Blog di Krugman

Il tradimento dei chierici, la versione degli economisti, (dal blog di Paul Krugman, 3 dicembre 2017)

 

DECEMBER 3, 2017 10:16 AM 

La Trahison des Clercs, Economics Edition

 Paul Krugman

Yesterday a former government official at a meeting I was attending asked a very good question: have any prominent Republican economists taken a strong stand against the terrible, no good, very bad tax legislation their party just rammed through the Senate? I couldn’t think of any. And this says something not good about the state of at least that side of my profession.

We can divide Republican economists into three groups here. First are those enthusiastically endorsing the specific bill, like the 137 signatories of the letter Trump has tweeted out. They’re a pretty motley crew, many not economists at all, some apparently nonexistent, and some with, um, interesting backgrounds:

Other names on the economists’ letter may raise eyebrows. John P. Eleazarian is listed as an economist with the American Economic Association. But membership to the AEA is open to anybody who coughs up dues, and membership simply grants access to AEA journals and discounts at AEA events. Eleazarian is a former attorney who lost his law license and the ability to practice law in California after he was convicted and sentenced to six months in prison for forging a judicial signature and falsifying other documents. His current LinkedIn profile lists him as a paralegal at a law firm.

Second are people like the Nine Unprofessional Economists – all of whom have, or used to have, real professional reputations, who signed that open letter asserting that corporate tax cuts might produce rapid growth. As Jason Furman and Larry Summers pointed out, they misrepresented the research they claimed supported their position, then denied having said what they said.

The nine economists’ original Nov. 25 letter estimated that under the House and Senate proposals, “the gain in the long-run level of GDP would be just over 3 percent, or 0.3 percent per year for a decade.”

The conservative economists wrote to Summers and Furman on Thursday, saying the 3 percent growth assertion “did not offer claims about the speed of adjustment to a long-run result.”

So that’s explicit aid and comfort to tax cutters, with an extra dose of dishonesty and cowardice.

But there’s a third group, people like Greg Mankiw and Martin Feldstein, who have written in favor of the general idea of lower corporate taxes, which is OK – that’s a position one can hold in good faith, even if I disagree (and even if Mankiw at least seems to have screwed up his analysis without admitting error). But have any of them spoken out about the reality of the actual legislation, the bad analysis being offered by political figures, the corrupt political process? I may have missed some condemnations, but I haven’t seen any.

You may say that this is how everyone behaves – if your political side does bad stuff, you go silent. But it isn’t. You probably think that I’m going to offer happy stories about principled liberals – but I can do better than that. Consider a very different group of conservative intellectuals, whom I have had lots of bad things to say about in the past: neocon foreign policy types.

Nobody can accuse me of having a soft spot for the likes of William Kristol, Max Boot, Jennifer Rubin, David Frum, and others who played a role in cheerleading the Iraq War. But one must grudgingly admit that under Trump they have shown real courage: they have proved willing to criticize, harshly and even shrilly, the disastrous governance of our current regime.

On other words, the foreign-policy neocon intellectuals, however wrongheaded I may find their ideas, turn out to be men and women with real principles.

I wish I could say the same about conservative economists. But I can’t.

 

Il tradimento dei chierici, la versione degli economisti, di Paul Krugman

Ieri un passato dirigente di un Governo, ad un incontro pubblico a cui stavo assistendo, ha posto un’ottima domanda: ha assunto qualche eminente economista repubblicano una posizione ferma contro la tremenda, pessima legislazione sulle tasse che il loro partito ha appena imposto al Senato? Non me ne viene in mente nessuno. E questo ci dice qualcosa di negativo, sulla condizione almeno di quel settore della mia disciplina.

In questo caso possiamo distinguere gli economisti repubblicani in tre gruppi. Nel primo ci sono quelli che appoggiano entusiasticamente la specifica proposta di legge, come i 137 firmatari della lettera alla quale Trump si è riferito con un tweet.  Sono una folla abbastanza variegata, molti non sono affatto economisti, alcuni apparentemente non esistono e alcuni hanno, diciamo così, interessanti curricola:

“Altri nomi nella lettera degli economisti possono far alzare le sopracciglia. John P. Eleazarian è nella lista come economista membro della American Economic Association. Ma la adesione alla AEA è aperta a chiunque sborsa i soldi necessari, e l’adesione garantisce semplicemente l’accesso alle riviste dell’AEA e agli sconti ai suoi eventi. Eleazarian era un procuratore che perse la sua licenza legale e la possibilità di praticare attività legislativa in California dopo che era stato condannato a sei mesi di carcere dopo aver contraffatto una firma giudiziaria e falsificato altri documenti. Il suo attuale profilo Linkedin lo elenca come un para legale presso una impresa avvocatizia.”

Il secondo gruppo sono persone come i Nove Economisti non Professionisti [1] – che hanno tutti, o un tempo avevano, reali reputazioni professionali, che hanno sottoscritto quella lettera aperta con la quale si sostiene che i tagli alle tasse delle società potrebbero produrre rapida crescita. Come Jason Furman e Larry Summers hanno messo in evidenza, essi hanno mal rappresentato la ricerca che avevano sostenuto appoggiasse la loro posizione, negando in seguito di aver detto quello che avevano detto.

“La lettera originale dei nove economisti del 25 novembre stimava che con le proposte della Camera e del Senato, ‘il guadagno in termini di PIL di lungo periodo sarebbe stato appena sopra il 3 per cento, o lo 0,3 per cento all’anno per un decennio’.

Gli economisti conservatori hanno scritto giovedì a Furman e Summers, dicendo che il riferimento alla crescita del 3 per cento ‘non offriva argomenti sulla velocità di correzione nei confronti di un risultato a lungo termine’”.

Quello è dunque un esplicito aiuto e conforto ai sostenitori dei tagli fiscali, con una dose aggiuntiva di disonestà e di viltà.

Ma c’è un terzo gruppo, persone come Greg Mankiw e Martin Feldstein, che hanno scritto a favore dell’idea generale di tasse sulle società più basse, che è corretto – ovvero ha una posizione che si può sostenere in buona fede, anche se io non sono d’accordo (ed anche se almeno Mankiw sembra aver rovinata la sua analisi senza ammettere l’errore). Ma qualcuno di loro ha parlato della realtà della attuale procedura legislativa, dato che la cattiva analisi viene presentata da personalità con responsabilità politiche, ovvero della procedura politica corrotta? Può darsi che mi sia sfuggita qualche condanna, ma non ho visto niente del genere. Si può dire che questo è il modo in cui si comportano tutti – se la vostra parte politica fa cose negative, si resta in silenzio. Ma non è così. Probabilmente state pensando che mi accingo a offrire racconti felici sui progressisti dotati di principi – ma posso fare di meglio. Si consideri un gruppo molto diverso di intellettuali conservatori, dei quali in passato ho riferito molti giudizi negativi; gli individui neoconservatori che si occupano di politica estera.

Nessuno mi può accusare di fare una anche leggera pubblicità a individui come William Kristol, Max Boot, Jennifer Rubinm David Frum ed altri che giocarono un ruolo da tifosi nella guerra in Iraq. Ma si deve ammettere controvoglia che sotto Trump hanno mostrato vero coraggio: si sono mostrati disponibili a criticare, con asprezza e persino con veemenza, i disastrosi modi di governo del nostro attuale regime. Vorrei poter dire lo stesso degli economisti conservatori. Ma non posso.

 

 

 

[1] Da quanto capisco, è in tal modo che tali persone hanno firmato una lettera aperta. Maggiori dettagli si trovano sul blog di Brad DeLong e nella polemica contro di loro di Furman e Summers.

 

 

 

 

 

 

 

Incidenza ed effetti sul welfare dei tagli delle tasse sule società (per molto esperti) (dal blog di Paul Krugman, 28 novembre 2017)

dicembre 5, 2017

 

Incidence and Welfare Effects of Corporate Tax Cuts (Extremely Wonkish)

Paul Krugman

NOVEMBER 28, 2017 8:53 PM

 

OK, folks, this is basically to scratch my own intellectual itch — later this week Senate Republicans either will or won’t enact the biggest tax scam in history, and analysis won’t make any difference. But inspired by the Furman-Summers beatdown of Republican economists lending cover to disgusting dishonesty by their political masters, I found myself looking for a simple analytical representation of the effects of cutting corporate taxes. By simple, of course, I mean for economists: for anyone else this may as well have been written in cuneiform. You have been warned.

OK, so the naive, super-optimistic version of what corporate tax cuts will do — roughly speaking the Tax Foundation version, without the incompetence — treats America as a small, perfectly open economy that faces an infinite, perfectly elastic supply of foreign capital at some given rate of return. It also ignores leprechaun economics — the potentially large difference between GDP and national income when foreigners own a lot of your capital stock. Meanwhile, America is neither small nor perfectly open, so that the rate of return to foreigners depends on how much capital we suck in — and since around a third of corporate profits already go to foreigners, they’re likely to collect a significant fraction of the gains from a tax cut.

So, can we put all of that in a simple framework? I think we can. In fact, just one diagram, although for those not raised on traditional trade geometry it may look a bit intricate, But it’s all very simple, believe me!

Starting point: we can think of a downward-sloping demand for capital, reflecting its marginal product. We can also think of an upward-sloping supply of capital, with the upward slope reflecting both the size of the US — we’re probably around half of the world’s capital market not subject to capital controls — and the imperfect nature of capital mobility, even now.

We can think of corporate taxes as putting a wedge between the rate of return to capital before taxes — which is assumed equal to its marginal product — and the after-tax return received by investors. So it’s kind of like an excise tax on capital, and looks like Figure 1:

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Now imagine cutting the corporate tax rate. This narrows the wedge, as shown in Figure 2:

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OK, a bunch of things happen.

First of all, the pre-tax return on capital falls as the capital stock rises. That reduced rate of return shows up in increased wages. So that part, shown as the green rectangle at the top, is the part of the tax cut that’s passed through to increased wages. How big that gain is depends on the relative elasticity of capital supply and capital demand.

As I’ve been arguing for a while, in the short run the supply of capital is likely to be pretty inelastic, because capital inflows have to take place via a strong dollar that in itself deters investment. So in the short run not much of the tax cut flows to wages. In the long run workers will get more of it, but the long run is likely to be measured in decades, not years.

Meanwhile, owners of capital gain. However, some — around a third — of these owners are foreigners, not U.S. residents, so about a third of the rise in after-tax returns — the red rectangle in Figure 2 — represents a welfare loss to the United States.

On the other hand — on the third hand? — more capital will come in, and this capital will pay taxes, representing an offsetting overall welfare gain — the yellow rectangle. Overall US national income can go either way; semi-realistic calculations suggest that it’s close to a wash.

So who benefits from this tax cut? There’s some wage gain, but also some revenue loss; if the revenue loss leads to cuts in programs that benefit workers (as it would), workers may well be worse off. Owners of capital, both foreign and domestic, gain.

Taken as a whole, this isn’t a slam-dunk case against corporate tax cuts: if the initial rates are very high and capital inflows sufficiently elastic, they could be a good idea. But they hardly look like the magic elixir Republicans are claiming.

 

Incidenza ed effetti sul welfare dei tagli delle tasse sule società (per molto esperti)

di Paul Krugman

Va bene gente, questo post è fondamentalmente allo scopo di grattarmi i pruriti intellettuali – per la fine di questa settimana i repubblicani del Senato approveranno oppure no il più grande imbroglio fiscale della storia e una analisi non farà alcuna differenza. Ma, ispirato dalla batosta di Furman-Summers sugli economisti repubblicani che si prestano a dar copertura alla disgustosa disonestà dei loro padrini politici, mi sono ritrovato a ricercare una semplice rappresentazione analitica degli effetti dei tagli delle tasse alle società. Ma con semplice, naturalmente, mi riferisco agli economisti; per tutti gli altri questo potrebbe benissimo essere scritto in caratteri cuneiformi. Con il che siete messi in guardia.

Dunque, l’ingenua, super ottimistica versione degli effetti che avranno i tagli alle tasse delle società – parlando approssimativamente, la versione di Tax Foundation al netto dell’incompetenza –  tratta l’America come una piccola economia, perfettamente aperta, che fronteggia un’offerta infinita e perfettamente elastica di capitali stranieri, ad un qualche stabilito tasso di rendimento. Essa anche ignora ‘l’economia degli gnomi’ – la differenza potenzialmente ampia tra il PIL e il reddito nazionale, quando gli stranieri sono in possesso di una grande quantità delle riserve di capitale. Di contro, l’America non è piccola né perfettamente aperta, cosicché il tasso di rendimento per gli stranieri dipende da quanto capitale noi risucchiamo – e dal momento che circa un terzo dei profitti delle società vanno già agli stranieri, è probabile che essi raccolgano una parte significativa dei vantaggi derivanti dai tagli alle tasse. Dunque, possiamo inserire tutto questo in un semplice modello? Io penso che possiamo farlo. Di fatto, basta un solo diagramma, sebbene per coloro che non sono stati allevati sulla tradizionale geometria commerciale possa sembrare un po’ intricato. Ma è tutto molto semplice, credetemi!

Punto di partenza: possiamo riferirci ad una domanda di capitale che inclina verso il basso, riflettendo il suo prodotto marginale. Possiamo anche riferirci ad una offerta di capitale che inclina verso l’alto, dove tale indirizzo riflette sia le dimensioni degli Stati Uniti – siamo probabilmente circa la metà del mercato dei capitali globale non soggetto a controllo – e la natura imperfetta, anche adesso, della mobilità del capitale.

Possiamo pensare alle tasse sulle società come un cuneo che viene collocato tra il tasso del rendimento del capitale prima delle tasse – che è assunto eguale al suo prodotto marginale – e il rendimento dopo le tasse ottenuto dagli investitori. Dunque è una sorta di tassa sui consumi del capitale, e assomiglia alla Figura 1:

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Ora si immagini di tagliare l’aliquota fiscale delle società. Il cuneo si restringe, come mostrato dalla Figura 2:

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[1]

È così, accadono un mucchio di cose.

Prima tra tutte, il rendimento sul capitale prima delle tasse cade allorché le riserve di capitale crescono. Questo ridotto tasso di rendimento si manifesta in un accrescimento dei salari. Dunque quella parte, espressa dal rettangolo verde in alto, è la parte dei tagli delle tasse che sono transitati verso salari aumentati. Quanto grande sia questo guadagno dipende dalla elasticità relativa dell’offerta e della domanda di capitale.

