haven’t thought through the implications of their own model. Even though inflows of foreign capital are absolutely central to their case, they don’t appear to have considered at all what such inflows would involve.

So nobody should be taking these guys seriously.

 

I tagli alle tasse e il deficit commerciale,

di Paul Krugman

È una triste testimonianza dello stato delle cose in America che si debba perdere tempo a confutare il “modello” di Tax Foundation sugli effetti dei tagli alle tasse del Partito Repubblicano. Ma quel modello, con la sua estremamente ottimistica presa di posizione sugli effetti sulla crescita e sulle entrate dei tagli fiscali alle società, secondo i resoconti sta giocando un ruolo importante nelle discussioni al Senato. Consentitemi dunque di parlare un po’ di più su un punto che sto cercando di avanzare: se si crede alle analisi di TF, si deve anche credere che la proposta di legge del Senato porterebbe a enormi deficit commerciali – ed a una massiccia perdita di posti di lavoro nel settore manifatturiero.

TF fornisce molti pochi dettagli sul proprio modello, il che di per sé fa scattare una luce rossa: se in questa partita si è seri, la trasparenza è essenziale. Ma se si legge tra le righe, c’è una tabella che ci dice qualcosa che abbiamo bisogno di conoscere:

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Dunque, stanno dicendo che nel lungo periodo – che essi identificano con un decennio – lo stock di capital degli Stati Uniti sarà più grande di quello che sarebbe stato altrimenti, nella misura del 9,9%. Da dove vengono i risparmi per quell’incremento di capitale? Dal momento che non c’è niente nella proposta di legge che aumenterebbe il risparmio nazionale – al contrario, il deficit del bilancio lo ridurrebbe – essi verrebbero da flussi in entrata di capitali stranieri.

Di quanti flussi stiamo parlando? Attualmente, gli asset fissi privati sono circa 43.000 miliardi di dollari. Una buona base di riferimento per i capitali privati sarebbe assumere che essa cresca con il PIL potenziale. Se così fosse, in assenza della proposta del Senato il capitale privato sarebbe 65.000 miliardi di dollari nel 2027.

Dunque Tax Foundation sta sostenendo che la proposta del Senato accrescerebbe quel dato del 9,9%, ovvero di 6.400 miliardi di dollari.

Ora, è semplicemente per una identità contabile che il conto corrente + il conto finanziario = 0 – ovvero, 6.400 miliardi di dollari comportano un aumento di 6.400 miliardi di dollari nei deficit commerciali per il prossimo decennio, più di 600 miliardi di dollari all’anno. Per qualche ragione, TF non sta segnalando questo aspetto, anche se sulla base delle loro analisi, è una conclusione obbligata.

Aggiungere 600 miliardi all’anno al deficit commerciale, cosa provocherebbe? Principalmente essi proverrebbero dal settore manifatturiero, sebbene una parte rifletterebbe perdite indirette nelle industrie di servizio che riforniscono il settore manifatturiero. Diciamo dunque che un 60% provenga dalla riduzione di valore aggiunto nel manifatturiero statunitense. Esso è più del 20% del valore aggiunto nel manifatturiero degli Stati Uniti. Dunque, il settore manifatturiero sarebbe per circa il 20% più piccolo di quanto sarebbe stato altrimenti.

Come accadrebbe tutto questo?  Vasti flussi in ingresso di capitali spingerebbero in alto il dollaro, rendendo il settore manifatturiero statunitense molto meno competitivo.

E, a una prima approssimazione, esso significherebbe anche un 20% di posti di lavoro in meno nel manifatturiero. Partendo dai 12,5 milioni di attuali lavoratori manifatturieri, questo significherebbe circa 2,5 milioni di posti di lavoro manifatturieri in meno.

Dunque, fatemelo dire con chiarezza: se credete nella analisi di Tax Foundation, dovreste anche credere che la proposta di legge del Senato ridurrebbe l’occupazione manifatturiera di circa 2 milioni e mezzo di persone. È vero, aumenterebbero i posti di lavoro in altri settori. Ma non è esattamente quello che Trump aveva promesso, non è così?

Perché dunque Tax Foundation non dice niente di tutto questo? Per la verità, è abbastanza chiaro che non hanno ragionato sulle implicazioni del loro modello. Anche se i flussi in ingresso dei capitali stranieri sono assolutamente centrali nella loro tesi, non sembrano aver affatto considerato cosa comporterebbero quei flussi.

Dunque nessuno dovrebbe prendere quella gente sul serio.

 

 

Tax Foundation ha qualche spiegazione da dare, (dal blog di Paul Krugman, 11 novembre 2017)

novembre 18, 2017

 

NOV 11 2:05 PM 

The Tax Foundation Has Some Explaining To Do

Paul Krugman

I’m hearing from various sources that the Tax Foundation’s assessment of the Senate plan, which purports to show huge growth effects and lots of revenue gains from this growth, is actually having an impact on debate in Washington. So we need to talk about TF’s model, and what they aren’t telling us.

The basic idea behind TF’s optimism is that the after-tax return on capital is set by global markets, so that if you cut the corporate tax rate, lots of capital comes flooding in, driving wages up and the pre-tax rate of return down, until you’re back at parity. That is indeed a possible outcome if you make the right assumptions.

But there are two necessary side implications of this story. First, during the process of large-scale capital inflow, you must have correspondingly large trade deficits (over and above baseline). And I mean large. If corporate tax cuts raise GDP by 30%, and the rate of return is 10%, this means cumulative current account deficits of 30% of GDP over the adjustment period. Say we’re talking about a decade: then we’re talking about adding an average of 3% of GDP to the trade deficit each year — around $600 billion a year, doubling the current deficit.

Second, all that foreign capital will earn a return — foreigners aren’t investing in America for their health. As I’ve tried to point out, this probably means that most of any gain in GDP accrues to foreigners, not U.S. national income.

So how does the TF model deal with these issues? They have never provided full documentation (which is in itself a bad sign), but the answer appears to be — it doesn’t. Judging from the description here, the current version of the model has no international sector at all — that is, it says nothing about trade balances. They say that they’re working on a model that

tracks the effects of rapidly increasing or decreasing desired capital stocks on international capital markets. The international sector captures the capital payments that leave the domestic economy to the foreign owners of domestic assets and adjusts the growth factors for the tax-return simulator to reflect the actual growth in incomes.

In other words, the model they’re using now doesn’t do any of that.

So while they’re peddling an analysis that implicitly predicts huge trade deficits and a large jump in income payments to foreigners, they’re using a model that has no way to assess these effects or take them into account.

Maybe they’ll eventually do this stuff. But what they appear to be doing now is fundamentally incapable of addressing key issues in the tax policy debate.

 

Tax Foundation ha qualche spiegazione da dare,

di Paul Krugman

Sto ascoltando da varie fonti che la valutazione di Tax Foundation sul progetto del Senato, che ritiene di dimostrare grandi effetti di crescita e grandi vantaggi da tale crescita per le entrate, sta effettivamente avendo un impatto sul dibattito a Washington. Abbiamo dunque bisogno di parlare del modello TF, e di che cosa essi ci stanno raccontando.

L’idea di base dietro l’ottimismo di TF è che il rendimento sul capitale dopo le tasse è stabilito dai mercati globali, cosicché se si tagliano le aliquote fiscali delle società, arrivano grandi quantità di capitali che vi inondano, spingendo in alto i salari e in basso il tasso di rendimento prima delle tasse, finché non si torna alla parità. Questo è in effetti un risultato possibile se si parte da assunti corretti.

Ma ci sono due necessarie implicazioni collaterali in questa storia. La prima, durante il processo di flussi in ingresso dei capitali su larga scala, si debbono avere in corrispondenza grandi deficit commerciali (in aggiunta alla base di riferimento). E intendo grandi. Se i tagli alle tasse delle società elevano il PIL del 30% e il tasso di rendimento è il 10%, questo significa deficit cumulativi di conto corrente del 30% del PIL nel corso del periodo di adeguamento. Diciamo che stiamo parlando di un decennio: conseguentemente stiamo parlando di aggiungere una media del 3% del PIL al deficit commerciale di ogni anno – circa 600 miliardi all’anno, che raddoppiano il deficit attuale.

La seconda, tutti i capitali stranieri otterranno un rendimento – gli stranieri non stanno investendo in America perché gli fa bene alla salute. Come ho cercato di mettere in evidenza [1], questo probabilmente comporta che la maggioranza di tutti gli avanzamenti del PIL matura a favore degli stranieri, non del reddito nazionale degli Stati Uniti.

Come si misura, dunque, il modello TF con questi temi? Essi non hanno mai fornito una documentazione completa (il che è di per sé un cattivo segno), ma la risposta sembra essere – non ci si misura. Giudicando da questa descrizione, l’attuale versione del modello non contiene per nulla un settore internazionale – ovvero non dice niente sulle bilance commerciali. Dicono che stanno lavorando su un modello che:

“segua gli effetti degli stock attesi in rapida crescita o decrescita sui mercati internazionali dei capitali. Il settore internazionale registra i pagamenti al capitale che lasciano l’economia nazionale per i proprietari stranieri di asset nazionali e corregge i fattori di crescita per il simulatore dei rendimenti fiscali in modo da riflettere la crescita effettiva nei redditi”.

In altre parole, il modello che stanno utilizzando adesso non fa niente del genere.

Dunque, nel mentre mettono in circolazione una analisi che implicitamente prevede vasti deficit commerciali e un forte salto nel sostegno del reddito degli stranieri, essi stanno usando un modello che in nessun modo valuta questi effetti o li mette nel conto.

Forse alla fine lo faranno. Ma quello che sembrano fare in questo momento è fondamentalmente incapace di affrontare temi cruciali nel dibattito sulla politica fiscale.

 

 

 

 

[1] Vedi il post “L’economia degli gnomi, con i numeri” del 9 novembre 2017.

 

 

 

 

 

 

L’economia degli gnomi, con i numeri (dal blog di Paul Krugman, 9 novembre 2017)

novembre 17, 2017

 

NOV 9 1:51 PM

Leprechaun Economics, With Numbers

By Paul Krugman

 

Yesterday I noted that most discussion of the growth effects of the Cut Cut Cut Act, such as they may be, focuses on the wrong measure. GDP might go up because lower corporate taxes will draw in foreign capital; but this capital will demand and receive returns, which mean that part of the gain in domestic production is offset by investment income received by foreigners. As a result, GNI – income of domestic residents – will rise less than GDP. And surely, as in Ireland with its leprechaun economy based on low corporate taxes, GNI is the measure you want to focus on.

Now, inspired by Greg Leiserson’s post on problems with the Tax Foundation model – the only one that shows significant growth effects from Cut Cut Cut – I think I can give an illustration of how much this might matter. It relies on a stylized version of the TF model, which is a model I don’t believe for a minute, so this isn’t a real estimate. But it’s a sort of proof of concept.

So, as Leiserson says, the TF model assumes that thanks to international capital mobility there’s a fixed after-tax rate of return capital must earn. Cut the corporate tax rate, and capital flows in, driving down the pre-tax rate of return by just enough to offset the tax cut.

The following figure shows the story. Here r* is the required rate of after-tax return, t is the initial tax rate, t’ the post Cut Cut Cut rate. MPK is the marginal product of capital curve. The tax cut leads to a capital inflow that moves the economy down that curve. The rise in GDP is the integral of all successive increments to capital, so it’s the area a+b+c.

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But the extra foreign capital, by assumption, receives the rate of return r*. So the area c is an addition to GDP but not to GNI; the true gain to the economy is only a+b.

Now let’s create some stylized numbers. It looks as if 8% is a reasonable number for after-tax required return; with a 35% tax rate, this means a pre-tax rate of 12.3%. Cut the tax rate to 20%, and the pre-tax return should fall to 10%. The increment of capital should have a rate of return roughly halfway between, 11.15%.

Tax Foundation asserts that capital inflows will be enough to raise GDP more than 3%, which is wildly implausible. But let’s go with it for the sake of argument. This means inflows of around 30 percent of pre-CCC GDP.

So how much does this raise foreign investment income? The answer is, 8% times 30%, or 2.4 percent of GDP out of a GDP rise of 3.45 percent in my example. In other words, the true gain to the US is 1.05%, not 3.45%. That’s a big difference, and not in a good way.

The point is that even if you believe the whole “we’re a small open economy so capital will come flooding in” argument, it buys you a lot less economic optimism than its proponents imagine.

 

L’economia degli gnomi [1], con i numeri

di Paul Krugman

Ieri osservavo che gran parte del dibattito sugli effetti possibili sulla crescita della Legge Taglia Taglia Taglia [2], si concentra su una misura sbagliata. Il PIL dovrebbe salire perché tasse più basse sulle società attrarranno capitali stranieri; ma questi capitali chiederanno e riceveranno rendimenti, il che significa che parte del guadagno nella produzione nazionale verrà bilanciata dal reddito di investimento ricevuto dagli stranieri. Di conseguenza, il Reddito Nazionale Lordo (GNI) – il reddito di coloro che risiedono nel paese – crescerà meno del PIL. E certamente, come in Irlanda con la sua economia degli gnomi basata su basse tasse sulle società, il GNI è la misura sulla quale ci si deve concentrare.

Ora, stimolato dal post di Greg Leiserson sui problemi posti dal modello di Tax Foundation (TF) – il solo che mostri significativi effetti di crescita a seguito del Taglia Taglia Taglia – credo di potere fornire una illustrazione sulla importanza della dimensione che questo potrebbe avere. Essa si basa su una versione stilizzata del modello TF, che è un modello al quale non credo assolutamente, cosicché questa non è una stima reale. È una sorta di simulazione concettuale.

