APR 12 2:13 PM
Still thinking about the upcoming French election. Will Le Pen be the next Trump? I have no idea. But I’ve been interested to note how little resemblance there is between the underlying economics in France and here, which in turn raises further doubts about how far “economic anxiety” goes toward explaining the faux-populist surge.
One thing you have to bear in mind is that the French economy gets terrible press — some combination of conservative bias (with such a generous welfare state they *should* be a disaster, dammit) and cultural envy/annoyance. A few years back Roger Cohen quoted himself about how there is a
pervasive sense that not only jobs — but also power, wealth, ideas and national identity itself — are migrating, permanently and at disarming speed, to leave a vapid grandeur on the banks of the Seine
then noted wryly that he wrote that in 1997; and somehow France is still there.
In fact, the 1990s were something of a low point; in a number of key ways France has done better since then, especially compared with the United States. Official unemployment is high, but that’s somewhat misleading. If you look at adults in their prime working years, they’re actually more likely to be employed in France than they are here:
OECD and BLS
French productivity has gone from slightly above to slightly below the US level, perhaps because more people are employed; but anyway, given the wiggle room in such numbers, we’re basically looking at a country that is at the technological frontier:
OECD
And France has, so far at least, been spared the Case-Deaton epidemic of “deaths of despair”:
If very low inflation is any indicator, the French economy does appear to be operating somewhat below potential. But it’s not in macroeconomic crisis.
And as I wrote yesterday, France is not Greece: the euro was a bad idea, but France is not a nation currently suffering severely from lack of an independent currency, so there is no urgency about exit — and hence no obvious reason to incur the huge costs euro exit would impose.
So what’s it all about? Presumably it’s about identity politics, French style. But my point is that the economic anxiety trope works even worse for France than it does here.
Oh, and let me repeat: Le Pen does not offer any answer to the problems of the EU.
I francesi e noi, di Paul Krugman
Sto ancora riflettendo sulle prossime elezioni francesi. La Le Pen sarà il prossimo Trump? Non ne ho idea. Ma mi interessa osservare quanto poca somiglianza ci sia tra gli andamenti di fondo dell’economia in Francia e da noi, la qual cosa a sua volta solleva dubbi ulteriori su quanto sia lontana l’”ansietà economica” dallo spiegare l’ascesa del falso populista [1].
Una cosa che si deve tenere a mente è che l’economia francese ha un pessimo trattamento da parte della stampa – una qualche combinazione di tendenze conservatrici (dannazione, con un tale generoso Stato assistenziale, ‘dovrebbero’ essere un disastro) e di fastidio e invidia culturale. Pochi anni fa Roger Cohen citava sé stesso a proposito di quanto ci sia
“un senso pervasivo che non soltanto i posti di lavoro – ma anche il potere, la ricchezza, le idee e la stessa identità nazionale – stiano emigrando, in modo duraturo e con una velocità disarmante, lasciando una scialba ‘grandeur’ sulle sponde della Senna”
per poi osservare sarcasticamente che aveva scritto quelle cose nel 1997; e in qualche modo la Francia era ancora a quel punto.
Di fatto, gli anni ’90 furono una specie di periodo infelice: da allora per un certo numero di aspetti fondamentali la Francia è andata bene, specialmente a confronto con gli Stati Uniti. La disoccupazione ufficiale è elevata, ma quello è in un certo senso un dato fuorviante. Se si guarda alla popolazione adulta nei suoi primi anni lavorativi, effettivamente è più probabile che essa sia occupata in Francia che non da noi [2]:
OCSE e BLS
La produttività francese è passata da un livello leggermente superiore ad un livello leggermente inferiore agli Stati Uniti; ma in ogni caso, considerato il grado di oscillazione di tali dati, stiamo fondamentalmente osservando un paese che è all’avanguardia della tecnologia:
E la Francia, almeno sinora, è stata risparmiata dalla epidemia studiata da Case-Deaton delle “morti per disperazione” [3]:
Se la bassa inflazione è un indicatore di un qualche rilievo, l’economia francese appare operare in qualche modo al di sotto del suo potenziale. Ma essa non è in una crisi macroeconomica.
E, come ho scritto ieri, la Francia non è la Grecia: l’euro fu una cattiva idea, ma la Francia non è attualmente una nazione che soffre per la mancanza di una valuta indipendente, cosicché non c’è alcuna urgenza di una uscita – e di conseguenza non c’è alcuna ragione evidente per sostenere i costi ingenti che una uscita dall’euro provocherebbe.
Dunque, di cosa si sta ragionando? Presumibilmente di identità politica, secondi lo stile francese. Ma la mia opinione è che il luogo comune della ‘ansietà economica’ funzioni anche peggio in Francia che da noi.
Infine, consentitemi di ripeterlo: Le Pen non offre alcuna risposta ai problemi dell’Unione Europea.
[1] Al singolare, ovvero riferita al falso populismo di Trump.
[2] La Tabella successiva si riferisce alla popolazione in età lavorativa tra i 25 ed i 54 anni. Il fatto che l’andamento sia migliore di quello americano, infatti, dipende in buona misura dal fatto che i giovani francesi godono di norme sul diritto allo studio migliori dei coetanei americani (che sono costretti a lavorare prima, talora anche pe pagarsi gli studi universitari) e che gli anziani francesi sono facilitati ad uscire dalla forza lavoro da norme più favorevoli in materia di pensionamento.
[3] Angus Deaton ha ricevuto nell’anno 2016 il premio Nobel per l’economia. In particolare hanno provocato grande interesse i suoi studi, assieme ad Anne Case, sulla involuzione delle attese di vita nella popolazione bianca americana. Su questo blog, con un semplice ricerca alla voce ‘Deaton’, si trovano riflessioni su quegli studi, a cura di Krugman, Stiglitz ed altri.
[4] La tabella, desunta dagli studi di Deaton-Case, mostra i tassi di mortalità nella popolazione tra i 45 ed i 54 anni, in alcuni paesi del mondo (anno di base il 2010). La riga in rosso indica i tassi di mortalità nella popolazione bianca americana (esclusi dunque gli afroamericani ed i latini). Come si vede, quel dato è unico nel segnalare una stasi se non una crescita dei tassi di mortalità, ovvero una riduzione delle aspettative di vita. Quei tassi di mortalità sono oggi più che doppi rispetto alla Svezia.
Si deve considerare che i fattori principali di quel fenomeno messi in evidenza tra gli studiosi sono, oltre ai suicidi, la dipendenza da oppiacei – seppure nelle forme legali degli antidolorifici e degli ansiolitici – la dipendenza da alcool e malattie derivanti dalla cattiva alimentazione. È abbastanza evidente che i ‘bianchi’ in questione sono soprattutto nella popolazione con redditi più bassi e nelle aree caratterizzate da processi di crisi economica.
aprile 12, 2017
APRIL 11, 2017 9:28 AM
France will have its presidential election in a few weeks, and there are understandable concerns that it may be another Trump shock. In particular, the travails of the euro have tarnished the reputation of the European project – the long march toward peace and prosperity through economic integration – and played into the hands of anti-Europe politicians. And French contacts tell me that the Le Pen campaign is trying to portray critiques of European policies from prominent economists as implicit endorsements of the FN platform.
They aren’t.
I’ve been a harsh critic both of the euro and of the austerity policies followed in the euro area since 2010. France could and should be doing much better than it is. But the kinds of policies the FN is talking about – unilateral exit from not just the euro but the EU – would hurt, not help, the French economy.
Start with the euro. The single currency was and is a flawed project, and countries that never joined – Sweden, the UK, Iceland – have benefited from the flexibility that comes from independent currencies. There is, however, a huge difference between choosing not to join in the first place and leaving once in. The transition costs of euro exit and restoration of a national currency would be huge: massive capital flight would cause a banking crisis, capital controls and bank holidays would have to be imposed, problems of how to value contracts would create a legal morass, business would be disrupted during a long interim period of confusion and uncertainty.
These costs might nonetheless be worth bearing under extreme circumstances, such as those facing Greece: a severely depressed economy that needs a radical reduction in costs relative to its trading partners might find even a costly euro exit followed by devaluation preferable to years of grinding deflation.
France, however, does not fit that description. French employment performance should be better, but it’s not terrible – prime-age adults are more likely to be employed than they are in the United States. And since the creation of the euro, French labor costs have roughly tracked the average for the euro area as a whole, so there’s little reason to believe that a restored franc would or should experience a large devaluation:
OECD
In short, for France exiting the euro would bring all the costs that Greece would have faced, without any of the benefits.
What about the EU in general? There is every reason to believe that membership in the EU, making France part of a far larger market than it could provide on its own, makes French industry more productive and offers French citizens a wider range of cheaper products than they would otherwise be able to buy. Sorry, but France just isn’t big enough to prosper with inward-looking, nationalist economic policies. And given the benefits of being part of a larger economic entity, being part of Schengen – which reduces the frictions and makes integration work better – should be seen as a privilege, not a burden.
I’m not by any means saying that the EU is fine, or that French policy is great. The European consensus in favor of austerity was immensely wrong-headed and destructive – and France has been far too willing to impose unnecessary austerity on itself. I sometimes say that the most serious economic ailment France suffers from is hypochondria, a willingness to believe propaganda that has portrayed it as the sick man of Europe for more than three decades, even as it continues to exhibit high productivity and decent employment performance.
The point, however, is that nothing the FN has to offer would move France in the right direction. Just because Le Pen and economists like me are both critical of European policy doesn’t mean we have anything in common.
L’Europa ha problemi, ma Le Pen non è la risposta, di Paul Krugman
La Francia avrà le sue elezioni presidenziali tra poche settimane e c’è una comprensibile preoccupazione che possa trattarsi di un altro shock come quello di Trump. In particolare, i guai dell’euro hanno macchiato la reputazione del progetto europeo – la lunga marcia verso la pace e la prosperità attraverso l’integrazione economica – e hanno fatto il gioco dei politici anti europei. E i contatti con la Francia mi riferiscono che la campagna elettorale della Le Pen sta cercando di presentare le critiche alle politiche europee da parte di eminenti economisti come un appoggio implicito alla piattaforma del FN.
Non è così.
Sono stato aspramente critico sia dell’euro che delle politiche dell’austerità che sono proseguite nell’area euro dal 2010. La Francia poteva e doveva essere in condizioni molto migliori di quelle in cui è. Ma il genere di politiche delle quali il FN sta parlando – l’uscita unilaterale non solo dall’euro ma dall’Unione Europea – non aiuterebbero, bensì danneggerebbero, l’economia francese.
Partiamo dall’euro. La moneta unica è stata ed è un progetto difettoso, e i paesi che non hanno mai aderito – la Svezia, il Regno Unito, l’Islanda – hanno beneficiato della flessibilità che deriva da valute indipendenti. C’è, tuttavia, una grande differenza tra lo scegliere di non aderire sin dall’inizio e andarsene una volta che si è aderito. I costi di transizione dell’uscita dall’euro e di ripristino di una valuta nazionale sarebbero ingenti: la fuga massiccia di capitali provocherebbe una crisi bancaria, si dovrebbero imporre controlli sui capitali e giorni di festività [1], i problemi di come valutare i contratti provocherebbero situazioni intricate dal punto di vista legale, le imprese sarebbero fermate per un lungo periodo di interruzione caratterizzato da confusione e da incertezza.
Ciononostante, varrebbe la pena di sopportare questi costi in condizioni estreme, quali quelle che affronta la Grecia: una economia gravemente depressa che ha bisogno di una radicale riduzione dei costi in rapporto ai suoi partner commerciali potrebbe persino affrontare un costoso abbandono dell’euro seguito da una svalutazione, preferibile ad anni di deflazione insopportabile.
La Francia, tuttavia, non rientra in questa descrizione. L’andamento occupazionale francese dovrebbe essere migliore, ma non è terribile – gli adulti nell’età della prima occupazione è molto più probabile che abbiano un lavoro che non negli Stati Uniti. E dal momento dell’istituzione dell’euro, i costi del lavoro in Francia si sono grosso modo collocati nella media dell’area euro nel suo complesso, dunque c’è poca ragione di credere che un franco ripristinato possa o debba provocare un’ampia svalutazione.
OCSE
In poche parole, l’uscita dall’euro della Francia comporterebbe tutti i costi che la Grecia avrebbe subito, senza alcun beneficio.