Come da un po’ vengo sostenendo, nel breve periodo è probabile che l’offerta di capitale sia abbastanza anelastica, perché i flussi in ingresso dei capitali devono prendere posto attraverso un dollaro forte che di per sé scoraggia gli investimenti. Dunque, nel breve periodo non molto dei tagli delle tasse finisce ai salari. Nel lungo periodo i lavoratori ne percepiscono una quota maggiore, ma il lungo periodo è probabile si debba misurare in decenni, non in anni.

Nel frattempo i possessori di capitale si avvantaggiano. Tuttavia, una parte – circa un terzo – di questi possessori sono stranieri, non sono residente statunitensi, così circa un terzo della crescita dei rendimenti dopo le tasse – il rettangolo rosso nella Figura 2 – rappresenta una perdita di benessere per gli Stati Uniti.

D’altra parte – il terzo aspetto – arriverà più capitale, e questo capitale pagherà le tasse, rappresentando una compensazione nei vantaggi complessivi di benessere – il rettangolo giallo. Il reddito nazionale complessivo degli Stati Uniti può procedere in entrambi i modi; calcoli abbastanza realistici indicano che esso è vicino ad una sostanziale parità.

Dunque, chi beneficia di questi tagli delle tasse? C’è qualche guadagno per i salari, ma c’è anche qualche perdita nelle entrate; se le entrate perdute portano a tagli nei programmi di cui beneficiano i lavoratori (come dovrebbe accadere), è del tutto possibile che i lavoratori ci rimettano. Ci guadagnano i possessori dei capitali, sia stranieri che statunitensi.

Preso nel suo complesso, questo non è un argomento definitivo contro i tagli alle tasse: se le aliquote iniziali sono molto alte e i flussi in ingresso dei capitali sufficientemente elastici, potrebbe essere una buona idea. Ma non assomiglia certo al magico elisir di cui i repubblicani parlano.

 

 

[1] Provo a ‘tradurre’ le due tabelle. Fondamentalmente, il loro significato è che le variazioni tra la situazione attuale e quella successiva ai tagli alle tasse delle società sono quasi nulle, mentre i vantaggi per le imprese ed i più ricchi saranno indiscutibili.

Sull’asse verticale stanno i tassi di rendimento del capitale, che dipendono dalla articolazione delle linee dell’offerta dei capitali e della domanda, che corrisponde al prodotto marginale del capitale. I rettangoli che stanno in mezzo sono una sorta di cuneo fiscale (compatto nella figura 1 – rettangolo celeste – e articolato in vari rettangoli nella figura 2). I rettangoli della figura 2 mostrano i soggetti che si avvantaggiano delle novità: il rettangolo verde indica gli incrementi dei salari che percepiranno pur qualcosa dalla riduzione delle tasse sulle società; i rettangoli gialli indicano il cuneo fiscale iniziale – giallo scuro, che è più modesto del rettangolo celeste nella Figura 1 perché le tasse sono state ridotte – e quello derivante dagli accresciuti investimenti stranieri (giallo chiaro, derivante da un gettito fiscale maggiore); sempre nella Figura 2 compaiono i guadagni degli investitori nazionali (celeste) e in quelli stranieri (rettangolo rosso).

In conclusione: i salari aumentano di un po’; i vantaggi del capitale vanno in parte agli investitori nazionali e in parte agli stranieri. Quello che il modello non può quantificare, ma che pure è decisivo, è il fatto che la riduzione delle tasse comporterà una perdita di entrate, insufficientemente compensata dall’aumento di gettito derivante dai maggiori capitali stranieri. Questa riduzione complessiva del gettito significherà tagli ai programmi federali. I lavoratori, dunque, per un aspetto avranno salari più elevati, per l’altro minori sussidi assistenziali.

La tesi repubblicana di vantaggi cospicui sui lavoratori è dunque irrealistica: essi saranno bilanciati da minori programmi pubblici (non si dimentichi che la proposta di legge già prevede un serio peggioramento nella assistenza sanitaria con l’abrogazione del cosiddetto ‘mandato individuale’ e dei sussidi ai lavoratori e alla popolazione con redditi bassi). Mentre le due cose certe saranno: vantaggi per i ricchi e per le società, aumento del deficit pubblico.

 

 

 

 

 

 

La scelta e l’essere tenuti ad assicurarsi, (dal blog di Paul Krugman, 27 novembre 2017)

dicembre 1, 2017

 

NOV 27 5:11 PM

Choice and the Insurance Mandate

Paul Krugman

 

A key part of the Senate tax bill is repeal of the individual health insurance mandate. The budget scoring relies on this repeal reducing Federal deficits by $318 billion — and the bulk of these spending cuts would hit lower-income families. Republicans argue, however, that these families won’t really be hurt, because they’ll be making a voluntary choice not to be covered and collect government subsidies.

This argument might make sense in a world of hyper-rational individuals. In the world we actually live in, however, it’s a very bad argument. In fact, the very budget savings Republicans are counting on depend on people making bad choices.

For if you look at CBO’s estimates of the savings from mandate repeal, more than half come from a reduction in the number of people on Medicaid. Why wouldn’t someone eligible for Medicaid sign up for free insurance? The answer, surely, is that he or she isn’t aware of the option, or simply fails to act in his or her self-interest.

If you think such things don’t happen, consider that one of the major triumphs of behavioral economics involves the demonstration that many people fail to take advantage of retirement plans that cost little or nothing — unless they’re automatically enrolled. If they are automatically enrolled, but with the option of dropping the plan, enrollment is much higher than if they’re offered the same plan, but have to opt in. Sorry, but financial decisions like whether to get health insurance are not made well, even by the well-educated and affluent, let alone the poorer, stressed people who are the main targets of GOP cuts.

Or consider the “woodwork effect” of the ACA: Medicaid enrollment increased even in states that didn’t accept Medicaid expansion, because greater publicity led some people to look into their options and discover benefits they should have been collecting all along. (Not woodwork effect exactly, but I know people in New Jersey who tried to sign up for the exchanges and discovered that they had long been eligible for Medicaid.)

So one main effect of the individual mandate is, in effect, to make Medicaid opt-out (at a cost) rather than opt-in; a lot of people who should have been getting the benefit won’t unless something like this happens, and their failure to get the benefit is a true cost, not the result of a well-informed choice.

And of course it doesn’t stop with Medicaid: many of those collecting subsidies on the exchanges wouldn’t have done something that turns out to be a big advantage without the mandate in effect forcing them to take a better look at their own self-interest.

Oh, and if you don’t believe any of this will happen, or it won’t happen on a large scale, then you can’t simultaneously believe in those $318 billion in savings.

So are reduced outlays on lower-income families a true cost to those families? Yes. Maybe not 100 cents on the dollar, but a lot closer to that than to zero.

 

La scelta e l’essere tenuti ad assicurarsi,

di Paul Krugman

Una parte fondamentale della proposta di legge sulle tasse del Senato è l’abrogazione dell’obbligo individuale alla assicurazione sanitaria. Il punteggio al bilancio si basa su questa abrogazione, riducendo i deficit federali di 318 miliardi di dollari – e il grosso di questi tagli alle spese colpirebbe le famiglie con i redditi più bassi. I repubblicani, tuttavia, sostengono che queste famiglie non saranno realmente colpite, giacché stanno facendo una scelta volontaria a non dotarsi di assicurazione e incassano i sussidi del Governo.

Questo ragionamento potrebbe avere un senso in un mondo di individui super razionali. Nel mondo in cui viviamo realmente, tuttavia, è un argomento molto modesto. Di fatto, gli effettivi risparmi sul bilancio sui quali i repubblicani fanno conto dipendono dal fatto che la gente faccia scelte negative.

Se guardate le stime dell’Ufficio Congressuale del Bilancio sui risparmi derivanti dalla abrogazione dell’obbligo ad assicurarsi, più della metà vengono da una riduzione del numero delle persone assistite da Medicaid. Perché chi è idoneo per Medicaid dovrebbe iscriversi alla assicurazione libera? La risposta, sicuramente, è che costoro non sono consapevoli della possibilità, oppure che semplicemente non si comportano secondo il loro interesse.

Se pensate che cose del genere non accadano, considerate che uno degli importanti successi dell’economia comportamentale riguarda la dimostrazione che molte persone rinunciano a trarre vantaggio dai piani pensionistici che costano poco o niente – a meno che non siano automaticamente iscritti. Se sono automaticamente iscritti, ma con la possibilità di rinunciare al piano, le iscrizioni sarebbero molto più alte che se si offrisse lo stesso piano, ma con la possibilità di scelta. Spiacente, ma le decisioni finanziarie come quella se ottenere l’assicurazione sanitaria non sono fatte nel migliore dei modi, neppure dalle persone istruite e benestanti, per non dire delle persone più povere e disagiate, che sono i principali obbiettivi dei tagli del Partito Repubblicano.

Oppure si consideri l’effetto di coloro che “sbucano dal nulla” [1] nella Legge di riforma sanitaria: le iscrizioni a Medicaid sono cresciute anche in Stati che non avevano aderito all’ampliamento di Medicaid, perché la maggiore pubblicità ha indotto alcune persone ad approfondire le loro possibilità e scoprire i benefici che avrebbero dovuto incassare da lungo tempo (non proprio un effetto del comparire all’improvviso dal nulla, ma conosco persone nel New Jersey che hanno cercato di iscriversi alle ‘borse sanitarie’ ed hanno scoperto che erano idonei da tempo a ricevere l’assistenza di Medicaid).

Dunque un principale effetto del ‘mandato individuale’ [2] è in sostanza quello di rendere Medicaid suscettibile di ‘rinuncia’ (con un costo) anziché di ‘sola adesione’; una gran quantità di persone che avrebbero dovuto ottenere il sussidio non l’avrebbero avuto senza che accadesse qualcosa del genere,  la loro incapacità di ottenere il sussidio è un costo vero, non il risultato di una scelta ben informata.

E naturalmente questo non si ferma a Medicaid: molti di coloro che ottengono sussidi alle ‘borse sanitarie’ non avrebbero fatto qualcosa che si scopre essere un grande vantaggio senza che il ‘mandato’ in sostanza li costringesse a prendere visione dei loro stessi interessi in modo migliore.

Inoltre, se non credete che possa accadere qualcosa del genere, o che possa accadere su vasta scala, allora non potete contemporaneamente credere in quei 318 miliardi di dollari di risparmi.

Dunque, i ridotti esborsi per le famiglie con i redditi più bassi sono un costo effettivo per quelle famiglie? Si. Forse non di cento centesimi per ogni dollaro, ma molto più vicino a quello che non allo zero.

 

 

[1] Non sono sicuro della traduzione di questo strana espressione, ma “woodwork” (“come out from woodwork”) significa anche – oltre ai “legni” in un campo di calcio, ed anche a “soldi cartacei” – venir fuori dal niente (dalla “boscaglia”?). Anche “venir fuori da un esilio”.

[2] Come abbiamo chiarito in altre occasioni, “individual mandate” – che significa ‘mandato, delega individuale’ – significa che il sostanziale obbligo ad avere una assicurazione viene, nella struttura della legge di riforma sanitaria, riservato all’iniziativa delle persone singole. Il problema è che il concetto stesso di “mandate” insiste su un obbligo che non può essere definito tale, perché violerebbe un principio costituzionale di ‘libertà’ di cura. Quindi la legge non avrebbe potuto parlare di ‘obbligo di essere assicurati’ senza rischiare una obiezione distruttiva da parte della Corte Suprema. Per questo è stato definito “mandate”, intendendo che è una parte della legge riservata all’iniziativa delle persone singole. Su questo aspetto dell’obbligo di essere assicurati, la legge fa affidamento all’iniziativa individuale, che pure nella sostanza comporta un obbligo, o almeno un quasi-obbligo. La Corte Suprema non impugnò, in virtù di questo escamotage, la legge di Obama.

 

 

 

 

 

Anche questo è voodoo: la dipendenza del Partito Repubblicano dalla deregolamentazione finanziaria (dal blog di Krugman, 26 novembre 2017)

novembre 30, 2017

 

Voodoo Too: The GOP Addiction to Financial Deregulation

Paul Krugman

NOVEMBER 26, 2017 11:07 AM

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Alan Taylor

 

The big economic policy story for this week will be the attempt to ram through the Republican tax bill, which manages both to raise taxes on middle- and lower-income Americans even as it blows up the debt, all in the service of big tax cuts for corporations and the wealthy. To the extent that there’s any intellectual justification for this money grab, it lies in the conservative insistence that cutting taxes at the top will magically produce huge economic growth.

That is, it’s still voodoo economics after all these years, and nothing — not the boom after Clinton raised taxes, not the failure of the Bush economy, not the debacle in Kansas — will change the party’s commitment to a false economic doctrine that serves its donors’ interests.

But just behind the tax story is the effort to gut the Consumer Financial Protection Bureau; and this too needs to be understood in the context of a broader GOP commitment to a demonstrably false but useful narrative.

Think about it: what would it take to persuade the right that financial deregulation is a bad idea, and some kinds of regulation are very good for the economy?

Modern financial regulation came about in the aftermath of the Great Depression, and — as you can see from the figure — the era of effective regulation was also an era of historically unprecedented financial stability. Did this stability come at the expense of economic growth? Hardly: the era of effective regulation was also the era of the great postwar boom in America, the thirty glorious years in Europe.

Nonetheless, by the 1970s a combination of free-market ideology and big money (with the latter helping to feed the former) produced a widespread belief among policymakers that those old regulations were pointless and harmful. Regulations were lifted, and, maybe even more important, malign neglect allowed unregulated shadow banking to expand rapidly. (The Trump Treasury department wants global regulators to stop using the term “shadow banking”, which it says conveys the impression that there is something wrong with such institutions. Funny how causing the worst crisis since the 1930s can give you a bad reputation.)

Anyway, at this point the results of the great rise of deregulatory ideology are all too clear: banking crises returned with a vengeance, culminating (so far) in the 2008 crisis. And it’s not as if 2008 came out of nowhere: we’d already had the S&L crisis of the 80s, the Long-Term Capital Management/Asian crisis of the 1990s, both of which were clear signals of the growing risks. Add in 2008, and you have a remarkable record of disaster.

Why has financial deregulation been, literally, such a bust? There are multiple, interacting reasons, all of which are well studied at this point. Banking is inherently vulnerable to self-fulfilling panic; if you guard against panic with explicit or implicit guarantees, you create moral hazard which must be contained via regulation. Beyond that, finance is an area where the risks of fraud, of scammers exploiting the limits of consumer understanding and rationality, are especially high. Very few people are in a position to assess the fine print of financial contracts, and the most deceptive, risky deals are sold to those least able to make that assessment.