Dunque, come dice Leiserson, il modello TF assume che grazie alla mobilità internazionale dei capitali, ci deve essere un tasso di rendimento fisso dopo le tasse che il capitale deve guadagnare. Tagliate le aliquote fiscali sulle società e il capitale e i flussi in ingresso dei capitali, spingono in basso il tasso di rendimento prima delle tasse proprio allo scopo di bilanciare il taglio fiscale.

La storia è mostrata dal seguente diagramma. Nel quale r* è il tasso di rendimento richiesto dopo le tasse, t è l’iniziale aliquota fiscale, t’ è l’aliquota successiva alla legge del Taglia Taglia Taglia.  MPK è il prodotto marginale della curva del capitale. Il taglio fiscale porta ad un flusso in ingresso del capitale che spinge verso il basso la curva dell’economia. La crescita del PIL è l’integrale di tutti i successivi incrementi di capitale, dunque è l’area a+b+c.

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Ma il capitale straniero, sulla base dell’assunto, riceve il tasso di rendimento r*. Dunque l’area c è una aggiunta al PIL ma non al Reddito Nazionale Lordo; il vero guadagno dell’economia è soltanto a+b.

Consentitemi adesso di utilizzare alcuni numeri che uniformano e rendono più comprensibile il tutto. Mi pare che se l’8% è un numero ragionevole per il rendimento richiesto dopo le tasse, con una aliquota fiscale del 35%, questo significa una aliquota prima delle tasse del 12,3%. Tagliate l’aliquota fiscale al 20% e il rendimento prima delle tasse dovrebbe cadere al 10%. L’incremento del capitale dovrebbe avere un tasso di rendimento grosso modo della metà, 11,5%.

Tax Foundation sostiene che i flussi di capitale in ingresso sarebbero sufficienti ad innalzare il PIL di più del 3%, il che è assolutamente non plausibile. Ma per ipotesi accettiamolo. Questo significa flussi in ingresso di capitali pari circa al 30% del PIL prima della legge dei tagli.

Dunque, di quanto questo accresce il reddito degli investimenti stranieri? La risposta è, 8% per 30%, o 2,4% del PIL, da togliere all’aumento del PIL del 3,45% nel mio esempio. In altre parole, il vero guadagno è dell’1,05%, non del 3,45%. E questa è una grande differenza, non in senso positivo.

Il punto è che persino se si crede all’intero argomento “siamo una piccola economia aperta e dunque il capitale arriverà copiosamente”, esso vi offre molto meno ottimismo economico di quanto i suoi proponenti immaginano.

 

 

 

[1] Ovvero, l’economia irlandese. È noto che il “leprechaun” – il folletto, lo gnomo vestito di verde e con una pipa in mano – è una figura centrale della mitologia irlandese. Per capire in che senso si parla di una economia degli gnomi, può essere utile questo brano da un articolo apparso il 5 di ottobre sul Sole-24 Ore.

 

Il primo creditore è la Cina, colosso mondiale dell’export. Il secondo è il Giappone, patria di colossali fondi pensione e compagnie di assicurazioni vita che devono per forza coprirsi con titoli di Stato a lungo termine. Fin qui nessuna sorpresa. Ma è quando alziamo il velo sul terzo posto che entriamo a gamba tesa nella fantascienza: il terzo creditore degli Stati Uniti non è la Germania peso massimo industriale, o la Gran Bretagna regno della finanza, ma la minuscola e remota Irlanda. Sembra incredibile ma è vero: secondo i dati diffusi pochi giorni fa dal Treasury International Capital, Dublino detiene in portafoglio qualcosa come 310 miliardi di dollari di titoli di Stato Usa, una cifra superiore al suo stesso prodotto interno lordo.

[2] È il titolo che Trump avrebbe voluto dare alla legge sul fisco, anche se alla fine ha ricevuto un altro nome (Legge sul fisco e sui posti di lavoro).

 

 

 

 

 

L’economia degli gnomi e il neo-lafferismo, di Paul Krugman (dal blog di Krugman 8 novembre 2017)

novembre 10, 2017

 

Leprechaun Economics and Neo-Lafferism

 NOVEMBER 8, 2017 2:28 PM 

Paul Krugman

At one level, trying to have a serious discussion of the economic impacts of the Cut Cut Cut Act – sorry, the Tax Cuts and Jobs Act – is arguably a waste of time. Republicans who believe, or pretend to believe, that tax cuts will produce an economic miracle, who didn’t change their minds after the Clinton boom, the Bush debacle, the Kansas disaster, and the strength of the economy after 2013 aren’t going to be persuaded by further analytical discussion.

But some of us have spent our lives trying to understand such things, and there are some intellectually interesting aspects of the current tax debate even though the would-be reformers aren’t interested in a real discussion. So let me indulge myself.

The thing is, while Republicans always claim that tax cuts will produce miraculous growth, both the proposed tax cuts and the supposed sources of the miracle are a bit different this time. Instead of focusing on individual tax rates – aside from the estate tax – this time it’s mostly about corporate taxes. And instead of claiming huge increases in work effort from lower marginal rates, they’re mostly claiming that lower corporate taxes will bring huge capital inflows, raising wages and GDP.

There are multiple reasons to be skeptical about these claims; the actual magnitude of any positive effect on GDP is likely to be far smaller than anything Republicans say. The Penn-Wharton model says that GDP in 2027 would be between 0.3% and 0.8% higher with the tax cuts than without, i.e., basically an invisible effect against background noise; and this doesn’t even take into account the longer-run negative effects of discouraging higher education, slashing nutrition programs, and all the other things that will probably happen due to higher deficits.

But let me make a different point: GDP is actually the wrong measure. If you’re going to be pulling in foreign capital, you’re going to be paying more investment income to foreigners; so gross national income – income accruing to domestic residents – is going to go up by less. And surely that’s the measure we care about.

In fact, when you bear in mind the reduced taxes collected on foreign investors who are already here, GNI could actually go down, not up.

One way to say all of this is that Cut Cut Cut would be an attempt to bring a bit of leprechaun economics to the United States. Ireland, famously, is a country where GDP vastly exceeds national income, by a growing margin:

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The reason is a low corporate tax rate, which attracts both real foreign investment in capital-intensive sectors – investment that raises GDP but does little for workers – and also creates an incentive to use transfer pricing to make profits appear in Ireland even though they have nothing much to do with Irish activity. Not incidentally, Kevin Hassett appears to be confused about the economics here, imagining that a paper reduction in the US trade deficit due to changes in transfer pricing would bring in real jobs. It wouldn’t.

There are really two bottom lines here. One is that the true growth impacts of Cut Cut Cut would be even more pathetic than the numbers you’ve been hearing. The other is that if you’re going to make international capital flows central to your arguments, you really need to think about the implications for future investment income.

 

L’economia degli gnomi e il neo-lafferismo [1] , di Paul Krugman

Da un parte, cercare di avere una discussione seria sugli impatti economici della Cut cut cut Act [2]scusate, la “Tax Cuts and Jobs Act” – è probabilmente una perdita di tempo. I repubblicani che credono, o fingono di credere, che i tagli al fisco produrranno un miracolo economico, che non cambiarono i loro convincimenti dopo il boom di Clinton, dopo la debacle di Bush, dopo il disastro del Kansas e la forza dell’economia dal 2013 non sono destinati ad essere persuasi da un ulteriore discussione analitica. Ma alcuni di noi hanno speso la loro esistenza a cercar di capire cose del genere, e ci sono alcuni aspetti intellettualmente interessanti dell’attuale dibattito fiscale, anche se i presunti riformatori non sono interessati ad un dibattito reale. Dunque, fatemi essere indulgente con me stesso.

Il punto è che questa volta, se i repubblicani sostengono sempre che gli sgravi fiscali produrranno una crescita miracolosa, sia i tagli proposti che le presunte fonti del miracolo sono un po’ diversi. Invece di concentrarsi sulle aliquote fiscali sulle persone – a parte la tassa sul patrimonio – questa volta si tratta soprattutto della tassazione sulle società. E anziché sostenere enormi incrementi nel tentativo di operare a seguito di aliquote marginali più basse, si sostiene soprattutto che tasse più basse sulle società comporterebbero grandi flussi in ingresso di capitali, aumentando i salari ed il PIL.

Ci sono varie ragioni per essere scettici su queste pretese; l’effettiva ampiezza di qualsiasi effetto positivo sul PIL è probabile che sia di gran lunga più modesta di tutto quello che dicono i repubblicani. Il Modello Penn-Wharton dice che il PIL nel 2027 sarebbe più alto con gli sgravi fiscali che senza, tra lo 0,3 e lo 0,8%, ovvero fondamentalmente un effetto invisibile rispetto a un rumore di fondo; e questo senza neppure mettere nel conto gli effetti negativi di lungo periodo derivanti dallo scoraggiare una istruzione superiore, dall’abbattere i programmi alimentari, e da tutte le altre cose che probabilmente accadranno a seguito di deficit più elevati.

Ma fatemi avanzare una considerazione diversa: il PIL è in effetti un metro di misura sbagliato. Se si intende far leva sul capitale straniero, si è destinati a pagare di più il reddito da investimenti agli stranieri; dunque il reddito nazionale lordo – quello che matura dai residenti nazionali – è destinato a salire di meno. Ed è certamente quella la misura di cui ci occupiamo.

Di fatto, quando si tengono a mente le minori tasse raccolte sugli investitori stranieri che già operano qua, il Reddito Nazionale Lordo potrebbe effettivamente scendere, non salire.

Un modo per esprimere tutto questo è che il Cut Cut Cut sarebbe un tentativo di portare un po’ di economia degli gnomi [3] negli Stati Uniti. È noto che l’Irlanda è un paese nel quale il PIL eccede ampiamente il reddito nazionale, di un margine crescente:

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[4]

La ragione è che un’aliquota fiscale per le società bassa, che attrae investimenti reali stranieri in settori ad alta intensità di capitale – investimenti che aumentano il PIL ma fanno poco per i lavoratori – e crea anche un incentivo ad usare il transfer pricing [5] per fare profitti, compare in Irlanda anche se non ha molto a che fare con l’attività irlandese. Non casualmente, Kevin Hassett sembra in questo caso far confusione tra due economie, immaginando che una riduzione cartacea del deficit commerciale degli Stati Uniti dovuta ai cambiamenti nel transfer pricing porti reali posti di lavoro. Non è così.

In realtà, in questa vicenda ci sono due morali. Una è che i veri impatti di crescita del Cut Cut Cut sarebbero persino più insignificanti dei numeri che sono in circolazione. L’altra è che se siete intenzionati a fare dei flussi in ingresso dei capitali internazionali il punto centrale dei vostri argomenti, avete davvero bisogno di ragionare sulle implicazioni del futuro reddito da investimenti.

 

 

 

 

[1] Arthur Betz Laffer (Youngstown, 14 agosto 1940) è un economista statunitense, sostenitore della Supply side economics. Divenne molto influente negli anni dell’amministrazione Reagan, tanto da esserne uno dei massimi consiglieri economici. Dunque, per “neolafferismo” si intende un ritorno alla economia reaganiana basata sulla pretesa che grandi sgravi fiscali sui più ricchi si sarebbero un po’ alla volta trasferiti sui ceti minori e medi.

[2] È il titolo che Trump avrebbe voluta per la proposta di legge sul fisco, significa “Legge del taglia taglia taglia”. Pare nvece che la chiamino Legge sui tagli alle tasse e sui posti di lavoro.

[3] È noto che il “leprechaun” – il folletto, lo gnomo vestito di verde e con una pipa in mano – è una figura centrale della mitologia irlandese. Per capire in che senso si parla di una economia degli gnomi, può essere utile questo brano da un articolo apparso il 5 di ottobre sul Sole-24 Ore.

“Il primo creditore è la Cina, colosso mondiale dell’export. Il secondo è il Giappone, patria di colossali fondi pensione e compagnie di assicurazioni vita che devono per forza coprirsi con titoli di Stato a lungo termine. Fin qui nessuna sorpresa. Ma è quando alziamo il velo sul terzo posto che entriamo a gamba tesa nella fantascienza: il terzo creditore degli Stati Uniti non è la Germania peso massimo industriale, o la Gran Bretagna regno della finanza, ma la minuscola e remota Irlanda. Sembra incredibile ma è vero: secondo i dati diffusi pochi giorni fa dal Treasury International Capital, Dublino detiene in portafoglio qualcosa come 310 miliardi di dollari di titoli di Stato Usa, una cifra superiore al suo stesso prodotto interno lordo.”

[4] Il diagramma mostra il rapporto percentuale tra il Reddito Nazionale Lordo e il PIL, che in un paese come l’Irlanda – linea rossa più grande – a partire dagli anni ’80 si colloca attorno al 120% del PIL.

[5] L’espressione transfer pricing identifica il procedimento per determinare il prezzo appropriato, in gergo transfer price, nel trasferimento della proprietà di beni/servizi/intangibili attraverso operazioni infra-gruppo. Il transfer pricing trova ampia applicazione nel determinare il valore normale dei prezzi o dei profitti relativi ad operazioni che intercorrono tra due imprese collegate residenti in paesi a fiscalità diverse (cross-border) come ad esempio due controparti di una multinazionale. Le transizioni infra-gruppo sono dette in gergo “controlled transactions” e sono distinte da quelle che si realizzano tra imprese che non sono collegate e che si assume operino indipendentemente nello stabilire termini e condizioni della transazione (ossia alle condizioni di libero mercato in gergo on an arm’s length basis).

