Blog di Krugman

La Germania, l’euro e la manipolazione valutaria (dal blog di Krugman, 1 febbraio 2017)

 

FEB 1 12:49 PM

 

Germany, the Euro, and Currency Manipulation

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Peter Navarro, the closest thing Trump has to an economic guru, made some waves by accusing Germany of being a currency manipulator and suggesting that both the shadow Deutsche mark and the euro are undervalued. Leaving aside the dubious notion that this is a good target of US economic diplomacy, is he right?

Yes and no. Unfortunately, the “no” part is what’s relevant to the US.

Yes, Germany in effect has an undervalued currency relative to what it would have without the euro. The figure shows German prices (GDP deflator) relative to Spain (which I take to represent Southern Europe in general) since the euro was created. There was a large real depreciation during the euro’s good years, when Spain had massive capital inflows and an inflationary boom. This has only been partly reversed, despite an incredible depression in Spain. Why? Because wages are downward sticky, and Germany has refused to support the kind of monetary and fiscal stimulus that would raise overall euro area inflation, which remains stuck at far too low a level.

So the euro system has kept Germany undervalued, on a sustained basis, against its neighbors.

But does this mean that the euro as a whole is undervalued against the dollar? Probably not. The euro is weak because investors see poor investment opportunities in Europe, to an important extent because of bad demography, and better opportunities in the U.S.. The travails of the euro system may add to poor European perceptions. But there’s no clear relationship between the problems of Germany’s role within the euro and questions of the relationship between the euro and other currencies.

And may I say, what is the purpose of having someone connected to the U.S. government say this? Are we going to pressure the ECB to adopt tighter monetary policy? I sure hope not. Are we egging on a breakup of the euro? It sure sounds like it — but that is not, not, something the US government should be doing. What would we say if Chinese officials seemed to be talking up a US financial crisis? (It would, of course, be OK with Trump if the Russians did it.)

So yes, Navarro has a point about Germany’s role within the euro. And if he were unconnected with the Bannon administration, he would be free to make it. But in the current context, this is grossly irresponsible.

 

La Germania, l’euro e la manipolazione valutaria

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Peter Navarro, la cosa più vicina ad un guru dell’economia che Trump possieda, ha aperto una controversia accusando la Germania di manipolazione valutaria è suggerendo che sia il marco ‘ombra’ tedesco che l’euro sarebbero sottovalutati. Trascurando la dubbia circostanza se questo sia un buon obbiettivo per la diplomazia degli Stati Uniti, ha ragione?

Si e no. Sfortunatamente, la componente del “no” è quella che conta per gli Stati Uniti.

È vero, in effetti la Germania ha una moneta sottovalutata in relazione a quella che avrebbe senza l’euro. Il diagramma mostra i prezzi tedeschi (deflatore del PIL) [1] in rapporto alla Spagna [2] (che assumo rappresenti l’Europa meridionale in generale), dal momento in cui è stato creato l’euro. C’è stata una ampia reale svalutazione durante gli anni buoni dell’euro, quando la Spagna ha avuto massicci flussi di capitali in ingresso e un boom inflattivo. Questo è stato solo in parte invertito, nonostante una depressione incredibile in Spagna. Perché? Perché i salari sono rigidi verso il basso, e la Germania si è rifiutata di sostenere quel genere di stimolo monetario e di finanza pubblica che avrebbe elevato l’inflazione complessiva nell’area euro, che resta bloccata ad un livello troppo basso.

Dunque il sistema dell’euro ha mantenuto la Germania sottovalutata, su base prolungata, contro i suoi vicini.

Ma questo significa che l’euro nel suo complesso è sottovalutato rispetto al dollaro? Probabilmente no. L’euro è debole perché gli investitori vedono possibilità modeste di investimento in Europa, in buona misura per effetto di una demografia negativa, e migliori opportunità negli Stati Uniti. Il calvario del sistema dell’euro è possibile si sia aggiunto alle modeste percezioni europee. Ma non c’è alcuna relazione chiara tra il ruolo della Germania nel sistema euro e le questioni della relazione tra l’euro e le altre valute.

E posso chiedere, qual è il senso di avere un personaggio in rapporto con il Governo degli Stati Uniti che dice cose del genere? Siamo in procinto di spingere la BCE ad adottare una politica monetaria più restrittiva? Spero certamente di no. E stiamo spingendo verso una rottura dell’euro? Sembra proprio così – ma questo non è qualcosa che il Governo degli Stati Uniti dovrebbe assolutamente fare. Cosa diremmo se apparisse che le autorità cinesi stanno favorendo una crisi finanziaria statunitense (naturalmente, per Trump non ci sarebbero problemi se lo facesse Putin)?

Dunque, è vero, Navarro ha un argomento sul ruolo della Germania all’interno dell’euro. E se non fosse collegato con l’Amministrazione Bannon [3], sarebbe libero di avanzarlo. Ma nel contesto attuale, è grossolanamente irresponsabile.

 

 

 

[1] Il “deflatore” è un indice dei prezzi che consente di distinguere gli aumenti reali del prodotto nazionale da quelli dovuti all’inflazione. Lo specifico deflatore del PIL mostra quanto un cambiamento nella base annua del PIL si basi su un cambiamento del livello dei prezzi.

[2] Il diagramma mostra l’evoluzione del “tasso di cambio reale” tra la Germania e la Spagna. Credo che si possa interpretare più facilmente in questo modo: posto l’euro in Germania e in Spagna al comune livello di 100 al momento della creazione dell’euro e della sostituzione, su valori stabiliti di intesa tra tutti, delle valute precedenti, il valore reale dell’euro in Spagna è costantemente calato rispetto a quello in Germania, per effetto della maggiore inflazione nel primo paese. Infatti, avere una moneta unica non comporta, ovviamente, avere una inflazione unica, e il valore reale di quella moneta unica cambia in relazione a tali diverse inflazioni. Con la recessione-depressione e il blocco dei flussi dei capitali nell’Europa del Sud, e dunque con la inevitabile minore inflazione in quei paesi, si sarebbe dovuto avviar un processo inverso; che però è stato fortemente attenuato dalla nota tendenza alla rigidità dei prezzi, e dei salari in particolare, verso il basso.