Che dire più in generale dell’euro? Ci sono tutte le ragioni per credere che la partecipazione all’UE, rendendo la Francia parte di un mercato più ampio di quello che essa potrebbe fornire per conto proprio, consenta all’industria francese di essere più competitiva e di offrire ai cittadini francesi una gamma più ampia di prodotti più convenienti di quelli che altrimenti potrebbero permettersi di acquistare. Può non piacere, ma la Francia non è semplicemente abbastanza forte da prosperare con politiche economiche nazionaliste, che la chiudano in sé stessa. E dati i benefici di essere parte di una entità economica più ampia, essere partecipe dell’accordo di Schengen – che riduce le frizioni e fa meglio operare l’integrazione – dovrebbe essere considerato come un privilegio, non come un peso.
Non sto in alcun modo dicendo che l’UE stia andando bene, o che la politica francese sia straordinaria. L’unanimità europea a favore dell’austerità è stata grandemente erronea e distruttiva – e la Francia è stata fin troppo disponibile ad imporre a sé stessa una austerità non necessaria. Talvolta dico che il più serio malanno economico francese dipende dalla sua ipocondria, una disponibilità a credere ad una propaganda che l’ha ritratta come il malato d’Europa per più di tre decenni, anche se essa continua a mostrare una elevata produttività ed una prestazione occupazionale dignitosa.
Il punto, tuttavia, è che niente di quello che il FN ha da offrire alla Francia si muoverebbe nella direzione giusta. Solo perché la Le Pen ed un economista come me siamo entrambi critici verso la politica europea, non significa che abbiamo niente in comune.
[1] Nel senso, credo, di tenere chiusi i mercati finanziari per periodi aggiuntivi alle normali festività.
aprile 12, 2017
MARCH 31, 2017 10:13 AM
Is anything ever going to happen on trade, Trump’s signature issue other than immigration? As Matt Yglesias notes, so far almost nothing has. Bloomberg tells us that companies are back to the usual business of moving jobs to Mexico, after a brief hiatus — unclear whether there was any real pause, or just a pause in announcements, but in any case CEOs seem to have decided that NAFTA isn’t under much threat.
True, Trump is tweeting threats about the China trade, and maybe something big will happen after Mar-a-Lago. But that gets us to the question, is Trump actually in a position to pursue the trade issue in any serious way?
My answer is probably not — except as a move taken out of political desperation.
The starting point for any such discussion has to be the observation that during the campaign, when Trump talked trade, he had no idea what he was talking about — no more than he did on health care, or taxes, or coal, or …. Specifically, Trump seemed to have two false ideas in mind:
Now, reality: if you look for the obvious giveaways in NAFTA, which the US can demand be redressed, you won’t find them. NAFTA brought down most trade barriers between us and Mexico; there wasn’t any marked asymmetry. In fact, since Mexican tariffs were higher to start with, in effect Mexico made more concessions than we did (although we were giving access to a bigger market.) China is a bit more complicated — arguably the Chinese effectively evade some WTO rules. But even there it’s not obvious what you would demand from a new agreement.
Oh, and China currency manipulation was an issue 5 years ago — but isn’t now.
What about the effects of protectionism? Leave aside Econ 101 gains from trade, and let’s just talk about business interests. The fact is that modern international trade creates interdependence in a way that old-fashioned trade didn’t; stuff you export is often produced with a lot of imported components, stuff you import often indirectly includes a lot of your own exports. Here’s the domestic share of value added in transport equipment:
When we buy autos from Mexico, only about half the value added is Mexican, with most of the rest coming from the US — so if you restrict those imports, a lot of U.S. production workers will be hurt. If we restrict imports of components from Mexico, we’re going to raise the costs of U.S. producers who export to other markets; again, a lot of U.S. jobs will be hit. So even if you completely ignore the effects on consumers, protectionist policies would produce many losers in the U.S. industrial sector.
And Trump can’t ignore consumer interests, either; if nothing else, Walmart employs 1.5 million people in America, i.e., 30 times the total number of US coal miners.
So any attempt on Trump’s part to get real about trade will run into fierce opposition, not from the kind of people his supporters love to hate, but from major business interests. Is he really ready for that?
So far, at least, the Trump trade agenda, such as it is, has involved tweeting at companies, telling them to keep jobs here, then claiming credit for any seemingly job-creating actions they take. And that got him a couple of favorable news cycles. In practice, however, it means little or nothing. And even tweet-and-photo-op policy seems to be fading out: companies that might have wanted to help Trump puff himself up a couple of months ago are likely to be a lot less accommodating to Mr. Can’t-Pass-A-Health-Billl, with his 36 percent approval rating.
All of this suggests that on trade, as on everything else substantive, Trumpism is going to be all huffing and puffing with very little to show for it. But there is one observation that gives me pause — namely, Trump’s growing need to find some way to change the subject away from his administration’s death spiral. Domestic policy is stalled; the Russia story is getting closer by the day; even Republicans are starting to lose their fear of standing up to the man they not-so-secretly despise. What’s he going to do?
Well, the classic answer of collapsing juntas is the Malvinas solution: rally the nation by creating a foreign confrontation of some kind. Usually this involves a shooting war; but maybe a trade war would serve the same purpose.
In other words, never mind economic nationalism and all that. If Trump does do something drastic on trade, it won’t be driven by his economic theories, it will be driven by his plunging approval rating.
Sui tweet e sul commercio, di Paul Krugman
di Paul Krugman
Sta per accadere qualcosa sul commercio, il tema distintivo di Trump oltre all’immigrazione? Come osserva Matt Yglesias, sino ad ora non è successo quasi niente. Bloomberg ci informa che le società sono tornate alle pratiche usuali di spostare i posti di lavoro in Messico, dopo una breve interruzione – non è chiaro se ci sia stata una vera pausa, o solo una pausa negli annunci, ma in ogni caso gli amministratori delegati sembrano aver deciso che il NAFTA non è minacciato.
È vero, Trump sta twittando sul commercio della Cina, e forse qualcosa di grosso accadrà dopo l’incontro di Mar-a-Lago. Ma questo ci porta alla domanda: effettivamente Trump è nella condizione di perseguire il tema del commercio con una qualche serietà?
La mia risposta è che probabilmente non lo sia – a meno che non si tratti di una mossa che deriva dalla disperazione politica.
Il punto di partenza per ogni discussione non può che essere l’osservazione che durante la campagna elettorale, quando Trump parlava di commercio, non aveva alcuna idea di cosa stesse parlando – non più di quelle che aveva sulla assistenza sanitaria, sulle tasse, sul carbone o su altro. In particolare, Trump sembrava avere due convinzioni false in testa:
Vediamo la realtà: se voleste cercare un evidente regalo nel NAFTA, che gli Stati Uniti possono chiedere sia risarcito, non ne trovereste uno. Il NAFTA ha abbattuto molte barriere commerciali tra noi e il Messico; non c’era alcuna particolare asimmetria. Nei fatti, dato che le tariffe messicane erano più alte alla partenza, il Messico ha fatto in sostanza maggiori concessioni di quelle che abbiamo fatto noi (sebbene noi stiamo fornendo accesso ad un mercato più grande). La Cina è un po’ più complicata – probabilmente i cinesi eludono qualche regola del WTO. Ma anche in quel caso non è così chiaro cosa chiedere con un nuovo accordo.
Inoltre, la questione della manipolazione valutaria della Cina esisteva cinque anni fa – adesso non esiste più.
Che dire degli effetti del protezionismo? Lasciamo da parte i vantaggi che ogni libro di testo spiega sul commercio, e parliamo soltanto degli interessi delle imprese. Il fatto è che il commercio internazionale moderno crea interdipendenza in un modo che il commercio di un tempo non faceva; le cose che si esportano sono spesso prodotte con molte componenti di importazione, le cose che si importano spesso includono indirettamente molte delle proprie esportazioni. Ecco la quota nazionale del valore aggiunto nel parco circolante:
Quando acquistiamo automobili dal Messico, soltanto circa la metà del valore aggiunto è messicano, mentre la maggior parte del resto viene dagli Stati Uniti – se dunque si restringono quelle importazioni, molti lavoratori della produzione statunitense saranno danneggiati. Se restringiamo l’importazione delle componenti dal Messico, finiremo coll’elevare i costi dei produttori degli Stati Uniti che esportano su altri mercati; nuovamente verrà colpita una gran quantità di posti di lavoro americani. Dunque, persino se si ignorassero completamente gli effetti sui consumatori, le politiche protezioniste produrrebbero molti perdenti nei settori dell’industria degli Stati Uniti.
E Trump non può neppure ignorare gli interessi dei consumatori; per non dire di altro, la Walmart occupa 1 milione e 500 mila persone in America, ovvero 30 volte il numero totale dei minatori statunitensi del carbone.
Dunque ogni tentativo da parte di Trump di fare sul serio sul commercio andrà a sbattere contro la forte opposizione non da parte delle persone che i suoi sostenitori sono inclini ad odiare, ma degli importanti interessi delle imprese. È davvero pronto per questo?
Sino ad ora, l’agenda sul commercio di Trump, per quello che era, aveva riguardato l’interlocuzione su Twitter con le società, il dir loro di mantenere qua i posti di lavoro, per poi vantare un merito per ogni apparente iniziativa di creazione di posti di lavoro che esse assumevano. E questo gli dava un paio di passaggi favorevoli nel mondo delle informazioni. In pratica, tuttavia, questo significa poco o nulla. E persino la politica dei tweet e dei servizi fotografici sembra stia svanendo: le società che potevano aiutare Trump a darsi delle arie un paio di mesi fa, è probabile che siano molto meno ben disposte nei confronti del Signor-non-mi-riesce-di-far approvare-la proposta-sulla-sanità, con il suo 36 per cento di percentuale di consensi.
Tutto questo indica che sul commercio, come su ogni altra cosa sostanziale, il trumpismo sta battendo la fiacca, ed ha ben poco spettacolo da mettere in mostra. Ma c’è una considerazione che mi rende incerto – precisamente, il bisogno crescente di Trump di trovare un qualche modo per cambiare copione, fuori dalla spirale fatale della sua Amministrazione. La politica interna è in stallo; la storia sulla Russia si avvicina sempre di più; persino i repubblicani stanno cominciando a perdere il loro timore di prendere posizione nei confronti dell’individuo che detestano non-tanto-segretamente. E lui cosa finirà per fare?
Ebbene, la risposta classica dei governi prossimi al collasso è la soluzione delle Malvine: riaggregare la nazione creando un conflitto con l’estero di qualche genere. Di solito questo riguarda uno scontro militare; ma forse una guerra commerciale servirebbe allo stesso scopo.
In altre parole, non è importante il nazionalismo economico e tutto il resto. Se Trump farà qualcosa di drastico sul commercio, non sarà determinato dalle sue teorie economiche, sarà determinato dal suo crollo nell’indice dei consensi.
[1] “Bigly” in lingua inglese non esiste; è un neologismo coniato da Trump, che noi tradurremmo facilmente con qualcosa come “alla grande”.
marzo 21, 2017
By Paul Krugman
MARCH 20, 2017 11:11
And now for something completely different. Ryan Avent has a nice summary of the argument in his recent book, trying to explain how dramatic technological change can go along with stagnant real wages and slowish productivity growth. As I understand it, he’s arguing that the big tech changes are happening in a limited sector of the economy, and are driving workers into lower-wage and lower-productivity occupations.
But I have to admit that I was having a bit of a hard time wrapping my mind around exactly what he’s saying, or how to picture this in terms of standard economic frameworks. So I found myself wanting to see how much of his story could be captured in a small general equilibrium model — basically the kind of model I learned many years ago when studying the old trade theory.
Actually, my sense is that this kind of analysis is a bit of a lost art. There was a time when most of trade theory revolved around diagrams illustrating two-country, two-good, two-factor models; these days, not so much. And it’s true that little models can be misleading, and geometric reasoning can suck you in way too much. It’s also true, however, that this style of modeling can help a lot in thinking through how the pieces of an economy fit together, in ways that algebra or verbal storytelling can’t.
So, an exercise in either clarification or nostalgia — not sure which — using a framework that is basically the Lerner diagram, adapted to a different issue.
Imagine an economy that produces only one good, but can do so using two techniques, A and B, one capital-intensive, one labor-intensive. I represent these techniques in Figure 1 by showing their unit input coefficients:
Here AB is the economy’s unit isoquant, the various combinations of K and L it can use to produce one unit of output. E is the economy’s factor endowment; as long as the aggregate ratio of K to L is between the factor intensities of the two techniques, both will be used. In that case, the wage-rental ratio will be the slope of the line AB.
