OCTOBER 21, 2017 4:07
Paul Krugman
Figure 1
I very much doubt that additional facts or analysis are going to matter much for the fate of the Trump tax cuts. It’s obvious to pretty much everyone – I suspect even those pushing the cuts – that they will confer huge benefits on the wealthy, do little if anything for the middle class, and greatly increase the deficit. Indeed, in some ways those are not only the likely results, but the goals: big benefits for the donor class, and future deficits that can be used to justify tearing new holes in the social safety net.
Still, there is a somewhat interesting discussion going on over the effects of corporate tax cuts in an open economy. This discussion is, however, made somewhat more confused – in my view – by putting it in the context of Ramsey models (for the uninitiated who ignored my warning and are still reading, these are models of optimal saving by immortal consumers.) Consumer saving doesn’t actually play the key role here; it’s all about international capital mobility and how it changes things.
And it seems to me that there’s a fairly simple geometric way to see where the optimistic view that cutting corporate taxes is great for wages comes from. Furthermore, once we have that picture straight, it becomes a lot easier to ask “What’s wrong with this picture?” (Answer: a lot).
So, envision a small open economy with a fixed labor force (because labor supply isn’t of the essence here) that can import from or export capital to the rest of the world. Let’s also ignore saving, which also isn’t of the essence: the stock of capital, we’ll assume, changes only through capital inflows or outflows.
Oh, and let’s provisionally assume perfect competition, so that factors of production are paid their marginal products.
Then we can represent the economy with Figure 1, which has the stock of capital on the horizontal axis and the rate of return on capital on the vertical axis. The curve MPK is the marginal product of capital, diminishing in the quantity of capital because of the fixed labor force. The area under MPK – the integral of the marginal products of successive units of capital – is the economy’s real GDP, its total output.
Initially we assume that the economy faces a given world rate of return r*. However, the government imposes a profits tax at a rate t, so that to achieve a post-tax return r* domestic capital must earn r*/(1-t). And in the initial equilibrium that requirement determines the size of the domestic capital stock.
We can read off the distribution of income in Figure 1 by looking at the areas of various rectangles. In the initial equilibrium real output is a+b+d. Of this, d is the after-tax return to capital, b is profit taxes, and a – the rest – is wages.
Now imagine eliminating the profits tax (we can also do a small cut, but that’s harder and this is already sufficiently wonky). In equilibrium, the capital stock rises by ∆K, and so does GDP, to a+b+c+d+e (of which, however, e is returns to foreign capital, so GNP doesn’t rise as much as GDP.) Profit taxes disappear: that’s a revenue loss of b. But wages rise to a+b+c, a gain of b+c – which is larger than the loss of revenue. Hurray for cutting corporate taxes!
OK, what’s wrong with this picture? Why shouldn’t we believe it? Four reasons I can think of.
First, a lot of what we tax with the corporate profits tax isn’t a return to capital; it’s monopoly profits and other kinds of rents. There is no reason to believe that these rents would be bid down by capital inflows, so the revenue loss on those taxes is just a revenue loss, not something shifted to wages.
Second, capital mobility is far from perfect.
Third, the US isn’t a small open economy – we can affect world rates of return. Between point #2 and this point, we surely face an upward-sloping supply curve of capital, which means that the wage gains from profit tax cuts are smaller.
Finally, a point I’ve been trying to make: what we’re showing here is long-run equilibrium, what happens after enough foreign capital has flowed in to equalize after-tax rates of return. How does that happen? You don’t roll factories across the border: capital inflows take place as the counterpart of trade deficits, which in turn have to be created by a temporarily overvalued real exchange rate.
And the kind of adjustment we’re talking about here would require moving a lot of capital, meaning very big trade deficits, meaning a strongly overvalued dollar, which would itself be a deterrent to capital inflows. So we’re talking about a slow process, taking place over many years. Long-run analysis is a very poor guide to the incidence of corporate taxes in any politically or policy-relevant time horizon. Over shorter horizons, you’d expect very little of the tax cut to be passed on to workers.
So that’s the story. As economic arguments go, it’s not even very hard.
Un po’ di fuorviante geometria sulle tasse delle società (per esperti)
Di Paul Krugman
Figura 1
Dubito davvero molto che fatti o analisi aggiuntive siano destinati a contare granché per il destino degli sgravi fiscali di Trump. È evidente per quasi tutti – sospetto persino per coloro che spingono per i tagli – che essi porteranno grandi vantaggi ai ricchi, faranno poco se non nulla per le classi medie e aumenteranno grandemente il deficit. In effetti, da molti punti di vista questi non sono solo i probabili risultati, ma gli obbiettivi: grandi vantaggi per la categoria dei finanziatori della politica e deficit futuri che possono essere utilizzati per accelerare nuovi buchi nella rete della sicurezza sociale.
Eppure c’è qualcosa di interessante nel dibattito che va avanti sugli effetti dei tagli del fisco sulle società in un’economia aperta. Questo dibattito, tuttavia, secondo il mio punto di vista, viene condotto in un modo piuttosto più confuso collocandolo nel contesto dei modelli di Ramsey (per i non esperti che hanno ignorato la mia messa in guardia e continuano a leggere, questi sono modelli di risparmio ottimale da parte di consumatori eterni). In realtà, i risparmi dei consumatori non giocano qua un ruolo centrale; tutto è relativo alla mobilità internazionale dei capitali e a come essa cambia le cose.
E mi pare che ci sia un modo geometrico abbastanza semplice per vedere da cosa derivi il punto di vista ottimistico secondo il quale tagliare le tasse alle società è una gran cosa per i salari. Inoltre, una volta che abbiamo quel quadro in ordine, diventa molto più facile chiedersi “Cosa è sbagliato in questa rappresentazione?” (la risposta è: molto).
Dunque, consideriamo una piccola economia aperta con una forza lavoro fissa (perché l’offerta di lavoro in questo caso non è sostanziale) che può importare dal o esportare al resto del mondo capitali. Possiamo anche ignorare i risparmi, che anch’essi non sono la sostanza: lo stock di capitale, ipotizzeremo, cambia soltanto attraverso i flussi in ingresso e in uscita dei capitali.
Inoltre, assumiamo provvisoriamente una competizione perfetta, cosicché i fattori della produzione siano ripagati dai loro prodotti marginali.
Possiamo allora rappresentare l’economia con la Figura 1, che ha lo stock di capitale sull’asse orizzontale e il tasso di rendimento sul capitale sull’asse verticale. La curva MPK è il prodotto marginale del capitale, che si riduce nella quantità di capitale a causa della stabilità della forza lavoro. L’area al di sotto di MPK – l’integrale dei prodotti marginali delle successive unità di capitale – è il PIL reale dell’economia, il suo prodotto totale.
Assumiamo inizialmente che l’economia si misuri con un dato tasso di rendimento globale r*. Tuttavia il Governo impone una tassa sui profitti ad una aliquota t, in modo tale che per ottenere un rendimento dopo le tasse r*, il capitale nazionale deve guadagnare r*/(1-t). E nell’equilibrio iniziale questa condizione determina la dimensione dello stock di capitale interno.
Possiamo leggere la distribuzione del reddito nella Figura 1 osservando le aree dei vari rettangoli. Nell’equilibrio iniziale la produzione reale è a+b+d. Di questo, d è il rendimento del capitale dopo le tasse, b sono le tasse sui profitti e il restante a sono i salari.
Ora, immaginiamo di eliminare la tassa sui profitti (possiamo anche fare un piccolo taglio, ma è più difficile e questo quadro è già sufficientemente per esperti). In equilibrio lo stock di capitale cresce secondo ∆K, e lo stesso fa il PIL sino a a+b+c+d+e (del quale, tuttavia, e è il rendimento del capitale straniero, cosicché il PNL non cresce altrettanto del PIL). Le tasse sui profitti scompaiono: quella è la perdita di entrate di b. Ma i salari crescono a a+b+c, un guadagno di b+c – che è maggiore della perdita delle entrate. Evviva i tagli alle tasse sulle imprese!
Va bene, ma cosa c’è di sbagliato in questa rappresentazione? Perché non dovremmo crederci? Posso elencare quattro motivi.
Il primo, una buona parte di quello che tassiamo con la tassa sui profitti delle società non è rendimento del capitale; sono profitti di monopolio e altri tipi di rendite. Non c’è nessuna ragione per credere che queste rendite verrebbero inibite dai flussi di capitale, dunque la perdita di entrate su queste tasse è solo una perdita di entrate, non qualcosa che si sposta sui salari.
In secondo luogo, la mobilità dei capitali è lungi dall’essere perfetta.
In terzo luogo, gli Stati Uniti non sono una piccola economia aperta – noi possiamo influenzare i tassi di rendimento globali. Considerata questo punto e il punto 2, certamente siamo di fronte ad una curva dell’offerta di capitali tendente verso l’alto, il che significa che i vantaggi salariali dai tagli fiscali sui profitti sono minori.
Infine, un aspetto che ho cercato di segnalare: quello che qu stiamo mostrando è un equilibrio di lungo periodo, che avviene dopo che un sufficiente capitale straniero è affluito allo scopo di eguagliare i tassi di rendimento dopo le tasse. Come avviene ciò? Non si debbono spostare gli stabilimenti oltre il confine: i flussi di capitale hanno luogo come controparte dei deficit commerciali, il che a sua volta deve essere determinato da un tasso di cambio temporaneamente sopravvalutato.
E il genere di correzione di cui stiamo qua ragionando richiederebbe di muovere grandi quantità di capitali, comportando deficit commerciali molto elevati, un dollaro fortemente sopravvalutato, che per suo conto sarebbe un deterrente ai flussi di capitali. Stiamo dunque parlando di un processo lento, che ha luogo nel corso di molti anni. L’analisi di lungo periodo è una guida assai modesta ai fini dell’incidenza delle tasse sulle società in ogni orizzonte temporale della politica o rilevante per i programmi politici. Negli orizzonti più brevi, ci si dovrebbe attendere che una parte minima degli sgravi fiscali si trasferisca sui lavoratori.
Questa è dunque la storia. Per come procedono i temi dell’economia, non è neppure molto difficile.
ottobre 27, 2017
OCT 15 12:32 PM
Paul Krugman
As many people have been pointing out, Trump’s decision to cancel cost-sharing subsidies for health plans is a rare policy trifecta: it raises prices, reduces the number of people with insurance, and costs taxpayers money. Nor is there evidence of any political strategy worthy of the name. This is policy driven by sheer spite: Trump can’t get what he wants from Congress, so he’s going to punish innocent people.
There are many lessons to be drawn from this sorry spectacle, but here’s one point I haven’t seen people making: my estimation of the odds that Trump will blow up the North American Free Trade Agreement have just gone way up.
Until now, I’ve been fairly complacent about NAFTA’s fate. It’s not that I imagine that Trump, or for that matter any of his senior advisers, has any understanding of what NAFTA does or the foreign-policy implications of tearing it down. But I thought sheer interest-group pressure would keep the agreement mostly intact. Thirty years of US-Mexico economic integration — because the process began before NAFTA, with the big Salinas trade liberalization — have created a deeply integrated North American manufacturing system. The US imports a lot from Mexico, but it exports a lot too, and much of the trade is in intermediate goods — Mexican components assembled into U.S.-assembled cars, U.S. textiles used to produce Mexican garments, and so on.
Decades of investments, not to mention choices by workers about where to live and what skills to develop, have been based around the assumption that this system will continue. So breaking it up would be hugely disruptive, and the losers would include major industrial players who tend to have the ear of even Republican administrations. So I thought we’d likely get a few cosmetic changes to the agreement, allowing Trump to declare victory and walk away.
But look what just happened on health care. Never mind the millions who may lose coverage: Trump demonstrably doesn’t care about them. But his decision will also cost insurers and health care providers, the kind of people you might expect him to listen to, billions. And he did it anyway, evidently out of sheer spite — perhaps made more intense by his sense that his presidency is rapidly failing.
So is it safe to assume that he won’t screw over much of U.S. manufacturing in the same way? At this point, the answer has to be “no.”
Look, at this point reasonable people are worried, I think rightly, that Trump’s rage and spite might lead him to start a war. So why not worry that he’ll start a trade war instead (or as well)?
Sussidi, dispetti e catene dell’offerta,
di Paul Krugman
Come molte persone hanno messo in evidenza, la decisione di Trump di cancellare i sussidi per la partecipazione ai costi dei programmi sanitari è una rara tripletta politica: alza i prezzi, riduce il numero degli assicurati e costa soldi ai contribuenti. Neanche c’è prova di una qualsiasi strategia politica degna di questo nome. Questa è una politica guidata da puri e semplici dispetti: Trump non può ottenere ciò che vuole dal Congresso e si appresta a punire persone innocenti.
Ci sono molte lezioni che si possono trarre da questo spiacevole spettacolo, ma c’è un aspetto che non ho visto segnalare: la mia stima sulle probabilità che Trump faccia saltare l’Accordo di Libero Commercio del Nord America è decisamente schizzata in alto.
Sino ad adesso, sono stato abbastanza ottimista sul destino del NAFTA. Non è che immaginassi che Trump, come del resto nessuno dei suoi consiglieri anziani, abbia una particolare comprensione della funzione del NAFTA o delle implicazioni di politica estera dell’abbatterlo. Ma pensavo che la pura e semplice spinta dei gruppi di interesse avrebbe lasciato intatto gran parte dell’accordo. Trent’anni di integrazione economica tra Stati Uniti e Messico – giacché il processo cominciò prima del NAFTA, con la grande liberalizzazione del commercio di Salinas – hanno creato un sistema manifatturiero nord-americano profondamente integrato. Gli Stati Uniti importano molto dal Messico, ma anche esportano molto, e molto del commercio è sui beni intermedi – componenti messicane assemblate negli Stati Uniti – autoveicoli assemblati, prodotti tessili statunitensi utilizzati per produrre indumenti messicani, e così via.
Decenni di investimenti, per non dire delle scelte dei lavoratori su dove vivere e su quali competenze sviluppare, si sono basati sull’assunto che questo sistema sarebbe continuato. Dunque interromperlo sarebbe largamente distruttivo, e tra i perdenti ci sarebbero protagonisti dell’industria che tendono ad esser ascoltati persino dalle Amministrazioni repubblicane. Dunque pensavo che avremmo probabilmente avuto alcune modifiche cosmetiche all’accordo, che consentissero a Trump di cantare vittoria e di mollare la presa.
Ma guardate che cosa è appena successo sulla assistenza sanitaria. Non sono importanti i milioni di persone che possono perdere la copertura assicurativa: è dimostrato che di loro Trump non si cura. Ma la sua decisione costerà miliardi anche agli assicuratori ed ai fornitori di assistenza sanitaria, il genere di persone che vi aspettereste che lui ascolti. E lo ha fatto comunque, evidentemente per puro e semplice dispetto – forse reso più intenso dalla sensazione che la sua Presidenza sia in caduta verticale.
Dunque, si può considerare con certezza che egli non vorrà fregare nello stesso modo gran parte del settore manifatturiero americano? A questo punto, la risposta deve essere negativa.
Si veda, al momento attuale persone ragionevoli sono preoccupate, penso giustamente, che la collera e il dispetto di Trump possano condurlo a avviare una guerra. Perché dunque non preoccuparsi che, invece, dia inizio ad una guerra commerciale (oppure, anche ad una guerra commerciale)?
[1] La tabella mostra gli andamenti del commercio statunitense con il Messico, importazioni ed esportazioni in percentuale del PIL.
ottobre 26, 2017
OCTOBER 14, 2017 4:23 PM
Paul Krugman
Modern conservatives have been lying about taxes pretty much from the beginning of their movement. Made-up sob stories about family farms broken up to pay inheritance taxes, magical claims about self-financing tax cuts, and so on go all the way back to the 1970s. But the selling of tax cuts under Trump has taken things to a whole new level, both in terms of the brazenness of the lies and their sheer number. Both the depth and the breadth of the dishonesty make it hard even for those of us who do this for a living to keep track.
In fact, when I set out to make a list of the bigger lies, I thought there would be six or seven, and was surprised to come up with ten.
So I thought it might be useful, both for myself and for others, to put together a crib sheet: a fairly long-form description of ten big lies Trump and allies are telling, what they’ve said, and how we know that they are lies. I’m probably missing some stuff, and for all I know some new big lie will have been tweeted out by the time this is posted. But we do what we can. So here we go.
Lie #1: America is the most highly-taxed country in the world
This is a Trump special: he’s said it many, many times, most recently just this past week. Each time, fact-checkers have piled on to point out that it’s false. Here’s taxes as a percentage of GDP, from the OECD:
Taxes as % of GDPCredit OECD
The blue bar is the US; the red bar the average for advanced countries.