Il transfer pricing interessa le Autorità fiscali a prescindere da livello di tassazione effettiva vigente nei Paesi in cui sono residenti o localizzate le imprese del gruppo coinvolte. La disciplina dei prezzi di trasferimento è infatti rivolta a proteggere l’erosione della base imponibile nazionale ed assicurare la corretta ripartizione impositiva tra Stati.

Ciò che l’Autorità fiscale rileva è la discrepanza tra il valore di vendita di un bene ad una società del gruppo e il valore di vendita dello stesso bene sul libero mercato. L’applicazione dei metodi di transfer pricing aiutano quindi ad assicurare che la transazione sia conforme o meno al valore normale (arm’s length standard). (Wikipedia)

 

 

 

 

 

 

 

 

Paul Ryan si sta strozzando con la sua stessa carne di incerta provenienza (dal blog di Krugman, 1 novembre 2017)

novembre 9, 2017

 

Paul Ryan Is Choking On His Own Mystery Meat

 NOVEMBER 1, 2017 9:27 AM 

Paul Krugman

House Republicans were supposed to unveil their tax proposal today, but it has been put off — and not, as you might imagine, because they’re a bit worried that their grand opening might be overshadowed by the indictment of Trump’s campaign manager and sworn testimony of collusion between campaign officials and Russia.

No, they’re delaying because on the verge of trying to pass a huge change in the U.S. tax system, they still haven’t settled on key parts of the proposal — specifically, how to pay for huge corporate tax cuts and large cuts to wealthy individuals.

But wait — how is this possible? Republicans, and specifically Paul Ryan, the speaker of the House, have been talking about tax “reform” and putting out white papers for years — actually, since 2010. How can basic things be up in the air at this late date?

The answer, of course, is that Ryan and friends have been faking it all these years. This was obvious from the beginning. I identified Ryan as a flimflam man more than 7 years ago. And the reason I knew he was a phony was that he was proposing large tax cuts while asserting that the lost revenue would be made up for by closing unspecified loopholes.

A couple of years later, Howard Gleckman of the Tax Policy Center complained about the “mystery meat” in Ryan’s budget — the huge revenue gains assumed from eliminating unspecified tax preferences:

Ryan proposes big, specific spending reductions such as cutting Medicaid in half and slashing other federal spending (except for Social Security, Medicare, and Medicaid) by nearly 75 percent from current levels by 2050. But his budget still can’t add up without eliminating or sharply scaling back those popular tax preferences. Which ones, it seems, remain a state secret.

And they’re still a state secret — on the day the House was supposed to release its plan, we still have no idea what will be used as “pay-fors”.

Now, a cynic might have expected Republicans to go for full-on cynicism: “What, you took it seriously when we talked about fiscal responsibility? The joke’s on you! Ha ha ha!” And to a certain extent that is what they’ve done: after all the deficit-hawk posturing, they’re openly admitting that their intention is to increase the deficit by $1.5 trillion.

But they apparently didn’t feel free to cut completely loose: they did set a deficit target, and as I understand the mechanics of reconciliation, the budgets passed by the House and Senate, while they don’t actually set policy, kind of leave them stuck with an upper limit on just how much they can blow up the deficit.

And they have no idea how to get there. Try to cut one set of deductions, and the homebuilders get mad at you. Try to cut another, and upper-middle-class suburbanites in blue states who still vote GOP get mad. And so on.

The point is that these problems were always predictable, which is why the Ryan budgets were always obviously fraudulent. Ryan’s fakery may have fooled his naive constituents — by which I mean practically the whole Beltway pundit class — but never fooled anyone who could do the math.

So will the GOP pass something? Probably — but it’s more likely to be a miniature Christmas tree of handouts to the wealthy than the grand tax reform they’ve been promising.

And let’s hope that whatever happens gets reported as the failure it is. Ryan and company promised big stuff, but never had any way to deliver. When it comes to big lies, Donald Trump is actually a very good, very normal Republican.

 

Paul Ryan si sta strozzando con la sua stessa carne di incerta origine,

di Paul Krugman

Si pensava che i repubblicani della Camera oggi avrebbero reso pubbliche le loro proposte sul fisco, ma l’evento è stato rimandato – e non, come potreste immaginare, perché fossero un po’ preoccupati che la loro superba inaugurazione potesse essere messa in ombra dal rinvio a giudizio del manager della campagna elettorale di Trump e dalla dichiarazione giurata della collusione tra i dirigenti di quella campagna e la Russia.

No, l’hanno rinviato perché sul punto di cercare di far approvare un grande cambiamento nel sistema fiscale degli Stati Uniti, essi non avevano ancora preso le decisioni su aspetti cruciali della proposta – in particolare, come pagare gli enormi sgravi sulle tasse delle società e i grandi tagli a favore delle persone ricche.

Ma, un momento; come è possibile tutto questo? È da anni che i repubblicani, e in particolare Paul Ryan, parlano della “riforma” delle tasse e mettono in circolazione libri bianchi – precisamente, dal 2010. Come è possibile che aspetti fondamentali restino indefiniti in questa estrema scadenza?

La risposta, naturalmente, è che Ryan e compagni in tutti questi anni hanno detto il falso. Era evidente sin dagli inizi. Più di 7 anni fa identificai Ryan come l’uomo della fandonia. E la ragione per la quale sapevo che era un imbroglione era che egli stava proponendo ampi sgravi fiscali nel mentre asseriva che le entrate perdute sarebbero state compensate dalla interruzione di non specificate forme di elusione.

Un paio d’anni più tardi, Howard Gleckman del Tax Policy Center si lamentò della “carne di incerta origine” nel bilancio di Ryan – i vasti incrementi nelle entrate ipotizzati dalla eliminazione di non specificati privilegi fiscali:

“Ryan propone grandi, specifiche riduzioni come il taglio della metà di Medicaid e l’abbattimento di altre spese federali (esclusa la Previdenza Sociale, Medicare e Medicaid) per circa il 75 per cento entro il 2050. Ma il suo bilancio ancora non può quadrare senza eliminare o ridurre bruscamente quei popolari privilegi fiscali. I quali, sembra, restano un segreto di Stato.”

Ed essi sono ancora un segreto di Stato –  il giorno in cui si riteneva che la Camera pubblicasse il suo progetto, noi non abbiamo ancora alcuna idea di cosa sarà utilizzato come ‘compenso’.

Ora, un cinico si poteva aspettare che i repubblicani quanto a cinismo avrebbero fatto il pieno: “Cosa, la prendevi sul serio quando parlavamo di responsabilità della finanza pubblica? Ci sei cascato! Ah ah ah!”. E in una certa misura è quello che hanno fatto: dopo tutto quell’atteggiarsi da falchi del deficit, stanno apertamente ammettendo che la loro intenzione è di aumentare il deficit di 1.500 miliardi di dollari.

Ma a quanto pare essi non si sentono liberi di fare tagli in completa scioltezza: hanno fissato un obbiettivo di deficit, e per quello che comprendo dei meccanismi della ‘riconciliazione’ [1], i bilanci approvati dalla Camera e dal Senato, se anche non fissano una politica, in un certo senso li lasciano bloccati entro un limite superiore proprio su quanto possono far salire il deficit.

E non hanno alcuna idea di come arrivarci. Si prova a tagliare un complesso di deduzioni, e quelli dell’edilizia diventano furiosi. Si prova a tagliare qualcosa d’altro, e i sobborghi delle classi medio alte degli Stati democratici che ancora votano per il Partito Repubblicano si infuriano. E così via.

Il punto è che questi problemi erano sempre stati prevedibili, che è la ragione per la quale le proposte di bilancio di Ryan erano evidentemente fraudolente. La falsità di Ryan può essersi presa gioco della sua ingenua base elettorale – nella quale io praticamente includo l’intera categoria dei commentatori della Capitale – ma non si è mai presa gioco di qualcuno che sapesse fare la matematica.

Dunque, il Partito Repubblicani approverà qualcosa? È probabile – ma è più probabile che si tratti di un albero di Natale in miniatura di sussidi ai ricchi, piuttosto che della grande riforma del fisco che hanno promesso.

E speriamo che qualsiasi cosa accada essa sia commentata per il fallimento che rappresenta. Ryan e soci hanno promesso grandi cose, ma non le hanno mai in alcun modo consegnate. Quando di ragiona di grandi bugie, Donald Trump è in effetti un ottimo e normalissimo repubblicano.

 

 

 

[1] È il nome che nella procedura di approvazione del Bilancio hanno le regole di compensazione tra il Senato e la Camera, che prevedono che uno dei due rami alla fine possa sciogliere nodi non risolti, sia pure con maggioranze qualificate,

 

 

 

 

 

Imbroglio sugli sgravi fiscali: i soliti sospetti (dal blog di Krugman, 29 ottobre 2017)

novembre 9, 2017

 

Tax Cut Fraudulence: The Usual Suspects

 OCTOBER 29, 2017 11:43

Paul Krugman

Stan Collender has a characteristically perceptive discussion of the ongoing budget farce, and invokes Casablanca: “round up the usual suspects.” That struck me as the perfect motto for what I’m seeing, although I’m focusing on somewhat different aspects of the farce.

You see, until a few days ago the Trump sales pitch was a bit different from past GOP arguments for tax cuts, involving (a) a novel invocation of the supposed benefits of massive capital inflows from corporate tax cuts, and (b) outright lies on an unprecedented scale.

But what I’ve been seeing lately is a revival of some more traditional, Bush-era fraudulence. Two items in particular. First, the claim that the rich pay practically all the taxes, so that of course they have to get the bulk of the tax cut. Second, claims of vast growth, because Reagan.

On the first: you might think there was some contradiction between the incessant claim that this is a middle-class tax cut and the claim that the rich deserve to get the lion’s share. But doublethink is central to the whole enterprise.

Anyway, the claim about who pays taxes is a very familiar one to us old hands: say “taxes” when what you really mean are “federal income taxes,” as if this was the only tax.

In reality, while the federal income tax is indeed mainly paid by people with high incomes, it’s far from being the only tax. At the federal level, most people pay more in payroll taxes than in income taxes, and the payroll tax is actually regressive. And state and local taxes are also a big deal, and they’re definitely regressive. Efforts to estimate the overall distribution of taxes find that the system isn’t especially progressive: the wealthy pay a lot in taxes, but they also receive a lot of income, and the shares aren’t much out of line:

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Figure 1

Meanwhile, about Reagan: yes, he cut taxes, and presided over average growth of more than 3 percent. But you know who else presided over growth of >3%?

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Figure 2

Clinton you probably saw coming — and Clinton, of course, raised taxes yet presided over a boom that surpassed Reagan’s. Carter may be a surprise: what few realize is that overall performance under Carter was pretty good, but his timing was off: fast growth in the early years, a recession (and inflation) at the end.

In any case, holding up either Reagan or Clinton as a model, a reason to believe 3% growth is in easy reach, misses one huge factor: demography. Under Reagan the last of the baby boomers were just entering their prime working years; these days we’re on our way out the door. Jason Furman had a nice graph to illustrate just how much has changed:

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Figure 3

So anyone invoking Reagan-era growth to justify outlandish projections now is ignorant, dishonest, or both.

Actually, of course, I shouldn’t be surprised to see some of the good old bogus arguments make a reappearance alongside the new set of lies. My experience over the years has been that the right never gives up an argument, even if it’s in flat contradiction to some other argument they’re making. They throw everything they have at the wall, in the hope that some of it sticks. And so it is with the tax “debate.”

 

Imbroglio sugli sgravi fiscali: i soliti sospetti

Paul Krugman 

Stan Collender interviene come al solito in modo perspicace nel dibattito sulla perdurante farsa del bilancio, e si rifà a Casablanca: “raccogliete i soliti sospetti”. Mi colpisce come una espressione perfetta di quello cui stiamo assistendo, sebbene mi stia concentrando su aspetti diversi della farsa.

Vedete, sino a pochi giorni fa gli imbonimenti di Trump erano un po’ diversi dai passati argomenti del Partito Repubblicano sugli sgravi fiscali, riguardando: (a) una insolita invocazione dei supposti benefici dei flussi in ingresso dei capitali per effetto dei tagli alle tasse sulle società; (b) menzogne complete di dimensioni che non hanno precedenti.

Ma ciò a cui stiamo assistendo ultimamente è una ripresa di una sorta di imbroglio più tradizionale, dell’epoca di Bush. Due temi in particolare. Il primo, la pretesa che i ricchi paghino praticamente per intero le tasse, cosicché naturalmente è ad essi che tocca il grosso degli sgravi fiscali. La seconda, gli argomenti su una ampia crescita, sul modello di Reagan.

Sul primo: potreste pensare che esista una qualche contraddizione tra l’incessante pretesa che questo sia uno sgravio fiscale per le classi medie e l’argomento secondo il quale i ricchi si meritano di fare la parte del leone. Ma tutta l’impresa si basa su un pensiero duplice.

In ogni modo, la pretesa su chi paga le tasse è molto familiare per noi che siamo del mestiere: si dice “tasse” quando in realtà quello che si intende è “tasse federali sul reddito”, come se queste fossero l’unica tassazione.

In realtà, mentre la tassa federale sul reddito è in effetti principalmente pagata da persone con alti redditi, essa è tutt’altro che l’unica tassa. Al livello federale, la maggioranza delle persone paga di più per le tasse sugli stipendi che per quelle sui redditi, e le tasse sugli stipendi sono effettivamente regressive. E anche le tasse degli Stati e delle comunità locali sono una grande faccenda, e sono certamente regressive. I tentativi di stimare la distribuzione complessiva delle tasse arrivano alla conclusione che il sistema non è particolarmente progressivo: i ricchi pagano molto in tasse ma ricevono anche molto di reddito, e le quote sono abbastanza in proporzione:

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Figura 1

Mentre, a proposito di Reagan: è vero, tagliò le tasse, e governò in un periodo con una crescita media superiore al 3 per cento. Ma sapete chi altri governò con una crescita superiore al 3 percento?