Wait, there’s more. Since any point on the line passing through A and B has the same value, the place where it hits the horizontal axis is the amount of labor it takes to buy one unit of output, the inverse of the real wage rate. And total output is the ratio of the distance along the ray to E divided by the distance to AB, so that distance is 1/GDP.
You can also derive the allocation of resources between A and B; not to clutter up the diagram even further, I show this in Figure 2, which uses the K/L ratios of the two techniques and the overall endowment E:
Now, Avent’s story. I think it can be represented as technical progress in A, perhaps also making A even more capital-intensive. So this would amount to a movement southwest to a point like A’ in Figure 3:
We can see right away that this will lead to a fall in the real wage, because 1/w must rise. GDP and hence productivity does rise, but maybe not by much if the economy was mostly using the labor-intensive technique.
And what about allocation of labor between sectors? We can see this in Figure 4, where capital-using technical progress in A actually leads to a higher share of the work force being employed in labor-intensive B:
So yes, it is possible for a simple general equilibrium analysis to capture a lot of what Avent is saying. That does not, of course, mean that he’s empirically right. And there are other things in his argument, such as hypothesized effects on the direction of innovation, that aren’t in here.
But I, at least, find this way of looking at it somewhat clarifying — which, to be honest, may say more about my weirdness and intellectual age than it does about the subject.
Geometria del robot (per molto esperti),
di Paul Krugman
E adesso passiamo a qualcosa di molto diverso. Ryan Avent pubblica un bel sommario dell’argomento di un suo libro recente, cercando di spiegare come uno spettacolare mutamento tecnologico possa non essere in contraddizione con salari reali stagnanti e con una crescita della produttività piuttosto lenta. Da quello che comprendo, egli sta sostenendo che i grandi cambiamenti tecnologici stanno avendo luogo in un limitato settore dell’economia, e stanno spingendo i lavoratori verso occupazioni a più basso salario e a più bassa produttività.
Ma devo ammettere di aver avuto un po’ di difficoltà nel cercar di capire esattamente quello che dice, ovvero su come inquadrarlo nei termini di modelli economici tradizionali. Mi sono dunque ritrovato a voler vedere come buona parte di questa storia potrebbe essere espressa in un piccolo modello generale di equilibrio – fondamentalmente il modello che appresi molti anni fa quando studiavo la vecchia teoria del commercio.
In effetti, la mia sensazione è che questo genere di analisi sia un po’ un’arte smarrita. C’era un tempo nel quale gran parte della teoria commerciale ruotava intorno a diagrammi che illustravano due paesi, due beni, modelli a due fattori; oggi non è proprio così. Ed è vero che i piccoli modelli possono ingannare, e i ragionamenti geometrici possono risucchiarvi in un modo esagerato. È anche vero, tuttavia, che questo stile di modellazione può aiutare molto nel riflettere su come i pezzi di un’economia stanno assieme, in un modo che l’algebra o la narrazione verbale di storie non possono fare.
Dunque, un esercizio sia di chiarificazione che di nostalgia – non sono sicuro di cosa si tratti – utilizzando uno schema che è fondamentalmente il diagramma di Lerner [1], adattato ad un soggetto diverso.
Si immagini un’economia che produce soltanto un bene, ma può farlo utilizzando due tecniche, la tecnica A e la tecnica B, una ad alta intensità di capitale ed una ad alta intensità di lavoro. Rappresento queste tecniche nella Figura 1 mostrando i loro coefficienti di immissione per componente:
In questo caso AB è l’isoquanto [2] relativo ad una unità di un bene dell’economia, le varie combinazioni di K e di L [3] che esso può usare per produrre una unità di prodotto. E è il fattore di dotazione dell’economia [4]; finché il rapporto aggregato di K su L si colloca tra le intensità di fattore delle due tecniche, esse saranno entrambe utilizzate. In quel caso, il rapporto tra il salario e il prezzo di locazione del capitale sarà rappresentato dalla inclinazione della linea AB.
Aspettate, c’è dell’altro. Dal momento che ogni punto della linea che collega A e B ha lo stesso valore, il luogo dove esso tocca l’asse orizzontale è la quantità di lavoro che serve per acquistare una unità di prodotto, l’inverso del tasso salariale reale. E la produzione totale è il rapporto della distanza lungo il raggio verso il punto E diviso per la distanza verso la linea AB, cosicché quella distanza è 1/PIL.
Si può anche dedurre l’allocazione delle risorse tra A e B; per non ingombrare ancora di più il diagramma, lo mostro nella Figura 2, che utilizza i rapporti tra capitale e lavoro delle due tecniche e la dotazione complessiva E:
Veniamo adesso alla spiegazione di Avent. Penso che essa possa essere rappresentata come il progresso tecnico in A, forse anche rendendo A a maggiore intensità di capitale. Cosicché questo corrisponderebbe ad uno spostamento verso sud ovest sino ad un punto simile ad A’ nella Figura 3:
Possiamo subito osservare che questo porterà ad una caduta del salario reale, perché 1/w deve crescere. Il PIL e di conseguenza la produttività effettivamente crescono, ma forse non di quanto crescerebbero se l’economia stesse soprattutto utilizzando la tecnica ad alta intensità di lavoro.
Cosa dire della allocazione del lavoro tra i settori? Lo possiamo vedere nella Figura 4, dove il progresso tecnico dell’utilizzo del capitale in A effettivamente porta ad una quota più elevata di forza lavoro che è occupata nella soluzione ad alta intensità di lavoro B:
Dunque è vero, è possibile ad una semplice analisi generale di equilibrio fissare molto di quello che Avent sta sostenendo. Ciò non significa che egli, ovviamente, abbia ragione in senso empirico. Peraltro ci sono altre cose nella sua argomentazione, quali gli effetti ipotizzati sulla direzione dell’innovazione, che qua non sono rappresentati.
Ma, almeno, trovo questo modo di guardare al soggetto in qualche modo chiarificante – il che, ad essere onesti, può dire di più sulla mia stranezza e sulla mia età intellettuale che non sul soggetto stesso.
[1] Il Diagramma di Lerner (1952) è uno strumento per mettere in relazione i prezzi dei beni ed i prezzi dei fattori in un modello a due fattori e a due beni.
[2] L’isoquanto è l’insieme delle diverse combinazioni dei fattori produttivi ( input ) che consentono di produrre la stessa quantità di produzione totale ( output ). Gli isoquanti sono detti anche isoquanti di produzione e sono utilizzati in economia politica nella teoria dell’impresa.
[3] Capitale e lavoro.
[4] Per “factor endowment” normalmente si intende la somma di territorio, lavoro, capitale, imprenditoria che una economia ha a disposizione e può sfruttare nella attività manifatturiera.
marzo 16, 2017
MAR 14 1:43 PM
by Paul Krugman
What’s next on health care? Truly, I have no idea. The AHCA is a real stinker, and now everyone knows it; ordinarily, that should doom the legislation. But everyone also knows that starting off the Trump legislative era with the crashing and burning of Obamacare repeal would deeply damage Trump; nobody believes what he says, but if he can’t even ram bills through, people will stop being afraid. So they will pull out all the stops.
But why are Republicans having so much trouble? Health reform is hard; but why were the Dems able to pass the ACA in the first place? I’m seeing a lot of talk about Paul Ryan’s inadequacy and Republican lack of preparation as compared with Pelosi and the Dems in 2009, all of which is true. But there’s a more fundamental issue: who is being served?
Obamacare helped a large number of people at the expense of a small, affluent minority: basically, taxes on 2% of the population to cover a lot of people and assure coverage to many more. Trumpcare would reverse that, hurting a lot of people (many of whom voted Trump) so as to cut taxes for a handful of wealthy people. That’s a difference that goes beyond political strategy.
But one way to say this is that Obamacare was and is a truly populist law, while Trumpcare is anti-populist. That’s reflected in the legislative struggles.
And yet, and yet: Trump did in fact win over white working-class voters, who thought they were voting for a populist; Democrats, who did a lot for those voters, got no credit — rural whites, in particular, who were huge beneficiaries of the ACA, overwhelmingly supported the man who may destroy their healthcare.
This ties in with an important recent piece by Zack Beauchamp on the striking degree to which left-wing economics fails, in practice, to counter right-wing populism; basically, Sandersism has failed everywhere it has been tried. Why?
The answer, presumably, is that what we call populism is really in large degree white identity politics, which can’t be addressed by promising universal benefits. Among other things, these “populist” voters now live in a media bubble, getting their news from sources that play to their identity-politics desires, which means that even if you offer them a better deal, they won’t hear about it or believe it if told. For sure many if not most of those who gained health coverage thanks to Obamacare have no idea that’s what happened.
That said, taking the benefits away would probably get their attention, and maybe even open their eyes to the extent to which they are suffering to provide tax cuts to the rich.
In Europe, right-wing parties probably don’t face the same dilemma; they’re preaching herrenvolk social democracy, a welfare state but only for people who look like you. In America, however, Trumpism is faux populism that appeals to white identity but actually serves plutocrats. That fundamental contradiction is now out in the open.
Il populismo e la politica della salute,
di Paul Krugman
Qual è la prossima in materia di assistenza sanitaria? Francamente, non ne ho idea. L’AHCA [1] è davvero uno schifo, e adesso lo sanno tutti; a condizioni normali, ciò dovrebbe segnare il procedimento legislativo. Ma tutti sanno anche che avviare l’era legislativa di Trump con una abrogazione della riforma assistenziale di Obama che si risolvesse in un disastro, danneggerebbe profondamente Trump; nessuno crede a ciò che dice, ma se non ha neppure l’autorità di imporre progetti di legge, la gente smetterà di averne paura. Dunque rimuoveranno tutti gli impedimenti.
Ma perché i repubblicani stanno avendo tante difficoltà? La riforma sanitaria è difficile; ma perché i democratici furono capaci di approvare l’ACA sin dall’inizio? Osservo molte discussioni sulla inadeguatezza e mancanza di preparazione di Paul Ryan a confronto della Pelosi e dei democratici nel 2009, ed è tutto vero. Ma c’è un tema più importante: nell’interesse di chi si sta facendo tutto questo?
La riforma di Obama aiutava un gran numero di persone a spese di una piccola minoranza benestante; fondamentalmente, tasse sul 2 per cento della popolazione per proteggere molta gente e garantire la copertura assicurativa a molte persone in più. La riforma di Trump rovescerebbe tutto questo, danneggiando molta gente (che in gran parte aveva votato per Trump) allo scopo di tagliare le tasse a una manciata di ricchi. Si tratta di una differenza che va oltre la strategia politica.
Sennonché, un modo di dire tutto questo è che la riforma di Obama era ed è effettivamente una legge populista, mentre quella di Trump è anti populista. E questo che si riflette nelle difficoltà legislative.
Ma riflettiamo: Trump di fatto ha vinto tra gli elettori della classe operaia bianca, che pensavano di votare per un populista; i democratici, che avevano fatto molto per questi elettori, non hanno avuto credito – gli agricoltori bianchi, in particolare, che erano i grandi beneficiari dell’ACA, hanno sostenuto in modo schiacciante l’uomo che può distruggere la loro assistenza sanitaria.
Questo si collega con un importante recente articolo di Zack Beauchamp sulla sconcertante misura nella quale la proposta economica della sinistra non riesce a contrastare il populismo della destra; fondamentalmente il sandersismo non ha avuto successo dovunque abbia provato. Perché?
La risposta, probabilmente, è che quello che chiamiamo populismo in larga misura è realmente una politica identitaria bianca, che non può essere affrontata promettendo benefici universali. Tra le altre cose, questi ‘populisti’ vivono adesso in una bolla mediatica, prendendo le loro notizie da fonti che interpretano le loro aspirazioni di politica identitaria, il che significa che se anche si offre loro soluzioni migliori, non vorranno ascoltarle o crederci se gli vengono dette. Di sicuro molti se non la maggioranza di coloro che hanno ottenuto l’assistenza sanitaria grazie alla riforma di Obama, non hanno idea di quello che è accaduto.
Ciò detto, toglierli i benefici probabilmente attirerà la loro attenzione, e forse gli aprirà persino gli occhi, nella misura nella quale i loro patimenti servono a fornire sgravi fiscali ai ricchi.