In ogni caso, rispetto alle economie reali di ciascun paese ed alla loro competitività, la Germania ha mantenuto in tutto il periodo il vantaggio derivante da un euro legale sottovalutato rispetto alla sua economia reale. Ovvero, se avesse mantenuto il marco tedesco, le sue merci sarebbero state esportate a valori più elevati, e dunque se ne sarebbe esportate di meno.

[3] Come è noto, Bannon è un personaggio della destra americana estremista assurto al ruolo di consigliere, se non di ideologo, di Trump.

 

 

 

 

 

Breve scambio tra Greg Mankiw e Paul Krugman (dal blog di Krugman, 30 gennaio 2017)

gennaio 31, 2017

 

MONDAY, JANUARY 30, 2017

 

A Three-Point Tax Reform,

By Greg Mankiw

Consider the following tax reform:

1. Impose a retail sales tax on consumer goods and services, both domestic and imported.
2. Use some of the proceeds from the tax to repeal the corporate income tax.
3. Use the rest of the proceeds from the tax to significantly cut the payroll tax.

Before moving on, ask yourself: Do you like this plan?

As I understand it, this plan is, in effect, what the Republicans in Congress are proposing.

Note the words “in effect.”  There are a few differences, which are more important administratively than in their economic effect. One is that the consumption tax is not collected at the retail level but rather along the chain of production (much like a value-added tax). Once this is done, you need border adjustments to ensure the tax is really like a retail sales tax: imports must be taxed, and exports have to get a rebate. In addition, the payroll tax is not cut but rather firms get a deduction for labor payments, but that deduction is much the same as a payroll tax cut.

Personally, I like the three-point plan listed above, and I therefore like the reform proposal being discussed in Congress. A lot of confusion about things like border adjustments might disappear if commentators realized that what is being discussed is largely equivalent to this three-point plan.

Addendum: I don’t think it is quite right to say,as Paul Krugman does, that this plan is a shift from taxing profits to taxing consumers. That ignores part 3 of the three-point plan.  It is more accurate to say it is a shift from taxing profits to taxing consumed profits. Moreover, I think it would promote economic growth and rising living standards. A large literature suggests that taxing consumption is preferred to taxing income, especially capital income.So a shift from a profits tax to a consumed profits tax is a step in the right direction.

 

 

 

 

 

JAN 30 3:54 PM

 

Competitiveness Games

by Paul Krugman

 

I’ve noted in the past that I get the most vitriolic attacks, not when I denounce politicians as evil or corrupt, but when I use more or less standard economics to debunk favorite fallacies. Sure enough, lots of anger over the trade analysis in today’s column, assertions that it’s all left-wing bias, etc..

So maybe it’s worth noting that Greg Mankiw’s take on the economics of DBCFT is basically identical to mine: subsidy or tax cut on employment of domestic factors of production, paid for by sales tax. Greg and I disagree on whether replacing profits taxes with sales taxes is a good idea, but agree that all of this has nothing to do with trade and international competition – because it doesn’t.

I suspect, however, that Greg is being naïve here in assuming that we’re just seeing confusion because border tax adjustment sounds as if it must involve competitive games. There’s some of that, for sure, but one reason the competitiveness thing won’t go away is that it’s an essential part of the political pitch. “Let’s eliminate taxes on profits and tax consumers instead” is a hard sell, even if you want to claim that the incidence isn’t what it looks like. Claiming that it’s about eliminating a dire competitive disadvantage plays much better, even though it’s all wrong.

To be fair, these tax-and-trade issues are kind of two-ibuprofen stuff at best. But confusions persists even longer than usual when they serve a political purpose.

 

Una  riforma fiscale in tre punti,

di Greg Mankiw

Si consideri la seguente riforma fiscale:

1 – Imposizione di una tassa sulla vendita al dettaglio di beni e servizi, sia nazionali che importati;

2 – Utilizzo di una parte del ricavato dalla tassa per abrogare la tassa sul reddito delle imprese;

3 – Utilizzo del resto del ricavato dalla tassa pe tagliare in modo significativo la tassa sugli stipendi.

Prima di procedere, chiedetevi: vi piace questo programma?

Per come lo capisco io, questo programma è, in effetti, ciò che i repubblicani del Congresso stanno proponendo.

Si noti la parola “in effetti”. Ci sono poche differenze, che sono più importanti per i loro effetti amministrativi che economici. Una è che la tassa sui consumi non è raccolta al livello del dettaglio ma piuttosto lungo la catena della produzione (in modo molto simile ad una tassa sul valore aggiunto). Una volta che si fa in questo modo, c’è bisogno di correzioni ai confini per assicurare che la tassa sia effettivamente una tassa sulle vendite al dettaglio: le importazioni devono essere tassate, e le esportazioni devono avere uno sconto. In aggiunta, la tassa sugli stipendi non viene tagliata ma sono piuttosto le imprese ad ottenere una deduzione sul pagamento del lavoro, ma quella deduzione è praticamente lo stesso di un taglio alla tassa sugli stipendi.

Personalmente, io sono favorevole al piano in tre punti illustrato sopra, e dunque sono favorevole alla proposta di riforma che viene discussa nel Congresso. Un po’ della confusione su cose come la correzione ai confini potrebbero scomparire se i commentatori comprendessero che ciò che è in discussione è largamente equivalente a questo programma in tre punti.