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Figura 2

Clinton probabilmente ve l’aspettavate – e Clinton, come è noto, elevò le tasse e ciononostante fu Presidente in una espansione che superò quella di Reagan. Carter può essere una sorpresa: ciò che pochi comprendono è che la prestazione complessiva con Carter fu abbastanza buona, ma la sua tempistica fu negativa: rapida crescita nei primi anni, recessione (e inflazione) alla fine.

In ogni caso, mantenendo Reagan o Clinton come punti di riferimento, una ragione per credere che una crescita del 3% sia a portata di mano trascura in grande fattore: la demografia. Con Reagan le ultime generazioni del boom demografico stavano appena entrando nei loro primi anni lavorativi; oggi ne siamo fuori. Jason Furman ha un bel grafico per illustrare esattamente quanto sia stato grande il cambiamento:

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Figura 3 ([1])

Dunque, chiunque invochi oggi l’epoca di Reagan per giustificare stravaganti previsioni è ignorante, disonesto o entrambe le cose.

In realtà, ovviamente, non dovrei essere sorpreso di vedere alcuni dei consolidati vecchi argomenti fasulli ricomparire nel nuovo assortimento di bugie. La mia esperienza nel corso del tempo è stata che la destra non rinuncia mai ad un argomento, persino se esso è in patente contraddizione con altri argomenti che stanno avanzando. Tirano tutto quello ce hanno sulla parete, nella speranza che qualcosa ci resti attaccato. E così è con il “dibattito” sulle tasse.

 

 

 

[1] Il titolo del grafico significa: “Crescita della popolazione civile non istituzionalizzata in età lavorativa (25-54 anni)”. Ovvero, sono escluse le persone che operano nelle forze armate o che sono ospiti di istituzioni statali come le carceri, i manicomi o simili.

 

 

 

 

 

Il programma di aiuti di Trump agli stranieri di 700 miliardi di dollari Paul Krugman (dal blog di Krugman, 25 ottobre 2017)

ottobre 29, 2017

 

Trump’s $700 Billion Foreign Aid Program

 OCTOBER 25, 2017 10:56 AM 

Paul Krugman

OK, this analysis from Steven M. Rosenthal at the Tax Policy Center is revelatory. It makes a simple point, but one everyone — myself included — somehow missed: the Trump tax plan is a huge giveaway to foreigners. Among other things, this means that the tax plan almost certainly reduces U.S. welfare even if you ignore distributional issues. This observation should transform discussion of the whole issue, at least among economists, although my cynical guess is that Republican-leaning academics will ignore it.

Some of what follows is wonkish, but I’ve left off the label because the basic point doesn’t require the technical analysis.

So here goes: the core of the Trump tax plan, to the extent we know what’s in it, is a huge cut in corporate taxes — about $2 trillion over the next 10 years, according to TPC’s best estimates. The administration would like you to believe that all of that tax cut will be passed on to higher wages, but this is overwhelmingly unlikely, especially in the short to medium run. In fact, the bulk of that tax cut will almost surely accrue to stockholders.

And now Rosenthal’s point: unlike the situation in previous tax reforms, we now live in a world where investment holdings are diversified across countries. Specifically, around 35 percent of U.S. equity is owned by foreign residents. So of that $2 trillion windfall, $700 billion goes to foreigners. Make non-US investors great again!

Note that you can’t wave this away by insisting that international investment considerations are somehow secondary — supposed effects on global capital flows are the whole administration rationale for the tax cut! Nor can you say that you only care about global welfare, not U.S. parochial issues — not under an administration that has adopted America First as its slogan.

So this is, or certainly should be, a very big deal.

Now for the moderately wonkish part.

I continue to find a simple MPK diagram the clearest way to think about these issues. So Figure 1 is a slightly modified version of the diagrams I’ve been using in previous posts. MPK is the marginal product of capital, r the pre-tax rate of return, declining in the capital stock K because of diminishing returns. I ignore monopoly profits. I assume that t is the rate of profit taxation, with r(1-t) therefore the after-tax rate of return. I make no assumptions about global rates of return, except to assume that in the relevant time horizon there’s no reason to expect enough capital inflows to equalize such rates.

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Figure 1

So Figure 1 shows what is, in effect, the conventional analysis. Suppose we cut the corporate tax rate. This will bring in some additional capital from abroad, but not enough, in practice, to keep the after-tax rate of return from rising. So there will be a direct revenue loss, some (although probably not much) being passed on to workers, but the rest showing up in higher corporate after-tax profits.

On the other hand, there will some inflow of foreign capital, and this new capital will pay taxes. These additional taxes represent an addition to overall U.S. national income, so that if you ignore distributional issues, the U.S. achieves a net gain.

But as Rosenthal points out, this misses an essential point of the situation: a lot — around 35 percent — of U.S. corporate profits actually accrue to foreign owners. This wouldn’t matter if all of the corporate tax cut were passed on to workers, but most of it won’t be, and the higher after-tax profits on foreign investments will — as shown in Figure 2 — be a windfall to foreign investors. And it’s one heck of a windfall: $700 billion over a decade.

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Figure 2

What this means, as I said, is that unless a lot of tax-paying capital comes in, the overall effect will be to make the U.S. as a whole poorer — even ignoring the fact that we’re cutting taxes for wealthy investors and will have to offset by, say, taking health care away from the poor.

Is it harsh to call the Trump tax plan a $700 billion foreign aid program? Yes. But it’s also completely fair.

 

Il programma di aiuti di Trump agli stranieri di 700 miliardi di dollari

Paul Krugman

Riconosco che questa analisi di Steven M. Rosenthal del Tax Policy Center è rivelatoria. Si occupa di un semplice aspetto, che tutti però – incluso il sottoscritto – s’erano persi: il piano fiscale di Trump è un grande regalo agli stranieri. Tra le altre cose, questo significa che il piano fiscale quasi certamente riduce il benessere degli Stati Uniti anche se si prescinde dalle tematiche distributive. Questa osservazione dovrebbe trasformare il dibattito sull’intera faccenda, almeno tra gli economisti, sebbene mi immagino scetticamente che gli accademici di tendenze repubblicane la ignoreranno.

Alcune delle cose che seguono sono per esperti, ma io ho trascurato di classificarla in tal modo perché l’aspetto principale non richiede analisi tecnica.

Dunque, ecco qua: il cuore del piano fiscale di Trump, nella misura in cui sappiamo cosa ci sia dentro, è una grande taglio fiscale alle imprese – circa due milia miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, secondo le stime più favorevoli del Tax Policy Center. Alla Amministrazione piacerebbe farvi credere che quel taglio fiscale sarà trasferito su più alti salari, ma questo è grandemente improbabile, specialmente nel periodo breve e medio. Di fatto, il grosso di quel taglio fiscale sarà quasi certamente raccolto dagli azionisti.

E adesso l’argomento di Rosenthal: diversamente dalla situazione di precedenti riforme fiscali, viviamo oggi in un mondo nel quale la proprietà degli investimenti è diversificata tra i vari paesi. In particolare, circa il 35 per cento del capitale azionario degli Stati Uniti è posseduto da residenti stranieri. Dunque di quella manna di duemila miliardi di dollari, 700 miliardi vanno agli stranieri. Rendiamo di nuovo grandi gli investitori non-statunitensi!

Si noti che non ci si può liberare di questo argomento sostenendo che le considerazioni sugli investimenti internazionali in qualche modo sono secondarie – gli effetti supposti sui flussi internazionali dei capitali sono l’intero argomento della Amministrazione per i tagli al fisco! Neanche si può dire che ci si preoccupa soltanto del benessere globale, e non delle tematiche provinciali degli Stati Uniti – non con una Amministrazione che ha adottato come suo slogan lo “American first”.

Dunque questo è, o dovrebbe essere certamente, un affare davvero grande.

Ed ora la parte moderatamente per esperti.

Continuo a ritenere che un semplice diagramma MPK sia il modo più chiaro per ragionare di questi temi. Così la Figura 1 è una versione leggermente modificata dei diagrammi che ho usato nei post precedenti. MPK è il prodotto marginale del capitale r il tasso di rendimento prima delle tasse, che cala nello stock di capitale K a causa dei rendimenti decrescenti [1].  Qua si ignorano i profitti di monopolio. Assumo che t è l’aliquota della tassa sui profitti, con r(1-t) che è pertanto il tasso di rendimento dopo le tasse. Non faccio alcuna ipotesi sui tassi globali di rendimento, se non considerando che nell’orizzonte temporale rilevante non c’è alcuna ragione di aspettarsi che i flussi in entrata dei capitali eguaglino tali tassi.

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Figura 1

Dunque, la Figura 1 mostra quello che è, in effetti, l’analisi convenzionale. Supponiamo di fare un taglio all’aliquota fiscale sulle imprese. Ci sarà così una perdita diretta delle entrate fiscali (sebbene probabilmente non grande), che in parte passerà sui lavoratori, ma per il resto si esprimerà in più elevati profitti delle imprese dopo le tasse.

D’altra parte ci saranno alcuni flussi in ingresso di capitali stranieri, e questo nuovo capitale pagherà le tasse. Queste tasse aggiuntive rappresentano una aggiunta al reddito nazionale complessivo degli Stati Uniti, cosicché se si ignorano i temi della distribuzione, gli Stati Uniti realizzeranno un guadagno netto.

Ma come mette in evidenza Rosenthal, in questo modo si perde un aspetto essenziale della situazione: un grande quantità dei profitti delle imprese statunitensi – attorno al 35 per cento – effettivamente matura a favore dei proprietari stranieri. Questo non sarebbe importante se tutto lo sgravio fiscale sulle imprese venisse trasferito sui lavoratori, ma in gran parte non sarà così e i profitti più elevati dopo le tasse – come mostrato nella Figura 2 – saranno una manna degli investitori stranieri. E che diavolo di manna: 700 miliardi in un decennio.

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Figura 2

Quello che questo comporta, come ho detto, è che a meno che non intervenga una grande quantità di capitale che paga le tasse, l’effetto generale sarà quello di rendere gli Stati Uniti nel loro complesso più poveri – anche a prescindere dal fatto che stiamo tagliando le tasse per gli investitori ricchi e che dovremo bilanciarlo, ad esempio, rendendo l’assistenza sanitaria indisponibile per i poveri.

È severo definire il piano fiscale di Trump un programma di aiuti di 700 miliardi di dollari agli stranieri? Sì, ma è anche completamente corretto.

 

 

 

[1] MPK è un acronimo per “produttività marginale del capitale”.

In termini informali, la produttività marginale di un fattore può definirsi come l’aumento di produzione ricollegabile all’impiego di una unità aggiuntiva di un fattore produttivo, lasciando invariati tutti gli altri input. Così, ad esempio, si supponga un’impresa che produce in un giorno 100 paia di scarpe utilizzando vari macchinari e 20 lavoratori. Se l’assunzione di un lavoratore aggiuntivo porta la produzione giornaliera a 104 paia di scarpe, la produttività marginale del lavoro sarà pari a 4. Wikipedia)

Al concetto di produttività marginale risulta strettamente collegato l’assunto di produttività marginale decrescente. In pratica si assume che la produttività marginale di un fattore, dopo un certo livello di impiego del fattore stesso, tenda a diminuire al crescere del livello assoluto di impiego del fattore. (Wikipedia)

 

 

 

 

 

 

La semplice e fuorviante analitica di uno sgravio fiscale sulle società (più per esperti) (dal blog di Krugman, 24 ottobre 2017)

ottobre 28, 2017

 

OCT 24 2:03 PM 

The Simple and Misleading Analytics of a Corporate Tax Cut (More Wonkery)

Paul Krugman

Figure slightly corrected

I should probably not be wasting time on this. But it seems as if practically the whole wing of more or less respectable conservative economists weighing in on this subject has made a basic algebraic/conceptual error. In itself, this error isn’t at all crucial to the policy debate. Other issues matter much more, notably taxes on monopoly profits, the fact that the US isn’t a small open economy, and the near-irrelevance of long-run equilibrium conclusions given the slow pace of adjustment imposed by imperfect integration of goods markets.

But arguably what we’re seeing here is something like the famous Excel programming error in the austerity debate: it’s not so much the substantive importance of the error as the evidence it provides of sloppy thinking, of conclusions adopted without checking because they promote a political agenda.

So the claim here is that the wage gains from a corporate tax cut exceed the revenue loss by a ratio that depends only on the initial tax rate, not at all on the degree to which capital can be substituted for labor, which in turn should (in this model) determine how much additional capital is drawn in by the tax cut. This feels wrong – and it is.

I continue to think that the clearest way to do this is with a simple marginal product of capital diagram. Here MPK is the marginal product of capital, aka the demand for capital, and r* is the world rate of return.

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But I do a slight transformation of variables. With perfect capital mobility, and in the long run, we must have

r(1-t) = r*

where r is the domestic rate of return and t the corporate tax rate. But we can rearrange this to write

r = r* + tau

where tau = r*t/(1-t), and corresponds to the specific tax on capital – that is, the tax paid per unit of capital.

Doing this makes things linear: we can represent a small tax change as d tau , etc.