Why does Trump keep repeating what even he has to know by now is a flat lie? I suspect it’s a power thing: he enjoys showing that he can lie repeatedly through his teeth, be caught red-handed in his lie again and again, and his followers will still believe him rather than the “fake news” media.
Lie #2: The estate tax is destroying farmers and truckers
Tales of struggling family farms disbanded because they can’t afford the taxes when the patriarch dies have flourished for decades, despite the absence of any examples. I don’t mean examples are rare: I mean that advocates of estate tax repeal haven’t been able to come up with a single example at least since the late 1970s, when exemption levels were raised to the equivalent of around $2 million in today’s dollars.
Lately Trump has added a new twist, portraying the estate tax as a terrible burden on hard-working truckers. For who among us doesn’t own an $11 million fleet of trucks?
The reality, as this graphic from the Center on Budget and Policy Priorities shows, is that only a small number of very large estates pay any tax at all, and only a tiny fraction of those tax-paying estates are small businesses or family farms:
In fact, since transportation and warehousing are only 3 percent of GDP and farming less than 1 percent, it seems quite possible that this year only 2 or 3 truckers and not a single farmer will pay any estate tax.
Lie #3: Taxation of pass-through entities is a burden on small business
Most businesses in the United States, at least for tax purposes, aren’t what we normally think of as corporations subject to profits taxes. Instead, they’re partnerships, sole proprietorships, and S corporations whose earnings are simply “passed through”: counted as part of their owners’ personal income and taxed accordingly.
Trump wants to change that, and let owners simply pay a 25 percent tax on the earnings of pass-through entities, with no further taxes owed. This is being billed as a reduction in the burden on hard-working small business owners.
But as the Tax Policy Center explains, many middle-income households who own pass-through entities aren’t running businesses; they generally derive only a small fraction of their income from these entities:
Rather, they may receive occasional income from the rental of a vacation home, or from the sale of odds and ends on eBay, that they report as business income.
High-income owners of such entities, by contrast, get a lot of money from them – but they’re not struggling small business people:
This high-income group is made up of doctors, lawyers, consultants, other professionals, and, at the very highest end, partners in hedge funds or other investment firms.
And these are, of course, the people who would gain massively from the Trump nelle loro socetà ‘pass-through’proposal. The vast majority of Americans are in a tax bracket of 15 percent or less, so even if they control a pass-through entity, the Trump tax break is worth nothing to them:
High-income individuals, however, would gain a lot by paying 25 percent instead of the much higher rates they pay at the margin – 39.6 percent right now. And they’d also have a strong incentive to rearrange their affairs so that more of their income pops up in their pass-throughs. This wouldn’t be small-business creation; it wouldn’t add jobs; it would just be tax avoidance. That’s what happened when Kansas tried something similar, and played a big role in the state’s fiscal disaster.
So this isn’t a tax break for small business, it’s a tax break for, surprise, wealthy individuals.
Lie #4: Cutting profits taxes really benefits workers
Tax incidence is a headache-inducing subject at best, and my sense is that even the tax policy experts have gotten behind the curve in thinking through the implications of global capital markets for the subject. But I think there’s a way to cut through at least some of the confusion.
Think about what happens if you cut the taxes on corporate profits. The immediate impact is that (duh) corporations have more money. Why would they spend that extra money on hiring more workers or increasing their wages?
Not, surely, out of the goodness of their hearts – and not in response to worker demands, because these days nobody cares what workers think.
Now, they might be inclined to invest more, increasing the demand for labor and therefore raising wages indirectly while competing pre-tax profits down. But there are a couple of major slippages in this story.
First, a lot of corporate profits aren’t a return on physical capital and won’t be competed down if capital gets cheaper. Apple, Google, Microsoft, and others derive their profits from technological advantages, brand name, and market power; cutting the taxes on those profits just leaves their owners with more money.
Second, to raise wages a tax cut must raise the overall stock of capital, which means it must lead to higher total investment spending. Where does the money for that increase in investment come from? The tax cuts are unlikely to raise national saving.
The money might come from abroad, via capital inflows. But the flip side of those capital inflows would be a bigger trade deficit – hardly what the proponents of tax cuts are advertising – and in any case running trade deficits on the required scale is a much more problematic thing than people seem to realize. The dollar would have to rise sharply – and the strength of the dollar would itself deter foreign investment, very much slowing the process of wage rise.
So for an extended period – at least 5 years, probably much more — cutting profits taxes is good for owners of corporations. Workers, not so much.
Lie #5: Repatriating overseas profits will create jobs
For tax reasons, corporations hold a lot of money in overseas tax shelters. Tax cutters always claim that lower rates and/or an amnesty will bring that money home and create a lot of jobs.
So, first of all, there isn’t really a Scrooge McDuck-type pile of cash hidden overseas, ready to be put to work if the taxman will let it. Those overseas accounts are just an accounting device, which have very little real effect. Many of the companies with big overseas hoards also have plenty of idle cash at home; what’s holding them back is a lack of perceived opportunities, not cash flow. And even those who don’t have surplus cash can easily borrow at near-record low interest rates; remember, they can always use the overseas cash to secure their loans.
And we have solid empirical evidence here. In 2004 the U.S. enacted the Homeland Investment Act, which offered a tax holiday for repatriation of foreign earnings by U.S. multinationals. Careful study of its effects tells us that
Repatriations did not lead to an increase in domestic investment, employment or R&D — even for the firms that lobbied for the tax holiday stating these intentions and for firms that appeared to be financially constrained. Instead, a $1 increase in repatriations was associated with an increase of almost $1 in payouts to shareholders.
Lie #6: This is not a tax cut for the rich
Trump says it isn’t, so that’s that, right? Oh, wait.
Actually, if you look at the major provisions of the Unified Framework, the big items are (i) Cuts in corporate taxes (ii) Pass-through tax cut (iii) elimination of the estate tax (iv) cut in top marginal rate. All these strongly favor very high incomes – and everything else is small change. Hence the Tax Policy Center estimate:
Administration flacks and defenders are accusing TPC of reaching conclusions without adequate information; but the administration is making lots of assertions about what its plan will do, with apparently no more information than the center. Furthermore, given the general shape of the plan there’s no way it can fail to be very much a gift to the already very rich.
Lie #7: It’s a big tax cut for the middle class
See Lie #6 above. All the big provisions benefit the rich, not the middle class. What’s left is mostly small change – and some of it, like ending deductibility of state and local taxes and other deductions, actually raises taxes on a substantial number of middle-class Americans.
In total, by 2027, according to TPC, 80 percent of the tax cut goes to the top 1 percent; only 12 percent to the middle three quintiles.
Lie #8: It won’t increase the deficit
OK, we’re looking at big cuts in corporate taxes, elimination of the estate tax, lower rates on high-income individuals, and a massive new tax-avoidance loophole. How can this not increase the budget deficit?
The only answer would be if the tax proposal eliminated vast swathes of the existing set of tax deductions, massively broadening the tax base. It doesn’t. The only even halfway biggish thing here is the state and local deductibility end – and that is already in very big political trouble. This is a multi-trillion-dollar budget buster, unless it summons up deep voodoo. But …
Lie #9: Cutting taxes will jump-start rapid growth
Insistence in the magical power of tax cuts is the ultimate zombie lie of U.S. policy discussion; nothing can kill it. And we know why: there’s a lot of money behind the proposition that great things will happen if you cut the donors’ taxes. It’s difficult to get a man to understand something when his salary depends on his not understanding it.
Still, for the record: Reagan cut taxes, and although his administration began with a terrible recession, there was a fast recovery thereafter. Some of us think Paul Volcker had more to do with both the recession and the recovery than anything coming from the White House; but in any case we have more evidence.
For Bill Clinton raised taxes, amid cries from the right that he would destroy the economy. Instead he presided over a boom that surpassed Reagan in every dimension. For what it’s worth, I don’t think this boom was Clinton’s doing. But it certainly refuted the proposition that cutting taxes is both necessary and sufficient for prosperity.
Then Bush the younger cut taxes, and there were many hosannahs about the “Bush boom.” What he actually got was a lackluster recovery, followed by an epic crash.
Finally, Obama inherited the aftermath of that crash, and despite scorched-earth opposition from Republicans the economy gradually clawed its way back. Then in 2013 Obama first raised taxes substantially, then implemented the Affordable Care Act, again amid cries of disaster from the right. The economy did fine.
Oh, and there were the recent state-level experiments. Sam Brownback slashed taxes in Kansas, promising an economic miracle; all he got was a fiscal crisis. Jerry Brown raised taxes in California, amid predictions of – you guessed it – disaster; the economy boomed, and the main problem is a housing shortage.
There is nothing, nothing at all, in this history that would make any open-minded person believe that the Trump tax plan will cause dramatically accelerated growth.
Lie #10: Tax cuts will pay for themselves
If tax cuts don’t generate an economic miracle, it’s hard for them to generate a revenue surge that makes up for lower rates. True, some hidden money may come out of the woodwork and show up as taxable income, even if GDP doesn’t rise. But this effect hasn’t historically been anywhere big enough to offset the direct losses from lower taxes. Reagan’s tax cuts led to deficits, Clinton’s tax hike to surpluses; Jerry Brown presided over California’s fiscal revitalization, Sam Brownback over a fiscal crisis that eventually prompted the legislature to overrule him and raise taxes again.
So there we are: ten big tax-cut lies. That was pretty exhausting, actually – and as I said, I’ve probably missed a few, and/or Trump will invent some new ones. But I hope this ends up being a useful reference.
Bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie, bugie.
di Paul Krugman
I conservatori moderni hanno detto bugie sulle tasse praticamente dagli inizi del loro movimento. Inventando racconti strappalacrime sulle aziende agricole familiari rovinate dal pagamento delle tasse di successione, pretese magiche sugli sgravi fiscali che si autofinanziano, e via di seguito sin dai lontani anni ’70. Ma rivendere gli sgravi fiscali sotto Trump ha portato le cose ad un livello interamente nuovo, sia in termini di sfrontatezza delle bugie che nei numeri nudi e crudi. La profondità e l’ampiezza della disonestà la rende ardua persino per quelli tra noi che si guadagnano il pane da una vita per tenerne traccia.
Di fatto, quando ho stabilito di fare una lista delle bugie più grandi, pensavo ce ne fossero sei o sette, e sono rimasto sorpreso di arrivare a dieci.
Dunque ho pensato che poteva risultare utile, per me e per gli altri, metterle assieme in un fogliettino: una descrizione in forma abbastanza estesa delle dieci grandi bugie che Trump e soci vengono raccontando, e del perché sappiamo che si tratta di bugie. Probabilmente mi sto dimenticando qualcosa, e per quanto ne so alcune nuove grandi bugie saranno twittate nel tempo nel quale questo articolo viene pubblicato. Ma facciamo quello che si può. Dunque arriviamo sino a questo punto.
Bugia Numero 1: l’America è il paese maggiormente tassato al mondo.
Questa è una specialità di Trump: l’ha detta moltissime volte, più recentemente soltanto nella settimana scorsa. Ogni volta, coloro che controllano la veridicità delle affermazioni hanno accumulato le loro obiezioni che mettevano in evidenza la sua falsità. Ecco, da fonte OCSE, le tasse come percentuale dei PIL:
Tasse come percentuale dei PIL
La riga blu è quella degli Stati Uniti; quella rossa è la media dei paesi avanzati.
Perché Trump continua a ripetere quello che persino lui a questo punto sa essere una completa menzogna? Io sospetto che sia una questione di potere: trae godimento dal dimostrare che può mentire a ripetizione sapendo di mentire, che può essere colto in flagrante in continuazione, e che i suoi seguaci continueranno a credere a lui anziché ai media delle “false notizie”.
Bugia Numero 2: la tassa sugli immobili sta distruggendo agricoltori e camionisti.
Racconti di aziende agricole familiari in difficoltà che vengono smembrate perché non possono permettersi di pagare le tasse quando muore il capofamiglia sono prosperati per decenni, nonostante l’assenza di qualsiasi esempio. Non voglio dire che gli esempi sono rari: voglio dire che i sostenitori della abrogazione della tassa di successione non sono stati capaci di venirsene fuori con un solo esempio almeno dagli ultimi anni ’70, quando i livelli di esenzione vennero portati all’equivalente di circa 2 milioni di dollari nel loro valore odierno.
Ultimamente Trump ha aggiunto un nuovo colpo di scena, dipingendo la tassa di successione come un peso terribile a carico dei camionisti che lavorano duramente. Perché chi tra di noi non possiede un parco di automezzi del valore di 11 milioni di dollari?
La realtà, come mostra questo grafico del Centro sulle Priorità del Bilancio e della Politica, è che soltanto un piccolo numero di molto grandi patrimoni immobiliari paga una qualche tassa, e soltanto una minuscola frazione di coloro che pagano le tasse sui patrimoni immobiliari sono piccole imprese o aziende agricole familiari:
Di fatto, dal momento che i trasporti e gli stoccaggi costituiscono soltanto il 3 per cento del PIL e l’agricoltura meno dell’1 per cento, sembra del tutto possibile che quest’anno soltanto 2 o 3 camionisti e neppure un singolo agricoltore pagheranno alcuna tassa patrimoniale.
Bugia Numero 3: la tassazione delle persone giuridiche che si trasferisce sulle persone fisiche [2] è un peso per le piccole imprese.
Gran parte delle imprese negli Stati Uniti, almeno per gli scopi fiscali, non sono quello che normalmente si intende per una società soggetta al pagamento delle tasse sui profitti. Sono piuttosto forme di collaborazione, possibili soltanto per le proprietà, e società di tipo S [3] i cui profitti sono semplicemente “trasferiti”: contabilizzati come parte del reddito personale dei loro proprietari e tassate di conseguenza.
Trump vuole cambiare, e consentire che i proprietari paghino semplicemente una tassa una tassa del 15/25 per cento sui profitti delle società “pass-through”, senza tasse ulteriori dovute. Questa viene pubblicizzata come una riduzione dell’onere sui proprietari delle piccole imprese che lavorano duramente.
Ma come spiega Tax Policy Center, molte famiglie di medio reddito che possiedono società “pass through” non gestiscono imprese; esse derivano generalmente soltanto una piccola quota del loro reddito da tali società giuridiche: piuttosto possono ricevere redditi occasionali dall’affitto di una casa per vacanze, o dalla vendita di piccole cose su eBay, che essi certificano come redditi di impresa.
I possessori di redditi elevati di tali società giuridiche, all’opposto, possono ricevere da esse grandi quantità di denaro, ma essi non sono persone di piccole imprese che fanno sacrifici: il gruppo degli alti redditi è composto da dottori, avvocati, consulenti, altri professionisti, e, alle estremità più elevate, da collaboratori degli ‘hedge fund’ o di altre imprese di investimenti.
E queste sono, naturalmente, le persone che guadagnerebbero massicciamente dalla proposta di Trump. La grande maggioranza degli americani sono in fasce di reddito fiscali del 15 per cento o meno, dunque, anche se controllano una società giuridica ‘pass-through’, gli sgravi fiscali di Trump per loro non hanno alcun valore:
Gli individui con alti redditi, tuttavia, guadagnerebbero molto pagando un 15/25 per cento, anziché le aliquote molto più alte che pagano al margine – in questo momento il 39,6 per cento. Ed essi avrebbero anche un forte incentivo a riorganizzare i loro affari in modo tale che una parte maggiore del loro reddito appaia nelle loro società ‘pass-through’. Non ci sarebbe creazione di piccole imprese e non si aggiungerebbero posti di lavoro: sarebbe soltanto elusione del fisco. È quello che è successo quando il Kansas ha provato qualcosa di simile, e ha giocato una grande ruolo nel disastro finanziario di quello Stato.
Dunque, non si tratta di uno sgravio fiscale sulle piccole imprese, è uno sgravio fiscale, sorpresa!, per le persone ricche.
Bugia Numero 4: il taglio alle tasse sui profitti è davvero un vantaggio per i lavoratori.
Nel migliore dei casi l’incidenza del fisco è un tema che provoca mal di testa, e la mia sensazione è che persino gli esperti di politica fiscale siano rimasti indietro nel riflettere su quel tema nei termini dei mercati globali dei capitali. Ma penso ci sia un modo per eliminare almeno in parte la confusione.
Si pensi a quello che accade quando si tagliano le tasse sui profitti delle società. L’impatto immediato è che quelle (diciamo così) società hanno più soldi. Perché dovrebbero spendere quei soldi aggiuntivi per assumere più lavoratori o aumentare i loro salari?
Certamente, non per la loro bontà – e non in risposta alle richieste dei lavoratori, perché di questi tempi nessuno si cura di cosa pensano i lavoratori.
Ora, esse potrebbero essere tentate di investire maggiormente, aumentando la domanda di lavoro e quindi elevando indirettamente i salari mentre competono per abbassare i profitti prima delle tasse. Ma in questo racconto ci sono un paio di importanti inconvenienti.