In Europa è probabile che i partiti della destra non si trovino dinanzi allo stesso dilemma; loro propugnano una socialdemocrazia per la razza eletta, uno stato assistenziale ma solo per le persone che gli somigliano. In America, però, il trumpismo è un populismo falso che fa appello all’identità bianca ma in realtà serve ai plutocrati. Quella contraddizione di fondo adesso è uscita allo scoperto.
[1] Questo sarebbe l’acronimo della nuova legge, una volta approvata, di Trump e Ryan. Sta per “American Health Care Act” (“Legge americana di assistenza sanitaria”), mentre quella di Obama – ACA, ovvero “Affordable Care Act” – stava per “Legge sulla Assistenza Sostenibile”.
marzo 11, 2017
MARCH 10, 2017 6:36 PM
di Paul Krugman
I claim no special expertise in the legislative process. But reading a couple of pieces about what looks like a health care debacle from the good folks at Vox, I have some thoughts about what’s going on — namely, don’t presume that Ryan and company have any idea what they’re doing.
Start with Ezra Klein, who speculates that Ryan has advanced this ludicrous plan in the hope and expectation that it won’t pass. His reasoning is that Ryan is too skilled an operator to get caught off-guard as he seems to have:
Paul Ryan isn’t an amateur. He is, arguably, the most skilled policy entrepreneur of his generation. He is known for winning support from political actors and policy validators who normally reject his brand of conservatism. The backing he’s built for past proposals comes from painstaking work talking to allies, working on plans with them, preparing them for what he’ll release, hearing out their concerns, constructing processes where they feel heard, and so on. He’s good at this kind of thing. But he didn’t put in the work here. And there are consequences to that.
But has Ryan ever put together major legislation with any real chance of passage? Yes, he made a name for himself with big budget proposals that received adoring press coverage. But these were never remotely operational — they were filled not just with magic asterisks — tax loophole closing to be determined later, cost savings to be achieved via means to be determined later — but with elements, like converting Medicare into a voucher system, that would have drawn immense flack if they got anywhere close to actually happening.
In other words, he has never offered real plans for overhauling social insurance, just things that sound like plans but are basically just advertisements for some imaginary plan that might eventually be produced. Actually pulling together a coalition to get stuff done? Has he ever managed that?
What I’d say is that Ryan is not, in fact, a policy entrepreneur. He’s just a self-promoter, someone who has successfully sold a credulous media on a character he plays: Paul Ryan, Serious, Honest Conservative Policy Wonk. This is really his first test at real policymaking, which is a very different process. There’s nothing strange about his inability to pull off the real thing, as opposed to the act.
Meanwhile, Sarah Kliff, in the new VoxCare newsletter, is puzzled by the apparent disagreement among Republicans about what CBO is likely to say:
The only people who have advance access to the CBO numbers are the Republican legislators who actually worked on the bill. They’ve been working with the budget agency for months now to create a score.
But have they really been working with CBO for months? They may have been talking, but was it about anything resembling Obamacare 0.5? Everything else about the AHCA looks slapdash, like something thrown together in a few days by people who hadn’t thought at all about what a flat tax credit and a widened age band would mean for, say, people in Alaska with its expensive insurance, or low-middle-income Trump voters in their 60s. I have no inside information, but this sure looks as if they were still dithering about the whole principle of their Obamacare replacement until at most a few weeks ago, and didn’t work with CBO because they had nothing to work with.
In other words, maybe this looks like amateur hour because it is. Ryan isn’t a skilled politician inexplicably losing his touch, he’s a con artist who started to believe his own con; Republicans didn’t hammer out a workable plan because there is no such plan, and anyway they have no idea what that would involve.
Or to put it another way, this could just be more malevolence tempered by incompetence.
Repubblicani furbi?
di Paul Krugman
Non pretendo di avere nessuna particolare esperienza del procedimento legislativo. Ma, leggendo un paio di articoli scritti da persone capaci su VOX su quella che sembra una débâcle della assistenza sanitaria, mi vengono alcuni pensieri su quanto sta accadendo – in altri termini, io non suppongo che Ryan e compagnia abbiano alcuna idea di quello che stanno facendo.
Parto da Ezra Klein, che avanza la congettura che Ryan abbia proposto questo assurdo progetto nella speranza e nella aspettativa che non passerà. Il suo ragionamento è che Ryan è un operatore troppo esperto per essere colto impreparato come sembra:
“Paul Ryan non è un dilettante. È probabilmente l’organizzatore politico più preparato della sua generazione. È conosciuto per la sua capacità di ottenere consenso da parte di soggetti e analisti politici che normalmente non condividono il suo genere di conservatorismo. Il supporto che si è costruito nelle proposte passate deriva da un lavoro diligente di confronto con i suoi colleghi, lavorando assieme ad essi sui progetti, preparandoli a quello che renderà pubblico, ascoltando le loro preoccupazioni, costruendo procedure nelle quali essi si sentano ascoltati, e così via. In questo genere di cose è bravo. Ma in questo caso non ha svolto una attività del genere. E questo ha le sue conseguenze.”
Ma Ryan ha mai messo assieme importanti proposte legislative che abbiano possibilità reali di essere approvate? È vero, si è fatto un nome con grandi proposte di bilancio che hanno ricevuto una attenzione ammirata da parte della stampa. Ma queste proposte non sono mai state neanche lontanamente operative. Erano piene zeppe non solo di magici ‘rimandi’ – elusioni fiscali da essere determinate in un secondo tempo, risparmi sui costi da essere ottenuti con metodi che dovevano essere fissati successivamente – ma di elementi, come la conversione di Medicare in un sistema di voucher, che avrebbero provocato reazioni enormi se in qualche modo fossero arrivati davvero vicini a realizzarsi.
In altre parole, non ha mai offerto progetti reali per ristrutturare la previdenza sociale, soltanto cose che assomigliano a progetti ma che sono fondamentalmente annunci pubblicitari per qualche piano immaginario che alla fine potrebbe essere prodotto. Mettere davvero assieme una coalizione per fare cose del genere? Ha mai organizzato una cosa del genere?
Questa è la ragione per la quale io non direi che Ryan è, in pratica, un organizzatore della politica. È uno che si fa pubblicità, un personaggio che ha rivenduto con successo a media creduloni la parte che recita: Paul Ryan, Conservatore Serio ed Onesto, Esperto di Politica. Questa volta egli si trova dinanzi alla prima verifica di una reale operazione politica, che è un procedimento completamente diverso. Non c’è niente di strano nella sua incapacità a portare a termine una cosa reale, anziché una messinscena.
Nello stesso tempo, Sarah Kliff, nella nuova newsletter su VoxCare, si interroga sull’apparente disaccordo tra i repubblicani su quello che è probabile dirà l’Ufficio Congressuale per il Bilancio:
“Le sole persone che hanno un accesso preventivo ai dati dell’Ufficio Congressuale per il Bilancio sono i legislatori repubblicani che hanno effettivamente lavorato sulla proposta di legge. Stanno lavorando da mesi sino ad oggi con l’agenzia sul bilancio per dar vita ad una stima.”
Ma davvero stanno lavorando da mesi con il CBO? Forse ci hanno parlato, ma si tratta di qualcosa che aveva la minima somiglianza con la proposta di una ‘mezza’ Obamacare? Tutto il resto che ha a che fare con l’Agenzia per l’Amministrazione della Assistenza Sanitaria (AHCA) sembra essere stato abborracciato, come qualcosa che è stato messo assieme in pochi giorni da persone che non hanno affatto riflettuto su quello che avrebbero significato dei crediti di imposta ‘piatti’ e un più ampio raggruppamento anagrafico, ad esempio, per le persone in Alaska con le loro costose assicurazioni, o per gli elettori di Trump con redditi medio bassi che si collocano attorni ai sessant’anni. Non ho informazioni di prima mano, ma appare certo che questo sia come se stessero ancora tergiversando, come facevano al massimo sino a poche settimane fa, sull’idea generale della loro sostituzione della riforma di Obama, e non hanno lavorato assieme al CBO perché non avevano niente su cui lavorare assieme.
In altre parole, se questo somiglia ad un passatempo per dilettanti, è perché si tratta proprio di quello. Ryan non è un politico esperto che incomprensibilmente sta perdendo il suo talento, è un genio della truffa che ha cominciato a convincersi della sua propria truffa; i repubblicani non hanno elaborato un progetto funzionante perché un tal progetto non esiste, e in ogni modo non hanno idea di cosa comporterebbe.
Oppure, per dirla in altro modo, questa potrebbe essere soltanto una maggiore “cattiva disposizione d’animo temperata da incompetenza” [1].
[1] È la bella definizione che ha dato nei giorni passati l’esperto legale Benjamin Wittes a proposito del famoso ordine esecutivo di Trump sugli immigrati dai paesi arabi: ‘cattiveria con l’aggiunta di incompetenza”.
Appropriata anche in questo caso, se si considera che i disastrosi peggioramenti che vengono proposti alla riforma di Obama si riducono, in fondo, a far pagare molto di più gli anziani, soprattutto se di basso reddito.
marzo 8, 2017
MAR 7 9:01 AM
So now we know what Republicans have to offer as an Obamacare replacement. Let me try to avoid value judgments for a few minutes, and describe what seems to have happened here.
The structure of the Affordable Care Act comes out of a straightforward analysis of the logic of coverage. If you want to make health insurance available and affordable for almost everyone, regardless of income or health status, and you want to do this through private insurers rather than simply have single-payer, you have to do three things.
1.Regulate insurers so they can’t refuse or charge high premiums to people with preexisting conditions
2.Impose some penalty on people who don’t buy insurance, to induce healthy people to sign up and provide a workable risk pool
3.Subsidize premiums so that lower-income households can afford insurance
So that’s Obamacare (and Romneycare before that): regulation, mandates, and subsidies. And the result has been a sharp decline in the number of uninsured, with costs coming in well below expectations. Roughly speaking, 20 million Americans gained coverage at a cost of around 0.6 percent of GDP.
Republicans have nonetheless denounced the law as a monstrosity, and promised to replace it with something totally different and far better. Which makes what they’ve actually come up … interesting.
For the GOP proposal basically accepts the logic of Obamacare. It retains insurer regulation to prevent exclusion of people with preexisting conditions. It imposes a penalty on those who don’t buy insurance while healthy. And it offers tax credits to help people buy insurance. Conservatives calling the plan Obamacare 2.0 definitely have a point.
But a better designation would be Obamacare 0.5, because it’s really about replacing relatively solid pillars with half-measures, severely and probably fatally weakening the whole structure.
First, the individual mandate – already too weak, so that too many healthy people opt out – is replaced by a penalty imposed if and only if the uninsured decide to enter the market later. This wouldn’t do much.
Second, the ACA subsidies, which are linked both to income and to the cost of insurance, are replaced by flat tax credits which would be worth much less to lower-income Americans, the very people most likely to need help buying insurance.
Taken together, these moves would almost surely lead to a death spiral. Healthy individuals, especially low-income households no longer receiving adequate aid, would opt out, worsening the risk pool. Premiums would soar – without the cushion created by the current, price-linked subsidy formula — leading more healthy people to exit. In much of the country, the individual markets would probably collapse.
The House leadership seems to realize all of this; that’s why it reportedly plans to rush the bill through committee before CBO even gets a chance to score it.
It’s an amazing spectacle. Obviously, Republicans backed themselves into a corner: after all those years denouncing Obamacare, they felt they had to do something, but in fact had no good ideas about what to offer as a replacement. So they went with really bad ideas instead.
Un piano destinato a fallire, di Paul Krugman
Dunque adesso sappiamo cosa i repubblicani hanno da offrire in sostituzione della legge di riforma sanitaria di Obama. Per alcuni minuti mi asterrò da giudizi di valore e descriverò quello che sembra sia accaduto.
La struttura della Legge sulla Assistenza Sostenibile deriva da una analisi lineare della logica della copertura assistenziale. Se volete rendere l’assicurazione sanitaria disponibile e alla portata di quasi tutti, a prescindere dal reddito e dalle condizioni di salute, e volete farlo attraverso assicuratori privati piuttosto che con un unico centro di pagamenti [1], dovete fare tre cose:
1 – Dare regole agli assicuratori in modo che non possano rifiutare o aumentare verso l’alto le polizze degli individui con patologie preesistenti;
2 – Imporre alcune penalizzazioni sulle persone che non acquistano le assicurazioni, al fine id indurre le persone in salute a iscriversi e rendere possibile un ‘aggregato di rischio assicurativo’ che possa funzionare;
3 – Stabilire sussidi sulle polizze in modo che le famiglie con i redditi più bassi possano permettersi l’assicurazione.