Now I’m ready for my closeup. In the figure, I show the small-open-economy-long-run (i.e., silly) results of a small corporate tax cut, which can be represented by the areas of the two shaded rectangles (the little white triangle is second-order and can be ignored). There is a direct revenue loss, which is also the wage gain, equal to the wide, short rectangle: K dtau. Some of this revenue loss is offset by taxes on the additional capital that comes in: dK tau.

How big these secondary effects are, and therefore the ratio of wage gains to revenue losses, obviously – obviously! – depends on how much capital comes in, which depends on the sensitivity of MPK to the quantity of capital – on the slope of the MPK curve. If it’s nearly vertical, as Brad notes, there is essentially no offset.

So the claim that only the initial tax rate matters can’t be right. How could anyone imagine otherwise? I guess it’s a case of a result too good to check.

As I said, none of this is what’s really wrong with Hassettnomics. But it’s a revealing moment.

 

La semplice e fuorviante analitica di uno sgravio fiscale sulle società (più per esperti)

Paul Krugman 

Tabella leggermente corretta

Probabilmente non dovrei sprecare il mio tempo su questo. Ma sembra che praticamente l’intero settore degli economisti conservatori più o meno rispettabili che sta intervenendo su questo tema abbia fatto un fondamentale errore algebrico/concettuale. In sé questo errore non è affatto fondamentale per il dibattito politico. Altri temi contano molto di più. In particolare le tasse sui profitti di monopolio, il fatto che gli Stati Uniti non siano una piccola economia aperta, e la quasi irrilevanza delle conclusioni dell’equilibrio di lungo periodo, dato il ritmo lento delle correzioni imposto dall’imperfetta integrazione dei mercati dei beni.

Ma probabilmente stiamo assistendo a qualcosa di simile al famoso errore di programmazione di Excel nel dibattito sull’austerità: non è tanto la sostanziale importanza dell’errore, quanto la prova che esso fornisce di un pensiero sciatto, di conclusioni adottate senza controllare, perché esse promuovono un’agenda politica.

In questo caso, dunque, la pretesa è che i vantaggi salariali derivanti da un taglio alle tasse sulle società siano superiori alla perdita di gettito fiscale che dipende soltanto dalla aliquota fiscale iniziale, e non affatto dal grado nel quale il capitale può essere sostituito dal lavoro, il che a sua volta (in questo modello) dovrebbe determinare quanto capitale aggiuntivo è attratto dal taglio fiscale. Questo sembra sbagliato, e in effetti lo è.

Continuo a pensare che il modo più chiaro per realizzarlo sia un semplice diagramma sul prodotto marginale del capitale. In questo caso MPK è il prodotto marginale del capitale, ovvero la domanda di capitale, e r* è il tasso di rendimento globale.

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Ma faccio una leggera trasformazione delle variabili. Con una mobilità del capitale perfetta, e nel lungo periodo, dobbiamo avere

R(1-t) = r*

dove r è il tasso interno di rendimento e t l’aliquota fiscale sulle società. Ma possiamo rideterminarlo scrivendo

r = r* + tau

dove tau = r*t/(1-t), e corrisponde alla tassazione specifica sul capitale – ovvero, alla tassa pagata per unità di capitale.

Fare questo rende le cose lineari: possiamo rappresentare una piccola modifica alla tassa come d tau, etc.

Adesso sono pronto per il mio primo piano. Nella figura, mostro i risultati su una piccola-economia-aperta nel lungo periodo di un modesto sgravio fiscale sulle società (ovvero, una sciocchezza), che possono essere rappresentati dai due rettangoli sfumati (il piccolo rettangolo bianco è secondario e può essere ignorato). C’è una perdita diretta di entrate, che è anche il guadagno salariale, eguale al rettangolo largo e basso: K dtau. Una parte di questa perdita di entrate è bilanciata dal capitale aggiuntivo che interviene: dK tau.

Quanto siano grandi questi effetti secondari, e di conseguenza la percentuale degli incrementi salariali rispetto alle perdite di gettito, dipende ovviamente – ovviamente! – da quanto capitale viene attratto, che dipende dalla sensibilità di MPK alla quantità di capitale – dalla inclinazione della curva MPK. Se essa è quasi verticale, come osserva Brad DeLong, non c’è sostanzialmente bilanciamento.

Dunque, la pretesa che conti soltanto l’iniziale aliquota fiscale non può essere giusta. Come può qualcuno immaginare in modo diverso? Suppongo che si tratti di un caso di un risultato troppo buono da verificare.

Come ho detto, niente di tutto questo corrisponde a ciò che è davvero sbagliato nell’economia di Hassett. Ma è un passaggio rilevatore.

 

 

 

 

 

 

 

Un po’ di fuorviante geometria sulle tasse delle società (per esperti) (dal blog di Krugman, 21 ottobre 2017)

ottobre 27, 2017

 

Some Misleading Geometry on Corporate Taxes (Wonkish)

 OCTOBER 21, 2017 4:07

Paul Krugman 

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Figure 1

I very much doubt that additional facts or analysis are going to matter much for the fate of the Trump tax cuts. It’s obvious to pretty much everyone – I suspect even those pushing the cuts – that they will confer huge benefits on the wealthy, do little if anything for the middle class, and greatly increase the deficit. Indeed, in some ways those are not only the likely results, but the goals: big benefits for the donor class, and future deficits that can be used to justify tearing new holes in the social safety net.

Still, there is a somewhat interesting discussion going on over the effects of corporate tax cuts in an open economy. This discussion is, however, made somewhat more confused – in my view – by putting it in the context of Ramsey models (for the uninitiated who ignored my warning and are still reading, these are models of optimal saving by immortal consumers.) Consumer saving doesn’t actually play the key role here; it’s all about international capital mobility and how it changes things.

And it seems to me that there’s a fairly simple geometric way to see where the optimistic view that cutting corporate taxes is great for wages comes from. Furthermore, once we have that picture straight, it becomes a lot easier to ask “What’s wrong with this picture?” (Answer: a lot).

So, envision a small open economy with a fixed labor force (because labor supply isn’t of the essence here) that can import from or export capital to the rest of the world. Let’s also ignore saving, which also isn’t of the essence: the stock of capital, we’ll assume, changes only through capital inflows or outflows.

Oh, and let’s provisionally assume perfect competition, so that factors of production are paid their marginal products.

Then we can represent the economy with Figure 1, which has the stock of capital on the horizontal axis and the rate of return on capital on the vertical axis. The curve MPK is the marginal product of capital, diminishing in the quantity of capital because of the fixed labor force. The area under MPK – the integral of the marginal products of successive units of capital – is the economy’s real GDP, its total output.

Initially we assume that the economy faces a given world rate of return r*. However, the government imposes a profits tax at a rate t, so that to achieve a post-tax return r* domestic capital must earn r*/(1-t). And in the initial equilibrium that requirement determines the size of the domestic capital stock.

We can read off the distribution of income in Figure 1 by looking at the areas of various rectangles. In the initial equilibrium real output is a+b+d. Of this, d is the after-tax return to capital, b is profit taxes, and a – the rest – is wages.

Now imagine eliminating the profits tax (we can also do a small cut, but that’s harder and this is already sufficiently wonky). In equilibrium, the capital stock rises by ∆K, and so does GDP, to a+b+c+d+e (of which, however, e is returns to foreign capital, so GNP doesn’t rise as much as GDP.) Profit taxes disappear: that’s a revenue loss of b. But wages rise to a+b+c, a gain of b+c – which is larger than the loss of revenue. Hurray for cutting corporate taxes!

OK, what’s wrong with this picture? Why shouldn’t we believe it? Four reasons I can think of.

First, a lot of what we tax with the corporate profits tax isn’t a return to capital; it’s monopoly profits and other kinds of rents. There is no reason to believe that these rents would be bid down by capital inflows, so the revenue loss on those taxes is just a revenue loss, not something shifted to wages.

Second, capital mobility is far from perfect.

Third, the US isn’t a small open economy – we can affect world rates of return. Between point #2 and this point, we surely face an upward-sloping supply curve of capital, which means that the wage gains from profit tax cuts are smaller.

Finally, a point I’ve been trying to make: what we’re showing here is long-run equilibrium, what happens after enough foreign capital has flowed in to equalize after-tax rates of return. How does that happen? You don’t roll factories across the border: capital inflows take place as the counterpart of trade deficits, which in turn have to be created by a temporarily overvalued real exchange rate.

And the kind of adjustment we’re talking about here would require moving a lot of capital, meaning very big trade deficits, meaning a strongly overvalued dollar, which would itself be a deterrent to capital inflows. So we’re talking about a slow process, taking place over many years. Long-run analysis is a very poor guide to the incidence of corporate taxes in any politically or policy-relevant time horizon. Over shorter horizons, you’d expect very little of the tax cut to be passed on to workers.

So that’s the story. As economic arguments go, it’s not even very hard.

 

Un po’ di fuorviante geometria sulle tasse delle società (per esperti)

Di Paul Krugman

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Figura 1

Dubito davvero molto che fatti o analisi aggiuntive siano destinati a contare granché per il destino degli sgravi fiscali di Trump. È evidente per quasi tutti – sospetto persino per coloro che spingono per i tagli –  che essi porteranno grandi vantaggi ai ricchi, faranno poco se non nulla per le classi medie e aumenteranno grandemente il deficit. In effetti, da molti punti di vista questi non sono solo i probabili risultati, ma gli obbiettivi: grandi vantaggi per la categoria dei finanziatori della politica e deficit futuri che possono essere utilizzati per accelerare nuovi buchi nella rete della sicurezza sociale.

Eppure c’è qualcosa di interessante nel dibattito che va avanti sugli effetti dei tagli del fisco sulle società in un’economia aperta. Questo dibattito, tuttavia, secondo il mio punto di vista, viene condotto in un modo piuttosto più confuso collocandolo nel contesto dei modelli di Ramsey (per i non esperti che hanno ignorato la mia messa in guardia e continuano a leggere, questi sono modelli di risparmio ottimale da parte di consumatori eterni). In realtà, i risparmi dei consumatori non giocano qua un ruolo centrale; tutto è relativo alla mobilità internazionale dei capitali e a come essa cambia le cose.

E mi pare che ci sia un modo geometrico abbastanza semplice per vedere da cosa derivi il punto di vista ottimistico secondo il quale tagliare le tasse alle società è una gran cosa per i salari. Inoltre, una volta che abbiamo quel quadro in ordine, diventa molto più facile chiedersi “Cosa è sbagliato in questa rappresentazione?” (la risposta è: molto).

Dunque, consideriamo una piccola economia aperta con una forza lavoro fissa (perché l’offerta di lavoro in questo caso non è sostanziale) che può importare dal o esportare al resto del mondo capitali. Possiamo anche ignorare i risparmi, che anch’essi non sono la sostanza: lo stock di capitale, ipotizzeremo, cambia soltanto attraverso i flussi in ingresso e in uscita dei capitali.

Inoltre, assumiamo provvisoriamente una competizione perfetta, cosicché i fattori della produzione siano ripagati dai loro prodotti marginali.

Possiamo allora rappresentare l’economia con la Figura 1, che ha lo stock di capitale sull’asse orizzontale e il tasso di rendimento sul capitale sull’asse verticale. La curva MPK è il prodotto marginale del capitale, che si riduce nella quantità di capitale a causa della stabilità della forza lavoro. L’area al di sotto di MPK – l’integrale dei prodotti marginali delle successive unità di capitale – è il PIL reale dell’economia, il suo prodotto totale.

Assumiamo inizialmente che l’economia si misuri con un dato tasso di rendimento globale r*. Tuttavia il Governo impone una tassa sui profitti ad una aliquota t, in modo tale che per ottenere un rendimento dopo le tasse r*, il capitale nazionale deve guadagnare r*/(1-t). E nell’equilibrio iniziale questa condizione determina la dimensione dello stock di capitale interno.

Possiamo leggere la distribuzione del reddito nella Figura 1 osservando le aree dei vari rettangoli. Nell’equilibrio iniziale la produzione reale è a+b+d. Di questo, d è il rendimento del capitale dopo le tasse, b sono le tasse sui profitti e il restante a sono i salari.

Ora, immaginiamo di eliminare la tassa sui profitti (possiamo anche fare un piccolo taglio, ma è più difficile e questo quadro è già sufficientemente per esperti). In equilibrio lo stock di capitale cresce secondo ∆K, e lo stesso fa il PIL sino a a+b+c+d+e (del quale, tuttavia, e è il rendimento del capitale straniero, cosicché il PNL non cresce altrettanto del PIL). Le tasse sui profitti scompaiono: quella è la perdita di entrate di b. Ma i salari crescono a a+b+c, un guadagno di b+c – che è maggiore della perdita delle entrate. Evviva i tagli alle tasse sulle imprese!

Va bene, ma cosa c’è di sbagliato in questa rappresentazione? Perché non dovremmo crederci? Posso elencare quattro motivi.

Il primo, una buona parte di quello che tassiamo con la tassa sui profitti delle società non è rendimento del capitale; sono profitti di monopolio e altri tipi di rendite. Non c’è nessuna ragione per credere che queste rendite verrebbero inibite dai flussi di capitale, dunque la perdita di entrate su queste tasse è solo una perdita di entrate, non qualcosa che si sposta sui salari.

In secondo luogo, la mobilità dei capitali è lungi dall’essere perfetta.

In terzo luogo, gli Stati Uniti non sono una piccola economia aperta – noi possiamo influenzare i tassi di rendimento globali. Considerata questo punto e il punto 2, certamente siamo di fronte ad una curva dell’offerta di capitali tendente verso l’alto, il che significa che i vantaggi salariali dai tagli fiscali sui profitti sono minori.