Aggiunta: non credo che sia del tutto corretto affermare, come fa Paul Krugman, che questo programma è uno spostamento dalla tassazione sui profitti alla tassazione su consumatori. In questo modo non si considera la terza parte del programma in tre punti. È più appropriato dire che è uno spostamento dalla tassazione sui profitti alla tassazione sui profitti consumati. Inoltre, penso che promuoverebbe la crescita economica e alzerebbe i livelli di vita. Un’ampia letteratura suggerisce che tassare i consumi è preferibile a tassare i redditi, in particolare i redditi da capitale. Dunque uno spostamento da una tassa sui profitti a una tassa sui profitti consumati è un passo nella direzione giusta.

 

 

30 gennaio 2017

Giochi di competitività

di Paul Krugman

Ho notato nel passato che ricevo i peggiori attacchi al vetriolo non quando denuncio uomini politici come malvagi o corrotti, ma quando uso concetti economici più o meno di base per smascherare gli errori preferiti. Come previsto, un sacco di rabbia sull’analisi del commercio nell’articolo di oggi, giudizi secondo i quali sono tutti pregiudizi della sinistra, etc.

Forse è dunque degno di nota che la presa di posizione di Greg Mankiw sull’economia del DBCFT [1] sia fondamentalmente identica alla mia: sussidi o sgravi fiscali sull’occupazione di fattori nazionali della produzione, pagati con una tassa sulle vendite. Greg ed io non siamo d’accordo se rimpiazzare le tasse sui profitti sia una buona idea, ma siamo d’accordo sul fatto non abbia niente a che fare con il commercio e la competizione internazionale – perché è così.

Sospetto comunque che Greg sia ingenuo in questo caso, assumendo che stiamo solo assistendo a un po’ di confusione perché la tassa di correzione al confine dà l’impressione di riguardare strategie competitive. Di certo, quello è un aspetto, ma una ragione per la quale la faccenda della competitività non scomparirà è che essa è una parte essenziale del discorso politico. “Eliminate le tasse sui profitti e tassate piuttosto i consumatori” è un argomento difficile da rivendere, anche se si intende sostenere che l’incidenza non è quella che appare. Sostenere che il tutto riguarda l’eliminazione di un catastrofico svantaggio competitivo funziona molto meglio, anche se è del tutto sbagliato.

Onestamente, questi temi su tasse e commercio sono nel migliore dei casi una sorta di medicinali antiinfiammatori. Ma la confusione persiste anche più a lungo del solito quando serve ad uno scopo politico.

 

 

 

[1] Per una spiegazione del significato di DBCFT – l’acronimo di una proposta di legge dei repubblicani americani in materia di fisco – vedi il post qua tradotto del 27 gennaio “La tassa al confine in due passi”.

 

 

 

 

 

La macroeconomia del populismo da reality-TV (dal blog di Krugman, 29 gennaio 2017)

gennaio 30, 2017

 

JAN 29 1:42 PM

The Macroeconomics of Reality-TV Populism

by Paul Krugman

Cardiff Garcia has a nice piece trying to figure out what might happen to the economy under Trump, taking off from the classic Dornbusch-Edwards analysis of macroeconomic populism in Latin America. Garcia notes that surging government spending and mandated wage hikes tend to produce a temporary “sugar high”, followed by a crash. Nice idea – but I suspect highly misleading, because Trump isn’t a real populist, he just plays one on reality TV.

The Dornbusch-Edwards essay focused on the examples of Allende’s Chile and Garcia’s Peru; an update would presumably look at Argentina, Venezuela, and others. But how relevant are these examples to Trump’s America?

Allende, for example, was a real populist, who seriously tried to push up wages and drastically increased spending. Here’s Chilean government consumption spending as a share of GDP:

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That’s huge; in the U.S. context it would mean boosting spending by almost $1 trillion each year.

Is Trump on course to do anything similar? He’s selected a cabinet of plutocrats, with a labor secretary bitterly opposed to minimum wage hikes. He talks about infrastructure, but the only thing that passes for a plan is a document proposing some tax credits for private investors, which wouldn’t involve much public outlay even if they did lead to new investment (as opposed to giveaways for investment that would have taken place anyway.) He does seem set to blow up the deficit, but via tax cuts for the wealthy; benefits for the poor and middle class seem set for savage cuts.

Why, then, does anyone consider him a “populist”? It’s basically all about affect, about coming across as someone who’ll stand up to snooty liberal elitists (and of course validate salt-of-the-earth, working-class racism.) Maybe some protectionism; but there’s no hint that his economic program will look anything like populism abroad.

In which case, why would we even get the “sugar high” of populisms past? A tax-cut-driven boom is possible, I guess. But there won’t be much stimulus on the spending side.

 

La macroeconomia del populismo da reality-TV

 di Paul Krugman 

Cardiff Garcia pubblica un bell’articolo con il quale cerca di immaginare cosa potrebbe accadere all’economia sotto Trump, prendendo le mosse dalla classica analisi del populismo in America Latina di Dornbusch-Edwards. Garcia osserva che il rialzo della spesa pubblica gli aumenti dei salari (minimi) obbligatori tendono a generare un temporaneo “alto livello degli zuccheri”, seguito da un crollo. Idea carina – ma io sospetto profondamente fuorviante, perché Trump non è un populista vero, ma solo si atteggia ad esserlo nella reality-TV.

Il saggio di Dornbusch-Edwards si concentrava sugli esempi del Cile di Allende e del Perù di Garcia, un aggiornamento presumibilmente riguarderebbe il Venezuela, l’Argentina ed altri. Ma quanto sono attinenti questi esempi all’America di Trump?