Hence Dodd-Frank, which made a limited but serious attempt to rein in some of the new risks that had arisen from deregulation and shadow banking, and which created the CFPB to help protect consumers from financial scams perpetrated, in many cases, by big financial institutions. And these measures have been successful: leverage and financial risks are down, and the Bureau has surprised even those of us who supported it with just how effective it has been, just how much positive influence it has had on the honesty and transparency of financial dealings.

So naturally the GOP wants to tear it all down. On the right, all of the disasters brought on by deregulation were actually the fault of liberals, who somehow forced banks to make subprime loans to Those People, or maybe the Fed, which somehow forced lots of bad lending by failing to raise interest rates in the face of low inflation.

And Republicans insist that the prudential regulations introduced after the terrible crisis of 2008 are holding the economy back, despite zero evidence to that effect.

But evidence isn’t the point. Like faith in the magical powers of tax cuts, faith in the wondrous things that happen if you let bankers do whatever they want has become a free-floating ideology on the right, untethered to any kind of reality check. And of course it’s a very convenient faith from the point of view of financial industry types.

So really the attack on the CFPB and the tax cut are part of the same story. They’re both about voodoo economics in the service of plutocracy.

 

Anche questo è voodoo: la dipendenza del Partito Repubblicano dalla deregolamentazione finanziaria

Paul Krugman

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Alan Taylor

[1] 

Il grande racconto di politica economica di questa settimana sarà il tentativo di far approvare la proposta di legge repubblicana sulle tasse, che cerca sia di elevare le tasse sui redditi medi e più bassi anche se ciò farà scoppiare il debito, sia di mettere il tutto al servizio di grandi tagli fiscali alle società e ai ricchi.  Nella misura in cui c’è una qualche giustificazione intellettuale per questa ruberia, essa consiste nell’insistenza conservatrice per la quale tagliare le tasse sui più ricchi produrrà magicamente una grande crescita economica.

Ovvero, dopo tutti questi anni si tratta ancora di economia voodoo, e niente – non la grande espansione dopo che Clinton alzò le tasse, non il fallimento dell’economia di Bush, non la débâcle in Kansas – cambierà l’impegno del partito su una falsa dottrina economica al servizio degli interessi dei suoi finanziatori.

Ma appena dietro la storia delle tasse viene lo sforzo di distruggere l’Ufficio per la Protezione Finanziaria degli Utenti; e anche questo necessita di essere compreso nel contesto di un più generale impegno del Partito Repubblicano su una falsa ma comoda narrazione.

Ci si rifletta: cosa ci vorrebbe per persuadere la destra che la deregolamentazione finanziaria è una cattiva idea, e che certi tipi di regolamentazione sono molto positivi per l’economia?

La regolamentazione finanziaria moderna intervenne dopo la Grande Depressione, e – come si può vedere dal diagramma – l’epoca di una efficace regolamentazione fu anche un’epoca di stabilità finanziaria senza precedenti storici. Questa stabilità fu alle spese della crescita economica? Arduo da sostenere: l’epoca di una efficace regolamentazione fu anche l’epoca della grande espansione postbellica in America, e dei trenta “anni gloriosi” in Europa.

Nondimeno, con gli anni ’70 una combinazione di ideologia del libero mercato e di tanti soldi (con questi ultimi che aiutarono ad alimentare la prima) produsse tra i protagonisti della politica il generale convincimento che quei vecchi regolamenti fossero inutili e dannosi. I regolamenti vennero aboliti, e, forse persino più importante, una malefica trascuratezza consentì ad un settore bancario ‘ombra’ di espandersi rapidamente (il Dipartimento del Tesoro di Trump vuole che i regolatori globali la smettano di usare il termine “settore bancario ombra”, che dicono produce l’impressione che ci sia qualcosa di sbagliato in quegli istituti. È buffo come produrre la crisi peggiore dagli anni trenta possa darvi una cattiva reputazione). In ogni modo, a questo punto i risultati della grande crescita della ideologia della deregolamentazione sono del tutto chiari: le crisi bancarie si sono ripetute ad oltranza, culminando (sino ad adesso) nella crisi del 2008. E il 2008 non venne fuori dal nulla; avevamo già avuto la crisi delle casse di risparmio degli anni ’80, la crisi asiatica delle gestioni a lungo termine dei capitali, che furono entrambe chiari segnali dei rischi crescenti.  Si aggiunga il 2008 e si ha una considerevole storia di disastri.

Perché la deregolamentazione finanziaria è stata un tale fallimento? Ci sono molteplici ragioni, che hanno interagito tra loro, tutte le quali sono state a questo punto ben studiate. Il sistema bancario è intrinsecamente vulnerabile a crisi di panico che si autoriproducono; se ci si protegge dal panico con garanzie esplicite o implicite, si determina una condizione di azzardo morale che deve essere contenuta attraverso regole. Oltre a ciò, il settore finanziario è un’area nella quale i rischi di frodi, di imbroglioni che sfruttano i limiti di comprensione e di razionalità dei consumatori, sono particolarmente alte. Molte poche persone sono nelle condizioni di valutare i testi in caratteri minuscoli dei contratti finanziari, e gli accordi più ingannevoli e più rischiosi vengono proposti a coloro che sono meno capaci di fare quelle valutazioni.

Da qui la legge Dodd-Frank, che ha compiuto un tentativo limitato ma serio di tenere sotto controllo alcuni dei nuovi rischi che erano aumentati a seguito della deregolamentazione e del sistema bancario ombra, e che ha creato il CFPB per contribuire a proteggere i consumatori dagli imbrogli che vengono perpetrati, in molti casi, da grandi istituti finanziari. E queste misure hanno avuto successo: il rapporto di indebitamento e i rischi finanziari sono calati, e l’Ufficio ha sorpreso persino coloro che l’avevano sostenuto proprio per come è stato efficace, per quanta influenza positiva ha avuto sull’onestà e la trasparenza degli accordi finanziari. Così, naturalmente il Partito Repubblicano vuole demolirlo. A destra, tutti i disastri provocati dalla deregolamentazione, in realtà, vengono considerati responsabilità dei progressisti, che in qualche modo avrebbero costretto le banche a concedere mutui subprime a Quella Gente, o forse della Fed, che in qualche modo avrebbe imposto una gran quantità di cattivi prestiti per l’incapacità di elevare i tassi di interesse a fronte di una inflazione bassa.  I repubblicani insistono che i regolamenti prudenziali introdotti dopo la terribile crisi del 2008 stanno trattenendo l’economia, nonostante che nessuna prova sostenga questo giudizio. Ma il punto non sono le prove. Come la fiducia nei poteri magici dei tagli alle tasse, la fiducia nelle cose strabilianti che accadrebbero se si lasciano i banchieri fare tutto quello che vogliono è diventata, a destra, una ideologia che galleggia, immune da ogni genere di controllo dei fatti. E naturalmente è una fiducia molto conveniente dal punto di vista degli individui del settore finanziario.

Dunque, in realtà l’attacco all’Ufficio sulla Protezione degli utenti del sistema finanziario e i tagli alle tasse sono parti della stessa storia. Riguardano entrambe l’economia voodoo al servizio della plutocrazia.

 

 

 

 

[1] La tabella mostra la frequenza della crisi bancarie nei paesi con redditi superiori (linea blu) e in quelli con redditi bassi (linea rossa). Come si vede gli anni successivi alla II Guerra Mondiale, caratterizzati dalla introduzione di nuove forme di regolamentazione, sono gli anni di gran lunga migliori.

L’aumento delle tasse di Schroedinger (dal blog di Krugman. 24 novembre 2017)

novembre 30, 2017

 

NOV 24 12:26 PM

 

Schroedinger’s Tax Hike

Paul Krugman

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Joint Committee on Taxation

Yes, I know that’s supposed to be an umlaut in the title. I just can’t persuade WordPress to do it.

So: There are many amazing things about the Republican tax pitch, where by “amazing” I mean terrible. But possibly the most amazing of all is the attempt to have it both ways on the question of middle-class taxes.

The Senate bill, as written, tries to be long-run deficit-neutral — allowing use of the Byrd rule to bypass a filibuster — by offsetting huge corporate tax cuts with higher taxes on individuals, so that by 2027 half the population, and most of the middle-class, would see taxes go up. But those tax hikes are initially offset by a variety of temporary tax breaks.

Now, Republicans are arguing that those tax breaks won’t actually be temporary, that future Congresses will extend them. But they also need to assume that those tax breaks really will expire in order to meet their budget numbers. So the temporary tax breaks need, for political purposes, to be both alive and dead.

If they succeed in this exercise in quantum budgeting, we’ll eventually open the box, collapsing the wave function, and discover whether the budget promise or the tax claim was a lie. But for now, they want to hold it all in suspension. Once upon a time you wouldn’t have imagined they could get away with it. Now …

 

L’aumento delle tasse di Schroedinger [1]

di Paul Krugman

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Comitato Congiunto sulla tassazione

[2]

 

È vero, sono al corrente che nel titolo dovrebbe esserci un umlaut. Ma non riesco a convincere Word Press a farlo.

Dunque: ci sono molte cose stupefacenti nelle promozioni delle proposte repubblicane sulle tasse, dove per stupefacenti intendo ‘terribili’. Ma probabilmente la più stupefacente di tutte è il tentativo di avere la botte piena e la moglie ubriaca sulla questione delle tasse sulla classe media.

La proposta di legge repubblicana, per come è scritta, cerca di essere neutrale dal punto di vista del deficit di lungo periodo – per permettere loro di utilizzare la regola di Byrd per aggirare l’ostruzionismo – bilanciando i grandi tagli fiscali alle società con tasse più elevate sulle persone singole, in modo tale che nel 2017 metà della popolazione, e la maggioranza delle classi medie, vedrebbero le tasse salire. Ma quegli aumenti delle tasse, agli inizi, sono bilanciati da una varietà d sgravi fiscali.

Ora, i repubblicani stanno sostenendo che questi sgravi fiscali in realtà non sarebbero provvisori, che i futuri Congressi li prorogheranno. Ma al tempo stesso hanno bisogno di assumere che quegli sgravi fiscali avranno davvero un termine, allo scopo di soddisfare i loro numeri del bilancio. Dunque, i provvisori sgravi devono, per ragioni politiche, essere sia vivi che morti.

Se avranno successo in questo esercizio di bilancio quantistico, alla fine apriranno la scatola, e scopriranno se le promesse sul bilancio o la pretesa sulle tasse siano state una bugia. Ma per adesso vogliono lasciare tutto il sospeso. Una volta non vi sareste immaginati che potessero cavarsela in questo modo. Ma oggi ….

 

 

[1] Erwin Schrödinger è stato un fisico e matematico austriaco, di grande importanza per i contributi fondamentali alla meccanica quantistica e in particolare per l’equazione a lui intitolata, per la quale vinse il premio Nobel per la fisica nel 1933. Wikipedia

È probabile che lo Schroedinger (in realtà, Schrödinger) del titolo sia il fisico austriaco che vinse il Nobel nel 1933. Il riferimento dovrebbe essere all’esperimento cosiddetto del ‘gatto vivo e del gatto morto’, ovvero di una situazione teorica nella quale le due possibilità – relative ad un gatto in una scatola di acciaio – si presentano ‘intrecciate’ l’una con l’altra e mostrano un gatto sia vivo che morto. Non aggiungo niente, non avendolo capito granché, ma il paragone con la proposta sulle tasse si intuisce.

[2] La tabella mostra le modifiche, in miliardi di dollari, sulle tasse sulle società – che dopo essere diminuite nel 2018, dopo il 2020 restano grosso modo stabili nel godimento di quei benefici – e sulle persone fisiche – che invece, in particolare a partire dal 2025, risalgono a picco.

 

 

 

 

 

 

I tagli delle tasse, la crescita e gli gnomi (dal blog di Paul Krugman, 21 novembre 2017)

novembre 23, 2017

 

NOV 21 10:00 AM 

Tax Cuts, Growth, and Leprechauns

Paul Krugman

 

Yesterday the Tax Policy Center released its macroeconomic analysis of the House tax cut bill. TPC is not impressed: their model says that GDP would be only 0.3 percent higher than baseline in 2027, and that revenue effects of this growth would make only a tiny dent in the deficit.

But Brad DeLong reminds me of a point I and others have been making: focusing on GDP is itself misleading, because we’re a financially open economy with a lot of foreign ownership already, and a large part of the alleged benefit of corporate tax cuts is that they will supposedly draw in lots of foreign investment. As a result, we should expect a significant fraction of the benefits of corporate tax cuts to go to foreigners, not domestic residents; income of domestic residents should rise less than GDP.

So I’ve been trying a back-of-the-envelope estimate of the difference leprechaun economics (so named because Ireland is the ultimate example of a country where national income is much less than GDP, because of foreign corporations) makes to the analysis.

Start with the direct effects of a corporate tax cut. The JCT puts the revenue loss at $171 billion in 2027. Assume, as is roughly the consensus, that 1/3 of this accrues to workers, but two-thirds to capital. Steve Rosenthal says that about 35 percent of this gain, in turn, accrues to foreign investors. So right there we have about $40 billion in additional investment income paid to foreigners.

Then there are the effects of the trade deficit. I can’t figure out TPC’s estimate there, but typical numbers from other modelers say that we’re looking at around $80 billion a year, or $800 billion in increased net foreign liabilities. BEA numbers say that foreign investors in the US earn on average about 2%, U.S. investors abroad around 3%. So this suggests an average return of maybe 2.5%? My guess is that this is low, because the changes would be focused on direct investment, which earns higher returns. But let’s go with it: in that case we’re talking about another $20 billion in investment income paid to foreigners.

Put it together, and for 2027 I get $60 billion in reduced GNI relative to GDP. Potential GDP is supposed to be about $28 trillionby then, so we’re talking a bit over 0.2% of GDP.

Remember, TPC estimates the extra growth in GDP at 0.3%. So according to the back of my envelope, leprechaun economics — extra payments to foreigners — basically wipe out all of that growth.

And let me say that I am not entirely clear, given this result, why there should be any dynamic revenue gains. Given how scrupulous TPC normally is, they probably have an answer. But as far as I can see there’s no obvious reason to believe that dynamic scoring helps the tax cut case at all, not even a little bit.

I’m sure that people can improve on my back-of-the-envelope here. But for now, it looks to me as if, properly counted, these tax cuts would do nothing for growth.

 

I tagli delle tasse, la crescita e gli gnomi

di Paul Krugman

Ieri Tax Policy Center ha pubblicato la sua analisi macroeconomica sulla proposta di legge dei tagli al fisco della Camera dei Rappresentanti. TPC non si fa impressionare: il loro modello dice che nel 2027 il PIL sarebbe più alto del punto di riferimento soltanto dello 0,3 per cento, e che gli effetti sul gettito di questa crescita provocherebbero solo una minuscola riduzione nel deficit.