Dunque, questa è la riforma di Obama (e quella di Romney, prima di lui [2]): regolamentazione, obbligo di assicurarsi e sussidi. E il risultato è stato un brusco declino nel numero dei non assicurati, con costi ben al di sotto delle aspettative. Parlando all’ingrosso, 20 milioni di americani hanno ottenuto l’assistenza con un costo di circa lo 0,6 per cento del PIL.
Ciononostante, i repubblicani hanno denunciato la legge come una mostruosità ed hanno promesso di sostituirla con qualcosa di completamente diverso e molto migliore. Il che rende quello che stanno effettivamente tirando fuori … interessante.
Perché la proposta del Partito Repubblicano fondamentalmente accetta la logica di Obama. Essa mantiene il regolamento sugli assicuratori per impedire l’esclusione delle persone con preesistenti serie patologie. Impone penalizzazioni a coloro che non acquistano l’assicurazione finché sono in salute. Ed offre crediti di imposta per aiutare le persone ad acquistare l’assicurazione. I conservatori che definiscono quel progetto come un “Obamacare 2”, hanno senz’altro ragione.
Ma una definizione migliore sarebbe “Obamacare 0,5”, giacché esso in realtà sostituisce pilastri relativamente solidi con mezze misure, indebolendo gravemente e fatalmente l’intera struttura.
In primo luogo, l’obbligo di assicurarsi – già troppo debole, cosicché molte persone in salute optano per restarne fuori – è sostituito con una penalizzazione se e soltanto se il non assicurato decide di entrare nel mercato in un momento successivo. Questo non avrà un grande effetto.
In secondo luogo, i sussidi della Legge sull’Assistenza Sostenibile, che sono connessi sia col reddito che col costo della assicurazione, sono sostituiti da crediti di imposta ‘piatti’ che avrebbero molto meno valore per gli americani con redditi più bassi, che sono le persone che è probabile abbiano bisogno di aiuto nell’acquistare l’assicurazione.
Considerate assieme, queste iniziative quasi sicuramente porteranno ad una spirale fatale. Le persone in salute, specialmente famiglie a redditi più bassi che non ricevono più un aiuto adeguato, sceglieranno di starsene fuori, peggiorando il rischio complessivo per le assicurazioni. Le polizze saliranno alle stelle – senza la protezione creata dalla attuale formula del sussidio connesso al prezzo – portando ancora più persone in salute ad uscire. In gran parte del paese, i mercati individuali probabilmente collasseranno [3].
Sembra che la dirigenza della Camera dei Rappresentanti [4] se ne stia rendendo conto; e questa è la ragione per la quale, a quanto si dice, essa ha in mente di far transitare rapidamente dalla Commissione la proposta di legge, prima che l’Ufficio Congressuale dl Bilancio possa persino esprimere una valutazione.
È uno spettacolo sconcertante. Ovviamente, i repubblicani si sono cacciati in un angolo: dopo tutti questi anni di denunce della riforma di Obama, sentivano di dover fare qualcosa, ma di fatto non hanno idee dignitose su cosa offrire in sostituzione. Si sono invece presentati con idee davvero pessime.
[1] Ovvero, con una sanità interamente pubblica (“single-payer” significa con un unico centro di pagamenti, e dunque senza la funzione intermedia delle assicurazioni private).
[2] L’ex candidato repubblicano Mitt Romney aveva realizzato una riforma sanitaria al livello del suo Stato, il Massachusetts, con criteri simili a quella successiva di Obama. Poi, in campagna elettorale, la faccenda era stata trattata con imbarazzo, per l’ostilità pregiudiziale dei repubblicani all’Obamacare.
[3] “Individuali” perché ci sono altri modi per avere assistenza che non sono basati sull’iniziativa dei singoli individui: se si è anziani si ha l’assistenza sostanzialmente pubblica di Medicare; se si è poveri si ha la soluzione pubblica di Medicaid; per un certo numero di lavoratori l’assistenza è a carico dei datori di lavoro.
[4] Ovvero il repubblicano Paul Ryan, lo speaker della Camera.
marzo 4, 2017
MAR 1 12:50 PM
The big news from last night’s speech is that our pundits is not learning. After all the debacles of 2016, they swooned over the fact that Trump — while still lying time after time and proposing truly vile initiatives — was able to read from a teleprompter without breaking into an insane rant. If American democracy falls, supposed political analysts who are actually just bad theater critics will share part of the blame.
But that aside, I was struck by Trump’s continued insistence that he’s going to bring back coal jobs. This says something remarkable both about him and about the body politic.
He is not, of course, going to bring back coal mining as an occupation. Coal employment’s plunge began decades ago, driven mainly by the switch to strip mining and mountaintop removal. A partial revival after the oil crises of the 70s was followed by a renewed downturn (under Reagan!), with fracking and cheap gas mainly delivering the final blow. Giving coal companies new freedom to pollute streams and utilities freedom to destroy the planet won’t make any noticeable dent in the trend.
But here’s the question: why are people so fixated on coal jobs anyway?
Even in the heart of coal country, the industry hasn’t really been a major source of employment for a very long time. Compare mining with occupations that basically are some form of healthcare in West Virginia, as percentages of total employment:
Even in West Virginia, the typical worker is basically a nurse, not a miner — and that has been true for decades.
So why did that state overwhelmingly support a candidate who won’t bring back any significant number of mining jobs, but quite possibly will destroy healthcare for many — which means jobs lost as well as lives destroyed?
The answer, I’d guess, is that coal isn’t really about coal — it’s a symbol of a social order that is no more; both good things (community) and bad (overt racism). Trump is selling the fantasy that this old order can be restored, with seemingly substantive promises about specific jobs mostly just packaging.
One thought that follows is that Trump may not be as badly hurt by the failure of his promises as one might expect: he can’t deliver coal jobs, but he can deliver punishment to various kinds of others. I guess we’ll see.
Il carbone è una condizione mentale
La grande notizia nel discorso dell’altra notte è che i nostri commentatori non hanno appreso niente. Dopo tutte le débâcle del 2016, sono andati in delirio per il fatto che Trump – nel mentre continuava a dir bugie un momento dopo l’altro e proponeva iniziative davvero oscene – era capace di leggere da un suggeritore elettronico senza interrompersi con pazzesche invettive. Se cadrà la democrazia americana, i presunti analisti politici, che in realtà sono al massimo commentatori di teatro, ne porteranno parte della responsabilità.
Ma, a parte quello, sono rimasto sbigottito per la continua insistenza da parte di Trump sul fatto che starebbe recuperando posti di lavoro nel settore del carbone. Questo indica qualcosa di considerevole, al riguardo sia di lui che del corpo elettorale.
Ovviamente, egli non sta riportando indietro l’attività estrattiva del carbone come un fattore di occupazione. Il crollo dell’occupazione nel carbone cominciò decenni orsono, principalmente guidato dallo spostamento all’estrazione a cielo aperto ed alla rimozione delle cime dei monti. Una parziale ripresa dopo la crisi del petrolio degli anni ’70 fu seguita da una nuova caduta (sotto Reagan!), poi principalmente l’estrazione per fratturazione del gas e la sua economicità diedero il colpo finale. Dare di nuovo alle società del carbone la libertà di inquinare i fiumi ed ai servizi pubblici la libertà di distruggere il pianeta non provocherà alcuna apprezzabile scalfittura in quella linea di tendenza.
Eppure la domanda è proprio quella: perché ci sono individui comunque fissati sui posti di lavoro nel carbone?
Persino nel cuore delle aree carbonifere, da lungo tempo quell’industria non è stata una importante fonte di occupazione. Si confronti l’attività estrattiva con impieghi che sono sostanzialmente forme di assistenza sanitaria nel West Virginia, come percentuale della occupazione totale:
[1]
Persino nel West Virginia, il lavoratore tipo è fondamentalmente un infermiere, non un minatore – ed è stato così da decenni.
Perché dunque quello Stato ha sostenuto in modo schiacciante un candidato che non riporterà indietro nessuna quantità significativa di posti di lavoro minerari, ma abbastanza probabilmente distruggerà l’assistenza sanitaria per molti – il che comporta sia posti di lavoro perduti che vite distrutte?
La risposta, suppongo, è che il carbone non ha realmente a che fare con il carbone – è un simbolo di un ordine sociale che non c’è più: sia di cose positive (la comunità) che negative (il razzismo dichiarato). Trump sta vendendo l’illusione che questo vecchio ordine possa essere ripristinato, con le promesse apparentemente concrete di specifici posti di lavoro che principalmente servono a confezionare quell’illusione.
Un pensiero che ne consegue è che Trump potrebbe non ricevere un gran danno, come ci si aspetterebbe, dal fallimento delle sue promesse: egli non può portare posti di lavoro nel carbone, ma può castigare in modi diversi gli altri. Suppongo che lo vedremo.
[1] La linea rossa indica l’andamento dal 199o al 2015 degli occupati nel settore socio assistenziale e quella blu nel settore minerario, nel West Virginia (in percentuale sul totale degli occupati non agricoli).
febbraio 19, 2017
FEB 18 10:46 AM
The WSJ reports that the Trump administration’s budget planning assumes very high economic growth over the next decade — between 3 and 3.5 percent annually. How was this number arrived at? Basically, they worked backwards, assuming the growth they needed to make their budget numbers add up. Credibility!
But the purpose of this post is mainly to explain why such a number is implausible — not impossible, but not something that should be anyone’s central forecast.
The claimed returns to Trumpnomics are close to the highest growth rates we’ve seen under any modern administration. Real GDP grew 3.4 percent annually under Reagan; it grew 3.7 percent annually under Clinton (shhh — don’t tell conservatives.) But there are fundamental reasons to believe that such growth is unlikely to happen now.
First, demography: Reagan took office with baby boomers — and women — still entering the work force; these days baby boomers are leaving. Here’s UN data on the 5-year growth rate of the population aged 20-64, a rough proxy for those likely to seek work:
Just on demography alone, then, you’d expect growth to be around a percentage point lower than it was under Reagan.
Furthermore, while Trump did not, in fact, inherit a mess, both Reagan and Clinton did — in the narrow sense that both came into office amid depressed economies, with unemployment above 7 percent:
This meant a substantial amount of slack to be taken up when the economy returned to full employment. Rough calculation: 2 points of excess unemployment means 4 percent output gap under Okun’s Law, which means 0.5 percentage points of extra growth over an 8-year period.
So even if you (wrongly) give Reagan policies credit for the business cycle recovery after 1982, and believe (wrongly) that Trumponomics is going to do wonderful things for incentives a la Reagan, you should still be expecting growth of 2 percent or under.
Now, maybe something awesome will happen: either driverless or flying cars will transform everything, whatever. But you shouldn’t be counting on it.
Lo scenario roseo di Trump
Il Wall Street Journal scrive che il bilancio programmatico della Amministrazione Trump ipotizza che la crescita dell’economia sarà molto elevata nel prossimo decennio – tra il 3 e il 3,5 per cento all’anno. Come si è arrivati a questo numero? Fondamentalmente, l’hanno elaborato al rovescio, ipotizzando la crescita di cui avevano bisogno per far tornare i numeri del loro bilancio. A proposito di credibilità!
Ma lo scopo di questo post è principalmente spiegare perché un tale numero non sia plausibile – non impossibile, ma qualcosa che non dovrebbe essere la previsione essenziale per nessuno.
I rendimenti pretesi della economia di Trump sono prossimi ai tassi di crescita più elevati che abbiamo visto sotto qualsiasi Amministrazione nei tempi recenti. Il PIL reale crebbe del 3,4 per cento sotto Reagan; crebbe del 3,7 per cento all’anno sotto Clinton (ma silenzio – non ditelo ai conservatori!). Ma ci sono ragioni di fondo per ritenere che tale crescita sia improbabile oggi.
In primo luogo la demografia: Reagan entrò in carica con la generazione della crescita demografica – e le donne – che stavano ancora entrando nella forza lavoro; questi giorni quella generazione sta terminando. Ecco i dati delle Nazioni Unite sui tassi di crescita nel corso dei quinquenni della popolazione tra i 20 ed i 64 anni, approssimativamente un indice di coloro che è probabile cerchino lavoro:
Solo per la demografia, dunque, ci si aspetterebbe che la crescita sia circa un punto percentuale più bassa di quello che fu sotto Reagan.