Allende, per esempio, era un vero populista, che cercò seriamente di spingere in alto i salari e aumentò in modo drastico la spesa pubblica. Ecco la spesa dei consumi del Governo cileno come percentuale del PIL:

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È un dato elevato: nel contesto degli Stati Uniti significherebbe spingere la spesa per circa mille miliardi di dollari all’anno.

Trump è in procinto di far qualcosa del genere? Ha selezionato un gabinetto di plutocrati, con un Segretario al Lavoro che si è opposto aspramente al rialzo dei minimi salariali. Parla di infrastrutture, ma la solo cosa che assomiglia ad un programma è un documento che propone alcuni crediti di imposta per gli investitori privati, che non comporterebbe molto esborso di denaro pubblico neanche se comportasse nuovi investimenti (diversamente da regalie per investimenti che ci sarebbero stati comunque). Egli sembra veramente disposto a far saltare il deficit, ma attraverso sgravi fiscali ai ricchi; i benefici per i poveri e la classe media sembrano programmati nella forma di tagli selvaggi.

Perché, allora, si dovrebbe considerarlo un “populista”? Fondamentalmente è tutto relativo al fingere, al dare l’impressione di essere uno che scenderà in campo contro gli altezzosi progressisti delle élite (e naturalmente di corroborare il razzismo dei lavoratori per bene [1]). Forse un po’ di protezionismo; ma non c’è alcun cenno che il suo programma economico assomiglierà in nulla al populismo all’estero.

Nel qual caso, perché mai potremmo avere quegli “alti livelli degli zuccheri” dei populismi passati? Suppongo che una espansione guidata dagli sgravi fiscali sia possibile. Ma non ci sarà molto stimolo sul lato della spesa.

 

 

[1] Forse la traduzione merita un chiarimento. L’espressione “sale della terra” ha una origine evangelica, con essa Gesù si rivolse ai suoi seguaci, intendendo che essi, pure in minoranza, sarebbero stati il lievito dell’umanità. Mi pare che in inglese questo significato originario richieda una formulazione per esteso (“The salt of the earth”), mentre la forma aggettivale (“salt-of-earth”) si riferisca alla dote della “santità”, oppure della “rispettabilità”, o anche dell’essere semplicemente “persone per bene” (“decent”).

In questo caso, dunque, mi pare corretto intenderlo come una aggettivazione della “working class”, intendendo con ciò quei “lavoratori per bene” che, secondo la concezione della destra americana, non possono non essere provvisti anche di una certa dose di razzismo.

 

 

 

 

 

La tassa al confine in due passi, per esperti (dal blog di Krugman, 27 gennaio 2017)

gennaio 28, 2017

 

JAN 27 11:45 AM 

Border Tax Two-Step (Wonkish)

Trump tantrums aside, you may be finding the whole border tax adjustment discussion confusing. If so, you’re not alone; I’ve worked in this area my whole life, I co-wrote a widely cited paper (with Martin Feldstein) on why a VAT isn’t an export subsidy, and I have still had a hard time wrapping my mind around the Destination-Based Cash Flow Tax border adjustment that sort-of-kind-of constituted the basis for the Mexico incident.

But I have what I think may be a (relatively) easy way to think about it, which starts with the competitive effects of a VAT, then analyzes the DBCFT as a change from a VAT.

So, first things first: a VAT does not give a nation any kind of competitive advantage, period.

Think about two firms, one domestic and one foreign, selling into two markets, domestic and foreign. Ask how the VAT affects competition in each market.

In the domestic market, imports pay the border adjustment; but domestic firms pay the VAT, so the playing field is still level.

In the foreign market, domestic firms don’t pay the VAT, but neither do foreign firms. Again, the playing field is still level.

So a VAT is just a sales tax, with no competitive impact.

But a DBCFT isn’t quite the same as a VAT.

With a VAT, a firm pays tax on the value of its sales, minus the cost of intermediate inputs – the goods it buys from other companies. With a DBCFT, firms similarly get to deduct the cost of intermediate inputs. But they also get to deduct the cost of factors of production, mostly labor but also land.

So one way to think of a DBCFT is as a VAT combined with a subsidy for employment of domestic factors of production. The VAT part has no competitive effect, but the subsidy part would lead to expanded domestic production if wages and exchange rates didn’t change.

But of course wages and/or the exchange rate would, in fact, change. If the US went to a DBCFT, we should expect the dollar to rise by enough to wipe out any competitive advantage. After the currency adjustment, the trade effect should once again be nil. But there might be a lot of short-to-medium term financial consequences from a stronger dollar.

I think this is right, and I hope it clarifies matters. Oh, and no, none of this helps pay for the wall.

 

La tassa al confine in due passi

A parte i capricci di Trump, può darsi che stiate trovando confuso l’intero dibattito sulla correzione della tassa al confine. Se è così, non siete soli: ho lavorato in questo settore l’intera mia vita, ho scritto assieme a Martin Feldstein un saggio ampiamente citato sul perché l’IVA non è un sussidio alle esportazioni, e ho ancora difficoltà nel cercar di capire l’adeguamento al confine della Tassa sul Flusso di Cassa basato sulla Destinazione (DBCFT), che ha costituito una specie di base per l’incidente col Messico [1].

Eppure ho qualcosa che potrebbe essere un modo relativamente semplice per ragionarne, che parte dagli effetti competitivi dell’IVA e poi analizza il DBCFT come una modifica rispetto all’IVA.

Partiamo dunque dall’inizio: l’IVA non fornisce a una nazione nessun genere di vantaggio competitivo, punto.

Si pensi a due imprese, una nazionale e una straniera, che vendono su due mercati, quello interno e quello estero. Chiediamoci come l’IVA influenzi la competizione in entrambi i mercati.

Nel mercato interno, le importazioni pagano un adeguamento al confine; ma le imprese nazionali pagano l’IVA, dunque il terreno di gioco è uguale per tutti.