Ma Brad DeLong mi ricorda un aspetto che io ed altri abbiamo avanzato: concentrarci sul PIL è di per sé fuorviante, perché noi siamo già un’economia aperta con una grande quantità di proprietà straniere, e una larga parte dei pretesi benefici dei tagli delle tasse sulle società consiste nel fatto che si suppone che essi attrarranno grandi quantità di investimenti stranieri. Di conseguenza, dovremmo aspettarci che una parte significativa dei benefici dei tagli alle tasse sulle società vadano ai residenti stranieri, non a quelli interni; il reddito dei residenti interni dovrebbe crescere meno del PIL.

Sto dunque provando a stimare a spanne la differenza che l’economia degli gnomi (chiamata così perché l’Irlanda (lo gnomo è una figura tipica della mitologia irlandese, NdT) è il massimo esempio di un paese nel quale il reddito nazionale è molto inferiore del PIL, a causa delle società straniere) provoca sull’analisi.

Cominciamo con gli effetti diretti di un taglio delle tasse sulle società. La Commissione Congiunta sulle Tasse del Congresso colloca a 171 miliardi di dollari la perdita di gettito nel 2027. Consideriamo, come grosso modo si ritiene unanimemente, che un terzo di quella somma vada ai lavoratori, ma due terzi al capitale. Steve Rosenthal sostiene che circa il 35 per cento di questo guadagno, a sua volta, maturi a vantaggio degli investitori stranieri. Dunque abbiamo la bellezza di circa 40 miliardi di dollari di reddito per gli investimenti aggiuntivi che vengono pagati agli stranieri.

Poi ci sono gli effetti del deficit commerciale. Su questo non riesco a capire la stima del TPC, ma i numeri consueti di altri modellatori dicono che siamo in presenza di circa 80 miliardi di dollari all’anno, ovvero di 800 miliardi di accresciute obbligazioni nette verso gli stranieri. I dati del Bureau of Economic Analysis dicono che gli investitori stranieri negli Stati Uniti hanno in media profitti di circa il 2%, gli investitori statunitensi all’estero di circa il 3%. Questo dunque suggerisce un rendimento medio di circa il 2,5%? La mia stima è che questo dato è basso, perché le modifiche si concentrerebbero sugli investimenti diretti, che realizzano rendimenti più elevati. Ma procediamo con quella ipotesi: in quel caso stiamo parlando di circa altri 20 miliardi in redditi da investimenti pagati agli stranieri.

Mettiamo tutto assieme e per il 2027 io ho 60 miliardi di dollari di riduzione del Reddito Lordo Nazionale, rispetto al PIL. Per allora si suppone che il PIL potenziale sia attorno ai 28 mila miliardi di dollari, dunque stiamo parlando di qualcosa che è un po’ superiore allo 0,2% del PIL.

Si ricordi che il TPC stima la crescita aggiuntiva del PIL attorno allo 0,3%. Dunque, secondo i miei calcoli a spanne, l’economia degli gnomi – i pagamenti aggiuntivi agli stranieri – fondamentalmente si portano via tutta quella crescita.

E fatemi dire che non mi è interamente chiaro, dato questo risultato, perché ci dovrebbe essere qualsiasi vantaggio in evoluzione nelle entrate. Considerato come il TPC è normalmente scrupoloso, probabilmente loro hanno una risposta. Ma per quello che posso vedere io non c’è nessuna ragione evidente per credere in alcun modo che quel punteggio in evoluzione aiuti la tesi dei tagli alle tasse, neppure in piccola misura.

Sono certo che le persone potranno in questo caso migliorare il mio calcolo a spanne. Ma per adesso, mi pare che questi tagli alle tasse, contabilizzati in modo appropriato, non facciano niente per la crescita.

 

 

 

 

Giorni di avidità e di disperazione (dal blog di Paul Krugman)

novembre 22, 2017

 

Days of Greed and Desperation

Paul Krugman

NOVEMBER 17, 2017 11:06 AM

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These are not good times, politically, for Republicans. The Virginia blowout showed that the Trump backlash is real, and will show up in actual votes, not just polls. A series of local elections have produced Democratic victories in hitherto deep-red regions. Despite gerrymandering and the inherent disadvantage caused by concentration of minority voters in urban districts, Democrats are probably mild favorites to take the House; thanks to Roy Moore, they even have a chance of taking the Senate, despite what was supposed to be an impossible map. “A wave is a’ coming” says the Cook Political Report.

And when it comes to governorships, in which, oddly enough, the winner is the person who gets the most votes, a huge flip to Dems seems likely.

Add in, too, events that are likely to damage the GOP brand even more. There’s really no question about Trump/Putin collusion, and Trump in fact continues to act like Putin’s puppet. The only question is how high the indictments will reach, and how much damage they’ll do. But it won’t be good.

You might think, given this background, that Republicans would moderate their policies in an attempt to limit the damage. But if anything they’re doing the opposite. The House tax bill is wildly regressive; the Senate bill actually raises taxes on most families, while including a special tax break for private planes. In effect, the GOP is giving middle-class Americans a giant middle finger. What’s going on?

A large part of the answer, I’d suggest, is that many Republicans now see themselves and/or their party in such dire straits that they’re no longer even trying to improve their future electoral position; instead, it’s all about grabbing as much for their big donors while they still can. Freedom’s just another word for nothing left to lose; in the GOP’s case, that means the freedom to be the party of, by, and for oligarchs they always wanted to be.

This calculus is clearest in the case of House members representing the kinds of districts — educated, relatively affluent, traditionally moderate Republican — that went Democratic by huge landslides in Virginia. If 2018 ends up being anything like what now seems likely, these members will need new jobs in 2019 whatever they do — and the best jobs will be as K Street lobbyists, except for a few who will get gigs as Fox News or “think tank” experts. In other words, one way or another their future lies in collecting wingnut welfare, which means that their incentives are entirely to be loyal ideologues even if it’s very much at their constituents’ expense.

The Senate is a bit different; there aren’t a lot of obviously doomed Republicans. But there’s very good reason to believe that the next few months will be the last chance they have to deliver on their promises to the Kochs and suchlike. After that, dominoes will start falling: maybe the loss of Alabama, reducing their narrow majority even further, maybe indictments that cripple the White House even further, eventually loss of one or both Houses of Congress. So their incentive is to stuff everything the donors want, no matter how outrageous — tax hikes on most of the population, tax breaks on private planes — through the sausage grinder right now.

I have to admit, I didn’t see this coming. And there’s a pretty good chance that this desperate grab will fail — remember, it only takes three Republican Senators with a shred of principle. But that’s where we are.

 

Giorni di avidità e di disperazione,

di Paul Krugman

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[1]

Politicamente, questi non sono bei giorni per i repubblicani. La netta sconfitta in Virginia ha mostrato che il contraccolpo per Trump è reale, e si manifesterà in voti effettivi, non solo nei sondaggi. Una serie di elezioni locali hanno prodotto vittorie democratiche in aree sino a questo momento profondamente repubblicane. Nonostante la suddivisione partigiana dei collegi elettorali e l’intrinseco svantaggio provocato dalla concentrazione degli elettori delle minoranze nei distretti urbani, i democratici sono con probabilità leggermente favoriti nella conquista della Camera dei Rappresentanti; grazie a Roy Moore [2] hanno persino una possibilità di conquistare il Senato, nonostante che lo si ritenesse un progetto impossibile. Cook Political Report dice che “sta arrivando un’ondata”.

Quando si passa alle cariche di Governatore, per le quali, sorprendentemente, il vincitore è quello che prende più voti, sembra probabile un ampio rovesciamento a favore dei democratici.

Inoltre, si aggiungano gli eventi che è probabile danneggino più ancora il marchio del Partito Repubblicano. In realtà non è in questione la collusione tra Trump e Putin, e di fatto Trump continua ad agire come una marionetta di Putin. L’unica domanda è quanto arriveranno in alto le messe in stato di accusa, e quanto danno provocheranno. Ma non sarà un passaggio semplice.

Potreste pensare, dato questo contesto, che i repubblicani moderino le loro politiche nel tentativo di limitare i danni. Ma stanno semmai facendo l’opposto. La proposta di legge sul fisco della Camera è apertamente regressiva; quella del Senato effettivamente alza le tasse sulla maggioranza delle famiglie, mentre include uno speciale sgravio fiscale per gli aeroplani privati. In sostanza, il Partito Repubblicano sta inviando alle classi medie un gigantesco gesto di irrisione col dito medio. Cosa sta succedendo?

Direi che in larga parte la risposta è che molti repubblicani adesso considerano sé stessi e/o il loro partito in tali terribili ambasce che non stanno più nemmeno cercando di migliorare la loro futura posizione elettorale; piuttosto tutto si risolve nel mantenere la presa sui loro finanziatori, per quanto è ancora possibile. La libertà è soltanto un’altra espressione per significare che non si ha più niente da perdere; nel caso del Partito Repubblicano, questo significa la libertà di essere quel partito degli oligarchi, al loro servizio e a loro favore, che hanno sempre voluto essere.

Questo calcolo è chiarissimo nel caso dei componenti della Camera che rappresentano quel genere di distretti elettorali – con una certa istruzione, relativamente benestanti, tradizionalmente repubblicani moderati – che sono andati ai democratici per effetto degli ampi smottamenti in Virginia. Se il 2018 finirà con l’essere qualcosa di simile a quello che adesso sembra probabile, qualsiasi cosa facciano questi congressisti avranno bisogno di nuovi posti di lavoro nel 2019 –  e i migliori posti di lavoro saranno come lobbisti di K Street [3] , ad eccezione di quei pochi che otterranno impieghi presso Fox News o come esperti di gruppi di ricerca della destra. In altre parole, in un modo o nell’altro il loro futuro consiste nel raccogliere forme di assistenza per i “trombati”, il che significa che i loro incentivi consistono esclusivamente nell’essere ideologhi fedeli, anche se in grandissima parte a spese della loro base elettorale.

Il Senato è un po’ diverso; lì non c’è una gran quantità di repubblicani destinati all’insuccesso. Ma c’è un’ottima ragione per credere che i prossimi mesi rappresenteranno l’ultima possibilità che hanno portare a compimento quello che hanno promesso ai Koch e simili. Dopo quello, le tessere dl domino cominceranno a cadere: forse con la perdita dell’Alabama, riducendo persino ulteriormente la loro risicata maggioranza, forse le richieste di rinvio a giudizio che azzopperanno anche maggiormente la Casa Bianca, alla fine la perdita di uno o di entrambi i rami del Congresso. Dunque la loro motivazione è infilare subito tutto quello che vogliono i finanziatori nel tritacarne, non importa quanto sia scandaloso – rialzi delle tasse sulla maggioranza della popolazione, sgravi fiscali sugli aerei privati.

Devo riconoscere che non mi ero accorto di questi sviluppi. E c’è una buona possibilità che questo disperato aggrapparsi fallisca – si ricordi, ci vorrebbero solo tre Senatori repubblicani dotati di un minimo di principi. Ma siamo a quel punto.

 

 

 

 

[1] La tabella – che indica le variazioni di reddito previste per le varie categorie di contribuenti al 2027 – non è strettamente attinente al post. E’ una specie di ‘memo’ che indica quello che i congressisti repubblicani sono disposti a fare, ovvero grandi regali ai più ricchi e danni anche al loro elettorato.

[2] Candidato repubblicano alle prossime elezioni in Alabama, gravato da accuse di molestie sessuali. Trump in questi giorni è uscito a suo sostegno, anche se i dissensi sono vasti (ad esempio, i giovani repubblicani dell’Alabama).

[3] È la strada di Washington nella quale si concentrano le sedi delle ‘lobbies’, al punto che è diventata nel linguaggio politico americano un sinonimo di attività lobbistica.

 

 

 

 

 

 

I tagli alle tasse e il deficit commerciale (dal blog di Paul Krugman, 14 novembre 2017)

novembre 22, 2017

 

Tax Cuts And The Trade Deficit

Paul Krugman

 NOVEMBER 14, 2017 11:33

It’s a sad commentary on the state of affairs in America that we need to spend time debunking the Tax Foundation “model” of the effects of GOP tax cuts. But that model, with its extremely optimistic take on the growth and revenue effects of corporate tax cuts, is reportedly playing an important role in Senate discussions. So let’s talk some more about a point I’ve been trying to make: if you believe the TF analysis, you also have to believe that the Senate bill would lead to enormous trade deficits — and massive loss of manufacturing jobs.

TF provides very little detail on their model, which is itself a flashing red light: transparency is essential if you’re serious in this game. But if you read in a ways, there’s a table that tells us some of what we need to know:

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So they’re saying that in the long run — which they identify as a decade — the U.S capital stock will be 9.9% bigger than it would otherwise have been. Where do the savings for that increase in capital come from? Since there’s nothing in the bill that would increase domestic savings — on the contrary, the budget deficit would reduce national savings — they come from inflows of foreign capital.

How much inflow are we talking about? Currently, private fixed assets are approximately $43 trillion. A good baseline for private capital in 2027 would be to assume that it would grow with potential GDP. If so, in the absence of the Senate bill private capital would be $65 trillion in 2027.

So the Tax Foundation is claiming that the Senate bill would raise that by 9.9%, or $6.4 trillion.

Now, it’s just an accounting identity that current account + financial account = 0 — that is, $6.4 trillion in capital inflows means an extra $6.4 trillion in trade deficits over the next decade, more than $600 billion a year. Somehow, TF isn’t advertising that point, even though it’s an unavoidable conclusion from their analysis.

What would adding $600 billion per year to the trade deficit do? Mainly it would come from manufacturing, although part of that would reflect indirect losses in service industries that supply manufacturing. So let’s say 60% comes from reduced value added in U.S. manufacturing. That’s more than 20% of U.S. value-added in manufacturing. So the U.S. manufacturing sector would be around 20% smaller than it would have been otherwise.

How would this happen? Huge capital inflows would drive up the dollar, making U.S. manufacturing much less competitive.

And to a first approximation, it would also mean 20% fewer manufacturing jobs. Starting with 12.5 million current manufacturing workers, this means around 2.5 million fewer manufacturing jobs.

So let me say this clearly: if you believe the Tax Foundation analysis, you should also believe that the Senate bill would reduce manufacturing employment by around 2 1/2 million. Yes, jobs would be added in other sectors. But it’s not exactly what Trump has been promising, is it?

So why isn’t Tax Foundation talking about any of this? Actually, it’s pretty clear that they haven’t thought through the implications of their own model. Even though inflows of foreign capital are absolutely central to their case, they don’t appear to have considered at all what such inflows would involve.