Inoltre, mentre non è stato il caso di Trump, sia Reagan che Clinton di fatto ereditarono disastri – semplicemente nel senso che entrarono entrambi in carica nel mezzo di economie depresse, con una disoccupazione superiore al 7 per cento:
Questo comportò una dose sostanziale di fiacchezza da assorbire quando l’economia tornava alla piena occupazione. Un calcolo grossolano: 2 punti di disoccupazione in eccesso comporta, per la legge di Okun [1], un 4 per cento di scarto nella produzione, il che significa 0,5 punti percentuali di crescita aggiuntiva in un periodo di 8 anni.
Dunque, persino se date alle politiche di Reagan (erroneamente) il merito della ripresa del ciclo economico dopo il 1982, e credete (sempre erroneamente) che l’economia di Trump sia destinata a fare cose meravigliose per gli incentivi del tipo di quelli di Reagan, dovreste ancora aspettarvi una crescita del 2 per cento o inferiore.
Ora, forse accadrà qualcosa di eccezionale: le macchine senza guidatore o le macchine volanti trasformeranno tutto, qualcosa del genere. Ma non dovreste farci affidamento.
[1] La Legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962) è una legge empirica che associa ad ogni punto aggiuntivo di disoccupazione ciclica (differenza tra tasso di disoccupazione naturale e disoccupazione totale), 2 punti percentuali di gap di produzione.
febbraio 8, 2017
FEB 7 2:25 PM
Everyone knows that stocks and interest rates have soared since the election; at the same time, if you aren’t worried about erratic policies from the Tweeter-in-chief, you’re really not paying attention. So are markets getting it all wrong?
I’ve been wondering about that — and yes, in the first few hours after the election I thought, briefly and wrongly, that a crash was coming quickly. But anyway, I decided to crunch a few numbers — and surprised myself. I still think markets are underrating the risk of catastrophe. But I’m not as sure as I was that there’s a huge Trump bubble buoying markets — because when you actually look at the data, the market action has been much smaller than the hype.
Look first at stocks. Yes, they’re up since the election. But how does this rise compare with past fluctuations? Not very big, actually:
What about real interest rates? I’ve been arguing that the widespread belief in serious fiscal stimulus is wrong, which means that a really big rise in real interest rates wouldn’t be warranted. But it turns out that the movement isn’t that big:
There was an overshoot early one, but at this point it’s only about 30 basis points, consistent with fiscal stimulus of maybe 1 percent of GDP. Still high, I think, but not yuge.
Inflation expectations are also up, but that may reflect various non-Trump things like growing evidence that we really are close to full employment.
I still think that markets are too sanguine. But the truth is that they haven’t moved nearly as much as the hype suggests, so the case for either a huge Trump effect or a huge Trump bubble is a lot weaker than you might think.
C’è una bolla Trump?
Ognuno sa che le azioni e i tassi di interesse sono saliti a partire dalle elezioni: nello stesso tempo, se non siete preoccupati dalle politiche erratiche del ‘Twittatore in capo’, vuol dire che non state prestando attenzione. È dunque tutto sbagliato quello che intendono i mercati?
Me lo sto chiedendo – e in effetti, nelle prime ore dopo le elezioni pensavo, in modo frettoloso e sbagliato, che sarebbe arrivato presto un crollo. Ma in ogni caso decisi di fare due conti su pochi dati – e mi sorpresi. Penso ancora che i mercati stiano sottostimando il rischio di catastrofe. Ma non sono così sicuro come ero che ci sia una vasta ‘bolla Trump’ a tenere a galla i mercati – perché, quando osservate effettivamente i dati, l’iniziativa dei mercati è stata molto più modesta del battage propagandistico.
Si osservino anzitutto le azioni. È vero, sono salite dalle elezioni. Ma cos’è questa crescita a confronto con le fluttuazioni passate? In realtà, non è così grande:
Che dire dei tassi di interesse? Ho sostenuto che la fiducia generale in serie politiche di sostegno all’economia sia sbagliata, il che significa che una crescita nei tassi di interesse reali non dovrebbe essere garantita. Ma si scopre che il movimento non è così rilevante:
C’è stato un soprassalto agli inizi, ma a questo punto è di soli 30 punti base, coerente con uno stimolo della finanza pubblica forse dell’1 per cento del PIL. Ancora alto, penso, ma non vastissimo.
Anche le aspettative di inflazione sono in crescita, ma quelle possono riflettere varie cose non originate da Trump, come la crescente evidenza che siamo realmente vicini alla piena occupazione.
Credo ancora che i mercati siano troppo ottimisti. Ma la verità è che essi non si sono mossi neanche lontanamente rispetto a quello che dice il battage pubblicitario, dunque le tesi sia di un vasto effetto Trump che di una vasta bolla Trump sono molto più fragili di quello che potreste pensare.
febbraio 8, 2017
FEB 6 5:16 PM
What Trump has done or tried to do over the past two years — wait, it’s really only been two weeks? — is incredibly bad. But spare a bit of attention to what doesn’t seem to be happening. Has anyone heard anything, anything at all, about domestic policy development?
Remember, after the election Wall Street decided that we were going to see a big push on infrastructure, tax cuts, etc.. Some analysts were warning that progressives should be ready for the possibility that Trump would engage in “reactionary Keynesianism.” Worrying parallels were drawn between Trumpism and autobahn construction under you-know-who.
But if there’s a WH task force preparing an infrastructure plan, it’s very well hidden; maybe they’re waiting to figure out how to turn on the lights. Seriously, I’ve been saying for a while that there will be no significant public construction plan. Wall Street economists, at least, are starting to catch on.
Meanwhile, that Obamacare replacement is … still nowhere to be seen, with GOP Congress people literally running away when asked about it.
Big tax cuts — and savage cuts to social programs — are still very much on the Congressional Republican agenda, and they could put it all together, hand it to Bannon, and have Trump sign it without reading. But I’m starting to wonder: surely they planned to unveil things during the Trump honeymoon, with the public prepared to believe that it was all done with the little guy’s interests in mind. Even pre 9-11 Bush could count on media goodwill and supine Democrats to ram through his tax cuts.
But now? With massive public distrust, and media fully willing to do real reporting on the distribution of tax cuts, not “Democrats say that the rich are the big winners”? With the media infatuation on Serious, Honest Paul Ryan at least temporarily dented by his avid support for Muslim bans and all that? Maybe they’ll do it anyway, but it seems a lot less certain than it did in November.
At this point I’m starting to wonder whether there will be any real movement on economic policy, as opposed to random insults aimed at allies.
It’s odd that the markets are, so far, not reflecting any of this; they’re basically unchanged from the levels they reached after the initial Trump Boom euphoria. But surely the odds have shifted, and there’s now a real possibility that on domestic policy, at least, we’re in for a period of sound, fury, and tweets signifying nothing.
Ragazzo, dov’è la mia politica?
Quello che Trump ha fatto o cercato di fare negli ultimi due anni – un momento, sono soltanto due settimane? – è incredibilmente negativo. Ma prestiamo un po’ di attenzione a quello che non sembra stia accadendo. Qualcuno ha sentito parlare di qualcosa, di qualunque cosa, che attenga agli sviluppi della politica nazionale?
Si ricordi, dopo le elezioni Wall Street aveva deciso che erano imminenti una grande spinta sulle infrastrutture, sgravi fiscali etc. Alcuni analisti mettevano in guardia i progressisti affinché fossero preparati alla possibilità che Trump alle prese con un “keynesismo reazionario”. Paralleli preoccupanti venivano delineati tra il trumpismo e la costruzione di autostrade nientemeno che sotto Hitler [1].
Ma se c’è una task force alla Casa Bianca che sta preparando un piano infrastrutturale, è ben nascosta; forse stanno aspettando di capire come accendere le luci. Su serio, ho detto da tempo che non ci sarebbe stato alcun programma significativo di opere pubbliche. Gli economisti di Wall Street, almeno, stanno cominciando a rendersene conto.
Nel frattempo, l’abrogazione della riforma sanitaria di Obama è … ancora invisibile, con i repubblicani del Congresso che letteralmente se la danno a gambe quando gli viene chiesto qualcosa a proposito.
Nella agenda dei repubblicani del Congresso ancora compaiono grandi sgravi fiscali – e tagli selvaggi ai programmi sociali – e potrebbero metterli tutti assieme, passarli a Bannon e avere la firma di Trump senza che neanche li legga. Ma io sto cominciando a meravigliarmi: certamente avevano programmato di svelare alcune cose durante la ‘luna di miele’ di Trump, con l’opinione pubblica pronta a credere che fosse stato tutto fatto avendo in mente gli interessi della gente comune [2]. Persino prima dell’1 settembre Bush poté contare sulla buona disposizione dei media e su democratici accondiscendenti per spingere sui suoi sgravi fiscali.
Ma adesso? Con una massiccia sfiducia da parte dell’opinione pubblica, e i media pienamente disponibili a fornire effettivi resoconti sulla distribuzione degli sgravi fiscali, e non cavarsela con frasi come “i democratici dicono che i ricchi sono i grandi vincitori” [3]? Con l’infatuazione dei media per il Serio ed Onesto Paul Ryan almeno temporaneamente intaccata dal suo entusiasta sostegno ai bandi contro i musulmani e a tutto il resto? Forse lo faranno in ogni modo, ma sembra meno certo che l’abbiano fatto a novembre.
A questo punto comincio a chiedermi se ci sarà qualche reale mossa sulla politica economica, anziché soltanto insulti casuali rivolti agli alleati.
È strano che i mercati, sinora, non stiano riflettendo su niente di questo; sono fondamentalmente immutati rispetto ai livelli raggiunti dopo l’iniziale euforia sul Boom di Trump. Ma certamente le probabilità si sono spostate, è c’è adesso la reale possibilità che, almeno in politica interna, si sia in un periodo pieno di grida, di furia e di tweet che non significano niente.
[1] Si può supporre che il “voi-sapete-chi” si riferisca ad Hitler, dato che ‘autostrada’ viene scritto in tedesco.
[2] Il mito del “little guy” (“ragazzino”, ma anche “persona ordinaria”) viene da alcuni discorsi dello stesso Trump.
[3] Ovvero, i media in questa fase non sarebbero inclini a ‘bere’ tranquillamente la propaganda trumpiana, e a dare le notizie secondo la tecnica del collocare le bugie sullo stesso piano delle reazioni dei democratici alle bugie stesse.
febbraio 2, 2017
FEB 1 12:49 PM
Peter Navarro, the closest thing Trump has to an economic guru, made some waves by accusing Germany of being a currency manipulator and suggesting that both the shadow Deutsche mark and the euro are undervalued. Leaving aside the dubious notion that this is a good target of US economic diplomacy, is he right?
Yes and no. Unfortunately, the “no” part is what’s relevant to the US.
Yes, Germany in effect has an undervalued currency relative to what it would have without the euro. The figure shows German prices (GDP deflator) relative to Spain (which I take to represent Southern Europe in general) since the euro was created. There was a large real depreciation during the euro’s good years, when Spain had massive capital inflows and an inflationary boom. This has only been partly reversed, despite an incredible depression in Spain. Why? Because wages are downward sticky, and Germany has refused to support the kind of monetary and fiscal stimulus that would raise overall euro area inflation, which remains stuck at far too low a level.
So the euro system has kept Germany undervalued, on a sustained basis, against its neighbors.
But does this mean that the euro as a whole is undervalued against the dollar? Probably not. The euro is weak because investors see poor investment opportunities in Europe, to an important extent because of bad demography, and better opportunities in the U.S.. The travails of the euro system may add to poor European perceptions. But there’s no clear relationship between the problems of Germany’s role within the euro and questions of the relationship between the euro and other currencies.
And may I say, what is the purpose of having someone connected to the U.S. government say this? Are we going to pressure the ECB to adopt tighter monetary policy? I sure hope not. Are we egging on a breakup of the euro? It sure sounds like it — but that is not, not, something the US government should be doing. What would we say if Chinese officials seemed to be talking up a US financial crisis? (It would, of course, be OK with Trump if the Russians did it.)
So yes, Navarro has a point about Germany’s role within the euro. And if he were unconnected with the Bannon administration, he would be free to make it. But in the current context, this is grossly irresponsible.
La Germania, l’euro e la manipolazione valutaria
Peter Navarro, la cosa più vicina ad un guru dell’economia che Trump possieda, ha aperto una controversia accusando la Germania di manipolazione valutaria è suggerendo che sia il marco ‘ombra’ tedesco che l’euro sarebbero sottovalutati. Trascurando la dubbia circostanza se questo sia un buon obbiettivo per la diplomazia degli Stati Uniti, ha ragione?