Nel mercato straniero le imprese nazionali non pagano l’IVA, ma neanche le imprese straniere. Di nuovo, il campo di gioco è uguale per tutti.

Dunque l’IVA è solo una tassa sulle vendite, con nessun impatto sulla competitività.

Ma una Tassa sul Flusso di Cassa basata sulla Destinazione non è esattamente la stessa cosa dell’IVA.

Con l’IVA un’impresa paga la tassa sul valore delle proprie vendite, al netto dei costi dei fattori della intermediazione –  i beni che acquista da altre società. Con la DBCFT, in modo simile alle imprese è consentito di dedurre i fattori della intermediazione. Ma esse ottengono anche di dedurre il costo dei fattori della produzione, principalmente il lavoro ma anche i terreni.

Dunque, un modo di pensare al DBCFT è come una Imposta sul Valore Aggiunto associata ad un sussidio per l’occupazione di fattori interni della produzione. La componente dell’IVA non ha un effetto sulla competitività, ma la componente del sussidio potrebbe portare ad una espansione della produzione nazionale se i salari e i tassi di cambio non mutassero.

Ma naturalmente i salari e/o i tassi di cambio si modificano. Se gli Stati Uniti adottano il DBCFT, dovremmo aspettarci che il dollaro si rivaluti a sufficienza da spazzar via ogni vantaggio competitivo. Dopo l’aggiustamento valutario, l’effetto sul commercio tornerebbe ad essere uguale a zero. Ma con un dollaro più forte ci potrebbe essere una grande quantità di conseguenze finanziarie di breve e medio termine.

Penso che queste note siano corrette e chiariscano le questioni. Infine no, niente di tutto questo contribuirebbe a ripagare il muro.

 

 

 

[1] Per inquadrare le spiegazioni fornite in questo post in una migliore comprensione preliminare dell’intera faccenda, possono valere queste informazioni aggiuntive:

 

1 – La Tassa sul Flusso di Cassa basato sulla Destinazione (DBCFT) è una proposta di Legge che in questi giorni è stata presentata dal Partito Repubblicano americano;

2 – assieme ad altri cambiamenti, questa nuova tassa andrà a sostituire la Tassa sul Reddito delle Società (Corporate Income Tax);

3 – nella attuale legislazione americana le società sono tassate sui loro profitti, che sono grosso modo definiti come le entrate al netto dei costi, con una aliquota marginale del 35%, I costi sono le tasse locali e statali, i costi dei beni acquistati, i pagamenti sugli interessi e altre entrate dell’impresa;

4 – le imprese che acquistano investimenti di capitale debbono svalutare, o dedurre, il costo di questi beni nel corso di molti anni o decenni;

5 – in aggiunta, le imprese sono tassate sui profitti che guadagnano all’estero e riportano negli Stati Uniti, al netto di un credito pari alle tasse pagate all’estero su tali redditi.

 

La proposta presentata dal Partito Repubblicano modificherebbe tale Tassa sul Reddito delle Società in cinque aspetti principali:

1 – L’aliquota fiscale sarebbe abbassata al 20 per cento;

2 – le imprese non avrebbero più bisogno di svalutare gli investimenti di capitali. Gli sarebbe invece concesso di dedurli interamente;

3 – le imprese non dovrebbero più pagare la tassa sui profitti che guadagnano all’estero;

4 – per le imprese non sarebbe più possibile dedurre gli interessi come spese dell’impresa;

5 – infine, la tassa alle società sarebbe “border adjusted” (che io traduco ‘regolata, adeguata, integrata al confine’).

 

Ma cosa è questo “adeguamento, integrazione al confine”?

Di solito, si parla di una “border adjusted tax” a proposito della Tassa sul Valore Aggiunto (IVA). Una tassa del genere si applica a tutto quello che viene consumato nel paese, mentre esclude quello che viene prodotto nel paese ma consumato altrove. L’integrazione al confine si conforma al principio “basato sulla destinazione”, ovvero la tassa è applicata in ragione di dove il bene va a finire, e non di dove è prodotto.

Dunque, una tassa di quel genere si applica alle importazioni ma non alle esportazioni.

 

Notazione linguistica (se ho ben capito): la proposta repubblicana non è solo relativa alle tasse su beni che transitano dai confini, in quanto sostituisce la tassazione generale sui redditi delle imprese e quindi vale per tutte le imprese che semplicemente operano negli Stati Uniti. Il termine “destination-based” è una aggettivazione aggiuntiva; significa che la nuova tassazione generale ‘sul flusso di cassa’ si applica peraltro in modo differenziato al confine, ovvero si applica alle importazioni ma non alle esportazioni.

 

Quanto alle somiglianze e alle differenze con una IVA, si tenga conto di due informazioni supplementari:

a – come è spiegato nello stesso post, una differenza di fondo è che nella proposta repubblicana sono deducibili anche i costi dei salari;

b – in America esiste già una tassazione del tipo IVA, ma è al livello degli Stati e non del Governo Federale. Né mi pare che sarebbe modificata dalla nuova tassazione delle imprese.

 

Come ho detto in partenza, questa nota potrebbe essere utile se non per capire una materia ostica, almeno per avere alcuni altri elementi di conoscenza integrativa. Dopodiché, il post tradotto aggiunge altri elementi sostanziali di valutazione.

 

 

 

 

Reagan, Trump e il settore manifatturiero (dal blog di Krugman, 25 gennaio 2017)

gennaio 26, 2017

 

JAN 25 3:46 PM 

Reagan, Trump, and Manufacturing

 

It’s hard to focus on ordinary economic analysis amidst this political apocalypse. But getting and spending will still consume most of peoples’ energy and time; furthermore, like it or not the progress of CASE NIGHTMARE ORANGE may depend on how the economy does. So, what is actually likely to happen to trade and manufacturing over the next few years?