Il primo, molti dei profitti delle società non sono un rendimento del capitale fisico e non ci sarà competizione al ribasso se il capitale diventa più conveniente. Apple, Google, Microsoft ed altri derivano i loro profitti dai vantaggi della tecnologia, dal nome del marchio e dal potere sul mercato; tagliare le tasse su quei profitti lascia soltanto più soldi in mano ai proprietari.
In secondo luogo, per elevare i salari un taglio delle tasse deve elevare lo stock complessivo di capitale, il che significa che deve condurre ad una spesa più alta di investimenti. Da dove vengono quei soldi per tale aumento degli investimenti? Gli sgravi fiscali è improbabile che innalzino il risparmio nazionale.
Il denaro potrebbe venire dall’estero, attraverso i flussi dei capitali. Ma l’altra faccia di quei flussi di capitali sarebbe un deficit commerciale maggiore – e in ogni caso gestire deficit commerciali della dimensione richiesta è una cosa molto più problematica di quanto la gente sembra comprendere. Il dollaro si rivaluterebbe bruscamente – e la forza del dollaro di per sé scoraggerebbe investimenti stranieri, rallentando di molto il processo degli aumenti di salario.
Per un periodo prolungato – almeno cinque anni, forse molto di più – tagliare le tasse sui profitti è una buona soluzione per i proprietari delle società. Non altrettanto per i lavoratori.
Bugia Numero 5: rimpatriar i profitti dall’estero creerà posti di lavoro.
Per ragioni fiscali, le società detengono grandi quantità di denaro nei rifugi fiscali all’estero. Coloro che si propongono di tagliare le tasse argomentano sempre che aliquote più basse e/o un’amnistia riporterebbero in patria denaro e creerebbero grandi quantità di posti di lavoro.
Dunque, prima di tutto, in realtà non ci sono pile di contanti del genere di quelle di Scrooge o di Paperone nascoste all’estero, pronte ad essere messe al lavoro se gli uomini del fisco lo consentiranno. Queste contabilità estere sono solo degli espedienti, che hanno effetti reali molto modesti. Molte delle società con grandi scorte di denaro all’estero hanno anche grandi quantità di contante inutilizzato all’interno; quello che li trattiene dal portarli indietro è una mancanza di opportunità percepite, non flussi di cassa. E persino coloro che non hanno avanzo di contante possono facilmente prenderli a prestito a tassi di interesse ai minimi storici; si ricordi che essi possono sempre utilizzare il contante all’estero per assicurare i loro prestiti.
E in questo caso abbiamo solide prove empiriche. Nel 2004 gli Stati Uniti approvarono la Legge sugli Investimenti in Patria, che offriva una sospensione fiscale per il rimpatrio di profitti all’estero da parte delle multinazionali statunitensi. Uno studio scrupoloso dei suoi effetti ci dice che i rimpatri non portarono ad un aumento di investimenti nazionali, in occupazione e in Ricerca&Sviluppo – persino le imprese che fecero attività lobbistica per la sospensione del fisco che dichiararono queste intenzioni e le imprese che sembravano essere costrette da ragioni finanziarie. Invece, ad un dollaro di rimpatri corrispose un aumento di quasi un dollaro di pagamenti agli azionisti.
Bugia Numero 6: questi non sono tagli fiscali per i ricchi.
Trump dice che non è così, dunque punto e basta. Ma aspettate.
Per la verità, se si guarda ai dati forniti della Schema Unificato, le voci principali sono: (i) tagli nelle tasse delle società, (ii) sgravi fiscali nel settore delle ‘pass-through’; (iii) eliminazione delle tasse sul patrimonio; (iv) tagli sull’aliquota marginale più alta. Tutte queste favoriscono fortemente i redditi molto elevati – e tutto il resto sono piccoli cambiamenti. Da ciò la stima di Tax Policy Center:
Gli addetti stampa e coloro che sostengono l’Amministrazione stanno accusando Tax Policy Center di pervenire a conclusioni senza adeguate informazioni; ma l’Amministrazione sta avanzando una gran quantità di giudizi su quello che provocherà il suo piano, in apparenza senza nessuna informazione in più di quelle del Centro. Inoltre, data l’impostazione generale del piano, non c’è alcuna possibilità che esso non si risolva in modo preponderante in un regalo per coloro che sono già ricchissimi.
Bugia Numero 7: è un grande sgravio fiscale per le classi medie.
Si torni alla Bugia Numero 6. Tutte le grandi misure vanno a beneficio dei ricchi, non delle classi medie. Quello che resta sono soprattutto modifiche minime – e alcune di esse, come la fine della deducibilità delle tasse degli Stati e locali ed altre deduzioni, effettivamente aumenta le tasse su una quota sostanziale di americani delle classi medie.
In totale, secondo il TPC, con il 2027 l’80 per cento degli sgravi fiscali va all’1 per cento dei più ricchi; soltanto il 12 per cento ai tre quintili intermedi.
Bugia Numero 8: non aumenterà il deficit.
Siamo seri: stiamo osservando grandi tagli nelle tasse sulle società, l’eliminazione delle tasse sui patrimoni, aliquote più basse sugli individui con redditi elevati, e una scappatoia per nuove elusioni del fisco. Come è possibile che tutto questo non aumenti il deficit del bilancio?
L’unica risposta sarebbe se la proposta fiscale eliminasse vasti varchi del complesso in essere di deduzioni fiscali, aumentando massicciamente la base dell’imponibile fiscale. Non è così. In questo caso, la sola cosa peraltro mediocremente piuttosto rilevante è la fine della deducibilità delle tasse degli Stati e delle comunità locali – e quella è già in guai politici assai grandi. Questo è un colpo al bilancio di molte migliaia di miliardi di dollari, a meno che non si voglia riportare a galla l’economa magica del profondo voodoo. Ma …
Bugia Numero 9: tagliare le tasse darà un nuovo impulso ad una crescita rapida.
L’insistenza sul potere magico degli sgravi fiscali è la bugia zombie decisiva del dibattito politico statunitense: nessuno può sopprimerla. E sappiamo perché: c’è una grande quantità di soldi dietro l’idea che accadranno grandi cose se si tagliano le tasse ai finanziatori della politica. È difficile ottenere che un uomo capisca una qualunque cosa, quando il suo salario dipende dal non capirla.
Eppure, per memoria: Reagan tagliò le tasse, e sebbene la sua Amministrazione cominciò con una terribile recessione, ci fu successivamente una rapida ripresa. Alcuni di noi pensano che Paul Volcker abbia avuto a che fare sia con la recessione che con la ripresa molto di più di tutto quello che proveniva dalla Casa Bianca; ma in ogni caso abbiamo maggiori testimonianze.
Perché Bill Clinton alzò le tasse, in mezzo agli strepiti della destra secondo i quali avrebbe distrutto l’economia. Invece egli fu Presidente nel corso di una espansione che superò Reagan da ogni punto di vista. Per quello che può valere, io non penso che quella espansione fosse opera di Clinton. Ma egli certamente confutò l’idea che tagliare le tasse sia necessario e sufficiente per la prosperità. Poi Bush figlio tagliò le tasse, e ci fu molta esaltazione per il “boom di Bush”. Quello che effettivamente avemmo fu una ripresa fiacca, seguita da un tracollo epico.
Infine, Obama ereditò le conseguenze di quel tracollo, e nonostante l’opposizione da terra bruciata dei repubblicani, l’economia gradualmente recuperò il suo passo. Poi nel 2013 Obama anzitutto alzò le tasse in modo sostanziale, poi mese in pratica la Legge sulla Assistenza Sostenibile, ancora nel mezzo di strepiti sul disastro da parte della destra. L’economia reagì bene.
Infine, ci sono stati i recenti esperimenti al livello degli Stati. Sam Brownback ha tagliato le tasse nel Kansas, promettendo un miracolo economico; tutto quello che ha ottenuto è stata una crisi delle finanze pubbliche. Jerry Brown ha elevato le tasse in California, in mezzo – come vi potete immaginare – a previsioni di disastro; l’economia ha fatto un salto, e il principale problema è una mancanza di alloggi [5].
In questa storia non c’è niente, assolutamente niente, che porterebbe una persona non dogmatica a credere che il piano fiscale di Trump possa provocare una crescita spettacolarmente accelerata.
Bugia Numero 10: gli sgravi fiscali si ripagheranno da soli.
Se gli sgravi fiscali non generano un miracolo economico, è difficile che essi generino una crescita delle entrate che rimedi ad aliquote più basse. È vero, un po’ di soldi nascosti possono saltar fuori e mettere in evidenza un reddito tassabile, anche se il PIL non cresce. Ma storicamente questo effetto non è stato da nessuna parte abbastanza grande da bilanciare le perdite dirette derivanti da tasse più basse. Gli sgravi fiscali di Reagan portarono ai deficit, i rialzi delle tasse di Clinton ai surplus; Jerry Brown ha governato una rivitalizzazione della finanza pubblica della California, Sam Brownback una crisi della finanza pubblica che alla fine ha indotto i legislatori a decidere contro di lui e ad alzare nuovamente le tasse.
Dunque siamo a questo punto: dieci grandi bugie sugli sgravi fiscali. Effettivamente, un quadro abbastanza esauriente – e come ho detto, probabilmente ne ho dimenticati alcuni, e/o Trump ne inventerà di nuovi. Ma spero che alla fine questo diventi un riferimento utile.
[1] La Tabella spiega che quest’anno soltanto 50 piccole imprese pagheranno una tassa patrimoniale. Si tratterà di 5.200 patrimoni sui 2 milioni e 700 mila patrimoni della nazione, pari allo 0,2 per cento del totale. La ragione di tale percentuale minuscola è che con il tempo i patrimoni di valore piccolo e medio sono stati esentati.
[2] Una “pass-through entity” (oppure “flow-through entity”) è una persona giuridica nella quale il reddito fluisce agli investitori o ai proprietari, che dunque pagano le tasse in una unica soluzione e non distintamente come persone fisiche e come società.
[3] È una categoria della legislazione fiscale americana.
[4] La tabella mostra le previsioni del Tax Policy Center sugli effetti del piano di Trump per il prossimo anno e per la fine del prossimo decennio. Come si vede per i redditi bassi e medi (i primi sei quintili) le differenze saranno minime, inferiori all’1 per cento (quando non saranno negative, nel corso del decennio), mentre per i redditi più elevati – in particolare per l’1 per cento dei più ricchi – ci saranno modifiche favorevoli dell’ordine del 10 per cento.
[5] Sam Brownback è il Governatore repubblicano del Kansas: convintissimo sostenitore dell’idea del cosiddetto “trickle-down” – ovvero degli effetti a cascata degli sgravi fiscali sui più ricchi – alla fine è stato contraddetto da parte dei suoi stessi colleghi di Partito, quando lo Stato è finito in una aperta crisi finanziaria. Jerry Brown è invece Governatore democratico della California; partita da condizioni molto problematiche, la California è poi entrata in una tendenza assai positiva.
ottobre 26, 2017
OCT 11 8:34 AM
Paul Krugman
Brad Setser has a really interesting post on Puerto Rico’s balance of payments – unlike states, the territory keeps track of exports and imports both to the U.S. mainland and the rest of the world. As it happens, his analysis bears pretty much directly on Howard Gleckman’s critique of Kevin Hassett’s disgraceful performance at the Tax Policy Center.
As Setser notes, Puerto Rico used to be a major tax haven for manufacturing corporations. Much of this tax advantage has now ended, but its legacy is still visible in trade statistics. Specifically, PR runs, on paper, a huge trade surplus in pharmaceuticals – $30 billion a year, almost half the island’s GNP. Yes, “N” not “D” – very important in this case, as in Ireland.
But the pharma surplus is basically a phantom, driven by transfer pricing: pharma subsidiaries in Ireland charge themselves low prices on inputs they buy from their overseas subsidiaries, package them, then charge themselves high prices on the medicine they sell to, yes, their overseas subsidiaries. The result is that measured profits pop up in Puerto Rico – profits that are then paid out in investment income to non-PR residents. So this trade surplus does nothing for PR jobs or income.
What does this have to do with Hassett? Well, he told TPC – while insulting the institution and impugning its integrity – that transfer pricing driven by high nominal US corporate taxes is responsible for half the U.S. trade deficit, and that cutting these taxes would therefore be a big job creator. Never mind whether his estimate is right: even if it were, as Gleckman says, changing the transfer pricing would affect the accounting, but nothing real. It would be exactly like Puerto Rico’s pharma surplus: a phantom improvement, statistically impressive to the uninformed but signifying nothing.
Porto Rico, Trump e le tasse
di Paul Krugman
Brad Setser pubblica un post davvero interessante sulla bilancia dei pagamenti di Porto Rico – diversamente dagli altri Stati, quel territorio continua a tener traccia delle esportazioni e delle importazioni sia con la casa madre degli Stati Uniti che con il resto del mondo. Si dà il caso che la sua analisi si fondi abbastanza direttamente sulla critica di Howard Gleckman della prestazione disgraziata di Kevin Hassett al Tax Policy Center.
Come osserva Setser, Porto Rico era solito costituire un importante rifugio fiscale per le imprese manifatturiere. Buona parte di quel vantaggio fiscale è adesso terminata, ma la sua eredità è ancora visibile nelle statistiche commerciali. In particolare, Porto Rico gestisce, sulla carta, un vasto avanzo commerciale sui prodotti farmaceutici – 30 miliardi di dollari all’anno, quasi la metà del Prodotto Nazionale Lordo dell’isola. Sì, Prodotto Nazionale e non Prodotto Interno [1] – in questo caso la differenza è molto importante, come in Irlanda.
Ma il surplus farmaceutico è fondamentalmente un fantasma, provocato dal prezzo dei trasferimenti: le imprese sussidiarie farmaceutiche in Irlanda caricano su di sé i bassi prezzi sugli apporti che acquistano dalle loro sussidiarie oltreoceano, li impacchettano, poi caricano esse stesse alti prezzi sulle medicine che rivendono proprio alle loro sussidiarie oltreoceano. Il risultato è che i profitti accertati emergono a Porto Rico – profitti che vengono pagati in reddito di investimenti ai non residenti in Porto Rico. Dunque, questo avanzo commerciale non produce niente per i posti di lavoro i redditi di Porto Rico.
Che cosa ha a che fare tutto questo con Hasset? Ebbene, egli ha detto al Tax Policy Center – in mezzo a insulti a quell’Istituto e a obiezioni alla sua integrità morale – che il prezzo dei trasferimenti spinto da alte tasse nominali delle società statunitensi è responsabile per la metà del deficit commerciale, e che tagliare quelle tasse sarebbe di conseguenza una grande creazione di posti di lavoro. Non importa se questa stima sia giusta: anche se lo fosse, come dice Gleckman, modificare i prezzi di trasferimento influenzerebbe la contabilità, non la realtà. Sarebbe esattamente come l’avanzo sui prodotti farmaceutici: un miglioramento fantasma, statisticamente impressionante per coloro che non sono informati, ma di nessun significato.
[1] Il PNL è pari al PIL (il valore dei beni e servizi prodotti in un paese), più i flussi provenienti dagli asset all’estero dei cittadini di quel paese.
ottobre 20, 2017
OCTOBER 5, 2017 7:25 PM
Paul Krugman
These days, what passes for policymaking in America manages to be simultaneously farcical and sinister, and the evil-clown aspects extend into the oddest places. Hence the tale of the Mnuchin Treasury’s incompetent attempt to suppress an internal analysis – to send it down the mnemory hole? — on the incidence of corporate taxation. This paper reached the inconvenient conclusion that most of the tax stays where it’s applied – with the owners of corporate capital – with only a small share falling indirectly on workers. In general, attempts to suppress stuff like this fail thanks to leaks. But in this case the paper has already been published in a peer-reviewed journal, so that even if the Treasury were locked down tight everyone could read it anyway.
But let’s leave that story on one side; I want to talk a bit about the actual economics of corporate tax incidence. This is not usually my subject, but there’s an intersection with international economics that seems relevant, and which – as far as I can tell, although I’m not as familiar as I should be with the literature – isn’t being appreciated in the current discussion. Specifically: while global capital markets should tend to equalize after-tax rates of return in the long run, the imperfect integration of goods markets implies that the long run is pretty darn long – not enough for us to be all dead, but long enough that return equalization should take decades.
Oh, and a warning: I try to tell readers when something is going to be wonkish and incomprehensible, but this is going to be really, really, really wonkish and incomprehensible, unless you spent years doing perfect-foresight dynamic models. Actually, maybe this is being written for Olivier Blanchard and three or four other people. Whatever.
Anyway, to set the stage: this whole literature goes back to Harberger, who envisaged a closed economy with a fixed stock of capital. He showed that in such an economy a tax on profits would fall on capital, basically because the supply of capital is inelastic.