So nobody should be taking these guys seriously.

 

I tagli alle tasse e il deficit commerciale,

di Paul Krugman

È una triste testimonianza dello stato delle cose in America che si debba perdere tempo a confutare il “modello” di Tax Foundation sugli effetti dei tagli alle tasse del Partito Repubblicano. Ma quel modello, con la sua estremamente ottimistica presa di posizione sugli effetti sulla crescita e sulle entrate dei tagli fiscali alle società, secondo i resoconti sta giocando un ruolo importante nelle discussioni al Senato. Consentitemi dunque di parlare un po’ di più su un punto che sto cercando di avanzare: se si crede alle analisi di TF, si deve anche credere che la proposta di legge del Senato porterebbe a enormi deficit commerciali – ed a una massiccia perdita di posti di lavoro nel settore manifatturiero.

TF fornisce molti pochi dettagli sul proprio modello, il che di per sé fa scattare una luce rossa: se in questa partita si è seri, la trasparenza è essenziale. Ma se si legge tra le righe, c’è una tabella che ci dice qualcosa che abbiamo bisogno di conoscere:

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Dunque, stanno dicendo che nel lungo periodo – che essi identificano con un decennio – lo stock di capital degli Stati Uniti sarà più grande di quello che sarebbe stato altrimenti, nella misura del 9,9%. Da dove vengono i risparmi per quell’incremento di capitale? Dal momento che non c’è niente nella proposta di legge che aumenterebbe il risparmio nazionale – al contrario, il deficit del bilancio lo ridurrebbe – essi verrebbero da flussi in entrata di capitali stranieri.

Di quanti flussi stiamo parlando? Attualmente, gli asset fissi privati sono circa 43.000 miliardi di dollari. Una buona base di riferimento per i capitali privati sarebbe assumere che essa cresca con il PIL potenziale. Se così fosse, in assenza della proposta del Senato il capitale privato sarebbe 65.000 miliardi di dollari nel 2027.

Dunque Tax Foundation sta sostenendo che la proposta del Senato accrescerebbe quel dato del 9,9%, ovvero di 6.400 miliardi di dollari.

Ora, è semplicemente per una identità contabile che il conto corrente + il conto finanziario = 0 – ovvero, 6.400 miliardi di dollari comportano un aumento di 6.400 miliardi di dollari nei deficit commerciali per il prossimo decennio, più di 600 miliardi di dollari all’anno. Per qualche ragione, TF non sta segnalando questo aspetto, anche se sulla base delle loro analisi, è una conclusione obbligata.

Aggiungere 600 miliardi all’anno al deficit commerciale, cosa provocherebbe? Principalmente essi proverrebbero dal settore manifatturiero, sebbene una parte rifletterebbe perdite indirette nelle industrie di servizio che riforniscono il settore manifatturiero. Diciamo dunque che un 60% provenga dalla riduzione di valore aggiunto nel manifatturiero statunitense. Esso è più del 20% del valore aggiunto nel manifatturiero degli Stati Uniti. Dunque, il settore manifatturiero sarebbe per circa il 20% più piccolo di quanto sarebbe stato altrimenti.

Come accadrebbe tutto questo?  Vasti flussi in ingresso di capitali spingerebbero in alto il dollaro, rendendo il settore manifatturiero statunitense molto meno competitivo.

E, a una prima approssimazione, esso significherebbe anche un 20% di posti di lavoro in meno nel manifatturiero. Partendo dai 12,5 milioni di attuali lavoratori manifatturieri, questo significherebbe circa 2,5 milioni di posti di lavoro manifatturieri in meno.

Dunque, fatemelo dire con chiarezza: se credete nella analisi di Tax Foundation, dovreste anche credere che la proposta di legge del Senato ridurrebbe l’occupazione manifatturiera di circa 2 milioni e mezzo di persone. È vero, aumenterebbero i posti di lavoro in altri settori. Ma non è esattamente quello che Trump aveva promesso, non è così?

Perché dunque Tax Foundation non dice niente di tutto questo? Per la verità, è abbastanza chiaro che non hanno ragionato sulle implicazioni del loro modello. Anche se i flussi in ingresso dei capitali stranieri sono assolutamente centrali nella loro tesi, non sembrano aver affatto considerato cosa comporterebbero quei flussi.

Dunque nessuno dovrebbe prendere quella gente sul serio.

 

 

Tax Foundation ha qualche spiegazione da dare, (dal blog di Paul Krugman, 11 novembre 2017)

novembre 18, 2017

 

NOV 11 2:05 PM 

The Tax Foundation Has Some Explaining To Do

Paul Krugman

I’m hearing from various sources that the Tax Foundation’s assessment of the Senate plan, which purports to show huge growth effects and lots of revenue gains from this growth, is actually having an impact on debate in Washington. So we need to talk about TF’s model, and what they aren’t telling us.

The basic idea behind TF’s optimism is that the after-tax return on capital is set by global markets, so that if you cut the corporate tax rate, lots of capital comes flooding in, driving wages up and the pre-tax rate of return down, until you’re back at parity. That is indeed a possible outcome if you make the right assumptions.

But there are two necessary side implications of this story. First, during the process of large-scale capital inflow, you must have correspondingly large trade deficits (over and above baseline). And I mean large. If corporate tax cuts raise GDP by 30%, and the rate of return is 10%, this means cumulative current account deficits of 30% of GDP over the adjustment period. Say we’re talking about a decade: then we’re talking about adding an average of 3% of GDP to the trade deficit each year — around $600 billion a year, doubling the current deficit.

Second, all that foreign capital will earn a return — foreigners aren’t investing in America for their health. As I’ve tried to point out, this probably means that most of any gain in GDP accrues to foreigners, not U.S. national income.

So how does the TF model deal with these issues? They have never provided full documentation (which is in itself a bad sign), but the answer appears to be — it doesn’t. Judging from the description here, the current version of the model has no international sector at all — that is, it says nothing about trade balances. They say that they’re working on a model that

tracks the effects of rapidly increasing or decreasing desired capital stocks on international capital markets. The international sector captures the capital payments that leave the domestic economy to the foreign owners of domestic assets and adjusts the growth factors for the tax-return simulator to reflect the actual growth in incomes.

In other words, the model they’re using now doesn’t do any of that.

So while they’re peddling an analysis that implicitly predicts huge trade deficits and a large jump in income payments to foreigners, they’re using a model that has no way to assess these effects or take them into account.

Maybe they’ll eventually do this stuff. But what they appear to be doing now is fundamentally incapable of addressing key issues in the tax policy debate.

 

Tax Foundation ha qualche spiegazione da dare,

di Paul Krugman

Sto ascoltando da varie fonti che la valutazione di Tax Foundation sul progetto del Senato, che ritiene di dimostrare grandi effetti di crescita e grandi vantaggi da tale crescita per le entrate, sta effettivamente avendo un impatto sul dibattito a Washington. Abbiamo dunque bisogno di parlare del modello TF, e di che cosa essi ci stanno raccontando.

L’idea di base dietro l’ottimismo di TF è che il rendimento sul capitale dopo le tasse è stabilito dai mercati globali, cosicché se si tagliano le aliquote fiscali delle società, arrivano grandi quantità di capitali che vi inondano, spingendo in alto i salari e in basso il tasso di rendimento prima delle tasse, finché non si torna alla parità. Questo è in effetti un risultato possibile se si parte da assunti corretti.

Ma ci sono due necessarie implicazioni collaterali in questa storia. La prima, durante il processo di flussi in ingresso dei capitali su larga scala, si debbono avere in corrispondenza grandi deficit commerciali (in aggiunta alla base di riferimento). E intendo grandi. Se i tagli alle tasse delle società elevano il PIL del 30% e il tasso di rendimento è il 10%, questo significa deficit cumulativi di conto corrente del 30% del PIL nel corso del periodo di adeguamento. Diciamo che stiamo parlando di un decennio: conseguentemente stiamo parlando di aggiungere una media del 3% del PIL al deficit commerciale di ogni anno – circa 600 miliardi all’anno, che raddoppiano il deficit attuale.

La seconda, tutti i capitali stranieri otterranno un rendimento – gli stranieri non stanno investendo in America perché gli fa bene alla salute. Come ho cercato di mettere in evidenza [1], questo probabilmente comporta che la maggioranza di tutti gli avanzamenti del PIL matura a favore degli stranieri, non del reddito nazionale degli Stati Uniti.

Come si misura, dunque, il modello TF con questi temi? Essi non hanno mai fornito una documentazione completa (il che è di per sé un cattivo segno), ma la risposta sembra essere – non ci si misura. Giudicando da questa descrizione, l’attuale versione del modello non contiene per nulla un settore internazionale – ovvero non dice niente sulle bilance commerciali. Dicono che stanno lavorando su un modello che:

“segua gli effetti degli stock attesi in rapida crescita o decrescita sui mercati internazionali dei capitali. Il settore internazionale registra i pagamenti al capitale che lasciano l’economia nazionale per i proprietari stranieri di asset nazionali e corregge i fattori di crescita per il simulatore dei rendimenti fiscali in modo da riflettere la crescita effettiva nei redditi”.

In altre parole, il modello che stanno utilizzando adesso non fa niente del genere.

Dunque, nel mentre mettono in circolazione una analisi che implicitamente prevede vasti deficit commerciali e un forte salto nel sostegno del reddito degli stranieri, essi stanno usando un modello che in nessun modo valuta questi effetti o li mette nel conto.

Forse alla fine lo faranno. Ma quello che sembrano fare in questo momento è fondamentalmente incapace di affrontare temi cruciali nel dibattito sulla politica fiscale.

 

 

 

 

[1] Vedi il post “L’economia degli gnomi, con i numeri” del 9 novembre 2017.

 

 

 

 

 

 

L’economia degli gnomi, con i numeri (dal blog di Paul Krugman, 9 novembre 2017)

novembre 17, 2017

 

NOV 9 1:51 PM

Leprechaun Economics, With Numbers

By Paul Krugman

 

Yesterday I noted that most discussion of the growth effects of the Cut Cut Cut Act, such as they may be, focuses on the wrong measure. GDP might go up because lower corporate taxes will draw in foreign capital; but this capital will demand and receive returns, which mean that part of the gain in domestic production is offset by investment income received by foreigners. As a result, GNI – income of domestic residents – will rise less than GDP. And surely, as in Ireland with its leprechaun economy based on low corporate taxes, GNI is the measure you want to focus on.

Now, inspired by Greg Leiserson’s post on problems with the Tax Foundation model – the only one that shows significant growth effects from Cut Cut Cut – I think I can give an illustration of how much this might matter. It relies on a stylized version of the TF model, which is a model I don’t believe for a minute, so this isn’t a real estimate. But it’s a sort of proof of concept.

So, as Leiserson says, the TF model assumes that thanks to international capital mobility there’s a fixed after-tax rate of return capital must earn. Cut the corporate tax rate, and capital flows in, driving down the pre-tax rate of return by just enough to offset the tax cut.

The following figure shows the story. Here r* is the required rate of after-tax return, t is the initial tax rate, t’ the post Cut Cut Cut rate. MPK is the marginal product of capital curve. The tax cut leads to a capital inflow that moves the economy down that curve. The rise in GDP is the integral of all successive increments to capital, so it’s the area a+b+c.

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But the extra foreign capital, by assumption, receives the rate of return r*. So the area c is an addition to GDP but not to GNI; the true gain to the economy is only a+b.

Now let’s create some stylized numbers. It looks as if 8% is a reasonable number for after-tax required return; with a 35% tax rate, this means a pre-tax rate of 12.3%. Cut the tax rate to 20%, and the pre-tax return should fall to 10%. The increment of capital should have a rate of return roughly halfway between, 11.15%.

Tax Foundation asserts that capital inflows will be enough to raise GDP more than 3%, which is wildly implausible. But let’s go with it for the sake of argument. This means inflows of around 30 percent of pre-CCC GDP.

So how much does this raise foreign investment income? The answer is, 8% times 30%, or 2.4 percent of GDP out of a GDP rise of 3.45 percent in my example. In other words, the true gain to the US is 1.05%, not 3.45%. That’s a big difference, and not in a good way.

The point is that even if you believe the whole “we’re a small open economy so capital will come flooding in” argument, it buys you a lot less economic optimism than its proponents imagine.

 

L’economia degli gnomi [1], con i numeri

di Paul Krugman

Ieri osservavo che gran parte del dibattito sugli effetti possibili sulla crescita della Legge Taglia Taglia Taglia [2], si concentra su una misura sbagliata. Il PIL dovrebbe salire perché tasse più basse sulle società attrarranno capitali stranieri; ma questi capitali chiederanno e riceveranno rendimenti, il che significa che parte del guadagno nella produzione nazionale verrà bilanciata dal reddito di investimento ricevuto dagli stranieri. Di conseguenza, il Reddito Nazionale Lordo (GNI) – il reddito di coloro che risiedono nel paese – crescerà meno del PIL. E certamente, come in Irlanda con la sua economia degli gnomi basata su basse tasse sulle società, il GNI è la misura sulla quale ci si deve concentrare.

Ora, stimolato dal post di Greg Leiserson sui problemi posti dal modello di Tax Foundation (TF) – il solo che mostri significativi effetti di crescita a seguito del Taglia Taglia Taglia – credo di potere fornire una illustrazione sulla importanza della dimensione che questo potrebbe avere. Essa si basa su una versione stilizzata del modello TF, che è un modello al quale non credo assolutamente, cosicché questa non è una stima reale. È una sorta di simulazione concettuale.

Dunque, come dice Leiserson, il modello TF assume che grazie alla mobilità internazionale dei capitali, ci deve essere un tasso di rendimento fisso dopo le tasse che il capitale deve guadagnare. Tagliate le aliquote fiscali sulle società e il capitale e i flussi in ingresso dei capitali, spingono in basso il tasso di rendimento prima delle tasse proprio allo scopo di bilanciare il taglio fiscale.

La storia è mostrata dal seguente diagramma. Nel quale r* è il tasso di rendimento richiesto dopo le tasse, t è l’iniziale aliquota fiscale, t’ è l’aliquota successiva alla legge del Taglia Taglia Taglia.  MPK è il prodotto marginale della curva del capitale. Il taglio fiscale porta ad un flusso in ingresso del capitale che spinge verso il basso la curva dell’economia. La crescita del PIL è l’integrale di tutti i successivi incrementi di capitale, dunque è l’area a+b+c.

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Ma il capitale straniero, sulla base dell’assunto, riceve il tasso di rendimento r*. Dunque l’area c è una aggiunta al PIL ma non al Reddito Nazionale Lordo; il vero guadagno dell’economia è soltanto a+b.