Infine, un aspetto che ho cercato di segnalare: quello che qu stiamo mostrando è un equilibrio di lungo periodo, che avviene dopo che un sufficiente capitale straniero è affluito allo scopo di eguagliare i tassi di rendimento dopo le tasse. Come avviene ciò? Non si debbono spostare gli stabilimenti oltre il confine: i flussi di capitale hanno luogo come controparte dei deficit commerciali, il che a sua volta deve essere determinato da un tasso di cambio temporaneamente sopravvalutato.

E il genere di correzione di cui stiamo qua ragionando richiederebbe di muovere grandi quantità di capitali, comportando deficit commerciali molto elevati, un dollaro fortemente sopravvalutato, che per suo conto sarebbe un deterrente ai flussi di capitali. Stiamo dunque parlando di un processo lento, che ha luogo nel corso di molti anni. L’analisi di lungo periodo è una guida assai modesta ai fini dell’incidenza delle tasse sulle società in ogni orizzonte temporale della politica o rilevante per i programmi politici. Negli orizzonti più brevi, ci si dovrebbe attendere che una parte minima degli sgravi fiscali si trasferisca sui lavoratori.

Questa è dunque la storia. Per come procedono i temi dell’economia, non è neppure molto difficile.

 

 

 

 

 

 

Sussidi, dispetti e catene dell’offerta (dal blog di Krugman, 15 ottobre 2017)

ottobre 27, 2017

 

OCT 15 12:32 PM 

Subsidies, Spite, and Supply Chains

Paul Krugman

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As many people have been pointing out, Trump’s decision to cancel cost-sharing subsidies for health plans is a rare policy trifecta: it raises prices, reduces the number of people with insurance, and costs taxpayers money. Nor is there evidence of any political strategy worthy of the name. This is policy driven by sheer spite: Trump can’t get what he wants from Congress, so he’s going to punish innocent people.

There are many lessons to be drawn from this sorry spectacle, but here’s one point I haven’t seen people making: my estimation of the odds that Trump will blow up the North American Free Trade Agreement have just gone way up.

Until now, I’ve been fairly complacent about NAFTA’s fate. It’s not that I imagine that Trump, or for that matter any of his senior advisers, has any understanding of what NAFTA does or the foreign-policy implications of tearing it down. But I thought sheer interest-group pressure would keep the agreement mostly intact. Thirty years of US-Mexico economic integration — because the process began before NAFTA, with the big Salinas trade liberalization — have created a deeply integrated North American manufacturing system. The US imports a lot from Mexico, but it exports a lot too, and much of the trade is in intermediate goods — Mexican components assembled into U.S.-assembled cars, U.S. textiles used to produce Mexican garments, and so on.

Decades of investments, not to mention choices by workers about where to live and what skills to develop, have been based around the assumption that this system will continue. So breaking it up would be hugely disruptive, and the losers would include major industrial players who tend to have the ear of even Republican administrations. So I thought we’d likely get a few cosmetic changes to the agreement, allowing Trump to declare victory and walk away.

But look what just happened on health care. Never mind the millions who may lose coverage: Trump demonstrably doesn’t care about them. But his decision will also cost insurers and health care providers, the kind of people you might expect him to listen to, billions. And he did it anyway, evidently out of sheer spite — perhaps made more intense by his sense that his presidency is rapidly failing.

So is it safe to assume that he won’t screw over much of U.S. manufacturing in the same way? At this point, the answer has to be “no.”

Look, at this point reasonable people are worried, I think rightly, that Trump’s rage and spite might lead him to start a war. So why not worry that he’ll start a trade war instead (or as well)?

 

Sussidi, dispetti e catene dell’offerta,

di Paul Krugman

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[1]

Come molte persone hanno messo in evidenza, la decisione di Trump di cancellare i sussidi per la partecipazione ai costi dei programmi sanitari è una rara tripletta politica: alza i prezzi, riduce il numero degli assicurati e costa soldi ai contribuenti. Neanche c’è prova di una qualsiasi strategia politica degna di questo nome. Questa è una politica guidata da puri e semplici dispetti: Trump non può ottenere ciò che vuole dal Congresso e si appresta a punire persone innocenti.

Ci sono molte lezioni che si possono trarre da questo spiacevole spettacolo, ma c’è un aspetto che non ho visto segnalare: la mia stima sulle probabilità che Trump faccia saltare l’Accordo di Libero Commercio del Nord America è decisamente schizzata in alto.

Sino ad adesso, sono stato abbastanza ottimista sul destino del NAFTA. Non è che immaginassi che Trump, come del resto nessuno dei suoi consiglieri anziani, abbia una particolare comprensione della funzione del NAFTA o delle implicazioni di politica estera dell’abbatterlo. Ma pensavo che la pura e semplice spinta dei gruppi di interesse avrebbe lasciato intatto gran parte dell’accordo. Trent’anni di integrazione economica tra Stati Uniti e Messico – giacché il processo cominciò prima del NAFTA, con la grande liberalizzazione del commercio di Salinas – hanno creato un sistema manifatturiero nord-americano profondamente integrato. Gli Stati Uniti importano molto dal Messico, ma anche esportano molto, e molto del commercio è sui beni intermedi – componenti messicane assemblate negli Stati Uniti – autoveicoli assemblati, prodotti tessili statunitensi utilizzati per produrre indumenti messicani, e così via.

Decenni di investimenti, per non dire delle scelte dei lavoratori su dove vivere e su quali competenze sviluppare, si sono basati sull’assunto che questo sistema sarebbe continuato. Dunque interromperlo sarebbe largamente distruttivo, e tra i perdenti ci sarebbero protagonisti dell’industria che tendono ad esser ascoltati persino dalle Amministrazioni repubblicane. Dunque pensavo che avremmo probabilmente avuto alcune modifiche cosmetiche all’accordo, che consentissero a Trump di cantare vittoria e di mollare la presa.

Ma guardate che cosa è appena successo sulla assistenza sanitaria. Non sono importanti i milioni di persone che possono perdere la copertura assicurativa: è dimostrato che di loro Trump non si cura. Ma la sua decisione costerà miliardi anche agli assicuratori ed ai fornitori di assistenza sanitaria, il genere di persone che vi aspettereste che lui ascolti. E lo ha fatto comunque, evidentemente per puro e semplice dispetto – forse reso più intenso dalla sensazione che la sua Presidenza sia in caduta verticale.

Dunque, si può considerare con certezza che egli non vorrà fregare nello stesso modo gran parte del settore manifatturiero americano? A questo punto, la risposta deve essere negativa.

Si veda, al momento attuale persone ragionevoli sono preoccupate, penso giustamente, che la collera e il dispetto di Trump possano condurlo a avviare una guerra. Perché dunque non preoccuparsi che, invece, dia inizio ad una guerra commerciale (oppure, anche ad una guerra commerciale)?

 

 

 

[1] La tabella mostra gli andamenti del commercio statunitense con il Messico, importazioni ed esportazioni in percentuale del PIL.

 

 

 

 

 

Bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie (dal blog di Krugman, 14 ottobre 2017)

ottobre 26, 2017

 

Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies

OCTOBER 14, 2017 4:23 PM

Paul Krugman

Modern conservatives have been lying about taxes pretty much from the beginning of their movement. Made-up sob stories about family farms broken up to pay inheritance taxes, magical claims about self-financing tax cuts, and so on go all the way back to the 1970s. But the selling of tax cuts under Trump has taken things to a whole new level, both in terms of the brazenness of the lies and their sheer number. Both the depth and the breadth of the dishonesty make it hard even for those of us who do this for a living to keep track.

In fact, when I set out to make a list of the bigger lies, I thought there would be six or seven, and was surprised to come up with ten.

So I thought it might be useful, both for myself and for others, to put together a crib sheet: a fairly long-form description of ten big lies Trump and allies are telling, what they’ve said, and how we know that they are lies. I’m probably missing some stuff, and for all I know some new big lie will have been tweeted out by the time this is posted. But we do what we can. So here we go.

Lie #1: America is the most highly-taxed country in the world

This is a Trump special: he’s said it many, many times, most recently just this past week. Each time, fact-checkers have piled on to point out that it’s false. Here’s taxes as a percentage of GDP, from the OECD:

Taxes as % of GDPCredit OECD

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The blue bar is the US; the red bar the average for advanced countries.

Why does Trump keep repeating what even he has to know by now is a flat lie? I suspect it’s a power thing: he enjoys showing that he can lie repeatedly through his teeth, be caught red-handed in his lie again and again, and his followers will still believe him rather than the “fake news” media.

Lie #2: The estate tax is destroying farmers and truckers

Tales of struggling family farms disbanded because they can’t afford the taxes when the patriarch dies have flourished for decades, despite the absence of any examples. I don’t mean examples are rare: I mean that advocates of estate tax repeal haven’t been able to come up with a single example at least since the late 1970s, when exemption levels were raised to the equivalent of around $2 million in today’s dollars.

Lately Trump has added a new twist, portraying the estate tax as a terrible burden on hard-working truckers. For who among us doesn’t own an $11 million fleet of trucks?

The reality, as this graphic from the Center on Budget and Policy Priorities shows, is that only a small number of very large estates pay any tax at all, and only a tiny fraction of those tax-paying estates are small businesses or family farms:

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In fact, since transportation and warehousing are only 3 percent of GDP and farming less than 1 percent, it seems quite possible that this year only 2 or 3 truckers and not a single farmer will pay any estate tax.

Lie #3: Taxation of pass-through entities is a burden on small business

Most businesses in the United States, at least for tax purposes, aren’t what we normally think of as corporations subject to profits taxes. Instead, they’re partnerships, sole proprietorships, and S corporations whose earnings are simply “passed through”: counted as part of their owners’ personal income and taxed accordingly.

Trump wants to change that, and let owners simply pay a  25 percent tax on the earnings of pass-through entities, with no further taxes owed. This is being billed as a reduction in the burden on hard-working small business owners.

But as the Tax Policy Center explains, many middle-income households who own pass-through entities aren’t running businesses; they generally derive only a small fraction of their income from these entities:

Rather, they may receive occasional income from the rental of a vacation home, or from the sale of odds and ends on eBay, that they report as business income.

High-income owners of such entities, by contrast, get a lot of money from them – but they’re not struggling small business people:

This high-income group is made up of doctors, lawyers, consultants, other professionals, and, at the very highest end, partners in hedge funds or other investment firms.

And these are, of course, the people who would gain massively from the Trump nelle loro socetà ‘pass-through’proposal. The vast majority of Americans are in a tax bracket of 15 percent or less, so even if they control a pass-through entity, the Trump tax break is worth nothing to them:

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High-income individuals, however, would gain a lot by paying 25 percent instead of the much higher rates they pay at the margin – 39.6 percent right now. And they’d also have a strong incentive to rearrange their affairs so that more of their income pops up in their pass-throughs. This wouldn’t be small-business creation; it wouldn’t add jobs; it would just be tax avoidance. That’s what happened when Kansas tried something similar, and played a big role in the state’s fiscal disaster.

So this isn’t a tax break for small business, it’s a tax break for, surprise, wealthy individuals.

Lie #4: Cutting profits taxes really benefits workers

Tax incidence is a headache-inducing subject at best, and my sense is that even the tax policy experts have gotten behind the curve in thinking through the implications of global capital markets for the subject. But I think there’s a way to cut through at least some of the confusion.

Think about what happens if you cut the taxes on corporate profits. The immediate impact is that (duh) corporations have more money. Why would they spend that extra money on hiring more workers or increasing their wages?

Not, surely, out of the goodness of their hearts – and not in response to worker demands, because these days nobody cares what workers think.

Now, they might be inclined to invest more, increasing the demand for labor and therefore raising wages indirectly while competing pre-tax profits down. But there are a couple of major slippages in this story.

First, a lot of corporate profits aren’t a return on physical capital and won’t be competed down if capital gets cheaper. Apple, Google, Microsoft, and others derive their profits from technological advantages, brand name, and market power; cutting the taxes on those profits just leaves their owners with more money.

Second, to raise wages a tax cut must raise the overall stock of capital, which means it must lead to higher total investment spending. Where does the money for that increase in investment come from? The tax cuts are unlikely to raise national saving.

The money might come from abroad, via capital inflows. But the flip side of those capital inflows would be a bigger trade deficit – hardly what the proponents of tax cuts are advertising – and in any case running trade deficits on the required scale is a much more problematic thing than people seem to realize. The dollar would have to rise sharply – and the strength of the dollar would itself deter foreign investment, very much slowing the process of wage rise.

So for an extended period – at least 5 years, probably much more — cutting profits taxes is good for owners of corporations. Workers, not so much.

Lie #5: Repatriating overseas profits will create jobs

For tax reasons, corporations hold a lot of money in overseas tax shelters. Tax cutters always claim that lower rates and/or an amnesty will bring that money home and create a lot of jobs.

So, first of all, there isn’t really a Scrooge McDuck-type pile of cash hidden overseas, ready to be put to work if the taxman will let it. Those overseas accounts are just an accounting device, which have very little real effect. Many of the companies with big overseas hoards also have plenty of idle cash at home; what’s holding them back is a lack of perceived opportunities, not cash flow. And even those who don’t have surplus cash can easily borrow at near-record low interest rates; remember, they can always use the overseas cash to secure their loans.

And we have solid empirical evidence here. In 2004 the U.S. enacted the Homeland Investment Act, which offered a tax holiday for repatriation of foreign earnings by U.S. multinationals. Careful study of its effects tells us that

Repatriations did not lead to an increase in domestic investment, employment or R&D — even for the firms that lobbied for the tax holiday stating these intentions and for firms that appeared to be financially constrained. Instead, a $1 increase in repatriations was associated with an increase of almost $1 in payouts to shareholders.