As it happens, we have what looks like an unusually good model in the Reagan years — minus the severe recession and conveniently timed recovery, which somewhat overshadowed the trade story. Leave aside the Volcker recession and recovery, and what you had was a large move toward budget deficits via tax cuts and military buildup, coupled with quite a lot of protectionism — it’s not part of the Reagan legend, but the import quota on Japanese automobiles was one of the biggest protectionist moves of the postwar era.

I’m a bit uncertain about the actual fiscal stance of Trumponomics: deficits will surely blow up, but I won’t believe in the infrastructure push until I see it, and given savage cuts in aid to the poor it’s not entirely clear that there will be net stimulus. But suppose there is. Then what?

Well, what happened in the Reagan years was “twin deficits”: the budget deficit pushed up interest rates, which caused a strong dollar, which caused a bigger trade deficit, mainly in manufactured goods (which are still most of what’s tradable.) This led to an accelerated decline in the industrial orientation of the U.S. economy:

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And people did notice. Using Google Ngram, we can watch the spread of terms for industrial decline, e.g. here:

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And here:

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Again, this happened despite substantial protectionism.

So Trumpism will probably follow a similar course; it will actually shrink manufacturing despite the big noise made about saving a few hundred jobs here and there.

On the other hand, by then the BLS may be thoroughly politicized, commanded to report good news whatever happens.

 

Reagan, Trump e il settore manifatturiero

È difficile concentrarsi sull’analisi economica ordinaria in mezzo a questa apocalisse politica. Ma acquistare e spendere occuperà ancora la maggioranza dell’energia e del tempo della gente; inoltre, piaccia o no il progresso della ‘tesi da incubo dell’uomo arancione[1] può dipendere da come va l’economia. Dunque, cosa è effettivamente probabile che accada al commercio e al settore manifatturiero nei prossimi anni?

Si dà il caso che abbiamo qualcosa che assomiglia ad un modello insolitamente buono negli anni di Reagan – al netto della grave recessione e di una ripresa opportunamente tempestiva, che in qualche modo ha fatto passare in secondo piano l’aspetto relativo al commercio. Mettete da parte la recessione e la ripresa di Volcker, e quello che avete avuto fu un ampio spostamento verso i deficit di bilancio attraverso gli sgravi fiscali e il consolidamento militare, accompagnato da un bel po’ di protezionismo – non fa parte della leggenda di Reagan, ma il limite massimo delle importazioni sulle automobili giapponesi fu una delle più grandi mosse protezionistiche del periodo post bellico.

Sono un po’ incerto a proposito dell’effettivo indirizzo di finanza pubblica della politica economica di Trump: i deficit certamente cresceranno, ma non crederò alla spinta sulle infrastrutture sinché non la vedo, e considerati i tagli feroci negli aiuti ai poveri, non è del tutto chiaro se ci sarà uno stimolo netto. Ma supponiamo che ci sia. A quel punto cosa accadrà?

Ebbene, quello che accadde durante gli anni di Reagan furono i cosiddetti ‘deficit gemelli’: il deficit di bilancio spinse in alto i tassi di interesse, che furono all’origine di un dollaro forte, che provocò un deficit commerciale ancora maggiore, principalmente nei beni manifatturieri (che sono ancora la maggior parte di ciò che è commerciabile). Questo portò ad un declino accelerato dell’orientamento industriale dell’economia americana:

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[2]

E la gente se ne accorse. Utilizzando Google Ngram, possiamo osservare la diffusione del fenomano del declino industriale, ad esempio in questo diagramma:

zz 311

 

 

 

 

 

 

 

 

E in questo:

zz 312

 

 

 

 

 

 

 

[3]

A sua volta, tutto questo accadde nonostante un sostanziale protezionismo.

Dunque il trumpismo probabilmente seguirà un indirizzo analogo; esso effettivamente restringerà il settore manifatturiero nonostante il gran chiasso che viene fatto su poche centinaia di posti di lavoro risparmiati qua e là.

D’altronde, per allora l’Ufficio delle Statistiche sul Lavoro potrà essere scrupolosamente politicizzato, con l’ordine di produrre buone notizie qualsiasi cosa accada.

 

 

 

[1] L’uomo ‘arancione’ è Trump, così definito per il singolare colore della sua pelle (che pare derivare o da una esagerata dieta di carote, o da un uso esagerato delle lampade per abbronzatura). L’espressione è desunta da un articolo nel quale si parla di una ‘tesi verde da incubo’, che mi pare di capire sia una suggestione catastrofica – forse di ispirazione ambientalista – secondo la quale il sole starebbe per spostarsi in una diversa regione dello spazio, con conseguenze caotiche per la Terra.

[2] Gli anni dei ‘deficit gemelli’ (“twin deficit era”) sono racchiusi nel cerchio rosso.

[3] La differenza tra i due diagrammi dovrebbe consistere nel fatto che il primo si riferisce al fenomeno generale (e dunque, nazionale) della deindustrializzazione; mentre il secondo si riferisce allo stesso fenomeno nell’area delimitata con il termine “la cintura della ruggine” (“rust belt”), ovvero ad una vasta aerea un tempo di forte insediamento manifatturiero che si estende ad ovest dello Stato di New York, nell’America Settentrionale e Centrale.

 

 

 

 

 

 

L’opposto della carneficina (21 gennaio 2017)

gennaio 26, 2017

 

JAN 21 10:50 AM 

The Opposite of Carnage

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Trump’s inaugural speech was, of course, full of lies — pretty much the same lies that marked the campaign. Above all, there was the portrayal of a dystopia of social and economic collapse that bears little relationship to American reality. During the campaign Trump got away with this in part because of slovenly, craven media, but also because of persistent misperceptions. The public consistently believes that crime is rising even when it has been falling to historical lows; it believes that the number of uninsured has risen when it has also fallen to historic lows; Republicans believe that unemployment is up and, incredibly, the stock market down under Obama.