Consentitemi adesso di utilizzare alcuni numeri che uniformano e rendono più comprensibile il tutto. Mi pare che se l’8% è un numero ragionevole per il rendimento richiesto dopo le tasse, con una aliquota fiscale del 35%, questo significa una aliquota prima delle tasse del 12,3%. Tagliate l’aliquota fiscale al 20% e il rendimento prima delle tasse dovrebbe cadere al 10%. L’incremento del capitale dovrebbe avere un tasso di rendimento grosso modo della metà, 11,5%.

Tax Foundation sostiene che i flussi di capitale in ingresso sarebbero sufficienti ad innalzare il PIL di più del 3%, il che è assolutamente non plausibile. Ma per ipotesi accettiamolo. Questo significa flussi in ingresso di capitali pari circa al 30% del PIL prima della legge dei tagli.

Dunque, di quanto questo accresce il reddito degli investimenti stranieri? La risposta è, 8% per 30%, o 2,4% del PIL, da togliere all’aumento del PIL del 3,45% nel mio esempio. In altre parole, il vero guadagno è dell’1,05%, non del 3,45%. E questa è una grande differenza, non in senso positivo.

Il punto è che persino se si crede all’intero argomento “siamo una piccola economia aperta e dunque il capitale arriverà copiosamente”, esso vi offre molto meno ottimismo economico di quanto i suoi proponenti immaginano.

 

 

 

[1] Ovvero, l’economia irlandese. È noto che il “leprechaun” – il folletto, lo gnomo vestito di verde e con una pipa in mano – è una figura centrale della mitologia irlandese. Per capire in che senso si parla di una economia degli gnomi, può essere utile questo brano da un articolo apparso il 5 di ottobre sul Sole-24 Ore.

 

Il primo creditore è la Cina, colosso mondiale dell’export. Il secondo è il Giappone, patria di colossali fondi pensione e compagnie di assicurazioni vita che devono per forza coprirsi con titoli di Stato a lungo termine. Fin qui nessuna sorpresa. Ma è quando alziamo il velo sul terzo posto che entriamo a gamba tesa nella fantascienza: il terzo creditore degli Stati Uniti non è la Germania peso massimo industriale, o la Gran Bretagna regno della finanza, ma la minuscola e remota Irlanda. Sembra incredibile ma è vero: secondo i dati diffusi pochi giorni fa dal Treasury International Capital, Dublino detiene in portafoglio qualcosa come 310 miliardi di dollari di titoli di Stato Usa, una cifra superiore al suo stesso prodotto interno lordo.

[2] È il titolo che Trump avrebbe voluto dare alla legge sul fisco, anche se alla fine ha ricevuto un altro nome (Legge sul fisco e sui posti di lavoro).

 

 

 

 

 

L’economia degli gnomi e il neo-lafferismo, di Paul Krugman (dal blog di Krugman 8 novembre 2017)

novembre 10, 2017

 

Leprechaun Economics and Neo-Lafferism

 NOVEMBER 8, 2017 2:28 PM 

Paul Krugman

At one level, trying to have a serious discussion of the economic impacts of the Cut Cut Cut Act – sorry, the Tax Cuts and Jobs Act – is arguably a waste of time. Republicans who believe, or pretend to believe, that tax cuts will produce an economic miracle, who didn’t change their minds after the Clinton boom, the Bush debacle, the Kansas disaster, and the strength of the economy after 2013 aren’t going to be persuaded by further analytical discussion.

But some of us have spent our lives trying to understand such things, and there are some intellectually interesting aspects of the current tax debate even though the would-be reformers aren’t interested in a real discussion. So let me indulge myself.

The thing is, while Republicans always claim that tax cuts will produce miraculous growth, both the proposed tax cuts and the supposed sources of the miracle are a bit different this time. Instead of focusing on individual tax rates – aside from the estate tax – this time it’s mostly about corporate taxes. And instead of claiming huge increases in work effort from lower marginal rates, they’re mostly claiming that lower corporate taxes will bring huge capital inflows, raising wages and GDP.

There are multiple reasons to be skeptical about these claims; the actual magnitude of any positive effect on GDP is likely to be far smaller than anything Republicans say. The Penn-Wharton model says that GDP in 2027 would be between 0.3% and 0.8% higher with the tax cuts than without, i.e., basically an invisible effect against background noise; and this doesn’t even take into account the longer-run negative effects of discouraging higher education, slashing nutrition programs, and all the other things that will probably happen due to higher deficits.

But let me make a different point: GDP is actually the wrong measure. If you’re going to be pulling in foreign capital, you’re going to be paying more investment income to foreigners; so gross national income – income accruing to domestic residents – is going to go up by less. And surely that’s the measure we care about.

In fact, when you bear in mind the reduced taxes collected on foreign investors who are already here, GNI could actually go down, not up.

One way to say all of this is that Cut Cut Cut would be an attempt to bring a bit of leprechaun economics to the United States. Ireland, famously, is a country where GDP vastly exceeds national income, by a growing margin:

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The reason is a low corporate tax rate, which attracts both real foreign investment in capital-intensive sectors – investment that raises GDP but does little for workers – and also creates an incentive to use transfer pricing to make profits appear in Ireland even though they have nothing much to do with Irish activity. Not incidentally, Kevin Hassett appears to be confused about the economics here, imagining that a paper reduction in the US trade deficit due to changes in transfer pricing would bring in real jobs. It wouldn’t.

There are really two bottom lines here. One is that the true growth impacts of Cut Cut Cut would be even more pathetic than the numbers you’ve been hearing. The other is that if you’re going to make international capital flows central to your arguments, you really need to think about the implications for future investment income.

 

L’economia degli gnomi e il neo-lafferismo [1] , di Paul Krugman

Da un parte, cercare di avere una discussione seria sugli impatti economici della Cut cut cut Act [2]scusate, la “Tax Cuts and Jobs Act” – è probabilmente una perdita di tempo. I repubblicani che credono, o fingono di credere, che i tagli al fisco produrranno un miracolo economico, che non cambiarono i loro convincimenti dopo il boom di Clinton, dopo la debacle di Bush, dopo il disastro del Kansas e la forza dell’economia dal 2013 non sono destinati ad essere persuasi da un ulteriore discussione analitica. Ma alcuni di noi hanno speso la loro esistenza a cercar di capire cose del genere, e ci sono alcuni aspetti intellettualmente interessanti dell’attuale dibattito fiscale, anche se i presunti riformatori non sono interessati ad un dibattito reale. Dunque, fatemi essere indulgente con me stesso.

Il punto è che questa volta, se i repubblicani sostengono sempre che gli sgravi fiscali produrranno una crescita miracolosa, sia i tagli proposti che le presunte fonti del miracolo sono un po’ diversi. Invece di concentrarsi sulle aliquote fiscali sulle persone – a parte la tassa sul patrimonio – questa volta si tratta soprattutto della tassazione sulle società. E anziché sostenere enormi incrementi nel tentativo di operare a seguito di aliquote marginali più basse, si sostiene soprattutto che tasse più basse sulle società comporterebbero grandi flussi in ingresso di capitali, aumentando i salari ed il PIL.

Ci sono varie ragioni per essere scettici su queste pretese; l’effettiva ampiezza di qualsiasi effetto positivo sul PIL è probabile che sia di gran lunga più modesta di tutto quello che dicono i repubblicani. Il Modello Penn-Wharton dice che il PIL nel 2027 sarebbe più alto con gli sgravi fiscali che senza, tra lo 0,3 e lo 0,8%, ovvero fondamentalmente un effetto invisibile rispetto a un rumore di fondo; e questo senza neppure mettere nel conto gli effetti negativi di lungo periodo derivanti dallo scoraggiare una istruzione superiore, dall’abbattere i programmi alimentari, e da tutte le altre cose che probabilmente accadranno a seguito di deficit più elevati.

Ma fatemi avanzare una considerazione diversa: il PIL è in effetti un metro di misura sbagliato. Se si intende far leva sul capitale straniero, si è destinati a pagare di più il reddito da investimenti agli stranieri; dunque il reddito nazionale lordo – quello che matura dai residenti nazionali – è destinato a salire di meno. Ed è certamente quella la misura di cui ci occupiamo.

Di fatto, quando si tengono a mente le minori tasse raccolte sugli investitori stranieri che già operano qua, il Reddito Nazionale Lordo potrebbe effettivamente scendere, non salire.

Un modo per esprimere tutto questo è che il Cut Cut Cut sarebbe un tentativo di portare un po’ di economia degli gnomi [3] negli Stati Uniti. È noto che l’Irlanda è un paese nel quale il PIL eccede ampiamente il reddito nazionale, di un margine crescente:

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[4]

La ragione è che un’aliquota fiscale per le società bassa, che attrae investimenti reali stranieri in settori ad alta intensità di capitale – investimenti che aumentano il PIL ma fanno poco per i lavoratori – e crea anche un incentivo ad usare il transfer pricing [5] per fare profitti, compare in Irlanda anche se non ha molto a che fare con l’attività irlandese. Non casualmente, Kevin Hassett sembra in questo caso far confusione tra due economie, immaginando che una riduzione cartacea del deficit commerciale degli Stati Uniti dovuta ai cambiamenti nel transfer pricing porti reali posti di lavoro. Non è così.

In realtà, in questa vicenda ci sono due morali. Una è che i veri impatti di crescita del Cut Cut Cut sarebbero persino più insignificanti dei numeri che sono in circolazione. L’altra è che se siete intenzionati a fare dei flussi in ingresso dei capitali internazionali il punto centrale dei vostri argomenti, avete davvero bisogno di ragionare sulle implicazioni del futuro reddito da investimenti.

 

 

 

 

[1] Arthur Betz Laffer (Youngstown, 14 agosto 1940) è un economista statunitense, sostenitore della Supply side economics. Divenne molto influente negli anni dell’amministrazione Reagan, tanto da esserne uno dei massimi consiglieri economici. Dunque, per “neolafferismo” si intende un ritorno alla economia reaganiana basata sulla pretesa che grandi sgravi fiscali sui più ricchi si sarebbero un po’ alla volta trasferiti sui ceti minori e medi.

[2] È il titolo che Trump avrebbe voluta per la proposta di legge sul fisco, significa “Legge del taglia taglia taglia”. Pare nvece che la chiamino Legge sui tagli alle tasse e sui posti di lavoro.

[3] È noto che il “leprechaun” – il folletto, lo gnomo vestito di verde e con una pipa in mano – è una figura centrale della mitologia irlandese. Per capire in che senso si parla di una economia degli gnomi, può essere utile questo brano da un articolo apparso il 5 di ottobre sul Sole-24 Ore.

“Il primo creditore è la Cina, colosso mondiale dell’export. Il secondo è il Giappone, patria di colossali fondi pensione e compagnie di assicurazioni vita che devono per forza coprirsi con titoli di Stato a lungo termine. Fin qui nessuna sorpresa. Ma è quando alziamo il velo sul terzo posto che entriamo a gamba tesa nella fantascienza: il terzo creditore degli Stati Uniti non è la Germania peso massimo industriale, o la Gran Bretagna regno della finanza, ma la minuscola e remota Irlanda. Sembra incredibile ma è vero: secondo i dati diffusi pochi giorni fa dal Treasury International Capital, Dublino detiene in portafoglio qualcosa come 310 miliardi di dollari di titoli di Stato Usa, una cifra superiore al suo stesso prodotto interno lordo.”

[4] Il diagramma mostra il rapporto percentuale tra il Reddito Nazionale Lordo e il PIL, che in un paese come l’Irlanda – linea rossa più grande – a partire dagli anni ’80 si colloca attorno al 120% del PIL.

[5] L’espressione transfer pricing identifica il procedimento per determinare il prezzo appropriato, in gergo transfer price, nel trasferimento della proprietà di beni/servizi/intangibili attraverso operazioni infra-gruppo. Il transfer pricing trova ampia applicazione nel determinare il valore normale dei prezzi o dei profitti relativi ad operazioni che intercorrono tra due imprese collegate residenti in paesi a fiscalità diverse (cross-border) come ad esempio due controparti di una multinazionale. Le transizioni infra-gruppo sono dette in gergo “controlled transactions” e sono distinte da quelle che si realizzano tra imprese che non sono collegate e che si assume operino indipendentemente nello stabilire termini e condizioni della transazione (ossia alle condizioni di libero mercato in gergo on an arm’s length basis).

Il transfer pricing interessa le Autorità fiscali a prescindere da livello di tassazione effettiva vigente nei Paesi in cui sono residenti o localizzate le imprese del gruppo coinvolte. La disciplina dei prezzi di trasferimento è infatti rivolta a proteggere l’erosione della base imponibile nazionale ed assicurare la corretta ripartizione impositiva tra Stati.

Ciò che l’Autorità fiscale rileva è la discrepanza tra il valore di vendita di un bene ad una società del gruppo e il valore di vendita dello stesso bene sul libero mercato. L’applicazione dei metodi di transfer pricing aiutano quindi ad assicurare che la transazione sia conforme o meno al valore normale (arm’s length standard). (Wikipedia)

 

 

 

 

 

 

 

 

Paul Ryan si sta strozzando con la sua stessa carne di incerta provenienza (dal blog di Krugman, 1 novembre 2017)

novembre 9, 2017

 

Paul Ryan Is Choking On His Own Mystery Meat

 NOVEMBER 1, 2017 9:27 AM 

Paul Krugman

House Republicans were supposed to unveil their tax proposal today, but it has been put off — and not, as you might imagine, because they’re a bit worried that their grand opening might be overshadowed by the indictment of Trump’s campaign manager and sworn testimony of collusion between campaign officials and Russia.

No, they’re delaying because on the verge of trying to pass a huge change in the U.S. tax system, they still haven’t settled on key parts of the proposal — specifically, how to pay for huge corporate tax cuts and large cuts to wealthy individuals.

But wait — how is this possible? Republicans, and specifically Paul Ryan, the speaker of the House, have been talking about tax “reform” and putting out white papers for years — actually, since 2010. How can basic things be up in the air at this late date?

The answer, of course, is that Ryan and friends have been faking it all these years. This was obvious from the beginning. I identified Ryan as a flimflam man more than 7 years ago. And the reason I knew he was a phony was that he was proposing large tax cuts while asserting that the lost revenue would be made up for by closing unspecified loopholes.

A couple of years later, Howard Gleckman of the Tax Policy Center complained about the “mystery meat” in Ryan’s budget — the huge revenue gains assumed from eliminating unspecified tax preferences:

Ryan proposes big, specific spending reductions such as cutting Medicaid in half and slashing other federal spending (except for Social Security, Medicare, and Medicaid) by nearly 75 percent from current levels by 2050. But his budget still can’t add up without eliminating or sharply scaling back those popular tax preferences. Which ones, it seems, remain a state secret.