The modern counterargument is that we now live in a world of internationally mobile capital; this means that for any individual country the supply of capital, far from being fixed, is highly elastic, because capital can move in or out. In fact, for a small economy facing perfect capital markets, the elasticity of capital supply is infinite. This means that the after-tax return on capital is fixed, so any changes in corporate tax rates must fall on other factors, i.e. labor.
Most analysis of tax incidence nonetheless allocates only a small fraction of the corporate tax to labor, for three reasons.
First, a lot of corporate profits aren’t a return to capital: they’re rents on monopoly power, brand value, technological advantages, and so on. Inflows of capital won’t compete those profits away, so the international capital market isn’t relevant to the incidence of taxes on those profits.
Second, America isn’t a small country. We are, instead, big enough to have a strong effect on worldwide rates of return.
Third, imperfect integration of both capital and goods markets is a reality. Rates of return probably aren’t equalized even in the long run; anyway, if a corporate tax cut brings in more capital, this will drive down the relative price of US products, which will limit the return on additional capital and hence keep workers from getting the full benefit of the tax cut.
I’m fine with all that. But I think it’s also important to ask exactly how inflows of capital that equalize rates of return are supposed to happen. Once you ask that question, you see that long run analysis may not be good enough for policy purposes.
Suppose the US were to cut corporate tax rates. This would initially raise the after-tax rate of return on capital, which would provide an incentive for foreign capital (or overseas assets of US firms) to move into the country. This would, in turn, drive the after-tax rate of return back down. How would it do this? By increasing the U.S. capital stock, reducing the marginal product of capital (and raising that of labor).
But how would the capital stock be increased? One does not simply unbolt machines in other countries from the floor and roll them into America the next week. What we’re talking about is a process in which U.S. investment exceeds U.S. savings – that is, we run current account deficits – which increases our capital stock over time.
There’s an immediate irony here: the rhetoric calling for corporate tax cuts is all about “competitiveness”, yet the initial impact would be bigger trade deficits. But never mind that: think about what it takes to have a bigger trade deficit.
I’ve spent three decades pointing out the fallacy of the doctrine of immaculate transfer – the notion that international flows of capital translate directly into trade imbalances. Exporters and importers don’t know or care about S-I; they respond to signals from prices and costs. A capital inflow creates a trade deficit by driving up the real exchange rate, making your goods and services less competitive. And because markets for goods and services are still very imperfectly integrated – most of GDP isn’t tradable at all – it takes large signals, big moves in the real exchange rate, to cause significant changes in the current account balance.
So, a U.S. corporate tax cut should lead to a stronger dollar, which affects the current account deficit that is the counterpart of an inflow of capital. But how much stronger does the dollar get? The answer, familiar to international macroeconomists, is that the dollar rises above its long-run expected value, so that people expect it to decline in the future – and the extent of the rise is determined by how high the dollar has to go so that expected depreciation outweighs the rise in after-tax returns compared with other countries.
The point is that the knowledge that we’re looking at a one-time adjustment limits how high the dollar can go, which limits the size of the current account deficit, which limits the rate at which the U.S. capital stock can expand, which slows the process of return equalization. So the long run in which returns are equalized can be quite long indeed.
Suppose we assume rational expectations. (I know, I know – but for a benchmark it may be useful.) Then we can think of the adjustment process I’m describing as a little dynamic system in e, the exchange rate, and K, the capital stock. High K means a low rate of return compared with r*, the foreign rate of return, so e must be rising. High e means large trade deficits. The phase diagram looks like this:
where the saddle path is the unique path along which expectations about the future exchange rate are fulfilled. You can solve for that path by linearizing around a steady state; the solutions to that system have two roots, one negative, one positive, and the negative root tells you the rate of convergence along the saddle path.
At any given time the capital stock K is given; the exchange rate e jumps to put the system on the saddle path, and then it converges over time to the long run equilibrium.
So the story of a corporate tax cut is as follows: initially we’re at a point like A. Then the tax cut raises the long-run equilibrium capital stock. But it takes time to get there: first we get a currency appreciation, as shown by the jump from A to B, and then over time we converge to C.
The question is, how fast is this convergence? And we do have enough information to put in some stylized-fact numbers. I assume Cobb-Douglas production, with a capital share of 0.3. The capital-output ratio is about 3, implying an initial rate of return of 0.1. And the modelers at the Fed tell us that the impact of the exchange rate on net exports is about 0.15 – that is, a 10 percent rise in the dollar widens the trade deficit by about 1.5 percent of GDP.
When I plug these numbers in, assuming I’ve done the algebra right, I get a rate of convergence of .059 – that is, about 6 percent of the deviation from the long run eliminated each year. That’s pretty slow: it will take a dozen years to achieve even half the adjustment to the long run.
What this says to me is that openness to world capital markets makes a lot less difference to tax incidence than people seem to think in the short run, and even in the medium run. If you’re trying to assess the effects of tax policies over the next decade, a closed-economy analysis is probably closer to the truth than one that assumes instant equalization of returns across nations.
Il problema del trasferimento e l’incidenza del fisco (follemente per esperti)
di Paul Krugman
Di questi tempi, ciò che passa per azione politica in America riesce ad essere nello stesso momento farsesco e sinistro, e il clown malvagio ci si aspetta che si manifesti nei posti più diversi.
Ne consegue il racconto del tentativo incompetente del Segretario al Tesoro Mnuchin di sopprimere una analisi interna sull’incidenza della tassa sulle società (per rinchiuderla in un buco della ‘mnemoria’) [1]? Questo saggio ha raggiunto la scomoda conclusione che la gran parte delle tasse stanno dove sono applicate – con i possessori del capitale societario – con solo una piccola quota che ricade indirettamente sui lavoratori. In generale, i tentativi di sopprimere cose come questa falliscono grazie a fughe di notizie. Ma in questo caso il saggio è già stato pubblicato su una pubblicazione scientifica, cosicché persino se il Tesoro fosse strettamente blindato, ognuno poteva comunque leggerlo.
Ma lasciamo stare quella storia; voglio parlare un po’ della effettiva economia della incidenza delle tasse delle società. Solitamente non è il mio tema, ma c’è una connessione con l’economia internazionale che sembra rilevante, e che – per quanto posso dire, sebbene non sia così familiare come dovrei essere con la letteratura di settore – non viene apprezzata nel dibattito in corso. In particolare: mentre i mercati globali dei capitali dovrebbero tendere nel lungo periodo ad omogeneizzare i tassi di rendimento dopo le tasse, l’integrazione imperfetta dei mercati dei prodotti implica che il lungo periodo è per davvero piuttosto lungo – non abbastanza perché si sia tutti morti, ma lungo abbastanza perché l’omogeneizzazione dovrebbe prendere decenni.
Inoltre, una messa in guardia: io cerco di avvertire i lettori quando qualcosa è destinato ad essere difficile e incomprensibile, ma questo post è destinato ad essere enormemente difficile e incomprensibile, se non si sono spesi anni a realizzare modelli dinamici di perfetta previsione. In realtà, forse lo sto scrivendo per Olivier Blanchard ed altre tre o quattro persone. Pazienza.
In ogni modo, fissiamo la scena: tutta la letteratura risale sino a Harberger, che si immaginava un’economia chiusa con uno stock di capitali fisso. Egli dimostrava che in una tale economia una tassa sui profitti sarebbe ricaduta sul capitale, fondamentalmente perché l’offerta di capitale è anelastica.
L’attuale obiezione è che adesso viviamo in un mondo di capitali mobile su scala internazionale; questo comporta che per ogni paese singolo l’offerta di capitale, lungi dall’essere fissa, è altamente elastica, giacché il capitale può entrare o uscire. Di fatto, per una piccola economia che si misura con mercati di capitali perfetti, l’elasticità dell’offerta di capitale è infinita. Questo comporta che il rendimento del capitale dopo le tasse è fisso, cosicché ogni cambiamento nelle aliquote fiscali societarie si scarica su altri fattori, ad esempio sul lavoro.
Cionondimeno, la maggioranza delle analisi sull’incidenza del fisco alloca soltanto una piccola frazione delle tasse delle società sul lavoro, per tre ragioni. La prima, gran parte dei profitti delle società non sono rendimenti del capitale: sono rendite sul potere di monopolio, valore dei marchi, progressi tecnologici e così via. I flussi di capitale non sono in concorrenza con quei profitti, dunque il mercato internazionale del capitale non è rilevante quanto all’incidenza del fisco su quei profitti.
La seconda, l’America non è un piccolo paese. Siamo abbastanza grandi, invece, da avere un forte effetto sui tassi di rendimento mondiali.
La terza, l’integrazione imperfetta sia dei mercati dei capitali che dei beni è una realtà. I tassi di rendimento probabilmente non saranno omogeneizzati neppure nel lungo termine; in ogni modo, se un taglio sulle tasse delle società introduce maggiore capitale, questo spingerà in basso i prezzi relativi dei prodotti statunitensi, e di conseguenza impedirà ai lavoratori di godere il pieno beneficio di quegli sgravi fiscali.
Con tutto questo sono d’accordo. Ma penso sia anche importante chiedersi come si ritiene che avvenga esattamente che i flussi di capitale omogeinizzino i tassi di rendimento. Una volta che vi ponete quella domanda, vi rendete conto che l’analisi di lungo periodo può non essere sufficientemente adatta per i propositi della politica.
Si supponga che gli Stati Uniti debbano tagliare le aliquote fiscali delle società. Questo inizialmente innalzerebbe le aliquote fiscali sui rendimenti del capitale, il che fornirebbe un incentivo ai capitali stranieri. Come avverrebbe? Aumentando lo stock di capitale degli Stati Uniti e riducendo il prodotto marginale del capitale (ed elevando quello del lavoro).
Ma come sarebbe aumentato lo stock di capitale? Nessuno entra facilmente in Mordor [2] sbullona facilmente dal pavimento le macchine in altri paesi e le fa rotolare in America la settimana successiva. Quello di cui stiamo parlando è un processo nel quale gli investimenti degli Stati Uniti eccedono i risparmi di quel paese – vale a dire che noi amministriamo deficit di conto corrente – che nel corso del tempo incrementano il nostro stock di capitale.
In questo c’è anzitutto un aspetto ironico: la retorica che si pronuncia per sgravi fiscali sulle società riguarda tutta “la competitività”, però l’impatto iniziale sarebbero deficit commerciali maggiori. Ma non è quello l’aspetto importante: si pensi che cosa si richiede per avere un deficit commerciale più grande.
Ho speso tre decenni per sottolineare l’erroneità della dottrina dell’immacolato trasferimento [3] – il concetto che i flussi internazionali dei capitali si traducono direttamente in squilibri commerciali. Gli esportatori e gli importatori non conoscono e non si curano del rapporto tra risparmi ed investimenti; rispondono ai segnali che provengono dai prezzi e dai costi. E poiché i mercati per i beni e i servizi sono ancora integrati molto imperfettamente – gran parte del PIL non è affatto commerciabile – servono ampi segnali, grandi movimenti nel tasso di cambio reale, per provocare modifiche significative nell’equilibrio del conto corrente.
Dunque, un taglio alle tasse sulle società dovrebbe portare ad un dollaro più forte, che influenza il deficit di conto corrente che è la controparte di un flusso di capitali. Ma come diventa il dollaro molto più forte? La risposta, familiare agli esperti di macroeconomia internazionale, è che il dollaro cresce oltre il suo valore atteso di lungo periodo, cosicché la gente si aspetta che esso cali nel futuro – e la misura della crescita è determinata da quanto il dollaro deve salire in modo tale che l’attesa svalutazione bilanci la crescita nei rendimenti dopo le tasse al confronto con gli altri paesi.
Il punto è che la conoscenza di una correzione irripetibile che stiamo osservando limita il livello al quale il dollaro può arrivare, il che limita la dimensione del deficit di conto corrente, il che limita il tasso al quale lo stock di capitale degli Stati Uniti può espandersi, il che rallenta il processo di omogeneizzazione dei rendimenti. Dunque, il lungo periodo nel quale i rendimenti sono omogeneizzati può essere in effetti abbastanza lungo.
Supponiamo di assumere un contesto di aspettative razionali (so che non è così – ma come punto di riferimento può essere utile). Dunque possiamo riflettere sul processo di correzione che sto descrivendo come un piccolo processo dinamico in e, il tasso di cambio, e in K, lo stock di capitale. Un K elevato comporta un basso tasso di rendimento a confronto di r*, il tasso di rendimento all’estero, dunque e deve essere crescente. Un e elevato comporta ampi deficit commerciali. Il diagramma in sequenza assomiglia a questa simulazione:
dove il sentiero a forcella [4] è l’unico indirizzo lungo il quale le aspettative sul futuro tasso di cambio vengono soddisfatte. Per quel sentiero potete trovare una soluzione attraverso l’espressione di una tendenza lineare attorno ad uno stato stazionario: le soluzioni a quel sistema hanno due radici, una negativa ed una positiva, e la radice negativa vi dice il tasso di convergenza attorno all’indirizzo a forcella. In ogni momento lo stock di capitale K è dato; il tasso di cambio e saltella per collocare il sistema sul sentiero a forcella, e poi converge con il tempo su un equilibrio di lungo periodo.
Dunque la storia degli sgravi fiscali delle società appare la seguente: si parte da un punto come quello A. Poi gli sgravi fiscali aumentano l’equilibrio di lungo periodo dello stock di capitale. Ma ci vuole tempo per arrivarci: prima abbiamo una rivalutazione della valuta, come mostrato dal salto da A a B, e poi col tempo convergiamo su C.
La domanda è: quanto è rapida questa convergenza? E abbiamo sufficienti informazioni per collocare i dati in una vicenda stilizzata. Considero una funzione di produzione Cobb-Douglas, con una quota di capitale dello 0,3. Il rapporto capitale-prodotto è attorno a 3, il che comporta un tasso iniziale di rendimento di 0,1. E i modellatori alla Fed ci dicono che l’impatto del tasso di cambio sulle esportazioni nette è circa 0,15 – ovvero, una crescita del 10 per cento del dollaro amplia il deficit commerciale di circa l’1,5 per cento del PIL.
Quando io collego questi numeri, ipotizzando di aver fatto correttamente l’algebra, ottengo un tasso di convergenza di 0,059 – ovvero, circa il 6 per cento della deviazione da ogni anno eliminato del lungo periodo. Tutto questo è abbastanza lento: ci vorranno una dozzina di anni per realizzare anche solo la metà della correzione nel lungo periodo.
Questo mi dice che l’apertura dei mercati mondiali dei capitali determina una differenza dell’incidenza delle tasse molto inferiore a quello che le persone sembrano credere, nel breve periodo e persino nel medio. Se state cercando di determinare gli effetti delle politiche fiscali nel prossimo decennio, una analisi di un’economia chiusa è probabilmente più vicina alla verità di quella che assume una omogeneizzazione istantanea dei rendimenti tra le nazioni.
[1] Sembra un gioco di parole con le due insolite consonanti con le quali comincia il cognome del Segretario al Tesoro.
[2] “One does not simply walk into Mordor” è una citazione memorabile del film “Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring”. Nella versione italiana (“Il Signore degli Anelli: La compagnia dell’anello”) la frase è stata doppiata come “Non si entra con facilità a Mordor”. (Wikipedia)
[3] Si veda in questo blog la traduzione del post del 6 ottobre 2013, “Gli sbagli della ‘causalità immacolata’”.
[4] ‘Sentiero a sella o a forcella’ sono due traduzioni possibili. Ma cosa significano? Io interpreto che il percorso che si colloca all’opposto dei movimenti A-B-C- è l’unico nel quale si possono dare, ma con molta lentezza, le correzioni necessarie per trovare il nuovo equilibrio. Come mi pare suggeriscano gli argomenti successivi del post.
ottobre 14, 2017
OCTOBER 10, 2017 9:50
Paul Krugman
Like the vast majority of economists, I was delighted to see Richard Thaler get the Nobel. Anyone with a bit of sense – a group that, believe it or not, includes many economists – knows that people aren’t perfectly rational. But the assumption of hyperrationality still plays far too large a role in the field. And Thaler didn’t just document deviations from rationality, he showed that there are consistent, usable patterns in those deviations.
The question, however, is how much difference this should make to the practice of economics. And here you have a division between two camps. One says that imperfect rationality changes everything; the other that the assumption of rationality is still the best game out there, or at least sets a baseline from which departures must be justified at length.
Which camp is right? My thought: it depends on the field, for reasons not entirely clear to me. Let me talk about two fields I know reasonably well: macroeconomics, which I think I know pretty well, and finance, where I am much less well-informed in general but am pretty familiar with at least some international areas. What strikes me is that vaguely Thalerish reasoning is hugely important in one, in the other not so much.