The interesting question now is whether fake carnage can be replaced by fake non-carnage. How many people can be convinced that things are getting better under the Trump-Putin administration even as they actually get worse?

Will they actually get worse? Almost surely. Unemployment will probably rise over the next four years, if only because it starts out low — historically the unemployment rate has a strong reversion to the mean, and it probably can’t go much lower than it is now but can go much higher. The number of uninsured will soar if Republicans repeal Obamacare, whatever alleged replacement they offer.

Crime is less clear, since we really don’t know why it fell. But big further declines don’t seem highly likely; certainly we won’t see an end to the prevalence of urban war zones, because, you know, they don’t exist in the first place.

Oh, and this team of cronies is unlikely to help raise real wages.

But can Trump voters be convinced that things are getting better when they aren’t? The truth is that I don’t know. Views on many issues are driven by motivated reasoning, and when people say that things got worse under Obama, what they may really be saying — whatever the actual question was — is “I hate the idea of a black man in the White House.”

Still, I suspect that claiming vast job creation when people are actually finding it harder to get work and losing insurance won’t work as well as the claims of carnage did. I guess we’ll just have to see — which may be hard if, as I fear, the statistical agencies are a prime target of the new regime.

 

L’opposto della carneficina

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[1]

Ovviamente, il discorso inaugurale di Trump era pieno zeppo di bugie – in pratica le stesse bugie che hanno segnato la campagna elettorale. Soprattutto, c’era la rappresentazione di una distopia di collasso sociale ed economico che ha poca relazione con la realtà americana. Durante la campagna elettorale Trump l’aveva fatta franca con tutto questo in parte per la sciatteria e la viltà dei media, ma anche per perduranti impressioni sbagliate. L’opinione pubblica crede regolarmente che il crimine sia in aumento anche quando esso sta scendendo ai minimi storici; crede che il numero dei non assicurati sia salito anche quando sta scendendo ai minimi storici; i repubblicani credono che con Obama la disoccupazione fosse in crescita e, incredibilmente, le borse fossero in ribasso.

Adesso la domanda interessante è se la falsa carneficina possa essere sostituita da una falsa non-carneficina. Quante persone si possono convincere che le cose stanno andando meglio con l’Amministrazione Trump-Putin anche se effettivamente esse andranno peggio?

Andranno effettivamente peggio? È quasi sicuro. La disoccupazione probabilmente nei prossimi quattro anni salirà, magari solo perché parte da livelli bassi – storicamente il tasso di disoccupazione ha una forte regressione verso il dato medio, e probabilmente non può scendere più in basso di quanto è adesso mentre può diventare molto più alta. Il numero dei non assicurati schizzerà in alto se i repubblicani abrogano la riforma sanitaria di Obama, qualsiasi presunta sostituzione essi offrano.

Per la criminalità è meno chiaro, dal momento che non sappiamo perché è caduta. Ma non sembrano molto probabili ulteriori grandi declini; certamente non vedremo scomparire la diffusione di zone di guerra urbana, perché, come sapete, anzitutto non esistono.

Infine, è improbabile che questa sua squadra clientelare contribuisca a far salire i salari reali.

Ma potranno gli elettori di Trump convincersi che le cose stanno andando meglio anche se non sarà così? La verità è che non lo so. Le opinioni su molte questioni sono guidate da ragionamenti indotti, e quando le persone dicono che le cose andavano peggio con Obama, quello che possono realmente intendere – qualsiasi fosse la domanda – è: “Io odio l’idea di un uomo di colore alla Casa Bianca”.

Eppure ho il sospetto che pretendere una grandiosa creazione di nuovi posti di lavoro quando effettivamente la gente sta sperimentando che trovare lavoro è più difficile e sta perdendo l’assistenza sanitaria non funzionerà così facilmente come le pretese della carneficina. Suppongo che dovremo solo stare a vedere – il che può essere difficile se, come temo, le agenzie di statistica saranno il primo obbiettivo del nuovo regime.

 

 

[1] La tabella di sinistra mostra la percentuale di persone che ritengono che i crimini siano in aumento rispetto all’anno precedente; quella di destra mostra l’andamento dei crimini violenti per ogni 1.000 persone (che dunque sono scesi da 80 a circa 20 in ventitré anni).

 

 

 

 

 

Aspetti di fondo della assistenza sanitaria (dal blog di Krugman, 18 gennaio 2017)

gennaio 19, 2017

 

Health Care Fundamentals

 

Another week of complete chaos on the health reform front. Dear Leader declares that he’ll give everyone coverage; Republicans explain that he didn’t mean that literally. CBO says the obvious, that repealing the ACA would lead to immense hardship for tens of millions; Republicans declare that this is wrong, because they will come up with an alternative any day now — you know, the one they’ve been promising for 7 years.

I’ve written about all of this many, many, many times. The logic of Obamacare — the reason anything aiming to cover a large fraction of the previously uninsured must either be single-payer or something very like the ACA — is the clearest thing I’ve seen in decades of policy discussion. But I don’t know if I’ve ever written out the fundamental principles that lie behind all of this.

So here we go: providing health care to those previously denied it is, necessarily, a matter of redistributing from the lucky to the unlucky. And, of course, reversing a policy that expanded health care is redistribution in reverse. You can’t make this reality go away.

Left to its own devices, a market economy won’t care for the sick unless they can pay for it; insurance can help up to a point, but insurance companies have no interest in covering people they suspect will get sick. So unfettered markets mean that health care goes only to those who are wealthy and/or healthy enough that they won’t need it often, and hence can get insurance.