Si e no. Sfortunatamente, la componente del “no” è quella che conta per gli Stati Uniti.
È vero, in effetti la Germania ha una moneta sottovalutata in relazione a quella che avrebbe senza l’euro. Il diagramma mostra i prezzi tedeschi (deflatore del PIL) [1] in rapporto alla Spagna [2] (che assumo rappresenti l’Europa meridionale in generale), dal momento in cui è stato creato l’euro. C’è stata una ampia reale svalutazione durante gli anni buoni dell’euro, quando la Spagna ha avuto massicci flussi di capitali in ingresso e un boom inflattivo. Questo è stato solo in parte invertito, nonostante una depressione incredibile in Spagna. Perché? Perché i salari sono rigidi verso il basso, e la Germania si è rifiutata di sostenere quel genere di stimolo monetario e di finanza pubblica che avrebbe elevato l’inflazione complessiva nell’area euro, che resta bloccata ad un livello troppo basso.
Dunque il sistema dell’euro ha mantenuto la Germania sottovalutata, su base prolungata, contro i suoi vicini.
Ma questo significa che l’euro nel suo complesso è sottovalutato rispetto al dollaro? Probabilmente no. L’euro è debole perché gli investitori vedono possibilità modeste di investimento in Europa, in buona misura per effetto di una demografia negativa, e migliori opportunità negli Stati Uniti. Il calvario del sistema dell’euro è possibile si sia aggiunto alle modeste percezioni europee. Ma non c’è alcuna relazione chiara tra il ruolo della Germania nel sistema euro e le questioni della relazione tra l’euro e le altre valute.
E posso chiedere, qual è il senso di avere un personaggio in rapporto con il Governo degli Stati Uniti che dice cose del genere? Siamo in procinto di spingere la BCE ad adottare una politica monetaria più restrittiva? Spero certamente di no. E stiamo spingendo verso una rottura dell’euro? Sembra proprio così – ma questo non è qualcosa che il Governo degli Stati Uniti dovrebbe assolutamente fare. Cosa diremmo se apparisse che le autorità cinesi stanno favorendo una crisi finanziaria statunitense (naturalmente, per Trump non ci sarebbero problemi se lo facesse Putin)?
Dunque, è vero, Navarro ha un argomento sul ruolo della Germania all’interno dell’euro. E se non fosse collegato con l’Amministrazione Bannon [3], sarebbe libero di avanzarlo. Ma nel contesto attuale, è grossolanamente irresponsabile.
[1] Il “deflatore” è un indice dei prezzi che consente di distinguere gli aumenti reali del prodotto nazionale da quelli dovuti all’inflazione. Lo specifico deflatore del PIL mostra quanto un cambiamento nella base annua del PIL si basi su un cambiamento del livello dei prezzi.
[2] Il diagramma mostra l’evoluzione del “tasso di cambio reale” tra la Germania e la Spagna. Credo che si possa interpretare più facilmente in questo modo: posto l’euro in Germania e in Spagna al comune livello di 100 al momento della creazione dell’euro e della sostituzione, su valori stabiliti di intesa tra tutti, delle valute precedenti, il valore reale dell’euro in Spagna è costantemente calato rispetto a quello in Germania, per effetto della maggiore inflazione nel primo paese. Infatti, avere una moneta unica non comporta, ovviamente, avere una inflazione unica, e il valore reale di quella moneta unica cambia in relazione a tali diverse inflazioni. Con la recessione-depressione e il blocco dei flussi dei capitali nell’Europa del Sud, e dunque con la inevitabile minore inflazione in quei paesi, si sarebbe dovuto avviar un processo inverso; che però è stato fortemente attenuato dalla nota tendenza alla rigidità dei prezzi, e dei salari in particolare, verso il basso.
In ogni caso, rispetto alle economie reali di ciascun paese ed alla loro competitività, la Germania ha mantenuto in tutto il periodo il vantaggio derivante da un euro legale sottovalutato rispetto alla sua economia reale. Ovvero, se avesse mantenuto il marco tedesco, le sue merci sarebbero state esportate a valori più elevati, e dunque se ne sarebbe esportate di meno.
[3] Come è noto, Bannon è un personaggio della destra americana estremista assurto al ruolo di consigliere, se non di ideologo, di Trump.
gennaio 31, 2017
Consider the following tax reform:
1. Impose a retail sales tax on consumer goods and services, both domestic and imported.
2. Use some of the proceeds from the tax to repeal the corporate income tax.
3. Use the rest of the proceeds from the tax to significantly cut the payroll tax.
Before moving on, ask yourself: Do you like this plan?
As I understand it, this plan is, in effect, what the Republicans in Congress are proposing.
Note the words “in effect.” There are a few differences, which are more important administratively than in their economic effect. One is that the consumption tax is not collected at the retail level but rather along the chain of production (much like a value-added tax). Once this is done, you need border adjustments to ensure the tax is really like a retail sales tax: imports must be taxed, and exports have to get a rebate. In addition, the payroll tax is not cut but rather firms get a deduction for labor payments, but that deduction is much the same as a payroll tax cut.
Personally, I like the three-point plan listed above, and I therefore like the reform proposal being discussed in Congress. A lot of confusion about things like border adjustments might disappear if commentators realized that what is being discussed is largely equivalent to this three-point plan.
Addendum: I don’t think it is quite right to say,as Paul Krugman does, that this plan is a shift from taxing profits to taxing consumers. That ignores part 3 of the three-point plan. It is more accurate to say it is a shift from taxing profits to taxing consumed profits. Moreover, I think it would promote economic growth and rising living standards. A large literature suggests that taxing consumption is preferred to taxing income, especially capital income.So a shift from a profits tax to a consumed profits tax is a step in the right direction.
JAN 30 3:54 PM
I’ve noted in the past that I get the most vitriolic attacks, not when I denounce politicians as evil or corrupt, but when I use more or less standard economics to debunk favorite fallacies. Sure enough, lots of anger over the trade analysis in today’s column, assertions that it’s all left-wing bias, etc..
So maybe it’s worth noting that Greg Mankiw’s take on the economics of DBCFT is basically identical to mine: subsidy or tax cut on employment of domestic factors of production, paid for by sales tax. Greg and I disagree on whether replacing profits taxes with sales taxes is a good idea, but agree that all of this has nothing to do with trade and international competition – because it doesn’t.
I suspect, however, that Greg is being naïve here in assuming that we’re just seeing confusion because border tax adjustment sounds as if it must involve competitive games. There’s some of that, for sure, but one reason the competitiveness thing won’t go away is that it’s an essential part of the political pitch. “Let’s eliminate taxes on profits and tax consumers instead” is a hard sell, even if you want to claim that the incidence isn’t what it looks like. Claiming that it’s about eliminating a dire competitive disadvantage plays much better, even though it’s all wrong.
To be fair, these tax-and-trade issues are kind of two-ibuprofen stuff at best. But confusions persists even longer than usual when they serve a political purpose.
Una riforma fiscale in tre punti,
di Greg Mankiw
Si consideri la seguente riforma fiscale:
1 – Imposizione di una tassa sulla vendita al dettaglio di beni e servizi, sia nazionali che importati;
2 – Utilizzo di una parte del ricavato dalla tassa per abrogare la tassa sul reddito delle imprese;
3 – Utilizzo del resto del ricavato dalla tassa pe tagliare in modo significativo la tassa sugli stipendi.
Prima di procedere, chiedetevi: vi piace questo programma?
Per come lo capisco io, questo programma è, in effetti, ciò che i repubblicani del Congresso stanno proponendo.
Si noti la parola “in effetti”. Ci sono poche differenze, che sono più importanti per i loro effetti amministrativi che economici. Una è che la tassa sui consumi non è raccolta al livello del dettaglio ma piuttosto lungo la catena della produzione (in modo molto simile ad una tassa sul valore aggiunto). Una volta che si fa in questo modo, c’è bisogno di correzioni ai confini per assicurare che la tassa sia effettivamente una tassa sulle vendite al dettaglio: le importazioni devono essere tassate, e le esportazioni devono avere uno sconto. In aggiunta, la tassa sugli stipendi non viene tagliata ma sono piuttosto le imprese ad ottenere una deduzione sul pagamento del lavoro, ma quella deduzione è praticamente lo stesso di un taglio alla tassa sugli stipendi.
Personalmente, io sono favorevole al piano in tre punti illustrato sopra, e dunque sono favorevole alla proposta di riforma che viene discussa nel Congresso. Un po’ della confusione su cose come la correzione ai confini potrebbero scomparire se i commentatori comprendessero che ciò che è in discussione è largamente equivalente a questo programma in tre punti.
Aggiunta: non credo che sia del tutto corretto affermare, come fa Paul Krugman, che questo programma è uno spostamento dalla tassazione sui profitti alla tassazione su consumatori. In questo modo non si considera la terza parte del programma in tre punti. È più appropriato dire che è uno spostamento dalla tassazione sui profitti alla tassazione sui profitti consumati. Inoltre, penso che promuoverebbe la crescita economica e alzerebbe i livelli di vita. Un’ampia letteratura suggerisce che tassare i consumi è preferibile a tassare i redditi, in particolare i redditi da capitale. Dunque uno spostamento da una tassa sui profitti a una tassa sui profitti consumati è un passo nella direzione giusta.
30 gennaio 2017
Giochi di competitività
di Paul Krugman
Ho notato nel passato che ricevo i peggiori attacchi al vetriolo non quando denuncio uomini politici come malvagi o corrotti, ma quando uso concetti economici più o meno di base per smascherare gli errori preferiti. Come previsto, un sacco di rabbia sull’analisi del commercio nell’articolo di oggi, giudizi secondo i quali sono tutti pregiudizi della sinistra, etc.
Forse è dunque degno di nota che la presa di posizione di Greg Mankiw sull’economia del DBCFT [1] sia fondamentalmente identica alla mia: sussidi o sgravi fiscali sull’occupazione di fattori nazionali della produzione, pagati con una tassa sulle vendite. Greg ed io non siamo d’accordo se rimpiazzare le tasse sui profitti sia una buona idea, ma siamo d’accordo sul fatto non abbia niente a che fare con il commercio e la competizione internazionale – perché è così.
Sospetto comunque che Greg sia ingenuo in questo caso, assumendo che stiamo solo assistendo a un po’ di confusione perché la tassa di correzione al confine dà l’impressione di riguardare strategie competitive. Di certo, quello è un aspetto, ma una ragione per la quale la faccenda della competitività non scomparirà è che essa è una parte essenziale del discorso politico. “Eliminate le tasse sui profitti e tassate piuttosto i consumatori” è un argomento difficile da rivendere, anche se si intende sostenere che l’incidenza non è quella che appare. Sostenere che il tutto riguarda l’eliminazione di un catastrofico svantaggio competitivo funziona molto meglio, anche se è del tutto sbagliato.
Onestamente, questi temi su tasse e commercio sono nel migliore dei casi una sorta di medicinali antiinfiammatori. Ma la confusione persiste anche più a lungo del solito quando serve ad uno scopo politico.
[1] Per una spiegazione del significato di DBCFT – l’acronimo di una proposta di legge dei repubblicani americani in materia di fisco – vedi il post qua tradotto del 27 gennaio “La tassa al confine in due passi”.
gennaio 30, 2017
JAN 29 1:42 PM
by Paul Krugman
Cardiff Garcia has a nice piece trying to figure out what might happen to the economy under Trump, taking off from the classic Dornbusch-Edwards analysis of macroeconomic populism in Latin America. Garcia notes that surging government spending and mandated wage hikes tend to produce a temporary “sugar high”, followed by a crash. Nice idea – but I suspect highly misleading, because Trump isn’t a real populist, he just plays one on reality TV.
The Dornbusch-Edwards essay focused on the examples of Allende’s Chile and Garcia’s Peru; an update would presumably look at Argentina, Venezuela, and others. But how relevant are these examples to Trump’s America?
Allende, for example, was a real populist, who seriously tried to push up wages and drastically increased spending. Here’s Chilean government consumption spending as a share of GDP:
That’s huge; in the U.S. context it would mean boosting spending by almost $1 trillion each year.