Let me state two propositions derived from the proposition that people are perfectly rational:
1.Rational investors will build all available information into asset prices, so movements in these prices will be driven only by unanticipated events – that is, they’ll follow a random walk, with no patterns you can exploit to make money
2.Rational wage- and price-setters will take all available information into account when setting labor and goods prices, implying that demand shocks will have real effects only if they’re unanticipated – in particular, that monetary policy “works” only if it’s a surprise, and can’t play a stabilizing role
Now, (1) is basically efficient markets theory, which we know is wrong in detail – there are lots of anomalies. In international finance, for example, there is the well-known uncovered interest parity puzzle: differences in national interest rates should be unbiased predictors of future changes in exchange rates, but in fact turn out to have no predictive power at all. And anyone who believed that rationality of investors precluded the possibility of massive, obvious mispricing – say, of subprime-backed securities – has not had a happy decade.
Yet the broader proposition that asset price movements are unpredictable, that patterns are subtle, unstable, and hard to make money off of, seems to be right. On the whole, it seems to me that considering the implications of rational behavior has done more good than harm to the field of finance.
What about (2)? That’s where Robert Lucas came in: trying to rationalize the observed facts of business cycles with perfectly rational behavior in the face of imperfect information. This approach had a huge effect on the practice of macroeconomics, at least academic macroeconomics. But at this point we can safely say that it took the whole field down a rabbit hole. Wage- and price-setting does not reflect the best available information about future monetary policies; if it did, we’d be seeing wage contracts moving rapidly around as Kevin Warsh’s prospects on Predictit fluctuate. Everything we know suggests that there is a lot of nominal downward rigidity and a lot of money illusion in general.
And assertions that this might be true in practice, but can’t be true in theory, and must therefore be assumed away both in research and in policy have been hugely destructive.
So, rationality is a lie. But in some parts of economics it seems to be a bit of a noble lie, useful as a guide for thinking as long as you keep your tongue firmly in your cheek. In other parts, however, it’s just a disaster.
As I said, I can think of some reasons why. In financial markets, smart investors can, within limits, arbitrage against the irrationality of others. There’s no equivalent in labor and goods markets (or in consumer behavior!). But in general, the uneven applicability of behavioral thinking is surely – of course – a subject for future research.
La razionalità e le tane del coniglio,
di Paul Krugman
Come la grande maggioranza degli economisti, sono stato felicissimo per la decisione di dare il Nobel a Richard Thaler. Chiunque con un po’ di buon senso – un gruppo che, lo crediate o no, include molti economisti – sa che le persone non sono perfettamente razionali. Ma l’assunto della iper razionalità gioca ancora un ruolo troppo largo nella disciplina. E Thaler non ha soltanto documentato deviazioni dalla razionalità, ha anche mostrato che in tali deviazioni ci sono schemi coerenti e utilizzabili.
La domanda, tuttavia, è quanta differenza questo dovrebbe comportare nella pratica dell’economia. E in questo caso si ha una divisione tra due campi. Uno dice che l’imperfetta razionalità cambia tutto; l’altro che l’assunto della razionalità è ancora la migliore scommessa disponibile, o almeno definisce un punto di riferimento per allontanarsi dal quale ci deve essere una esauriente giustificazione.
Quale campo ha ragione? La mia opinione è che dipende dalla disciplina, per ragioni che non mi sono interamente chiare. Fatemi parlare di due campi che conosco ragionevolmente bene: la macroeconomia, che conosco abbastanza bene, e la finanza, dove in generale sono molto meno ben informato, pur essendo abbastanza familiare con almeno qualche area internazionale. Quello che mi colpisce è che in uno la riflessione thaleriana è molto importante, nell’altro non altrettanto.
Consentitemi di fissare due concetti derivati dall’idea che le persone sono perfettamente razionali:
1 – Gli investitori razionali incorporeranno tutte le informazioni disponibili nei prezzi di un asset, cosicché i movimenti in questi prezzi saranno guidati soltanto da eventi non anticipati – cioè, essi seguiranno un indirizzo random, senza che si possa sfruttare alcuno schema per fare soldi
2 – Coloro che fissano il salario razionale – e i prezzi – metteranno in conto tutte le informazioni disponibili allorché stabiliscono i prezzi dei salari e dei beni, il che comporta che gli shock della domanda avranno effetti reali solo se non sono stati anticipati – in particolare, che la politica monetaria “funziona” solo se è una sorpresa, e non può giocare un ruolo di stabilizzazione.
Ora, il concetto numero 1 è fondamentalmente la teoria dei mercati efficienti, che noi sappiamo nel dettaglio essere sbagliata – ci sono molte anomalie. Nella finanza internazionale, ad esempio, c’è il ben noto mistero della parità non coperta dall’interesse: le differenze nei tassi di interesse nazionali dovrebbero essere fattori di previsione imparziali dei futuri cambiamenti dei tassi di cambio, ma di fatto si scopre che non hanno alcun potere previsionale. E chiunque abbia creduto che la razionalità degli investitori impediva massicce, evidenti errate determinazioni dei prezzi – ad esempio, i titoli garantiti dai subprime – non ha avuto un decennio tranquillo.
Eppure, il concetto più generale che i movimenti nei prezzi degli asset sono imprevedibili, che i modelli sono sottili, instabili ed è difficile trarne guadagni, sembra essere giusto. Nel complesso, mi pare che considerare le implicazioni del comportamento razionale, abbia fatto più bene che male alla disciplina della finanza.
Che dire del concetto numero 2? È quello nel quale è intervenuto Robert Lucas: cercare di razionalizzare i fatti osservabili dei cicli economici con un comportamento perfettamente razionale, a fronte di informazioni imperfette. Questo approccio ha avuto un vasto effetto nella pratica della macroeconomia, almeno di quella accademica. Ma a questo punto, possiamo con sicurezza affermare che essa ha ridotto l’intera disciplina ad una tana del coniglio [1]. La definizione dei salari – e dei prezzi – non riflette la migliore informazione disponibile sulle future politiche monetarie; se lo fa, noi staremmo osservando contrazioni salariali che si muovono rapidamente tutte le volte che le prospettive di Kevin Warsh [2] su Predictit fluttuano. Tutto quello che sappiamo è che c’è una gran quantità di rigidità nominale verso il basso (dei salari) e in generale una gran quantità di illusione monetaria.
E i giudizi secondo i quali questo potrebbe essere vero in pratica, ma non può essere vero in teoria, e di conseguenza debbano essere trascurate sia nella ricerca che nella azione politica, si sono rivelati altamente distruttivi.
Dunque la razionalità è una menzogna. Ma per alcuni aspetti dell’economia essa sembra essere un po’ come una menzogna a fin di bene, utile come una guida per ragionare finché si resta in un ambito decisamente scherzoso. Per altri aspetti, tuttavia, è solo un disastro.
Come ho detto, io posso ragionare di qualche spiegazione. Nei mercati finanziari, investitori intelligenti possono, entro certi limiti, usare l’arbitraggio basandosi sull’irrazionalità altrui. Sui mercati del lavoro e dei beni (o nel comportamento dei consumatori!) non c’è alcun equivalente. Ma in generale la incostante applicabilità del pensiero comportamentale è certamente – come è evidente – un tema per future ricerche.
[1] Suppongo che il senso (e l’origine) di questa espressione vada ricercato nel racconto di Carroll su Alice nel paese delle meraviglie. Quindi un luogo un po’ ambiguo: da una parte, seguire il Coniglio Bianco nella sua tana (come fece Alice) è una esperienza audace e illuminante, che rompe paradigmi ed abitudini; dall’altra, un luogo illusorio e interamente fantastico.
[2] Pare sia il più probabile candidato di Trump al futuro rinnovo del Presidente della Fed, un uomo di destra, non specialista, con una vasto curriculum di previsioni sbagliate.
ottobre 10, 2017
OCTOBER 8, 2017 12:41 PM
Paul Krugman
I’m still thinking about Kevin Hassett’s appearance at the Tax Policy Center, where he repaid his hosts’ graciousness by gratuitously impugning their integrity. But insults aside, he offered a new analysis of corporate tax incidence – an approach that is novel, innovative, and completely boneheaded. Oh, and it just happens to say what his political masters want to hear.
As I see it, this is part of a broader pattern.
When the financial crisis struck, there were many calls for new economic ideas – even an Institute for New Economic Thinking. The implicit story, pretty much taken for granted as true, was that the crisis proved the inadequacy of economic orthodoxy and the need for fundamental new concepts. Pretty obviously, too, supporters of calls for new thinking had a sort of Hollywood script version of how it would play out: daring innovators would propose radical ideas, would face resistance from old fuddy-duddies, but would eventually win out through their superior ability to predict events.
What actually happened was very different. True, nobody saw the crisis coming. But that wasn’t because orthodoxy had no room for such a thing – on the contrary, panics and bank runs are an old topic, discussed in every principles book. The reason nobody saw this coming was an empirical failure – few realized that the rise of shadow banking had done an end run around Depression-era bank safeguards.
The point was that only the dimmest of free-market ideologues reacted with utter bewilderment. The rest of us slapped our foreheads and said, “Diamond-Dybvig! How stupid of me! Diamond-Dybvig!”
And post-crisis, pretty standard macro worked pretty well. Both fiscal policy and monetary policy did what they were supposed to (or, in the case of money, didn’t do what they weren’t supposed to) at the zero lower bound. Plenty of room for refinement, lots of opportunities to use the mother of all natural experiments for empirical work, but no huge requirement for radical new thinking.
Nonetheless, there was a proliferation of radical new concepts: contractionary fiscal policy is actually expansionary, expansionary monetary policy is actually deflationary, terrible things happen to growth when debt crosses 90 percent of GDP. These ideas instantly got huge amounts of political traction – never mind the fuddy-duddies in the economics establishment, the policy establishment leaped at the chance to apply new ideas.
What did the ideas they leaped at have in common? All of them had, implicitly or explicitly, conservative ideological implications, whether the authors intended that or not. (I’m quite sure that Reinhart-Rogoff weren’t operating out of any political agenda. Not equally sure about others.) And all of them proved, quite quickly, to be dead wrong.
So new economic thinking since the crisis has proved, for the most part, to consist of bad ideas that serve a conservative political agenda. Not exactly the script we were promised, is it?
Once you think about it, it’s not too hard to see how that happened. First of all, conventional macro has worked pretty well, so you’d need really, really brilliant innovations to make a persuasive major break with that conventionality. And really, really brilliant innovations don’t come easy. Instead, the breaks with conventional wisdom came mainly from people who, far from transcending that wisdom, simply failed to understand it in the first place.
And while there are such people on both left and right, there’s a huge asymmetry in wealth and influence between the two sides. Confused views on the left get some followers, provoke a back-and-forth on a few blogs, and generate some nasty tweets. Confused views on the right get mainlined straight into policy pronouncements by the European Commission and the leadership of the Republican Party.
Which brings me back to Hassett. Tax incidence, like macroeconomics, is a technical subject with a mainstream consensus that faces challenges from left and right. But a lot of hard work went into creating that consensus; this doesn’t mean that it’s right, but you have to come up with a really good idea to challenge it effectively.
On the other hand, you can get a lot of political traction with a really bad idea challenging the consensus, as long as it serves the interests of big money and the political right. And that’s what just happened at TPC.
La paccottiglia del nuovo
di Paul Krugman
Sto ancora pensando alla apparizione di Kevin Hassett a Tax Policy Center, nella quale ha ripagato la cortesia dei suoi ospiti mettendo in discussione in modo gratuito la loro integrità morale. Ma, a parte gli insulti, ha offerto una nuova analisi sulla incidenza delle tasse delle società – un approccio che è inedito, innovativo e completamente sciocco. Inoltre, è appena il caso di dire che è quello che i suoi padroni politici vogliono sentir dire.
Per come la vedo, si tratta di un aspetto di uno schema più generale.
Quando esplose la crisi finanziaria, ci furono molti pronunciamenti per nuove idee economiche – persino quello di un Istituto per un Nuovo Pensiero Economico. La storia implicita, considerata abbastanza verosimile, fu che la crisi aveva dimostrato l’inadeguatezza dell’ortodossia economica e la necessità di concetti fondamentalmente nuovi. In modo altrettanto ovvio, i sostenitori dei pronunciamenti per un nuovo pensiero ebbero una sorta di versione da copione hollywoodiano di come sarebbe andata a finire: audaci innovatori avrebbero proposto idee radicali, si sarebbero misurati con la resistenza delle vecchie mummie, ma alla fine avrebbero prevalso per effetto della loro superiore capacità nel prevedere gli eventi.
Quello che accadde effettivamente fu assai diverso. È vero, nessuno vide la crisi in arrivo. Ma non dipese dal fatto che l’ortodossia non aveva spazio per cose del genere – al contrario, le crisi di panico e gli assalti agli sportelli erano vecchie tematiche, discusse in ogni libro di principi generali. La ragione per la quale nessuno la vide arrivare fu di natura empirica – in pochi compresero che l’ascesa di un sistema bancario ombra aveva prodotto una scappatoia alle misure di salvaguardia delle banche dell’epoca della Depressione.
La questione fu che soltanto i più ottusi degli ideologhi del libero mercato reagirono con totale perplessità. Gli altri si diedero uno schiaffo sulla fronte e dissero: “Diamnond-Dybvig [1]! Che stupido che sono! Diamond-Dybvig!”.
E nel dopo crisi, la macroeconomia abbastanza convenzionale funzionò piuttosto bene. Sia la politica della finanza pubblica che quella monetaria fecero quello che si supponeva facessero (oppure, nel caso del denaro non fecero quello che non si supponeva facessero) al livello del limite inferiore dello zero dei tassi di interesse. Grandi margini per miglioramenti, una gran quantità di opportunità per utilizzare la madre di tutti gli esperimenti naturali per le ricerche empiriche, ma nessun particolare bisogno di un nuovo pensiero radicale.
Nondimeno, ci fu una proliferazione di nuovi concetti radicali: la politica del consolidamento della finanza pubblica sarebbe in realtà espansiva, la politica monetaria espansiva sarebbe effettivamente deflazionistica, accadrebbero cose tremende alla crescita quando il debito supera il 90 per cento del PIL. All’improvviso, queste idee ebbero una gran quantità di presa sul piano politico – a prescindere da quanto fossero antiquate nel gruppo dirigente degli economisti, il gruppo dirigente degli uomini politici colse al volo l’occasione di applicare idee nuove.
Cosa avevano in comune le idee delle quali si impossessarono al volo? Avevano tutte, implicitamente o esplicitamente, implicazioni ideologiche conservatrici, che gli autori se ne rendessero o no conto (sono quasi certo che Reinhart-Rogoff non fossero estranei ad una qualche agenda politica. Non altrettanto certo nel caso di altri). E tutte si dimostrarono, abbastanza rapidamente, aver torto marcio.
Dunque, dal momento della crisi, il nuovo pensiero economico si dimostrò, per la parte principale, consistere in cattive idee che erano al servizio di una agenda politica conservatrice. Non esattamente il copione che ci era stato promesso, non è vero?
Se ci si riflette, non è così difficile capire cosa accadde. Prima di tutto, la macroeconomia convenzionale ha funzionato abbastanza bene, dunque c’era bisogno di innovazioni davvero brillanti per realizzare un’importante, persuasiva rottura con quelle convenzioni. E le innovazioni davvero brillanti non compaiono facilmente. Invece, le rotture con i punti di vista convenzionali sono venute principalmente da persone che, lungi dall’oltrepassare quella saggezza convenzionale, anzitutto semplicemente non riuscivano a comprenderla. E se persone del genere c’erano a destra come a sinistra, c’era una grande asimmetria di ricchezza e di influenza tra i due schieramenti. A sinistra, opinioni confuse hanno alcuni seguaci, vanno e vengono su pochi blog, e producono alcuni tweet sgradevoli. Punti di vista confusi sulla destra ottengono diretti accoglimenti nei pronunciamenti politici della Commissione Europea e del gruppo dirigente del Partito Repubblicano.
Il che mi riporta ad Hassett. L’incidenza delle tasse, in quanto macroeconomia, è un tema tecnico con un prevalente consenso, che viene sfidato dalla destra e dalla sinistra. Ma per creare tale consenso c’è voluto un lavoro duro; questo non significa che sia giusto, ma ci vogliono davvero buone idee per metterlo alla prova efficacemente.
D’altra parte, si può avere una grande presa politica con una idea pessima che sfida tale consenso, finché serve gli interessi del grande capitale e della destra politica. Ed è proprio quello che è successo al Tax Policy Center.