Lie #6: This is not a tax cut for the rich

Trump says it isn’t, so that’s that, right? Oh, wait.

Actually, if you look at the major provisions of the Unified Framework, the big items are (i) Cuts in corporate taxes (ii) Pass-through tax cut (iii) elimination of the estate tax (iv) cut in top marginal rate. All these strongly favor very high incomes – and everything else is small change. Hence the Tax Policy Center estimate:

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Administration flacks and defenders are accusing TPC of reaching conclusions without adequate information; but the administration is making lots of assertions about what its plan will do, with apparently no more information than the center. Furthermore, given the general shape of the plan there’s no way it can fail to be very much a gift to the already very rich.

Lie #7: It’s a big tax cut for the middle class

See Lie #6 above. All the big provisions benefit the rich, not the middle class. What’s left is mostly small change – and some of it, like ending deductibility of state and local taxes and other deductions, actually raises taxes on a substantial number of middle-class Americans.

In total, by 2027, according to TPC, 80 percent of the tax cut goes to the top 1 percent; only 12 percent to the middle three quintiles.

Lie #8: It won’t increase the deficit

OK, we’re looking at big cuts in corporate taxes, elimination of the estate tax, lower rates on high-income individuals, and a massive new tax-avoidance loophole. How can this not increase the budget deficit?

The only answer would be if the tax proposal eliminated vast swathes of the existing set of tax deductions, massively broadening the tax base. It doesn’t. The only even halfway biggish thing here is the state and local deductibility end – and that is already in very big political trouble. This is a multi-trillion-dollar budget buster, unless it summons up deep voodoo. But …

Lie #9: Cutting taxes will jump-start rapid growth

Insistence in the magical power of tax cuts is the ultimate zombie lie of U.S. policy discussion; nothing can kill it. And we know why: there’s a lot of money behind the proposition that great things will happen if you cut the donors’ taxes. It’s difficult to get a man to understand something when his salary depends on his not understanding it.

Still, for the record: Reagan cut taxes, and although his administration began with a terrible recession, there was a fast recovery thereafter. Some of us think Paul Volcker had more to do with both the recession and the recovery than anything coming from the White House; but in any case we have more evidence.

For Bill Clinton raised taxes, amid cries from the right that he would destroy the economy. Instead he presided over a boom that surpassed Reagan in every dimension. For what it’s worth, I don’t think this boom was Clinton’s doing. But it certainly refuted the proposition that cutting taxes is both necessary and sufficient for prosperity.

Then Bush the younger cut taxes, and there were many hosannahs about the “Bush boom.” What he actually got was a lackluster recovery, followed by an epic crash.

Finally, Obama inherited the aftermath of that crash, and despite scorched-earth opposition from Republicans the economy gradually clawed its way back. Then in 2013 Obama first raised taxes substantially, then implemented the Affordable Care Act, again amid cries of disaster from the right. The economy did fine.

Oh, and there were the recent state-level experiments. Sam Brownback slashed taxes in Kansas, promising an economic miracle; all he got was a fiscal crisis. Jerry Brown raised taxes in California, amid predictions of – you guessed it – disaster; the economy boomed, and the main problem is a housing shortage.

There is nothing, nothing at all, in this history that would make any open-minded person believe that the Trump tax plan will cause dramatically accelerated growth.

Lie #10: Tax cuts will pay for themselves

If tax cuts don’t generate an economic miracle, it’s hard for them to generate a revenue surge that makes up for lower rates. True, some hidden money may come out of the woodwork and show up as taxable income, even if GDP doesn’t rise. But this effect hasn’t historically been anywhere big enough to offset the direct losses from lower taxes. Reagan’s tax cuts led to deficits, Clinton’s tax hike to surpluses; Jerry Brown presided over California’s fiscal revitalization, Sam Brownback over a fiscal crisis that eventually prompted the legislature to overrule him and raise taxes again.

So there we are: ten big tax-cut lies. That was pretty exhausting, actually – and as I said, I’ve probably missed a few, and/or Trump will invent some new ones. But I hope this ends up being a useful reference.

 

Bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie.

 di Paul Krugman

I conservatori moderni hanno detto bugie sulle tasse praticamente dagli inizi del loro movimento. Inventando racconti strappalacrime sulle aziende agricole familiari rovinate dal pagamento delle tasse di successione, pretese magiche sugli sgravi fiscali che si autofinanziano, e via di seguito sin dai lontani anni ’70. Ma rivendere gli sgravi fiscali sotto Trump ha portato le cose ad un livello interamente nuovo, sia in termini di sfrontatezza delle bugie che nei numeri nudi e crudi. La profondità e l’ampiezza della disonestà la rende ardua persino per quelli tra noi che si guadagnano il pane da una vita per tenerne traccia.

Di fatto, quando ho stabilito di fare una lista delle bugie più grandi, pensavo ce ne fossero sei o sette, e sono rimasto sorpreso di arrivare a dieci.

Dunque ho pensato che poteva risultare utile, per me e per gli altri, metterle assieme in un fogliettino: una descrizione in forma abbastanza estesa delle dieci grandi bugie che Trump e soci vengono raccontando, e del perché sappiamo che si tratta di bugie. Probabilmente mi sto dimenticando qualcosa, e per quanto ne so alcune nuove grandi bugie saranno twittate nel tempo nel quale questo articolo viene pubblicato. Ma facciamo quello che si può. Dunque arriviamo sino a questo punto.

Bugia Numero 1: l’America è il paese maggiormente tassato al mondo.

Questa è una specialità di Trump: l’ha detta moltissime volte, più recentemente soltanto nella settimana scorsa. Ogni volta, coloro che controllano la veridicità delle affermazioni hanno accumulato le loro obiezioni che mettevano in evidenza la sua falsità. Ecco, da fonte OCSE, le tasse come percentuale dei PIL:

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Tasse come percentuale dei PIL

La riga blu è quella degli Stati Uniti; quella rossa è la media dei paesi avanzati.

Perché Trump continua a ripetere quello che persino lui a questo punto sa essere una completa menzogna? Io sospetto che sia una questione di potere: trae godimento dal dimostrare che può mentire a ripetizione sapendo di mentire, che può essere colto in flagrante in continuazione, e che i suoi seguaci continueranno a credere a lui anziché ai media delle “false notizie”.

Bugia Numero 2: la tassa sugli immobili sta distruggendo agricoltori e camionisti.

Racconti di aziende agricole familiari in difficoltà che vengono smembrate perché non possono permettersi di pagare le tasse quando muore il capofamiglia sono prosperati per decenni, nonostante l’assenza di qualsiasi esempio. Non voglio dire che gli esempi sono rari: voglio dire che i sostenitori della abrogazione della tassa di successione non sono stati capaci di venirsene fuori con un solo esempio almeno dagli ultimi anni ’70, quando i livelli di esenzione vennero portati all’equivalente di circa 2 milioni di dollari nel loro valore odierno.

Ultimamente Trump ha aggiunto un nuovo colpo di scena, dipingendo la tassa di successione come un peso terribile a carico dei camionisti che lavorano duramente. Perché chi tra di noi non possiede un parco di automezzi del valore di 11 milioni di dollari?

La realtà, come mostra questo grafico del Centro sulle Priorità del Bilancio e della Politica, è che soltanto un piccolo numero di molto grandi patrimoni immobiliari paga una qualche tassa, e soltanto una minuscola frazione di coloro che pagano le tasse sui patrimoni immobiliari sono piccole imprese o aziende agricole familiari:

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Di fatto, dal momento che i trasporti e gli stoccaggi costituiscono soltanto il 3 per cento del PIL e l’agricoltura meno dell’1 per cento, sembra del tutto possibile che quest’anno soltanto 2 o 3 camionisti e neppure un singolo agricoltore pagheranno alcuna tassa patrimoniale.

Bugia Numero 3: la tassazione delle persone giuridiche che si trasferisce sulle persone fisiche [2] è un peso per le piccole imprese.

Gran parte delle imprese negli Stati Uniti, almeno per gli scopi fiscali, non sono quello che normalmente si intende per una società soggetta al pagamento delle tasse sui profitti. Sono piuttosto forme di collaborazione, possibili soltanto per le proprietà, e società di tipo S [3] i cui profitti sono semplicemente “trasferiti”: contabilizzati come parte del reddito personale dei loro proprietari e tassate di conseguenza.

Trump vuole cambiare, e consentire che i proprietari paghino semplicemente una tassa una tassa del 15/25 per cento sui profitti delle società “pass-through”, senza tasse ulteriori dovute. Questa viene pubblicizzata come una riduzione dell’onere sui proprietari delle piccole imprese che lavorano duramente.

Ma come spiega Tax Policy Center, molte famiglie di medio reddito che possiedono società “pass through” non gestiscono imprese; esse derivano generalmente soltanto una piccola quota del loro reddito da tali società giuridiche: piuttosto possono ricevere redditi occasionali dall’affitto di una casa per vacanze, o dalla vendita di piccole cose su eBay, che essi certificano come redditi di impresa.

I possessori di redditi elevati di tali società giuridiche, all’opposto, possono ricevere da esse grandi quantità di denaro, ma essi non sono persone di piccole imprese che fanno sacrifici: il gruppo degli alti redditi è composto da dottori, avvocati, consulenti, altri professionisti, e, alle estremità più elevate, da collaboratori degli ‘hedge fund’ o di altre imprese di investimenti.

E queste sono, naturalmente, le persone che guadagnerebbero massicciamente dalla proposta di Trump. La grande maggioranza degli americani sono in fasce di reddito fiscali del 15 per cento o meno, dunque, anche se controllano una società giuridica ‘pass-through’, gli sgravi fiscali di Trump per loro non hanno alcun valore:

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Gli individui con alti redditi, tuttavia, guadagnerebbero molto pagando un 15/25 per cento, anziché le aliquote molto più alte che pagano al margine – in questo momento il 39,6 per cento. Ed essi avrebbero anche un forte incentivo a riorganizzare i loro affari in modo tale che una parte maggiore del loro reddito appaia nelle loro società ‘pass-through’. Non ci sarebbe creazione di piccole imprese e non si aggiungerebbero posti di lavoro: sarebbe soltanto elusione del fisco. È quello che è successo quando il Kansas ha provato qualcosa di simile, e ha giocato una grande ruolo nel disastro finanziario di quello Stato.

Dunque, non si tratta di uno sgravio fiscale sulle piccole imprese, è uno sgravio fiscale, sorpresa!, per le persone ricche.

Bugia Numero 4: il taglio alle tasse sui profitti è davvero un vantaggio per i lavoratori.

Nel migliore dei casi l’incidenza del fisco è un tema che provoca mal di testa, e la mia sensazione è che persino gli esperti di politica fiscale siano rimasti indietro nel riflettere su quel tema nei termini dei mercati globali dei capitali. Ma penso ci sia un modo per eliminare almeno in parte la confusione.

Si pensi a quello che accade quando si tagliano le tasse sui profitti delle società. L’impatto immediato è che quelle (diciamo così) società hanno più soldi. Perché dovrebbero spendere quei soldi aggiuntivi per assumere più lavoratori o aumentare i loro salari?

Certamente, non per la loro bontà – e non in risposta alle richieste dei lavoratori, perché di questi tempi nessuno si cura di cosa pensano i lavoratori.

Ora, esse potrebbero essere tentate di investire maggiormente, aumentando la domanda di lavoro e quindi elevando indirettamente i salari mentre competono per abbassare i profitti prima delle tasse. Ma in questo racconto ci sono un paio di importanti inconvenienti.

Il primo, molti dei profitti delle società non sono un rendimento del capitale fisico e non ci sarà competizione al ribasso se il capitale diventa più conveniente. Apple, Google, Microsoft ed altri derivano i loro profitti dai vantaggi della tecnologia, dal nome del marchio e dal potere sul mercato; tagliare le tasse su quei profitti lascia soltanto più soldi in mano ai proprietari.

In secondo luogo, per elevare i salari un taglio delle tasse deve elevare lo stock complessivo di capitale, il che significa che deve condurre ad una spesa più alta di investimenti. Da dove vengono quei soldi per tale aumento degli investimenti? Gli sgravi fiscali è improbabile che innalzino il risparmio nazionale.

Il denaro potrebbe venire dall’estero, attraverso i flussi dei capitali. Ma l’altra faccia di quei flussi di capitali sarebbe un deficit commerciale maggiore – e in ogni caso gestire deficit commerciali della dimensione richiesta è una cosa molto più problematica di quanto la gente sembra comprendere. Il dollaro si rivaluterebbe bruscamente – e la forza del dollaro di per sé scoraggerebbe investimenti stranieri, rallentando di molto il processo degli aumenti di salario.

Per un periodo prolungato – almeno cinque anni, forse molto di più – tagliare le tasse sui profitti è una buona soluzione per i proprietari delle società. Non altrettanto per i lavoratori.

Bugia Numero 5: rimpatriar i profitti dall’estero creerà posti di lavoro.

Per ragioni fiscali, le società detengono grandi quantità di denaro nei rifugi fiscali all’estero. Coloro che si propongono di tagliare le tasse argomentano sempre che aliquote più basse e/o un’amnistia riporterebbero in patria denaro e creerebbero grandi quantità di posti di lavoro.