Is Trump on course to do anything similar? He’s selected a cabinet of plutocrats, with a labor secretary bitterly opposed to minimum wage hikes. He talks about infrastructure, but the only thing that passes for a plan is a document proposing some tax credits for private investors, which wouldn’t involve much public outlay even if they did lead to new investment (as opposed to giveaways for investment that would have taken place anyway.) He does seem set to blow up the deficit, but via tax cuts for the wealthy; benefits for the poor and middle class seem set for savage cuts.
Why, then, does anyone consider him a “populist”? It’s basically all about affect, about coming across as someone who’ll stand up to snooty liberal elitists (and of course validate salt-of-the-earth, working-class racism.) Maybe some protectionism; but there’s no hint that his economic program will look anything like populism abroad.
In which case, why would we even get the “sugar high” of populisms past? A tax-cut-driven boom is possible, I guess. But there won’t be much stimulus on the spending side.
La macroeconomia del populismo da reality-TV
di Paul Krugman
Cardiff Garcia pubblica un bell’articolo con il quale cerca di immaginare cosa potrebbe accadere all’economia sotto Trump, prendendo le mosse dalla classica analisi del populismo in America Latina di Dornbusch-Edwards. Garcia osserva che il rialzo della spesa pubblica gli aumenti dei salari (minimi) obbligatori tendono a generare un temporaneo “alto livello degli zuccheri”, seguito da un crollo. Idea carina – ma io sospetto profondamente fuorviante, perché Trump non è un populista vero, ma solo si atteggia ad esserlo nella reality-TV.
Il saggio di Dornbusch-Edwards si concentrava sugli esempi del Cile di Allende e del Perù di Garcia, un aggiornamento presumibilmente riguarderebbe il Venezuela, l’Argentina ed altri. Ma quanto sono attinenti questi esempi all’America di Trump?
Allende, per esempio, era un vero populista, che cercò seriamente di spingere in alto i salari e aumentò in modo drastico la spesa pubblica. Ecco la spesa dei consumi del Governo cileno come percentuale del PIL:
È un dato elevato: nel contesto degli Stati Uniti significherebbe spingere la spesa per circa mille miliardi di dollari all’anno.
Trump è in procinto di far qualcosa del genere? Ha selezionato un gabinetto di plutocrati, con un Segretario al Lavoro che si è opposto aspramente al rialzo dei minimi salariali. Parla di infrastrutture, ma la solo cosa che assomiglia ad un programma è un documento che propone alcuni crediti di imposta per gli investitori privati, che non comporterebbe molto esborso di denaro pubblico neanche se comportasse nuovi investimenti (diversamente da regalie per investimenti che ci sarebbero stati comunque). Egli sembra veramente disposto a far saltare il deficit, ma attraverso sgravi fiscali ai ricchi; i benefici per i poveri e la classe media sembrano programmati nella forma di tagli selvaggi.
Perché, allora, si dovrebbe considerarlo un “populista”? Fondamentalmente è tutto relativo al fingere, al dare l’impressione di essere uno che scenderà in campo contro gli altezzosi progressisti delle élite (e naturalmente di corroborare il razzismo dei lavoratori per bene [1]). Forse un po’ di protezionismo; ma non c’è alcun cenno che il suo programma economico assomiglierà in nulla al populismo all’estero.
Nel qual caso, perché mai potremmo avere quegli “alti livelli degli zuccheri” dei populismi passati? Suppongo che una espansione guidata dagli sgravi fiscali sia possibile. Ma non ci sarà molto stimolo sul lato della spesa.
[1] Forse la traduzione merita un chiarimento. L’espressione “sale della terra” ha una origine evangelica, con essa Gesù si rivolse ai suoi seguaci, intendendo che essi, pure in minoranza, sarebbero stati il lievito dell’umanità. Mi pare che in inglese questo significato originario richieda una formulazione per esteso (“The salt of the earth”), mentre la forma aggettivale (“salt-of-earth”) si riferisca alla dote della “santità”, oppure della “rispettabilità”, o anche dell’essere semplicemente “persone per bene” (“decent”).
In questo caso, dunque, mi pare corretto intenderlo come una aggettivazione della “working class”, intendendo con ciò quei “lavoratori per bene” che, secondo la concezione della destra americana, non possono non essere provvisti anche di una certa dose di razzismo.
gennaio 28, 2017
JAN 27 11:45 AM
Trump tantrums aside, you may be finding the whole border tax adjustment discussion confusing. If so, you’re not alone; I’ve worked in this area my whole life, I co-wrote a widely cited paper (with Martin Feldstein) on why a VAT isn’t an export subsidy, and I have still had a hard time wrapping my mind around the Destination-Based Cash Flow Tax border adjustment that sort-of-kind-of constituted the basis for the Mexico incident.
But I have what I think may be a (relatively) easy way to think about it, which starts with the competitive effects of a VAT, then analyzes the DBCFT as a change from a VAT.
So, first things first: a VAT does not give a nation any kind of competitive advantage, period.
Think about two firms, one domestic and one foreign, selling into two markets, domestic and foreign. Ask how the VAT affects competition in each market.
In the domestic market, imports pay the border adjustment; but domestic firms pay the VAT, so the playing field is still level.
In the foreign market, domestic firms don’t pay the VAT, but neither do foreign firms. Again, the playing field is still level.
So a VAT is just a sales tax, with no competitive impact.
But a DBCFT isn’t quite the same as a VAT.
With a VAT, a firm pays tax on the value of its sales, minus the cost of intermediate inputs – the goods it buys from other companies. With a DBCFT, firms similarly get to deduct the cost of intermediate inputs. But they also get to deduct the cost of factors of production, mostly labor but also land.
So one way to think of a DBCFT is as a VAT combined with a subsidy for employment of domestic factors of production. The VAT part has no competitive effect, but the subsidy part would lead to expanded domestic production if wages and exchange rates didn’t change.
But of course wages and/or the exchange rate would, in fact, change. If the US went to a DBCFT, we should expect the dollar to rise by enough to wipe out any competitive advantage. After the currency adjustment, the trade effect should once again be nil. But there might be a lot of short-to-medium term financial consequences from a stronger dollar.
I think this is right, and I hope it clarifies matters. Oh, and no, none of this helps pay for the wall.
La tassa al confine in due passi
A parte i capricci di Trump, può darsi che stiate trovando confuso l’intero dibattito sulla correzione della tassa al confine. Se è così, non siete soli: ho lavorato in questo settore l’intera mia vita, ho scritto assieme a Martin Feldstein un saggio ampiamente citato sul perché l’IVA non è un sussidio alle esportazioni, e ho ancora difficoltà nel cercar di capire l’adeguamento al confine della Tassa sul Flusso di Cassa basato sulla Destinazione (DBCFT), che ha costituito una specie di base per l’incidente col Messico [1].
Eppure ho qualcosa che potrebbe essere un modo relativamente semplice per ragionarne, che parte dagli effetti competitivi dell’IVA e poi analizza il DBCFT come una modifica rispetto all’IVA.
Partiamo dunque dall’inizio: l’IVA non fornisce a una nazione nessun genere di vantaggio competitivo, punto.
Si pensi a due imprese, una nazionale e una straniera, che vendono su due mercati, quello interno e quello estero. Chiediamoci come l’IVA influenzi la competizione in entrambi i mercati.
Nel mercato interno, le importazioni pagano un adeguamento al confine; ma le imprese nazionali pagano l’IVA, dunque il terreno di gioco è uguale per tutti.
Nel mercato straniero le imprese nazionali non pagano l’IVA, ma neanche le imprese straniere. Di nuovo, il campo di gioco è uguale per tutti.
Dunque l’IVA è solo una tassa sulle vendite, con nessun impatto sulla competitività.
Ma una Tassa sul Flusso di Cassa basata sulla Destinazione non è esattamente la stessa cosa dell’IVA.
Con l’IVA un’impresa paga la tassa sul valore delle proprie vendite, al netto dei costi dei fattori della intermediazione – i beni che acquista da altre società. Con la DBCFT, in modo simile alle imprese è consentito di dedurre i fattori della intermediazione. Ma esse ottengono anche di dedurre il costo dei fattori della produzione, principalmente il lavoro ma anche i terreni.
Dunque, un modo di pensare al DBCFT è come una Imposta sul Valore Aggiunto associata ad un sussidio per l’occupazione di fattori interni della produzione. La componente dell’IVA non ha un effetto sulla competitività, ma la componente del sussidio potrebbe portare ad una espansione della produzione nazionale se i salari e i tassi di cambio non mutassero.
Ma naturalmente i salari e/o i tassi di cambio si modificano. Se gli Stati Uniti adottano il DBCFT, dovremmo aspettarci che il dollaro si rivaluti a sufficienza da spazzar via ogni vantaggio competitivo. Dopo l’aggiustamento valutario, l’effetto sul commercio tornerebbe ad essere uguale a zero. Ma con un dollaro più forte ci potrebbe essere una grande quantità di conseguenze finanziarie di breve e medio termine.
Penso che queste note siano corrette e chiariscano le questioni. Infine no, niente di tutto questo contribuirebbe a ripagare il muro.
[1] Per inquadrare le spiegazioni fornite in questo post in una migliore comprensione preliminare dell’intera faccenda, possono valere queste informazioni aggiuntive:
1 – La Tassa sul Flusso di Cassa basato sulla Destinazione (DBCFT) è una proposta di Legge che in questi giorni è stata presentata dal Partito Repubblicano americano;
2 – assieme ad altri cambiamenti, questa nuova tassa andrà a sostituire la Tassa sul Reddito delle Società (Corporate Income Tax);
3 – nella attuale legislazione americana le società sono tassate sui loro profitti, che sono grosso modo definiti come le entrate al netto dei costi, con una aliquota marginale del 35%, I costi sono le tasse locali e statali, i costi dei beni acquistati, i pagamenti sugli interessi e altre entrate dell’impresa;
4 – le imprese che acquistano investimenti di capitale debbono svalutare, o dedurre, il costo di questi beni nel corso di molti anni o decenni;
5 – in aggiunta, le imprese sono tassate sui profitti che guadagnano all’estero e riportano negli Stati Uniti, al netto di un credito pari alle tasse pagate all’estero su tali redditi.
La proposta presentata dal Partito Repubblicano modificherebbe tale Tassa sul Reddito delle Società in cinque aspetti principali:
1 – L’aliquota fiscale sarebbe abbassata al 20 per cento;
2 – le imprese non avrebbero più bisogno di svalutare gli investimenti di capitali. Gli sarebbe invece concesso di dedurli interamente;
3 – le imprese non dovrebbero più pagare la tassa sui profitti che guadagnano all’estero;
4 – per le imprese non sarebbe più possibile dedurre gli interessi come spese dell’impresa;
5 – infine, la tassa alle società sarebbe “border adjusted” (che io traduco ‘regolata, adeguata, integrata al confine’).
Ma cosa è questo “adeguamento, integrazione al confine”?
Di solito, si parla di una “border adjusted tax” a proposito della Tassa sul Valore Aggiunto (IVA). Una tassa del genere si applica a tutto quello che viene consumato nel paese, mentre esclude quello che viene prodotto nel paese ma consumato altrove. L’integrazione al confine si conforma al principio “basato sulla destinazione”, ovvero la tassa è applicata in ragione di dove il bene va a finire, e non di dove è prodotto.
Dunque, una tassa di quel genere si applica alle importazioni ma non alle esportazioni.
Notazione linguistica (se ho ben capito): la proposta repubblicana non è solo relativa alle tasse su beni che transitano dai confini, in quanto sostituisce la tassazione generale sui redditi delle imprese e quindi vale per tutte le imprese che semplicemente operano negli Stati Uniti. Il termine “destination-based” è una aggettivazione aggiuntiva; significa che la nuova tassazione generale ‘sul flusso di cassa’ si applica peraltro in modo differenziato al confine, ovvero si applica alle importazioni ma non alle esportazioni.
Quanto alle somiglianze e alle differenze con una IVA, si tenga conto di due informazioni supplementari:
a – come è spiegato nello stesso post, una differenza di fondo è che nella proposta repubblicana sono deducibili anche i costi dei salari;
b – in America esiste già una tassazione del tipo IVA, ma è al livello degli Stati e non del Governo Federale. Né mi pare che sarebbe modificata dalla nuova tassazione delle imprese.
Come ho detto in partenza, questa nota potrebbe essere utile se non per capire una materia ostica, almeno per avere alcuni altri elementi di conoscenza integrativa. Dopodiché, il post tradotto aggiunge altri elementi sostanziali di valutazione.
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