And they’re still a state secret — on the day the House was supposed to release its plan, we still have no idea what will be used as “pay-fors”.

Now, a cynic might have expected Republicans to go for full-on cynicism: “What, you took it seriously when we talked about fiscal responsibility? The joke’s on you! Ha ha ha!” And to a certain extent that is what they’ve done: after all the deficit-hawk posturing, they’re openly admitting that their intention is to increase the deficit by $1.5 trillion.

But they apparently didn’t feel free to cut completely loose: they did set a deficit target, and as I understand the mechanics of reconciliation, the budgets passed by the House and Senate, while they don’t actually set policy, kind of leave them stuck with an upper limit on just how much they can blow up the deficit.

And they have no idea how to get there. Try to cut one set of deductions, and the homebuilders get mad at you. Try to cut another, and upper-middle-class suburbanites in blue states who still vote GOP get mad. And so on.

The point is that these problems were always predictable, which is why the Ryan budgets were always obviously fraudulent. Ryan’s fakery may have fooled his naive constituents — by which I mean practically the whole Beltway pundit class — but never fooled anyone who could do the math.

So will the GOP pass something? Probably — but it’s more likely to be a miniature Christmas tree of handouts to the wealthy than the grand tax reform they’ve been promising.

And let’s hope that whatever happens gets reported as the failure it is. Ryan and company promised big stuff, but never had any way to deliver. When it comes to big lies, Donald Trump is actually a very good, very normal Republican.

 

Paul Ryan si sta strozzando con la sua stessa carne di incerta origine,

di Paul Krugman

Si pensava che i repubblicani della Camera oggi avrebbero reso pubbliche le loro proposte sul fisco, ma l’evento è stato rimandato – e non, come potreste immaginare, perché fossero un po’ preoccupati che la loro superba inaugurazione potesse essere messa in ombra dal rinvio a giudizio del manager della campagna elettorale di Trump e dalla dichiarazione giurata della collusione tra i dirigenti di quella campagna e la Russia.

No, l’hanno rinviato perché sul punto di cercare di far approvare un grande cambiamento nel sistema fiscale degli Stati Uniti, essi non avevano ancora preso le decisioni su aspetti cruciali della proposta – in particolare, come pagare gli enormi sgravi sulle tasse delle società e i grandi tagli a favore delle persone ricche.

Ma, un momento; come è possibile tutto questo? È da anni che i repubblicani, e in particolare Paul Ryan, parlano della “riforma” delle tasse e mettono in circolazione libri bianchi – precisamente, dal 2010. Come è possibile che aspetti fondamentali restino indefiniti in questa estrema scadenza?

La risposta, naturalmente, è che Ryan e compagni in tutti questi anni hanno detto il falso. Era evidente sin dagli inizi. Più di 7 anni fa identificai Ryan come l’uomo della fandonia. E la ragione per la quale sapevo che era un imbroglione era che egli stava proponendo ampi sgravi fiscali nel mentre asseriva che le entrate perdute sarebbero state compensate dalla interruzione di non specificate forme di elusione.

Un paio d’anni più tardi, Howard Gleckman del Tax Policy Center si lamentò della “carne di incerta origine” nel bilancio di Ryan – i vasti incrementi nelle entrate ipotizzati dalla eliminazione di non specificati privilegi fiscali:

“Ryan propone grandi, specifiche riduzioni come il taglio della metà di Medicaid e l’abbattimento di altre spese federali (esclusa la Previdenza Sociale, Medicare e Medicaid) per circa il 75 per cento entro il 2050. Ma il suo bilancio ancora non può quadrare senza eliminare o ridurre bruscamente quei popolari privilegi fiscali. I quali, sembra, restano un segreto di Stato.”

Ed essi sono ancora un segreto di Stato –  il giorno in cui si riteneva che la Camera pubblicasse il suo progetto, noi non abbiamo ancora alcuna idea di cosa sarà utilizzato come ‘compenso’.

Ora, un cinico si poteva aspettare che i repubblicani quanto a cinismo avrebbero fatto il pieno: “Cosa, la prendevi sul serio quando parlavamo di responsabilità della finanza pubblica? Ci sei cascato! Ah ah ah!”. E in una certa misura è quello che hanno fatto: dopo tutto quell’atteggiarsi da falchi del deficit, stanno apertamente ammettendo che la loro intenzione è di aumentare il deficit di 1.500 miliardi di dollari.

Ma a quanto pare essi non si sentono liberi di fare tagli in completa scioltezza: hanno fissato un obbiettivo di deficit, e per quello che comprendo dei meccanismi della ‘riconciliazione’ [1], i bilanci approvati dalla Camera e dal Senato, se anche non fissano una politica, in un certo senso li lasciano bloccati entro un limite superiore proprio su quanto possono far salire il deficit.

E non hanno alcuna idea di come arrivarci. Si prova a tagliare un complesso di deduzioni, e quelli dell’edilizia diventano furiosi. Si prova a tagliare qualcosa d’altro, e i sobborghi delle classi medio alte degli Stati democratici che ancora votano per il Partito Repubblicano si infuriano. E così via.

Il punto è che questi problemi erano sempre stati prevedibili, che è la ragione per la quale le proposte di bilancio di Ryan erano evidentemente fraudolente. La falsità di Ryan può essersi presa gioco della sua ingenua base elettorale – nella quale io praticamente includo l’intera categoria dei commentatori della Capitale – ma non si è mai presa gioco di qualcuno che sapesse fare la matematica.

Dunque, il Partito Repubblicani approverà qualcosa? È probabile – ma è più probabile che si tratti di un albero di Natale in miniatura di sussidi ai ricchi, piuttosto che della grande riforma del fisco che hanno promesso.

E speriamo che qualsiasi cosa accada essa sia commentata per il fallimento che rappresenta. Ryan e soci hanno promesso grandi cose, ma non le hanno mai in alcun modo consegnate. Quando di ragiona di grandi bugie, Donald Trump è in effetti un ottimo e normalissimo repubblicano.

 

 

 

[1] È il nome che nella procedura di approvazione del Bilancio hanno le regole di compensazione tra il Senato e la Camera, che prevedono che uno dei due rami alla fine possa sciogliere nodi non risolti, sia pure con maggioranze qualificate,

 

 

 

 

 

Imbroglio sugli sgravi fiscali: i soliti sospetti (dal blog di Krugman, 29 ottobre 2017)

novembre 9, 2017

 

Tax Cut Fraudulence: The Usual Suspects

 OCTOBER 29, 2017 11:43

Paul Krugman

Stan Collender has a characteristically perceptive discussion of the ongoing budget farce, and invokes Casablanca: “round up the usual suspects.” That struck me as the perfect motto for what I’m seeing, although I’m focusing on somewhat different aspects of the farce.

You see, until a few days ago the Trump sales pitch was a bit different from past GOP arguments for tax cuts, involving (a) a novel invocation of the supposed benefits of massive capital inflows from corporate tax cuts, and (b) outright lies on an unprecedented scale.

But what I’ve been seeing lately is a revival of some more traditional, Bush-era fraudulence. Two items in particular. First, the claim that the rich pay practically all the taxes, so that of course they have to get the bulk of the tax cut. Second, claims of vast growth, because Reagan.

On the first: you might think there was some contradiction between the incessant claim that this is a middle-class tax cut and the claim that the rich deserve to get the lion’s share. But doublethink is central to the whole enterprise.

Anyway, the claim about who pays taxes is a very familiar one to us old hands: say “taxes” when what you really mean are “federal income taxes,” as if this was the only tax.

In reality, while the federal income tax is indeed mainly paid by people with high incomes, it’s far from being the only tax. At the federal level, most people pay more in payroll taxes than in income taxes, and the payroll tax is actually regressive. And state and local taxes are also a big deal, and they’re definitely regressive. Efforts to estimate the overall distribution of taxes find that the system isn’t especially progressive: the wealthy pay a lot in taxes, but they also receive a lot of income, and the shares aren’t much out of line:

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Figure 1

Meanwhile, about Reagan: yes, he cut taxes, and presided over average growth of more than 3 percent. But you know who else presided over growth of >3%?

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Figure 2

Clinton you probably saw coming — and Clinton, of course, raised taxes yet presided over a boom that surpassed Reagan’s. Carter may be a surprise: what few realize is that overall performance under Carter was pretty good, but his timing was off: fast growth in the early years, a recession (and inflation) at the end.

In any case, holding up either Reagan or Clinton as a model, a reason to believe 3% growth is in easy reach, misses one huge factor: demography. Under Reagan the last of the baby boomers were just entering their prime working years; these days we’re on our way out the door. Jason Furman had a nice graph to illustrate just how much has changed:

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Figure 3

So anyone invoking Reagan-era growth to justify outlandish projections now is ignorant, dishonest, or both.

Actually, of course, I shouldn’t be surprised to see some of the good old bogus arguments make a reappearance alongside the new set of lies. My experience over the years has been that the right never gives up an argument, even if it’s in flat contradiction to some other argument they’re making. They throw everything they have at the wall, in the hope that some of it sticks. And so it is with the tax “debate.”

 

Imbroglio sugli sgravi fiscali: i soliti sospetti

Paul Krugman 

Stan Collender interviene come al solito in modo perspicace nel dibattito sulla perdurante farsa del bilancio, e si rifà a Casablanca: “raccogliete i soliti sospetti”. Mi colpisce come una espressione perfetta di quello cui stiamo assistendo, sebbene mi stia concentrando su aspetti diversi della farsa.

Vedete, sino a pochi giorni fa gli imbonimenti di Trump erano un po’ diversi dai passati argomenti del Partito Repubblicano sugli sgravi fiscali, riguardando: (a) una insolita invocazione dei supposti benefici dei flussi in ingresso dei capitali per effetto dei tagli alle tasse sulle società; (b) menzogne complete di dimensioni che non hanno precedenti.

Ma ciò a cui stiamo assistendo ultimamente è una ripresa di una sorta di imbroglio più tradizionale, dell’epoca di Bush. Due temi in particolare. Il primo, la pretesa che i ricchi paghino praticamente per intero le tasse, cosicché naturalmente è ad essi che tocca il grosso degli sgravi fiscali. La seconda, gli argomenti su una ampia crescita, sul modello di Reagan.

Sul primo: potreste pensare che esista una qualche contraddizione tra l’incessante pretesa che questo sia uno sgravio fiscale per le classi medie e l’argomento secondo il quale i ricchi si meritano di fare la parte del leone. Ma tutta l’impresa si basa su un pensiero duplice.

In ogni modo, la pretesa su chi paga le tasse è molto familiare per noi che siamo del mestiere: si dice “tasse” quando in realtà quello che si intende è “tasse federali sul reddito”, come se queste fossero l’unica tassazione.

In realtà, mentre la tassa federale sul reddito è in effetti principalmente pagata da persone con alti redditi, essa è tutt’altro che l’unica tassa. Al livello federale, la maggioranza delle persone paga di più per le tasse sugli stipendi che per quelle sui redditi, e le tasse sugli stipendi sono effettivamente regressive. E anche le tasse degli Stati e delle comunità locali sono una grande faccenda, e sono certamente regressive. I tentativi di stimare la distribuzione complessiva delle tasse arrivano alla conclusione che il sistema non è particolarmente progressivo: i ricchi pagano molto in tasse ma ricevono anche molto di reddito, e le quote sono abbastanza in proporzione:

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Figura 1

Mentre, a proposito di Reagan: è vero, tagliò le tasse, e governò in un periodo con una crescita media superiore al 3 per cento. Ma sapete chi altri governò con una crescita superiore al 3 percento?

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Figura 2

Clinton probabilmente ve l’aspettavate – e Clinton, come è noto, elevò le tasse e ciononostante fu Presidente in una espansione che superò quella di Reagan. Carter può essere una sorpresa: ciò che pochi comprendono è che la prestazione complessiva con Carter fu abbastanza buona, ma la sua tempistica fu negativa: rapida crescita nei primi anni, recessione (e inflazione) alla fine.

In ogni caso, mantenendo Reagan o Clinton come punti di riferimento, una ragione per credere che una crescita del 3% sia a portata di mano trascura in grande fattore: la demografia. Con Reagan le ultime generazioni del boom demografico stavano appena entrando nei loro primi anni lavorativi; oggi ne siamo fuori. Jason Furman ha un bel grafico per illustrare esattamente quanto sia stato grande il cambiamento:

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Figura 3 ([1])

Dunque, chiunque invochi oggi l’epoca di Reagan per giustificare stravaganti previsioni è ignorante, disonesto o entrambe le cose.

In realtà, ovviamente, non dovrei essere sorpreso di vedere alcuni dei consolidati vecchi argomenti fasulli ricomparire nel nuovo assortimento di bugie. La mia esperienza nel corso del tempo è stata che la destra non rinuncia mai ad un argomento, persino se esso è in patente contraddizione con altri argomenti che stanno avanzando. Tirano tutto quello ce hanno sulla parete, nella speranza che qualcosa ci resti attaccato. E così è con il “dibattito” sulle tasse.

 

 

 

[1] Il titolo del grafico significa: “Crescita della popolazione civile non istituzionalizzata in età lavorativa (25-54 anni)”. Ovvero, sono escluse le persone che operano nelle forze armate o che sono ospiti di istituzioni statali come le carceri, i manicomi o simili.

 

 

 

 

 

Il programma di aiuti di Trump agli stranieri di 700 miliardi di dollari Paul Krugman (dal blog di Krugman, 25 ottobre 2017)

ottobre 29, 2017

 

Trump’s $700 Billion Foreign Aid Program

 OCTOBER 25, 2017 10:56 AM 

Paul Krugman

OK, this analysis from Steven M. Rosenthal at the Tax Policy Center is revelatory. It makes a simple point, but one everyone — myself included — somehow missed: the Trump tax plan is a huge giveaway to foreigners. Among other things, this means that the tax plan almost certainly reduces U.S. welfare even if you ignore distributional issues. This observation should transform discussion of the whole issue, at least among economists, although my cynical guess is that Republican-leaning academics will ignore it.

Some of what follows is wonkish, but I’ve left off the label because the basic point doesn’t require the technical analysis.

So here goes: the core of the Trump tax plan, to the extent we know what’s in it, is a huge cut in corporate taxes — about $2 trillion over the next 10 years, according to TPC’s best estimates. The administration would like you to believe that all of that tax cut will be passed on to higher wages, but this is overwhelmingly unlikely, especially in the short to medium run. In fact, the bulk of that tax cut will almost surely accrue to stockholders.