Dunque, prima di tutto, in realtà non ci sono pile di contanti del genere di quelle di Scrooge o di Paperone nascoste all’estero, pronte ad essere messe al lavoro se gli uomini del fisco lo consentiranno. Queste contabilità estere sono solo degli espedienti, che hanno effetti reali molto modesti. Molte delle società con grandi scorte di denaro all’estero hanno anche grandi quantità di contante inutilizzato all’interno; quello che li trattiene dal portarli indietro è una mancanza di opportunità percepite, non flussi di cassa. E persino coloro che non hanno avanzo di contante possono facilmente prenderli a prestito a tassi di interesse ai minimi storici; si ricordi che essi possono sempre utilizzare il contante all’estero per assicurare i loro prestiti.

E in questo caso abbiamo solide prove empiriche. Nel 2004 gli Stati Uniti approvarono la Legge sugli Investimenti in Patria, che offriva una sospensione fiscale per il rimpatrio di profitti all’estero da parte delle multinazionali statunitensi. Uno studio scrupoloso dei suoi effetti ci dice che i rimpatri non portarono ad un aumento di investimenti nazionali, in occupazione e in Ricerca&Sviluppo – persino le imprese che fecero attività lobbistica per la sospensione del fisco che dichiararono queste intenzioni e le imprese che sembravano essere costrette da ragioni finanziarie. Invece, ad un dollaro di rimpatri corrispose un aumento di quasi un dollaro di pagamenti agli azionisti.

Bugia Numero 6: questi non sono tagli fiscali per i ricchi.

Trump dice che non è così, dunque punto e basta. Ma aspettate.

Per la verità, se si guarda ai dati forniti della Schema Unificato, le voci principali sono: (i) tagli nelle tasse delle società, (ii) sgravi fiscali nel settore delle ‘pass-through’; (iii) eliminazione delle tasse sul patrimonio; (iv) tagli sull’aliquota marginale più alta. Tutte queste favoriscono fortemente i redditi molto elevati – e tutto il resto sono piccoli cambiamenti. Da ciò la stima di Tax Policy Center:

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[4]

Gli addetti stampa e coloro che sostengono l’Amministrazione stanno accusando Tax Policy Center di pervenire a conclusioni senza adeguate informazioni; ma l’Amministrazione sta avanzando una gran quantità di giudizi su quello che provocherà il suo piano, in apparenza senza nessuna informazione in più di quelle del Centro. Inoltre, data l’impostazione generale del piano, non c’è alcuna possibilità che esso non si risolva in modo preponderante in un regalo per coloro che sono già ricchissimi.

Bugia Numero 7: è un grande sgravio fiscale per le classi medie.

Si torni alla Bugia Numero 6. Tutte le grandi misure vanno a beneficio dei ricchi, non delle classi medie. Quello che resta sono soprattutto modifiche minime – e alcune di esse, come la fine della deducibilità delle tasse degli Stati e locali ed altre deduzioni, effettivamente aumenta le tasse su una quota sostanziale di americani delle classi medie.

In totale, secondo il TPC, con il 2027 l’80 per cento degli sgravi fiscali va all’1 per cento dei più ricchi; soltanto il 12 per cento ai tre quintili intermedi.

Bugia Numero 8: non aumenterà il deficit.

Siamo seri: stiamo osservando grandi tagli nelle tasse sulle società, l’eliminazione delle tasse sui patrimoni, aliquote più basse sugli individui con redditi elevati, e una scappatoia per nuove elusioni del fisco. Come è possibile che tutto questo non aumenti il deficit del bilancio?

L’unica risposta sarebbe se la proposta fiscale eliminasse vasti varchi del complesso in essere di deduzioni fiscali, aumentando massicciamente la base dell’imponibile fiscale. Non è così. In questo caso, la sola cosa peraltro mediocremente piuttosto rilevante è la fine della deducibilità delle tasse degli Stati e delle comunità locali – e quella è già in guai politici assai grandi. Questo è un colpo al bilancio di molte migliaia di miliardi di dollari, a meno che non si voglia riportare a galla l’economa magica del profondo voodoo. Ma …

Bugia Numero 9: tagliare le tasse darà un nuovo impulso ad una crescita rapida.

L’insistenza sul potere magico degli sgravi fiscali è la bugia zombie decisiva del dibattito politico statunitense: nessuno può sopprimerla. E sappiamo perché: c’è una grande quantità di soldi dietro l’idea che accadranno grandi cose se si tagliano le tasse ai finanziatori della politica. È difficile ottenere che un uomo capisca una qualunque cosa, quando il suo salario dipende dal non capirla.

Eppure, per memoria: Reagan tagliò le tasse, e sebbene la sua Amministrazione cominciò con una terribile recessione, ci fu successivamente una rapida ripresa. Alcuni di noi pensano che Paul Volcker abbia avuto a che fare sia con la recessione che con la ripresa molto di più di tutto quello che proveniva dalla Casa Bianca; ma in ogni caso abbiamo maggiori testimonianze.

Perché Bill Clinton alzò le tasse, in mezzo agli strepiti della destra secondo i quali avrebbe distrutto l’economia. Invece egli fu Presidente nel corso di una espansione che superò Reagan da ogni punto di vista. Per quello che può valere, io non penso che quella espansione fosse opera di Clinton. Ma egli certamente confutò l’idea che tagliare le tasse sia necessario e sufficiente per la prosperità. Poi Bush figlio tagliò le tasse, e ci fu molta esaltazione per il “boom di Bush”. Quello che effettivamente avemmo fu una ripresa fiacca, seguita da un tracollo epico.

Infine, Obama ereditò le conseguenze di quel tracollo, e nonostante l’opposizione da terra bruciata dei repubblicani, l’economia gradualmente recuperò il suo passo. Poi nel 2013 Obama anzitutto alzò le tasse in modo sostanziale, poi mese in pratica la Legge sulla Assistenza Sostenibile, ancora nel mezzo di strepiti sul disastro da parte della destra. L’economia reagì bene.

Infine, ci sono stati i recenti esperimenti al livello degli Stati. Sam Brownback ha tagliato le tasse nel Kansas, promettendo un miracolo economico; tutto quello che ha ottenuto è stata una crisi delle finanze pubbliche. Jerry Brown ha elevato le tasse in California, in mezzo – come vi potete immaginare – a previsioni di disastro; l’economia ha fatto un salto, e il principale problema è una mancanza di alloggi [5].

In questa storia non c’è niente, assolutamente niente, che porterebbe una persona non dogmatica a credere che il piano fiscale di Trump possa provocare una crescita spettacolarmente accelerata.

Bugia Numero 10: gli sgravi fiscali si ripagheranno da soli.

Se gli sgravi fiscali non generano un miracolo economico, è difficile che essi generino una crescita delle entrate che rimedi ad aliquote più basse. È vero, un po’ di soldi nascosti possono saltar fuori e mettere in evidenza un reddito tassabile, anche se il PIL non cresce. Ma storicamente questo effetto non è stato da nessuna parte abbastanza grande da bilanciare le perdite dirette derivanti da tasse più basse. Gli sgravi fiscali di Reagan portarono ai deficit, i rialzi delle tasse di Clinton ai surplus; Jerry Brown ha governato una rivitalizzazione della finanza pubblica della California, Sam Brownback una crisi della finanza pubblica che alla fine ha indotto i legislatori a decidere contro di lui e ad alzare nuovamente le tasse.

Dunque siamo a questo punto: dieci grandi bugie sugli sgravi fiscali. Effettivamente, un quadro abbastanza esauriente – e come ho detto, probabilmente ne ho dimenticati alcuni, e/o Trump ne inventerà di nuovi. Ma spero che alla fine questo diventi un riferimento utile.

 

 

 

[1] La Tabella spiega che quest’anno soltanto 50 piccole imprese pagheranno una tassa patrimoniale. Si tratterà di 5.200 patrimoni sui 2 milioni e 700 mila patrimoni della nazione, pari allo 0,2 per cento del totale. La ragione di tale percentuale minuscola è che con il tempo i patrimoni di valore piccolo e medio sono stati esentati.

[2] Una “pass-through entity” (oppure “flow-through entity”) è una persona giuridica nella quale il reddito fluisce agli investitori o ai proprietari, che dunque pagano le tasse in una unica soluzione e non distintamente come persone fisiche e come società.

[3] È una categoria della legislazione fiscale americana.

[4] La tabella mostra le previsioni del Tax Policy Center sugli effetti del piano di Trump per il prossimo anno e per la fine del prossimo decennio. Come si vede per i redditi bassi e medi (i primi sei quintili) le differenze saranno minime, inferiori all’1 per cento (quando non saranno negative, nel corso del decennio), mentre per i redditi più elevati – in particolare per l’1 per cento dei più ricchi – ci saranno modifiche favorevoli dell’ordine del 10 per cento.

[5] Sam Brownback è il Governatore repubblicano del Kansas: convintissimo sostenitore dell’idea del cosiddetto “trickle-down” – ovvero degli effetti a cascata degli sgravi fiscali sui più ricchi – alla fine è stato contraddetto da parte dei suoi stessi colleghi di Partito, quando lo Stato è finito in una aperta crisi finanziaria. Jerry Brown è invece Governatore democratico della California; partita da condizioni molto problematiche, la California è poi entrata in una tendenza assai positiva.

 

 

 

 

 

Porto Rico, Trump e le tasse (dal blog di Krugman, 11 ottobre 2017)

ottobre 26, 2017

 

OCT 11 8:34 AM

Puerto Rico, Trump and Taxes

Paul Krugman

Brad Setser has a really interesting post on Puerto Rico’s balance of payments – unlike states, the territory keeps track of exports and imports both to the U.S. mainland and the rest of the world. As it happens, his analysis bears pretty much directly on Howard Gleckman’s critique of Kevin Hassett’s disgraceful performance at the Tax Policy Center.

As Setser notes, Puerto Rico used to be a major tax haven for manufacturing corporations. Much of this tax advantage has now ended, but its legacy is still visible in trade statistics. Specifically, PR runs, on paper, a huge trade surplus in pharmaceuticals – $30 billion a year, almost half the island’s GNP. Yes, “N” not “D” – very important in this case, as in Ireland.

But the pharma surplus is basically a phantom, driven by transfer pricing: pharma subsidiaries in Ireland charge themselves low prices on inputs they buy from their overseas subsidiaries, package them, then charge themselves high prices on the medicine they sell to, yes, their overseas subsidiaries. The result is that measured profits pop up in Puerto Rico – profits that are then paid out in investment income to non-PR residents. So this trade surplus does nothing for PR jobs or income.

What does this have to do with Hassett? Well, he told TPC – while insulting the institution and impugning its integrity – that transfer pricing driven by high nominal US corporate taxes is responsible for half the U.S. trade deficit, and that cutting these taxes would therefore be a big job creator. Never mind whether his estimate is right: even if it were, as Gleckman says, changing the transfer pricing would affect the accounting, but nothing real. It would be exactly like Puerto Rico’s pharma surplus: a phantom improvement, statistically impressive to the uninformed but signifying nothing.

 

Porto Rico, Trump e le tasse

di Paul Krugman

Brad Setser pubblica un post davvero interessante sulla bilancia dei pagamenti di Porto Rico – diversamente dagli altri Stati, quel territorio continua a tener traccia delle esportazioni e delle importazioni sia con la casa madre degli Stati Uniti che con il resto del mondo. Si dà il caso che la sua analisi si fondi abbastanza direttamente sulla critica di Howard Gleckman della prestazione disgraziata di Kevin Hassett al Tax Policy Center.

Come osserva Setser, Porto Rico era solito costituire un importante rifugio fiscale per le imprese manifatturiere. Buona parte di quel vantaggio fiscale è adesso terminata, ma la sua eredità è ancora visibile nelle statistiche commerciali. In particolare, Porto Rico gestisce, sulla carta, un vasto avanzo commerciale sui prodotti farmaceutici – 30 miliardi di dollari all’anno, quasi la metà del Prodotto Nazionale Lordo dell’isola. Sì, Prodotto Nazionale e non Prodotto Interno [1] – in questo caso la differenza è molto importante, come in Irlanda.

Ma il surplus farmaceutico è fondamentalmente un fantasma, provocato dal prezzo dei trasferimenti: le imprese sussidiarie farmaceutiche in Irlanda caricano su di sé i bassi prezzi sugli apporti che acquistano dalle loro sussidiarie oltreoceano, li impacchettano, poi caricano esse stesse alti prezzi sulle medicine che rivendono proprio alle loro sussidiarie oltreoceano. Il risultato è che i profitti accertati emergono a Porto Rico – profitti che vengono pagati in reddito di investimenti ai non residenti in Porto Rico. Dunque, questo avanzo commerciale non produce niente per i posti di lavoro i redditi di Porto Rico.

Che cosa ha a che fare tutto questo con Hasset? Ebbene, egli ha detto al Tax Policy Center – in mezzo a insulti a quell’Istituto e a obiezioni alla sua integrità morale – che il prezzo dei trasferimenti spinto da alte tasse nominali delle società statunitensi è responsabile per la metà del deficit commerciale, e che tagliare quelle tasse sarebbe di conseguenza una grande creazione di posti di lavoro. Non importa se questa stima sia giusta: anche se lo fosse, come dice Gleckman, modificare i prezzi di trasferimento influenzerebbe la contabilità, non la realtà. Sarebbe esattamente come l’avanzo sui prodotti farmaceutici: un miglioramento fantasma, statisticamente impressionante per coloro che non sono informati, ma di nessun significato.

 

 

 

[1] Il PNL è pari al PIL (il valore dei beni e servizi prodotti in un paese), più i flussi provenienti dagli asset all’estero dei cittadini di quel paese.

 

 

 

 

 

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