[1] Il modello di Diamond-Dybvig (1983) è un modello teorico che si propone di spiegare le modalità attraverso cui si determina un fenomeno di run bancario (corsa agli sportelli), fornendo al contempo una rappresentazione teorica del meccanismo attraverso cui le banche creano liquidità. Il modello rappresenta ad oggi il punto di riferimento teorico per la spiegazione dei fenomeni considerati, e non a caso di esso sono state proposte varie riformulazioni successive. (Wikipedia)
ottobre 2, 2017
SEPTEMBER 30, 2017 11:39 AM
Paul Krugman
Tax Policy Center
Right now it looks as if tax “reform” — actually it’s just cuts — may go the way of Obamacare repeal. Initial assessments of the plan are brutal, and administration attempts to spin things in a positive direction will suffer from loss of credibility on multiple fronts, from obvious lies about the plan itself, to spreading corruption scandals, to the spectacle of the tweeter-in-chief golfing while Puerto Rico drowns.
Now, it ain’t over until the portly golfer sings. But still, it’s worth spending a few minutes on why a fresh debacle seems likely.
The important point is that there are crucial links between the health care faceplant and the bad news (for the GOP) on taxes — links both causal and, you might say, cultural.
Republicans took power in January determined to cut taxes on the wealthy, bigly. That has, after all, been the GOP establishment’s overriding priority for four decades; it’s what donors demand.
But they’re somewhat constrained by concerns about deficits. It’s not that they themselves care about red ink: nobody with influence in the GOP has ever cared about federal debt, least of all the deficit peacocks who preened and posed as apostles of fiscal responsibility. But all that posturing makes budget-busting tax cuts awkward. And procedural issues in the Senate also make it hard to do too much budget-busting without 60 seats.
One important goal of ACA repeal was to loosen those constraints, by repealing the high-end tax hikes that paid for Obamacare, hence giving a big break to the donor class. Having failed to do that, Rs are under even more pressure to deliver the goods to the wealthy through tax cuts.
But deficits are a constraint, even if not a hard one. Now, Republicans have always claimed that they can cut tax rates without losing revenue by closing loopholes. But they’ve always avoided saying anything about which loopholes they’d close; they promised to shift the tax burden away from their donors onto [TK], some mystery group. It was magic asterisk city; it was “Don’t tax you, don’t tax me, tax that fellow behind the tree” on steroids.
But as they sidle up toward actual legislation, they need to start getting specific: the shifts need to get real. So where will the money come from?
The bright answer in Trumpcuts is, end the deduction for state and local taxes (SALT). This probably sounded like a good idea: hey, it will punish blue states, which foolishly collect a lot of taxes to do things like feed people and treat their illnesses.
But there are a lot of Republican voters in blue states, and even a significant number of Republican Congressmen. And who are these voters? By and large, affluent but not super-rich households — hence with relatively high marginal tax rates — for whom deductibility of SALT is a big deal. As the details of the plan sink in, these people will scream bloody murder, and their representatives will become a big problem for the leadership.
So what were they thinking? My guess is that they weren’t thinking. What we learned from health care was that after 8 years, Republicans had never bothered to learn anything about the issues. There’s every reason to believe that the same is true for the distribution of tax changes, which Paul Ryan called a “ridiculous” issue and presumably nobody in his party ever tried to understand.
So now the lies and willful ignorance are catching up with them — again.
Gli spostamenti diventano veri: per comprendere il pantano politico del Partito Repubblicano
di Paul Krugman
Tax Policy Center [1]
In questo momento sembra che la “riforma” del fisco – in realtà sono solo sgravi fiscali – possa ripetere l’esperienza della abrogazione della riforma sanitaria di Obama. Le indicazioni iniziali del progetto erano brutali, e i tentativi della Amministrazione di manipolare le cose in una direzione positiva pagheranno il prezzo di una perdita di credibilità su molti fronti, dalle evidenti menzogne sul progetto stesso, al diffondersi degli scandali della corruzione, allo spettacolo del twittatore-in-capo che gioca a golf mentre Porto Rico affoga.
Ora, tutto questo durerà finché il corpulento giocatore di golf se la canta da solo. Eppure, merita spendere alcuni minuti sulla ragione per la quale sembra probabile una nuova debacle.
Il punto importante è che ci sono collegamenti cruciali tra la perdita di faccia sulla assistenza sanitaria e le cattive notizie (per il Partito Repubblicano) sulle tasse – collegamenti sia sulle cause che, si potrebbe dire, culturali.
I repubblicani hanno preso il potere in gennaio, determinati a tagliare le tasse sui ricchi, alla grande. Era stata, dopo tutto, la priorità indiscutibile del gruppo dirigente del Partito Repubblicano per quattro decenni; è quello che viene chiesto dai finanziatori.
Ma essi erano in qualche modo condizionati dalle preoccupazioni sul deficit. Non si tratta del fatto che anche loro si preoccupano di andare in rosso: nessuno che abbia qualche influenza nel Partito Repubblicano si è mai preoccupato del debito federale, meno di tutti i pavoni del deficit che si davano arie e di atteggiavano ad apostoli della responsabilità in materia di finanza pubblica. Ma tutto questo atteggiarsi rende complicati gli sgravi fiscali che mandano in bancarotta i bilanci. Ed anche le questioni procedurali nel Senato rendono difficile manomettere troppo il bilancio, se non si hanno 60 seggi.
Un importante obbiettivo della abrogazione della legge sanitaria era quello di attenuare questi limiti, abrogando gli aumenti delle tasse sulle fasce alte con i quali si era coperto il costo della riforma di Obama, e quindi fornendo una grande pausa alla categoria dei finanziatori del Partito. Avendo fallito in questo, i repubblicani subiscono una pressione persino maggiore per consegnare i benefici ai ricchi attraverso i tagli al fisco.
Ma i deficit sono un condizionamento, sebbene non insuperabile. Ora, i repubblicani hanno sempre sostenuto di poter tagliare le aliquote fiscali senza perdite nelle entrate, interrompendo le elusioni del fisco. Ma avevano sempre evitato di dire alcunché su quali elusioni fiscali avrebbero interrotto; avevano promesso di spostare l’onere fiscale dai loro finanziatori a qualche … ‘fine del gioco’ [2], un qualche gruppo misterioso. Era la città dei magici asterischi; era una specie di “Non ti metto tasse, non le metto a me stesso, tasso quel tizio che è dietro l’albero” all’ennesima potenza.
Ma appena si avvicinano alla legislazione effettiva, devono cominciare ad entrare nello specifico: i cambiamenti debbono diventare reali. Dunque, da dove verranno i soldi?
La risposta brillante nei tagli di Trump è, interrompere la deduzione per le tasse degli Stati e degli Enti Locali (SALT). Questa probabilmente è sembrata una buona idea: come no, sarà una punizione per gli Stati democratici, che raccolgono pazzescamente una gran quantità di tasse per cose come l’alimentazione della gente e il trattamento delle loro malattie.
Ma ci sono una gran quantità di elettori repubblicani negli Stati democratici, e persino un numero significativo di congressisti repubblicani. E chi sono questi elettori? In generale sono famiglie benestanti ma non ricchissime – di conseguenza con aliquote fiscali marginali relativamente elevate – per le quali la deducibilità delle tasse statali e locali è una grande questione. Appena avranno compreso i dettagli del piano, queste persone si metteranno ad urlare all’assassinio efferato, e i loro congressisti diventeranno una gran problema per la dirigenza.
Cosa stavano pensando, dunque, quelle persone? La mia idea è che non stessero pensando. Quello che abbiamo imparato dalla assistenza sanitaria è stato che dopo 8 anni, i repubblicani non si erano mai degnati di imparare alcunché su questi temi. Ci sono tutte le ragioni per credere che lo stesso sia vero per la distribuzione dei cambiamenti fiscali, che Paul Ryan ha definito un tema “ridicolo” e presumibilmente nessuno nel suo partito ha mai pensato di comprendere.
Dunque, adesso le bugie e l’ostinata ignoranza si stanno ritorcendo contro di loro – nuovamente.
[1] La tabella, elaborata dalla Associazione Tax policy Center, mostra la distribuzione prevista degli aumenti fiscali all’anno 2017 per le varie categorie di reddito. Le tasse pagate dai redditi più bassi (il quintile più basso) e quelli più alti (lo 0,1 e l’1 per cento di più ricchi) crescerebbero circa del 10%; quelle delle classi medie – medio basse e medio alte – di percentuali dal 30 al 60 per cento.
[2] È solo una possibilità per tradurre TK, offerta da UrbanDictionary. Se capisco, una sorta di parola magica che in alcuni giochi mette nelle condizioni di liquidare i vostri compagni di gioco. Del resto, gli altri dizionari non traducono.
ottobre 2, 2017
SEP 5 12:16 PM
Paul Krugman
Trump’s decision to kill DACA — never mind the attempt to obscure things with that meaningless delay — is, first and foremost, a moral obscenity: throwing out 800,000 young people who are Americans in every way that matters, who have done nothing wrong, basically for racial reasons. But it’s also worth noting that Jeff Sessions just tried to sell it with junk economics, claiming that the Dreamers are taking American jobs. No, they aren’t, even if we leave aside the question of who’s an American. DACA is very much a boon to the rest of the U.S. population, and killing it will make everyone worse off.
To see why, first note that whatever you think about the economics of less-educated immigrants — most of the evidence suggests that they don’t depress wages, but that’s another discussion — none of it applies to DREAMers. Their educational and behavioral profile, as Cato notes, doesn’t resemble the average immigrant, let alone the average undocumented immigrant; they look like H-1B visa holders, that is, skilled immigrants we have specifically allowed in because they help the economy.
Beyond that, DREAMers are young — which means that they help the economy in not one but two big ways, because they mitigate the economic problems caused by an aging population.
One of those problems is fiscal: as the population ages, there are fewer working-age members contributing taxes to pay for Social Security and Medicare. A cohort of relatively high-wage, highly motivated people mostly in their 20s, likely to pay lots of taxes for decades, is exactly what the doctor ordered to make that issue less severe.
Meanwhile, I’m one of those who worries about secular stagnation — persistently weak spending, making episodes in which monetary policy can’t achieve full employment even with zero interest rates much more likely. Several factors contribute to this risk, but probably the most important is demography: a sharp slowdown in the growth of the working-age population, which means less incentive to invest in structures, factories, and more. (The demographic issue is why Japan, with low fertility and great hostility to immigration, entered a zero-rate regime a decade before the rest of us.)
And what would make secular stagnation more of a problem? Hey, let’s expel hundreds of thousands of young people from the current and future work force.
So this is a double blow to the U.S. economy; it will make everyone worse off. There is no upside whatever to this cruelty, unless you just want to have fewer people with brown skin and Hispanic surnames around. Which is, of course, what this is really all about.
La pessima economia del cancellare il DACA
di Paul Krugman
La decisione di Trump di liquidare il DACA – non ha nessun valore il tentativo di confondere le cose con quel rinvio senza senso – è, prima di tutto, una sconcezza sul piano morale: mettere fuori 800.000 giovani che sono americani da tutti i punti di vista, che non hanno fatto niente di male, fondamentalmente per ragioni razziali. Ma non ha nemmeno nessun valore che Jeff Sessions abbia cercato di farlo passare con un argomento economico da spazzatura, sostenendo che i “Dreamers” stanno prendendosi i posti di lavoro degli americani [1]. No, non è quello che fanno, pur trascurando la questione di chi sia un americano. Il DACA è una manna per il resto della popolazione americana, cancellarlo renderà le cose peggiori per tutti.
Per capire come mai, si noti anzitutto che qualsiasi cosa voi pensiate del significato economico degli immigranti meno istruiti – la maggioranza delle prove indicano che non deprimono i salari, ma questa è un’altra discussione – nessuna di esse si applica ai Dreamers. Il loro profilo educativo e comportamentale, come nota Cato [2], non assomiglia all’immigrante medio, a parte il fatto che l’immigrante medio è sprovvisto di documenti; assomigliano ai detentori di visti H-1B, ovvero ad immigranti con buone caratteristiche professionali ai quali abbiamo in modo particolare concesso di risiedere negli Stati Uniti perché aiutano l’economia.
Oltre a ciò, i Dreamers sono giovani – il che significa che contribuiscono all’economia non in uno ma in due modi rilevanti, perché mitigano i problemi economici provocati da una popolazione che invecchia.
Uno di quei problemi è connesso con le finanze pubbliche: quando la popolazione invecchia, ci sono minori componenti in età lavorativa che contribuiscono a pagare le tasse per la Previdenza Sociale e l’assistenza sanitaria agli anziani. Un gruppo di persone altamente motivate, per la maggior parte ventenni, con salari relativamente elevati, che probabilmente pagano per decenni una gran quantità di tasse, è esattamente quello che si richiede per rendere quella tematica meno grave.
Aggiungo che io sono uno di quelli che si preoccupano per la stagnazione secolare – una spesa persistentemente debole, che produce episodi per i quali è assai più probabile che la politica monetaria non possa realizzare la piena occupazione neppure con tassi di interesse a zero. Alcuni fattori contribuiscono a questo rischio, ma forse il più importante è la demografia: un brusco rallentamento della crescita della popolazione in età lavorativa, che comporta meno incentivi ad investire in strutture, stabilimenti e altro ancora (il tema demografico è la ragione per la quale il Giappone, con una bassa fertilità ed una grande ostilità all’immigrazione, è entrato in un regime a tassi zero un decennio prima di tutti noi).
E cosa renderebbe più grave il problema della stagnazione secolare? Esattamente consentire l’espulsione di centinaia di migliaia di giovani dalla forza lavoro attuale e futura.
Dunque si tratta di un colpo duplice all’economia degli Stati Uniti; ci renderà tutti più poveri. Non c’è alcun aspetto positivo in questa crudeltà, a meno che non si voglia soltanto avere meno persone dintorno con la pelle scura e ispanici. Ma, naturalmente, è proprio questo di cui stiamo parlando.
[1] Vengono chiamati “Dreamers” (che forse non casualmente significa “Sognatori”) perché godono di benefici che derivano da una proposta di legge – approvata solo dal Senato – che ha l’acronimo di DREAM, “Legge per lo sviluppo, l’aiuto e l’istruzione di minori stranieri”. Tale legge, da quanto comprendo, è stata approvata solo da un ramo del Congresso, dunque non sarebbe in funzione. Probabilmente alcuni suoi contenuti sono in atto per effetto di azioni amministrative della Amministrazione Obama, decise dopo la bocciatura da parte della Camera dei Rappresentanti. Comunque bisogna distinguere: il DACA è una iniziativa amministrativa della Amministrazione Obama, il DREAM è una proposta di legge, che ispira il DACA ma che non è diventata legge.
Da notare che in questo caso siamo ben oltre la tematica italiana di una legge sullo Ius Soli, giacché qua non si tratta soltanto del diritto alla nazionalità, ma di provvedimenti positivi di sostegno educativo e sociale.
[2] L’articolo sulla rivista di Cato è interessante perché Cato è una fondazione di orientamento ‘libertariano’ – ovvero di una particolare destra americana, non a caso fondata dalla Fondazione Koch. Ma l’articolo è molto chiaro e nega ogni fondamento economico al progetto di Trump.
settembre 12, 2017
AUGUST 31, 2017 10:11 AM
Paul Krugman
At one level it’s hard to take the Trump administration’s tax “reform” push seriously. A guy gets elected as a populist and his first two big proposals are (a) taking away health insurance from millions (b) cutting corporate taxes. Wow.
Furthermore, Trump is invincibly ignorant on taxes (and everything else) — he keeps declaring that America is the highest taxed nation in the world, which is nearly the opposite of the truth among advanced countries. And his allies in Congress aren’t ignorant, but they’re liars: Paul Ryan is the master of mystery meat, of promising to raise and save trillions in unspecified ways.
But there is an actual interesting question here, even if we shouldn’t give any credence to Republican answers. Who does, in fact, pay the corporate profit tax? Does it fall on corporations, and hence eventually on their shareholders? Or is the ultimate incidence mainly on wages, as the administration claims?
There have been some very good discussions of this issue by CBO, here and here.
CBO is skeptical of cross-country regressions that seem to suggest that much of the burden falls on wages. I agree, on general principles. In most cases it’s just too difficult to control for other factors. The only times I take cross-country results seriously is when there’s really drastic differential behavior of a factor likely to have large effects, like the huge differences in the degree of fiscal austerity between 2009-2013. Trying to tease out the effects of corporate taxation, which doesn’t differ all that much among OECD countries and is surely not the most important driver of wage differences, looks hopeless.
The alternative is some kind of structural story; and I think there’s an important point here, already made by CBO but in need of more emphasis: we really need to think about monopoly rents.
The usual way this story is told thinks of the corporate tax as a tax on returns to physical capital. The story then says that back in the old days, when capital mobility between countries was limited, domestic corporations really had no way to avoid the tax, so it did indeed fall on shareholders. But now, so the tale goes, we have highly mobile capital; if you tax it in any one country, it will flow out, making capital scarcer and driving down wages, until after-tax rates of return in that country have risen back to the world average.