And now Rosenthal’s point: unlike the situation in previous tax reforms, we now live in a world where investment holdings are diversified across countries. Specifically, around 35 percent of U.S. equity is owned by foreign residents. So of that $2 trillion windfall, $700 billion goes to foreigners. Make non-US investors great again!

Note that you can’t wave this away by insisting that international investment considerations are somehow secondary — supposed effects on global capital flows are the whole administration rationale for the tax cut! Nor can you say that you only care about global welfare, not U.S. parochial issues — not under an administration that has adopted America First as its slogan.

So this is, or certainly should be, a very big deal.

Now for the moderately wonkish part.

I continue to find a simple MPK diagram the clearest way to think about these issues. So Figure 1 is a slightly modified version of the diagrams I’ve been using in previous posts. MPK is the marginal product of capital, r the pre-tax rate of return, declining in the capital stock K because of diminishing returns. I ignore monopoly profits. I assume that t is the rate of profit taxation, with r(1-t) therefore the after-tax rate of return. I make no assumptions about global rates of return, except to assume that in the relevant time horizon there’s no reason to expect enough capital inflows to equalize such rates.

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Figure 1

So Figure 1 shows what is, in effect, the conventional analysis. Suppose we cut the corporate tax rate. This will bring in some additional capital from abroad, but not enough, in practice, to keep the after-tax rate of return from rising. So there will be a direct revenue loss, some (although probably not much) being passed on to workers, but the rest showing up in higher corporate after-tax profits.

On the other hand, there will some inflow of foreign capital, and this new capital will pay taxes. These additional taxes represent an addition to overall U.S. national income, so that if you ignore distributional issues, the U.S. achieves a net gain.

But as Rosenthal points out, this misses an essential point of the situation: a lot — around 35 percent — of U.S. corporate profits actually accrue to foreign owners. This wouldn’t matter if all of the corporate tax cut were passed on to workers, but most of it won’t be, and the higher after-tax profits on foreign investments will — as shown in Figure 2 — be a windfall to foreign investors. And it’s one heck of a windfall: $700 billion over a decade.

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Figure 2

What this means, as I said, is that unless a lot of tax-paying capital comes in, the overall effect will be to make the U.S. as a whole poorer — even ignoring the fact that we’re cutting taxes for wealthy investors and will have to offset by, say, taking health care away from the poor.

Is it harsh to call the Trump tax plan a $700 billion foreign aid program? Yes. But it’s also completely fair.

 

Il programma di aiuti di Trump agli stranieri di 700 miliardi di dollari

Paul Krugman

Riconosco che questa analisi di Steven M. Rosenthal del Tax Policy Center è rivelatoria. Si occupa di un semplice aspetto, che tutti però – incluso il sottoscritto – s’erano persi: il piano fiscale di Trump è un grande regalo agli stranieri. Tra le altre cose, questo significa che il piano fiscale quasi certamente riduce il benessere degli Stati Uniti anche se si prescinde dalle tematiche distributive. Questa osservazione dovrebbe trasformare il dibattito sull’intera faccenda, almeno tra gli economisti, sebbene mi immagino scetticamente che gli accademici di tendenze repubblicane la ignoreranno.

Alcune delle cose che seguono sono per esperti, ma io ho trascurato di classificarla in tal modo perché l’aspetto principale non richiede analisi tecnica.

Dunque, ecco qua: il cuore del piano fiscale di Trump, nella misura in cui sappiamo cosa ci sia dentro, è una grande taglio fiscale alle imprese – circa due milia miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, secondo le stime più favorevoli del Tax Policy Center. Alla Amministrazione piacerebbe farvi credere che quel taglio fiscale sarà trasferito su più alti salari, ma questo è grandemente improbabile, specialmente nel periodo breve e medio. Di fatto, il grosso di quel taglio fiscale sarà quasi certamente raccolto dagli azionisti.

E adesso l’argomento di Rosenthal: diversamente dalla situazione di precedenti riforme fiscali, viviamo oggi in un mondo nel quale la proprietà degli investimenti è diversificata tra i vari paesi. In particolare, circa il 35 per cento del capitale azionario degli Stati Uniti è posseduto da residenti stranieri. Dunque di quella manna di duemila miliardi di dollari, 700 miliardi vanno agli stranieri. Rendiamo di nuovo grandi gli investitori non-statunitensi!

Si noti che non ci si può liberare di questo argomento sostenendo che le considerazioni sugli investimenti internazionali in qualche modo sono secondarie – gli effetti supposti sui flussi internazionali dei capitali sono l’intero argomento della Amministrazione per i tagli al fisco! Neanche si può dire che ci si preoccupa soltanto del benessere globale, e non delle tematiche provinciali degli Stati Uniti – non con una Amministrazione che ha adottato come suo slogan lo “American first”.

Dunque questo è, o dovrebbe essere certamente, un affare davvero grande.

Ed ora la parte moderatamente per esperti.

Continuo a ritenere che un semplice diagramma MPK sia il modo più chiaro per ragionare di questi temi. Così la Figura 1 è una versione leggermente modificata dei diagrammi che ho usato nei post precedenti. MPK è il prodotto marginale del capitale r il tasso di rendimento prima delle tasse, che cala nello stock di capitale K a causa dei rendimenti decrescenti [1].  Qua si ignorano i profitti di monopolio. Assumo che t è l’aliquota della tassa sui profitti, con r(1-t) che è pertanto il tasso di rendimento dopo le tasse. Non faccio alcuna ipotesi sui tassi globali di rendimento, se non considerando che nell’orizzonte temporale rilevante non c’è alcuna ragione di aspettarsi che i flussi in entrata dei capitali eguaglino tali tassi.

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Figura 1

Dunque, la Figura 1 mostra quello che è, in effetti, l’analisi convenzionale. Supponiamo di fare un taglio all’aliquota fiscale sulle imprese. Ci sarà così una perdita diretta delle entrate fiscali (sebbene probabilmente non grande), che in parte passerà sui lavoratori, ma per il resto si esprimerà in più elevati profitti delle imprese dopo le tasse.

D’altra parte ci saranno alcuni flussi in ingresso di capitali stranieri, e questo nuovo capitale pagherà le tasse. Queste tasse aggiuntive rappresentano una aggiunta al reddito nazionale complessivo degli Stati Uniti, cosicché se si ignorano i temi della distribuzione, gli Stati Uniti realizzeranno un guadagno netto.

Ma come mette in evidenza Rosenthal, in questo modo si perde un aspetto essenziale della situazione: un grande quantità dei profitti delle imprese statunitensi – attorno al 35 per cento – effettivamente matura a favore dei proprietari stranieri. Questo non sarebbe importante se tutto lo sgravio fiscale sulle imprese venisse trasferito sui lavoratori, ma in gran parte non sarà così e i profitti più elevati dopo le tasse – come mostrato nella Figura 2 – saranno una manna degli investitori stranieri. E che diavolo di manna: 700 miliardi in un decennio.

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Figura 2

Quello che questo comporta, come ho detto, è che a meno che non intervenga una grande quantità di capitale che paga le tasse, l’effetto generale sarà quello di rendere gli Stati Uniti nel loro complesso più poveri – anche a prescindere dal fatto che stiamo tagliando le tasse per gli investitori ricchi e che dovremo bilanciarlo, ad esempio, rendendo l’assistenza sanitaria indisponibile per i poveri.

È severo definire il piano fiscale di Trump un programma di aiuti di 700 miliardi di dollari agli stranieri? Sì, ma è anche completamente corretto.

 

 

 

[1] MPK è un acronimo per “produttività marginale del capitale”.

In termini informali, la produttività marginale di un fattore può definirsi come l’aumento di produzione ricollegabile all’impiego di una unità aggiuntiva di un fattore produttivo, lasciando invariati tutti gli altri input. Così, ad esempio, si supponga un’impresa che produce in un giorno 100 paia di scarpe utilizzando vari macchinari e 20 lavoratori. Se l’assunzione di un lavoratore aggiuntivo porta la produzione giornaliera a 104 paia di scarpe, la produttività marginale del lavoro sarà pari a 4. Wikipedia)

Al concetto di produttività marginale risulta strettamente collegato l’assunto di produttività marginale decrescente. In pratica si assume che la produttività marginale di un fattore, dopo un certo livello di impiego del fattore stesso, tenda a diminuire al crescere del livello assoluto di impiego del fattore. (Wikipedia)

 

 

 

 

 

 

La semplice e fuorviante analitica di uno sgravio fiscale sulle società (più per esperti) (dal blog di Krugman, 24 ottobre 2017)

ottobre 28, 2017

 

OCT 24 2:03 PM 

The Simple and Misleading Analytics of a Corporate Tax Cut (More Wonkery)

Paul Krugman

Figure slightly corrected

I should probably not be wasting time on this. But it seems as if practically the whole wing of more or less respectable conservative economists weighing in on this subject has made a basic algebraic/conceptual error. In itself, this error isn’t at all crucial to the policy debate. Other issues matter much more, notably taxes on monopoly profits, the fact that the US isn’t a small open economy, and the near-irrelevance of long-run equilibrium conclusions given the slow pace of adjustment imposed by imperfect integration of goods markets.

But arguably what we’re seeing here is something like the famous Excel programming error in the austerity debate: it’s not so much the substantive importance of the error as the evidence it provides of sloppy thinking, of conclusions adopted without checking because they promote a political agenda.

So the claim here is that the wage gains from a corporate tax cut exceed the revenue loss by a ratio that depends only on the initial tax rate, not at all on the degree to which capital can be substituted for labor, which in turn should (in this model) determine how much additional capital is drawn in by the tax cut. This feels wrong – and it is.

I continue to think that the clearest way to do this is with a simple marginal product of capital diagram. Here MPK is the marginal product of capital, aka the demand for capital, and r* is the world rate of return.

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But I do a slight transformation of variables. With perfect capital mobility, and in the long run, we must have

r(1-t) = r*

where r is the domestic rate of return and t the corporate tax rate. But we can rearrange this to write

r = r* + tau

where tau = r*t/(1-t), and corresponds to the specific tax on capital – that is, the tax paid per unit of capital.

Doing this makes things linear: we can represent a small tax change as d tau , etc.

Now I’m ready for my closeup. In the figure, I show the small-open-economy-long-run (i.e., silly) results of a small corporate tax cut, which can be represented by the areas of the two shaded rectangles (the little white triangle is second-order and can be ignored). There is a direct revenue loss, which is also the wage gain, equal to the wide, short rectangle: K dtau. Some of this revenue loss is offset by taxes on the additional capital that comes in: dK tau.

How big these secondary effects are, and therefore the ratio of wage gains to revenue losses, obviously – obviously! – depends on how much capital comes in, which depends on the sensitivity of MPK to the quantity of capital – on the slope of the MPK curve. If it’s nearly vertical, as Brad notes, there is essentially no offset.

So the claim that only the initial tax rate matters can’t be right. How could anyone imagine otherwise? I guess it’s a case of a result too good to check.

As I said, none of this is what’s really wrong with Hassettnomics. But it’s a revealing moment.

 

La semplice e fuorviante analitica di uno sgravio fiscale sulle società (più per esperti)

Paul Krugman 

Tabella leggermente corretta

Probabilmente non dovrei sprecare il mio tempo su questo. Ma sembra che praticamente l’intero settore degli economisti conservatori più o meno rispettabili che sta intervenendo su questo tema abbia fatto un fondamentale errore algebrico/concettuale. In sé questo errore non è affatto fondamentale per il dibattito politico. Altri temi contano molto di più. In particolare le tasse sui profitti di monopolio, il fatto che gli Stati Uniti non siano una piccola economia aperta, e la quasi irrilevanza delle conclusioni dell’equilibrio di lungo periodo, dato il ritmo lento delle correzioni imposto dall’imperfetta integrazione dei mercati dei beni.

Ma probabilmente stiamo assistendo a qualcosa di simile al famoso errore di programmazione di Excel nel dibattito sull’austerità: non è tanto la sostanziale importanza dell’errore, quanto la prova che esso fornisce di un pensiero sciatto, di conclusioni adottate senza controllare, perché esse promuovono un’agenda politica.

In questo caso, dunque, la pretesa è che i vantaggi salariali derivanti da un taglio alle tasse sulle società siano superiori alla perdita di gettito fiscale che dipende soltanto dalla aliquota fiscale iniziale, e non affatto dal grado nel quale il capitale può essere sostituito dal lavoro, il che a sua volta (in questo modello) dovrebbe determinare quanto capitale aggiuntivo è attratto dal taglio fiscale. Questo sembra sbagliato, e in effetti lo è.

Continuo a pensare che il modo più chiaro per realizzarlo sia un semplice diagramma sul prodotto marginale del capitale. In questo caso MPK è il prodotto marginale del capitale, ovvero la domanda di capitale, e r* è il tasso di rendimento globale.

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Ma faccio una leggera trasformazione delle variabili. Con una mobilità del capitale perfetta, e nel lungo periodo, dobbiamo avere

R(1-t) = r*

dove r è il tasso interno di rendimento e t l’aliquota fiscale sulle società. Ma possiamo rideterminarlo scrivendo

r = r* + tau

dove tau = r*t/(1-t), e corrisponde alla tassazione specifica sul capitale – ovvero, alla tassa pagata per unità di capitale.

Fare questo rende le cose lineari: possiamo rappresentare una piccola modifica alla tassa come d tau, etc.

Adesso sono pronto per il mio primo piano. Nella figura, mostro i risultati su una piccola-economia-aperta nel lungo periodo di un modesto sgravio fiscale sulle società (ovvero, una sciocchezza), che possono essere rappresentati dai due rettangoli sfumati (il piccolo rettangolo bianco è secondario e può essere ignorato). C’è una perdita diretta di entrate, che è anche il guadagno salariale, eguale al rettangolo largo e basso: K dtau. Una parte di questa perdita di entrate è bilanciata dal capitale aggiuntivo che interviene: dK tau.

Quanto siano grandi questi effetti secondari, e di conseguenza la percentuale degli incrementi salariali rispetto alle perdite di gettito, dipende ovviamente – ovviamente! – da quanto capitale viene attratto, che dipende dalla sensibilità di MPK alla quantità di capitale – dalla inclinazione della curva MPK. Se essa è quasi verticale, come osserva Brad DeLong, non c’è sostanzialmente bilanciamento.

Dunque, la pretesa che conti soltanto l’iniziale aliquota fiscale non può essere giusta. Come può qualcuno immaginare in modo diverso? Suppongo che si tratti di un caso di un risultato troppo buono da verificare.

Come ho detto, niente di tutto questo corrisponde a ciò che è davvero sbagliato nell’economia di Hassett. Ma è un passaggio rilevatore.

 

 

 

 

 

 

 

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