There are important qualifications to this story even as given. For one thing, capital mobility remains far from perfect: the Feldstein Horioka correlation between domestic savings and domestic investment has weakened, but it’s still there. For another, the US is a big country, able to affect world rates of return. One more thing: given the size of the US, cuts in our corporate taxes might well induce competitive cuts in other countries, further reducing the impact on wages here.
But what caught my eye from the CBO was a quite different point: much corporate taxation probably doesn’t fall on returns to physical capital, but rather on monopoly rents. It doesn’t matter whether these rents were fairly earned through, say, investment in technology, or even whether the corporations earn super-high profits. As long as the local source of profit is some kind of monopoly rent, corporate tax incidence is going to fall on shareholders, not workers.
Imagine a world in which all corporations are like Google or Apple: they invest resources in developing new products, then sell those products — in which they have a lot of market power — in various countries for well above production cost, which is the source of their profits. Cutting the tax rate on such profits won’t make them employ more people, driving up the demand for labor and hence wages; it will just let them keep more of their rents.
A parallel: think of pharma, where companies develop a drug then sell it worldwide. Some countries use the bargaining power of their government health systems to get lower prices, some (mostly us) don’t; the countries that bargain for lower prices don’t pay any price in reduced access to drugs. Similarly, if you place a tax on profits earned from technological monopolies, you won’t lose access to the technology, you’ll just collect more taxes.
And there’s a lot of reason to believe that market power is an increasingly big deal. Again, this doesn’t have to be unfair, and it could involve monopolistic competition without a lot of excess returns. The point is that no matter what the source and justification for market power, that power undermines the case that capital mobility will mean that cutting corporate taxes benefits workers.
This changes the narrative, doesn’t it? Instead of focusing on rising capital mobility as a reason profits taxes might fall on workers, maybe we should focus on rising market power as a reason why profits taxes fall on capitalists.
The point for now is that when someone tells you that changes in the world have made old-style corporate taxes obsolete, be skeptical. Some changes in the world may have made profit taxation a better idea than ever.
Rendite di monopolio e tassazione sulle imprese (per esperti)
Paul Krugman
In un certo senso è difficile prendere sul serio l’agitazione della Amministrazione Trump sulla “riforma” del fisco. Un individuo che è stato eletto come un populista e le sue prime grandi proposte sono: (a) togliere l’assicurazione sanitaria a milioni di persone, (b) tagliare le tasse delle società. Per la miseria!
Inoltre, Trump è irrimediabilmente ignorante sulle tasse (e su tutto il resto) – continua a dichiarare che l’America è la nazione più tassata al mondo, che tra i paesi avanzati è quasi l’opposto della verità. E i suoi amici nel Congresso non sono ignoranti, ma sono bugiardi: Paul Ryan è il maestro della ‘carne di incerta provenienza’, della promessa di raccogliere e risparmiare migliaia di miliardi in modi imprecisati.
Ma in questo caso c’è una domanda effettivamente interessante, anche se non dovessimo dare alcuna credibilità alle risposte dei repubblicani. Chi paga, di fatto, la tassa sui profitti di impresa? Ricade sulle società, e di conseguenza alla fine sui loro azionisti? Oppure ha la massima incidenza principalmente sui salari, come pretende l’Amministrazione?
Ci sono stati alcuni ottimi dibattiti su questo tema da parte dell’Ufficio Congressuale sul Bilancio, che trovate in queste connessioni.
Il CBO è scettico sulle analisi di regressione attraverso il paese che paiono suggerire che molto peso ricada sui salari. Io, in termini generali, concordo. Nella maggioranza dei casi è semplicemente troppo difficile controllare gli altri fattori. Le sole volte nelle quali io prendo sul serio i risultati che derivano da una analisi attraverso il paese è quando c’è un comportamento differenziale realmente evidente di un fattore che è probabile abbia ampi effetti. Cercare di identificare gli effetti della tassa sulle imprese, che non differisce poi così tanto tra i paesi dell’OCSE e non è certamente il più importante conduttore di differenze salariali, appare senza speranza.
L’alternativa è una storia strutturale: ed io penso che in questo caso ci sia un aspetto importante, già messo in evidenza dal CBO ma bisognoso di maggiore enfasi: abbiamo sul serio bisogno di ragionare delle rendite di monopolio.
Il modo consueto nel quale questa storia viene raccontata ragiona della tassazione sulle società come una tassa sui rendimenti del capitale fisico. La spiegazione poi afferma che nei tempi passati, quando la mobilità del capitale era limitata, le società nazionali non avevano effettivamente alcun modo per evitare la tassa, cosicché essa in effetti ricadeva sugli azionisti. Ma adesso, così procede la spiegazione, abbiamo capitali molto mobili: se si tassano in un qualsiasi paese, essi se ne andranno, rendendo il capitale più scarso e abbassando i salari, finché i tassi di rendimento dopo le tasse in quel paese non siano ritornati alle medie mondiali.
Ci sono importanti specificazioni per questo racconto, persino nel come viene presentato. Per un aspetto, la mobilità del capitale è lungi dall’essere perfetta: la correlazione Feldstein Horioka tra risparmi e investimenti nazionali si è indebolita, ma è ancora al suo posto. Per un altro aspetto, gli Stati Uniti sono un grande paese, capace di influenzare i tassi di rendimento mondiali. C’è inoltre un altro aspetto: data la dimensione degli Stati Uniti, i tagli alle nostre tasse sulle imprese possono facilmente indurre tagli competitivi in altri paesi, riducendo ulteriormente l’impatto sui salari nel nostro.
Ma c’è stato un aspetto abbastanza diverso da parte del CBO che ha attirato la mia attenzione: una buona parte della tassazione sulle società non ricade sui rendimenti del capitale fisico, bensì sulle rendite di monopolio. Non è importante se queste rendite vengono onestamente guadagnate attraverso, ad esempio, gli investimenti nelle tecnologie, o persino se le società ottengono profitti super elevati. Nella misura in cui la fonte locale del profitto è un qualche genere di rendita di monopolio, l’incidenza della tassazione sulle imprese è destinata a ricadere sugli azionisti, non sui lavoratori.
Si immagini un mondo nel quale tutte le imprese siano come Google o Apple: esse investono risorse nello sviluppo di nuovi prodotti, poi vendono quei prodotti – nei quali essi hanno un grande potere di mercato – in vari paesi assai al di sopra del costo di produzione, che è la fonte dei loro profitti. Tagliare le tasse sulle società su tali profitti non consentirà loro di occupare più persone, innalzando la domanda di lavoro e di conseguenza i salari; gli consentirà soltanto di ottenere di più dalle loro rendite.
Un esempio: si pensi al settore farmaceutico, dove le società sviluppano una medicina per poi rivenderla su scala mondiale. Alcuni paesi usano il potere contrattuale dei sistemi sanitari dei loro Governi per tenere più bassi i prezzi, altri (soprattutto noi) non lo fanno; i paesi che contrattano prezzi più bassi non pagano alcun prezzo per l’accesso ridotto ai medicinali. In modo simile, se si colloca una tassa sui profitti guadagnati dai monopoli tecnologici, non si perderà l’accesso alle tecnologie, si raccoglieranno soltanto maggiori tasse.
E c’è una gran quantità di ragioni per credere che il potere sul mercato sia sempre di più una faccenda importante. Ancora, questo non è necessariamente ingiusto, e potrebbe riguardare la competizione monopolistica senza una gran quantità di rendimenti in eccesso. Il punto è che non è importante quale sia la fonte e la giustificazione del potere sul mercato, quel potere mette in crisi l’argomento secondo il quale la mobilità del capitale comporterà che il taglio alle tasse delle imprese vada a beneficio dei lavoratori.
Questo modifica il racconto, non è così? Anziché concentrarsi sulla crescente mobilità dei capitali come una ragione per la quale le tasse sui profitti potrebbero ricadere sui lavoratori, forse si dovrebbe concentrarsi sul potere crescente sui mercati come una ragione per la quale le tasse sui profitti ricadano sui capitalisti.
Il punto è che per il momento, quando qualcuno vi racconta che i cambiamenti nel mondo hanno reso le tasse tradizionali sulle imprese obsolete, siate scettici. Alcuni cambiamenti nel mondo possono aver reso la tassazione sui profitti un’idea migliore di sempre.
settembre 7, 2017
AUG 20 5:26 PM
Paul Krugman
Tomorrow’s column is in part about the political failure of Trumpcare, which was — despite all those populist noises during the campaign — a case of trickle-down economics on steroids: huge benefit cuts for lower- and middle-income families, to provide huge tax cuts for a tiny minority.
But was that failure really so exceptional?
We tend to think of the period since Reagan’s election as a conservative era; even though Republicans controlled the White House only a few years more than Democrats, there were lots of centrist Dems willing to cooperate with R agendas, versus almost no cooperation when Ds held the WH. And one tends to think of the period as a whole as involving tax-and-transfer policy tilting to the right.
Yet that’s not something that jumps out from the numbers. Think about taxes on the top 1%. Yes, Reagan and GW Bush cut them; but both Clinton and Obama raised them. The CBO estimates have some funny fluctuations, driven I think by capital gains: big capital gains raise tax receipts without a corresponding rise in measured income, as I understand it. Still, the overall picture is that at the end of the Obama years taxation of the rich was pretty much back where it was pre-Reagan:
Meanwhile, there were harsh cuts to some social programs — Clinton ended welfare as we knew it — but expansions of others. One simple metric: Medicaid enrollees as a percent of the nonelderly population, via the CDC:
I’m not saying that the “nation of takers” stuff, a vast population living off the dole and voting to tax their betters, is at all right. But it is true that a welfare state supported by progressive taxation has been much more robust than the year-by-year political narrative might lead you to think.
But in that case, why the incredible surge in inequality? Good question, and not that easy to answer. But there is, I think, a good case to be made that things like the collapse of unions and financial deregulation mattered a lot more than the taxing and spending issues we spend so much time talking about.
Il fallimento politico dell’economia del trickle-down [1]
L’articolo di oggi [2] in parte riguarda il fallimento politico della proposta di cambiamento della assistenza sanitaria di Trump, che è stata – nonostante tutto il frastuono populista durante la campagna elettorale – un esempio di economia del trickle-down alla massima potenza: grandi tagli per le famiglie con redditi più bassi e medi, per consegnare vasti sgravi fiscali ad una esigua minoranza.
Ma è stato per davvero un fallimento così straordinario?
Noi tendiamo a ragionare del periodo a partire dalla elezione di Reagan come un’epoca conservatrice; anche se i repubblicani controllarono la Casa Bianca solo per pochi anni in più dei democratici, ci fu una gran quantità di democratici centristi disponibili a collaborare con i programmi repubblicani, di contro a quasi nessuna collaborazione quando i democratici erano alla Casa Bianca. E si tende a pensare a quel periodo nel suo complesso come se riguardasse una politica fiscale e di trasferimenti che inclinava verso la destra.
Tuttavia non è questo che emerge dai dati. Si pensi alle tasse sull’1 per cento dei più ricchi. È vero, Reagan e Bush padre le tagliarono, ma sia Clinton che Obama le alzarono. L’Ufficio Congressuale del Bilancio ritiene che ci siano state alcune strane fluttuazioni, penso guidate dai profitti dei capitali: i vantaggi del grande capitale innalzano le entrate fiscali senza una corrispondente crescita nel reddito accertato, per come posso comprendere. Tuttavia, il quadro complessivo è che alla fine degli anni di Obama le tasse sui ricchi erano grosso modo tornate ai livelli precedenti Reagan:
Nel frattempo ci furono tagli bruschi a qualche programma sociale – Clinton pose fine allo stato assistenziale per come lo conoscevamo – ma espansioni in altri. Un semplice metro di misurazione: gli iscritti al programma Medicaid come percentuale della popolazione non anziana, come si deducono dai Centri per il Controllo delle Malattie:
Non sto dicendo che cose come “la nazione degli assistiti”, una vasta popolazione che vive dei sussidi di disoccupazione e vota per tassare chi sta meglio di loro, siano tutte giuste. Ma è vero che uno stato assistenziale sostenuto dalla tassazione progressiva è stato molto più robusto rispetto a quello che il racconto politico anno per anno potrebbe avervi indotto a pensare.
Eppure, in quel caso, perché l’incredibile crescita della diseguaglianza? Bella domanda, e non è tanto facile rispondere. Ma io penso che si possa avanzare una buona tesi secondo la quale fenomeni come il collasso dei sindacati e la deregolamentazione finanziaria abbiano contato molto di più dei temi della tassazione e della spesa pubblica dei quali ci riempiamo la bocca.
[1] Ovvero degli sgravi fiscali sui ricchi che alla fine portano benefici anche ai redditi minori. Letteralmente: “sgocciolamento verso il basso”.
[2] Si intende l’articolo pubblicato sul New York Time, qua tradotto.
[3] Il titolo della tabella significa “aliquota fiscale federale media sull’1 per cento dei più ricchi.
[4] Il titolo significa “percentuale assistita con Medicaid”, ovvero con il programma di assistenza sanitaria pubblica per i bassi redditi.
settembre 6, 2017
AUGUST 18, 2017 1:48 PM
Paul Krugman
Everyone seems to be reporting that Steve Bannon is out. I have no insights about the palace intrigue; and anyone who thinks Trump will become “presidential” now is an idiot. In particular, I very much doubt that the influence of white supremacists and neo-Nazis will wane.
What Bannon’s exit might mean, however, is the end of even the pretense that Trumpist economic policy is anything different from standard Republicanism — and I think giving up the pretense matters, at least a bit.
The basics of the U.S. economic debate are really very simple. The federal government, as often noted, is an insurance company with an army: aside from defense, its spending is dominated by Social Security, Medicare and Medicaid (plus some ACA subsidies).
Conservatives always claim that they want to make government smaller. But that means cutting these programs — and what we know now, after the repeal debacle, is that people like all these programs, even the means-tested programs like Medicaid. Obama paid a large temporary price for making Medicaid/ACA bigger, paid for with taxes on the wealthy, but now that it’s in place, voters hate the idea of taking it away.
So what’s a tax-cutter to do? His agenda is fundamentally unpopular; how can it be sold?
One long-standing answer is to muddy the waters, and make elections about white resentment. That’s been the strategy since Nixon, and Trump turned the dial up to 11. And they’ve won a lot of elections — but never had the political capital to reverse the welfare state.
Another strategy is to invoke voodoo: to claim that taxes can be cut without spending cuts, because miracles will happen. That has sometimes worked as a political strategy, but overall it seems to have lost its punch. Kansas is a cautionary tale; and under Obama federal taxes on the top 1 percent basically went back up to pre-Reagan levels.
So what did Trump seem to offer that was new? First, during the campaign he combined racist appeals with claims that he wouldn’t cut the safety net. This sounded as if he was offering a kind of herrenvolk welfare state: all the benefits you expect, but only for your kind of people.
Second, he offered economic nationalism: we were going to beat up on the Chinese, the Mexicans, somebody, make the Europeans pay tribute for defense, and that would provide the money for so much winning, you’d get tired of winning. Economic nonsense, but some voters believed it.
Where are we now? The herrenvolk welfare state never materialized, in part because Trump is too lazy to understand policy at all, and outsourced health care to the usual suspects. So Trumpcare turned out to be the same old Republican thing: slash benefits for the vulnerable to cut taxes for the rich. And it was desperately unpopular.
Meanwhile, things have moved very slowly on the economic nationalism front — partly because a bit of reality struck, as export industries realized what was at stake and retailers and others balked at the notion of new import taxes. But also, there were very few actual voices for that policy with Trump’s ear — mainly Bannon, as far as I can tell.
So if Bannon is out, what’s left? It’s just reverse Robin Hood with extra racism.
On real policy, in other words, Trump is now bankrupt.
But he does have the racism thing. And my prediction is that with Bannon and economic nationalism gone, he will eventually double down on that part even more. If anything, Trumpism is going to get even uglier, and Trump even less presidential (if such a thing is possible) now that he has fewer people pushing for trade wars.
Dove va il Trumpismo?
di Paul Krugman
Sembra che tutti stiano annunciando che Steve Bannon è fuori dai giochi. Io non sono al corrente degli intrighi di palazzo¸ e chiunque pensi che Trump adesso diventerà “presidenziale” è un idiota. In particolare, ho molti dubbi che l’influenza dei suprematisti bianchi e dei neonazisti svanirà.
Quello che, tuttavia, l’uscita di Bannon potrebbe significare è la fine della pretesa che la politica economica trumpista sia qualcosa di diverso dal repubblicanismo tradizionale – ed io penso che smetterla con quella pretesa sarà, almeno un po’, importante.
Gli aspetti fondamentali del dibattito economico degli Stati Uniti sono davvero molto semplici. Il Governo Federale, come ho notato di frequente, è una società di assicurazione con un esercito: oltre alla difesa, la sua spesa è dominata dalla Previdenza Sociale, da Medicare e da Medicaid (in più da alcuni sussidi della Legge sulla Assistenza Sostenibile).
I conservatori affermano in continuazione che vogliono ridurre le funzioni pubbliche. Ma ciò comporta tagliare questi programmi – e quello che oggi sappiamo, dopo la debacle della abrogazione della riforma sanitaria, è che alla gente quei programmi piacciono, persino quelli basati sulle verifiche del reddito come Medicaid. Obama ha pagato un elevato prezzo provvisorio rendendo Medicaid e l’ACA più grandi, pagandolo con le tasse sui ricchi, ma adesso che esse sono in funzione, gli elettori odiano l’idea di eliminarle.
Cosa deve dunque fare chi vuole tagliare le tasse? Il suo programma è fondamentalmente impopolare; come può farlo accettare?
Una risposta di vecchia data è intorbidire le acque e andare alle elezioni sul tema del risentimento dei bianchi. A partire da Nixon quella è stata la strategia, e Trump ha aumentato al massimo la manopola. Ed essi hanno guadagnato molto nelle elezioni – ma non hanno mai avuto il capitale politico per rovesciare lo stato assistenziale.
Un’altra strategia è invocare il voodoo: sostenere che le tasse possono essere tagliate senza tagli alla spesa pubblica, perché accadranno miracoli. Come strategia politica questo talvolta ha funzionato, ma nel complesso oggi sembra aver perso la sua carica. La vicenda del Kansas è un racconto istruttivo; e con Obama le tasse federali sull’1 per cento dei più ricchi sono tornate ai livelli precedenti a Reagan.
Dunque, cosa ha fatto Trump per far sembrare che si trattasse di una nuova offerta? Anzitutto, durante la campagna elettorale ha combinato appelli razzisti con la pretesa che non avrebbe tagliato le reti della sicurezza sociale. In questo modo è sembrato che stesse offrendo una specie di stato assistenziale per gente selezionata: tutti i benefici che vi aspettate, ma solo per la vostra gente.
In secondo luogo ha offerto il nazionalismo economico: dunque ci siamo orientati a picchiare sui cinesi, sui messicani, su qualcuno, a far capire agli europei che devono pagare un tributo per la difesa, e tutto ciò avrebbe fornito il denaro per un successo così grande, al punto che vi sareste stancati del successo. Un nonsenso economico, ma alcuni elettori ci hanno creduto.
A che punto siamo adesso? Lo Stato Assistenziale per gente prescelta non si è mai materializzato, in parte perché Trump è troppo pigro proprio per capire la politica, ed ha appaltato ai soliti noti l’assistenza sanitaria. Dunque il progetto assistenziale di Trump si è rivelato essere la solita vecchia ricetta dei repubblicani: abbattere i benefici per i più deboli e tagliare le tasse ai ricchi. E ciò è risultato disperatamente impopolare.
Nel frattempo, sul fronte del nazionalismo economico le cose si sono mosse molto lentamente – in parte perché si è andati a sbattere contro un po’ di realtà, e le industrie dell’esportazione hanno compreso cosa era in ballo e i venditori al dettaglio ed altri si sono mostrati riluttanti all’idea di nuove tasse all’importazione. Ma ci sono anche state molto poche effettive voci a favore di quella politica all’orecchio di Trump – principalmente Bannon, per quello che posso dire.
Dunque, se Bannon è fuori dai giochi, cosa è rimasto? È soltanto un Robin Hood alla rovescia con il razzismo in aggiunta.
In altre parole, sulla politica vera Trump è adesso in bancarotta.
Ma egli ha la risorsa del razzismo. E la mia previsione è che con Bannon e con il nazionalismo economico fuori dalla scena, egli investirà in quella direzione ancora di più. Semmai, adesso che ha meno persone a spingere per le guerre commerciali, il trumpismo è destinato a divenire persino più odioso, e Trump persino meno presidenziale (ammesso che sia possibile).
settembre 6, 2017
AUG 7 10:30 AM
Paul Krugman
The odds of a self-inflicted US debt crisis now look pretty good: hard-line Republicans are eager to hold the economy hostage, Democrats are in no mood to make concessions, and Trump is both spiteful and ignorant. So it looks fairly likely that by October or so there will come a day when the U.S. government stops paying some of its bills, including interest on debt.
How bad will that be? The truth is that we don’t know; but it may be helpful to talk about *why* we don’t know.
Until now, US debt has played a special role in the world economy, because it is — or was — the ultimate safe asset, the thing people can use to secure transactions with no questions about it retaining its value. In a way, the dollar is to other moneys as money is to other assets, and US dollar debt is the form in which dollars are held with ultimate safety.
Taking away that role could be very nasty. One prominent interpretation of the 2008 financial crisis is that it was a “safe asset shortage“: when people realized that those AAA securities engineered from subprime loans weren’t the real thing, they scrambled into an inadequate supply of trill safe stuff. Deprive them of dollar debts as safe assets, and terrible things could happen.
The question then becomes whether an interruption in payments would really knock out the special role of U.S. debt.
Suppose that everyone expected normal payments to resume, with back interest, in a couple of weeks. In that case, even a slight discount on, say, Treasury bills would make them a very good investment — so speculators would basically step in and support the value of U.S. debt despite temporary default. In that case default might not be that big a deal.
The big problem would come if investors see the default as more than a temporary glitch — if they see it as a sign of enduring, critical dysfunction in American governance. In that case they wouldn’t necessarily step in to buy our debt, and their confidence in the whole economic edifice would take a severe hit.
But of course that’s implausible. To see default by a basically solvent government as more than a mere glitch, you’d have to believe that we have an unbridgeable partisan divide, with one party largely dominated by extremists, and with a president who is ignorant, incompetent, and vindictive.
Oh, wait.
Quanto sarà negativo se raggiungiamo il tetto del debito? [1]
di Paul Krugman
Le probabilità di una crisi del debito che gli Stati Uniti si provocherebbero da soli sono adesso piuttosto buone: gli estremisti repubblicani sono ansiosi di tenere l’economia in ostaggio, i democratici non hanno nessuna voglia di fare concessioni e Trump è tanto astioso che ignorante. Così sembra abbastanza probabile che all’incirca in ottobre arriverà un giorno nel quale il Governo degli Stati Uniti smetterà di pagare alcuni suoi conti, inclusi gli interessi sul debito.
Quanto sarà negativo? La verità è che non lo sappiamo; ma può essere utile ragionare del “perché” non lo sappiamo.
Sinora il debito degli Stati Uniti ha giocato un ruolo speciale nell’economia globale, giacché esso è – o era – l’ultimo asset sicuro, la cosa che la gente può usare per assicurare transazioni senza avere alcun dubbio sul mantenimento del loro valore. In un certo senso, il dollaro sta alle altre valute come il denaro sta agli altri asset, e il debito in dollari degli Stati Uniti è il modo in cui i dollari sono detenuti con una sicurezza definitiva.
Togliere di mezzo quel ruolo potrebbe essere molto negativo. Una interpretazione principale della crisi finanziaria del 2008 è che essa espresse una “mancanza di asset sicuri”: quando la gente comprese che quei titoli AAA costruiti sui mutui subprime non erano una cosa reale, precipitò in un’offerta inadeguata di veri e propri oggetti sicuri. Togliete i debiti in dollari come asset sicuri e potrebbero accadere cose tremende.
La domanda allora diventa se una interruzione nei pagamenti effettivamente manderebbe al tappeto il ruolo particolare del debito statunitense.
Supponiamo che tutti si aspettino che i pagamenti normali riprendano, maggiorati degli interessi, in un paio di settimane. In quel caso, persino un leggero sconto, ad esempio, sui buoni ordinari del Tesoro li renderebbe un investimento molto interessante – cosicché gli speculatori si rivolgerebbero e sosterrebbero il valore del debito statunitense nonostante un default temporaneo. In quel caso il default non sarebbe un grande problema.
Il grande problema verrebbe se gli investitori vedessero il default come qualcosa di peggio di un disguido temporaneo – se lo considerassero come il segno di una perdurante disfunzione critica nella governance americana. In quel caso essi non necessariamente si rivolgerebbero all’acquisto del nostro debito, e la loro fiducia nell’intero edificio economico subirebbe un grave colpo.
Ma ovviamente questo non è inverosimile. Per considerare un default da parte di un Governo fondamentalmente solvibile come qualcosa di più di un mero disguido, si dovrebbe credere che siamo in presenza di un incolmabile abisso di faziosità, con un partito ampiamente dominato dagli estremisti, e con un Presidente ignorante, incompetente e vendicativo.
Non è inverosimile.
[1] Il “tetto del debito” è una piuttosto strana regola del sistema istituzionale americano. Superare il livello del debito dell’anno precedente è abbastanza normale, se solo si considera che ogni anno comporta un certo livello di inflazione, o un aumento della spesa pubblica semplicemente derivante dalla crescita della popolazione. Ma perché questo accada è necessario che il Congresso, anno dopo anno, ‘ritocchi’ quel tetto. Se il Congresso non assume questa decisione, la dotazione finanziaria dello Stato diventa insufficiente all’espletamento di tutti i servizi ordinari, e il pagamento degli interessi sul debito è un servizio ordinario; per un certo periodo lo Stato diverrebbe insolvente. In questo senso una non-decisione da parte del Congresso potrebbe provocare un provvisorio default.
Questa regola, dunque, può consentire ad una maggioranza congressuale di tenere ‘in ostaggio’ per un certo periodo la amministrazione pubblica. Può sembrare paradossale, ma per un certo numero di congressisti repubblicani estremisti mettere sotto scacco la Amministrazione pubblica può apparire desiderabile, anche se provoca anzitutto guai al Governo.
settembre 1, 2017
AUG 4 1:53 PM
Paul Krugman
It seems like ancient history now, but five years ago there was a remarkable Beltway consensus that high unemployment was structural, the result of a mismatch between the skills workers had and the skills the economy needed. What made this consensus remarkable was that all the evidence pointed the other way: none of the telltale signs of a skill mismatch, like rising wages for some groups despite high unemployment, were in sight. Meanwhile, lots of other evidence – like the fact that unemployment was falling fastest in the same places and occupations where it rose most – pointed to a cyclical story, that is, that the economy was simply suffering from inadequate demand.
Yet so strong was the groupthink that news analyses often presented the structural story as if it were the known truth, without even acknowledging the contrary case.
So here we are, with no obvious up-skilling of the work force, but with unemployment now below pre-crisis levels, with prime-age employment not too far below where it was, and still no wage pressure. People got mad when I called the structural story humbug, but humbug it was.
Why does this matter now? Well, the people who were sure that it was structural are still out there, opining on economic policy. And while we all make mistakes, is there any sign that any of these people have so much as admitted getting this wrong, let along learned from the experience?
La disoccupazione strutturale era proprio una stupidaggine
di Paul Krugman
Ora sembra una storia antica, ma cinque anni orsono c’era un considerevole consenso a Washington sull’idea che l’elevata disoccupazione fosse strutturale, il risultato di un non incontro tra le competenze che avevano i lavoratori e le competenze di cui aveva bisogno l’economia. Quello che rese questo consenso considerevole fu che tutte le prove andavano nella direzione opposta: non si vedeva alcun segno rivelatore di disaccordo di competenze; come i salari crescenti per alcuni gruppi nonostante l’alta disoccupazione. Nel frattempo, una gran quantità di altre prove – come il fatto che la disoccupazione stesse scendendo molto velocemente negli stessi posti ed occupazioni nei quali era cresciuta maggiormente – indicavano una storia ciclica, ovvero che l’economia stesse semplicemente soffrendo di inadeguata domanda.
Tuttavia era così forte il gruppo di pensiero che le analisi giornalistiche spesso presentavano la spiegazione strutturale come se fosse verità rivelata, senza neppure riconoscere gli argomenti opposti.
Siamo dunque a questo punto, con nessuna evidente crescita di competenze nella forza lavoro, ma con una disoccupazione che adesso è sotto i livelli di prima della crisi, e con un’occupazione nella principale età lavorativa non troppo lontana dal punto in cui era, ed ancora nessuna pressione salariale. La gente diventava furiosa quando definivo la spiegazione strutturale una frottola, ma era una frottola.
Perché oggi tutto questo è importante? Ebbene, le persone che ritenevano fosse disoccupazione strutturale sono ancora in circolazione e discettano di politica economica. E se gli errori li facciamo tutti, c’è qualche segno che alcune di queste persone abbiano anche soltanto ammesso di aver sbagliato, per non dire di aver appreso qualcosa dall’esperienza?
settembre 1, 2017
JUL 30 4:20 PM
Paul Krugman
Every once in a while people make the point that much of what eventually became Obamacare came from, of all places, the Heritage Foundation – that is, the ACA is basically what conservatives used to advocate on health care. So I recently reread Stuart Butler’s 1989 Heritage Foundation lecture, “Assuring Affordable Health Care For All Americans” – hmm, where have I seen similar language? — to see how true that is; and the answer is, it really is pretty much true.
First of all, this wasn’t just one guy at Heritage writing: Butler referred to his proposal as “the Heritage plan”, referring to a monograph that lays it out and does indeed present it as the institution’s policy, not just his opinion.
Second, while the Heritage plan wasn’t exactly the same as ObamaRomneycare, it was pretty close. Like the ACA, it imposed a mandate requiring that everyone buy an acceptable level of coverage. Also like the ACA, it proposed subsidies to make sure that everyone could in fact afford that coverage. That’s two legs of the three-legged stool.
Where the plan differed was in the handling of pre-existing conditions. Butler opposed community rating, viewing it as an indirect tax on the healthy – but called instead for big subsidized high-risk pools to cover those private insurers would otherwise shun.
I have real doubts about whether this would have been workable. But two things about it are notable. (1) The Heritage plan would have required bigger, not smaller, government spending; that is, on-budget outlays would have been larger. (2) The piece of the ACA Heritage didn’t want was the part that’s actually most popular with the public.
Overall, what’s striking about the Heritage plan is that it’s not notably more conservative than what Obama actually implemented: a bit less regulation, a substantial amount of additional spending. If Obamacare is an extreme leftist measure, as so many Republicans claim, the Heritage Foundation in the 1980s was a leftist institution.
La Fondazione Heritage sulla salute, 1989
Di tanto in tanto le persone avanzano l’argomento che la Fondazione Heritage, tra tutte le fonti, alla fine è diventata buona parte del fondamento della riforma sanitaria di Obama – vale a dire che la Legge sulla Assistenza Sostenibile corrisponde fondamentalmente a quello che i conservatori erano soliti sostenere sulla assistenza sanitaria. Così ho riletto di recente la conferenza di Stuart Butler del 1989 alla Fondazione Heritage “Garantire l’assistenza sanitaria sostenibile per tutti gli americani” – hm, dove ho trovato un linguaggio simile? – per vedere quanta verità c’era in quell’argomento; e la risposta è che esso è effettivamente assai vero.
Prima di tutto, non si trattava solo di un tizio che scriveva presso la Fondazione Heritage: Butler si riferiva alle sue proposte come al “progetto Heritage”, menzionando una monografia che esponeva quella proposta e la presentava effettivamente come la politica dell’Istituto, non solo come la sua opinione.
In secondo luogo, se il piano dell’Heritage non era esattamente la stessa cosa delle riforme dell’assistenza di Obama e di Romney, ci andava abbastanza vicino. Come la legge di Obama, imponeva un obbligo con il quale si richiedeva che ognuno acquistasse un livello accettabile di copertura assicurativa. Sempre come l’ACA, essa proponeva sussidi per garantire che ognuno potesse davvero permettersi tale copertura. Ovvero, due gambe dello sgabello con tre gambe.
Dove il piano differiva era nella gestione delle patologie preesistenti. Butler si opponeva al sistema della valutazione del costo sulla base dei valori della comunità, considerandola come una tassa indiretta sulle persone in salute – mentre si pronunciava per elevati sussidi sugli aggregati di rischio per dare copertura a quegli assicuratori privati che altrimenti avrebbero eluso l’assistenza.
Ho qualche dubbio reale sul fatto che avrebbe funzionato. Ma ci sono due aspetti notevoli. Il primo è che il progetto dell’Heritage avrebbe richiesto una spesa pubblica più elevata e non più piccola; il secondo che le spese a carico del Bilancio sarebbero state più ampie. La parte che la proposta di riforma sanitaria non voleva era quella che effettivamente è più popolare presso l’opinione pubblica.
Nel complesso, quello che è sorprendente nel progetto dell’Heritage è che esso non è particolarmente più conservatore di quello che effettivamente realizzò Obama: una regolamentazione un po’ minore, una quantità sostanziale di spesa aggiuntiva. Se l’Obamacare è una misura di estrema sinistra, come sostengono molti repubblicani, la Fondazione Heritage negli anni ’80 era una istituzione di sinistra.
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