If that’s a state of affairs you’re comfortable with, so be it. But the public doesn’t share your sentiments. Health care is an issue on which most people are natural Rawlsians: they can easily imagine themselves in the position of those who, through no fault of their own, experience expensive medical problems, and feel that society should protect people like themselves from such straits.

The thing is, however, that guaranteeing health care comes with a cost. You can tell insurance companies that they can’t discriminate based on medical history, but that means higher premiums for the healthy — and you also create an incentive to stay uninsured until or unless you get sick, which pushes premiums even higher. So you have to regulate individuals as well as insurers, requiring that everyone sign up — the mandate, And since some people won’t be able to obey such a mandate, you need subsidies, which must be paid for out of taxes.

Before the passage and implementation of the ACA, Republicans could wave all this away by claiming that health reform could never work. And even now they’re busy telling lies about its collapse. But none of this will conceal mass loss of health care in the wake of Obamacare repeal, with some of their most loyal voters among the biggest losers.

What they’re left with is a health economics version of voodoo: they’ll invoke the magic of the market to somehow provide insurance so cheap that everyone will be able to afford it whatever their income and medical status. This is obvious nonsense; I think even Paul Ryan knows that he’s lying like a rug. But it’s all they’ve got.

 

Aspetti di fondo della assistenza sanitaria

Un’altra settimana di caos completo sul fronte dell’assistenza sanitaria. Il leader osannato dichiara che darà a tutti l’assistenza; i repubblicani spiegano che non intendeva dirlo alla lettera. L’Ufficio del Bilancio del Congresso afferma ciò che è ovvio, che abrogare la Legge sulla Assistenza Sostenibile (ACA) comporterà immense difficoltà per decine di milioni di persone; i repubblicani dichiarano che questo è sbagliato, perché prima o poi verranno fuori con una alternativa – sapete, quella che stanno promettendo da sette anni.

Ho scritto su tutto questo una infinità di volte. La logica della legge di riforma di Obama – la ragione per la quale ogni cosa che punti a dare assistenza a una larga parte di coloro che prima non erano assicurati deve essere o un sistema con un centro di pagamenti centralizzato, o qualcosa di simile alla ACA – è la cosa più chiara che ho visto in decenni di dibattito politico. Ma non so se ho mai scritto sui principi fondamentali che stanno alla base di tutto questo.

Facciamolo dunque adesso: fornire l’assistenza sanitaria a coloro ai quali era in precedenza negata è, di necessità, una faccenda di redistribuzione di reddito, da coloro che hanno fortuna a coloro che non ce l’hanno. E, ovviamente, invertire una politica che ha ampliato la assistenza sanitaria è una redistribuzione all’inverso. Non si può prescindere da questo dato di fatto.

Lasciata alla sua immaginazione, un’economia di mercato non darà assistenza gli ammalati, a meno che essi non se la paghino; l’assicurazione può aiutare sino a un certo punto, ma le compagnie di assicurazione non hanno interesse a dare copertura a persone che esse sospettano si ammaleranno. Dunque lasciare i mercati a sé stessi comporta che l’assistenza sanitaria vada alle persone in salute e/o abbastanza in salute da non averne bisogno di frequente, e perciò possono ottenere l’assicurazione.

Se è quella la situazione che vi va a genio, così sia. Ma non è quello il sentimento generalmente condiviso dall’opinione pubblica. L’assistenza è un tema sul quale la maggioranza delle persone sono naturalmente rawlsiane [1]; esse facilmente possono supporre di finire nella condizione di chi, senza averne alcuna responsabilità, può sperimentare problemi sanitari costosi, e ritengono che la società dovrebbe proteggere persone come loro da tali difficoltà.

Il punto, tuttavia, è che garantire l’assistenza sanitaria comporta un costo. Potete sostenere che l’assicurazione non può discriminarvi basandosi sulla vostra storia sanitaria, ma questo significa polizze più elevate per coloro che sono in salute – e se si resta non assicurati finché o a meno che non ci si ammali si crea un incentivo, che spinge le polizze assicurative persino più in alto. Dunque si devono dare regole agli individui come agli assicuratori – è questo il cosiddetto ‘mandato’, e dal momento che alcuni non saranno nelle condizioni di far fronte a questo obbligo, c’è bisogno di sussidi, che dovranno essere pagati fuori dalle tasse.

Prima della approvazione e della messa in funzione della Legge sulla Assistenza Sostenibile, i repubblicani potevano respingere tutto questo affermando che non avrebbe mai funzionato.  Ancora adesso sono indaffarati a raccontare bugie sul collasso della legge. Ma tutto questo non nasconderà le massicce perdite di assistenza sanitaria all’indomani della abrogazione della legge sulla assistenza di Obama, quando alcuni tra i loro più fedeli elettori si troveranno nella situazione di chi ci rimette maggiormente.

Quello con cui sono rimasti è una versione voodoo dell’economia sanitaria; invocheranno la magia di un mercato che in qualche modo fornisca una assicurazione così economica che ognuno se la possa permettersela con qualsiasi reddito e con qualsiasi condizione di salute. Il che è evidentemente un nonsenso; penso che persino Paul Ryan sappia che mente sapendo di mentire. Ma è tutto quello che hanno trovato.

 

 

[1] Il riferimento è al filosofo e teorico del diritto John Rawls ed alla sua teoria della “giustizia distributiva”, secondo la quale tutti i beni sociali principali devono essere distribuiti in modo eguale, una distribuzione uguale può esserci solo se avvantaggia i più svantaggiati.

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Illusioni di infrastrutture (dal blog di Krugman, 14 gennaio 2017)

gennaio 17, 2017

 

JAN 14 8:29 AM 

Infrastructure Delusions

Ben Bernanke has a longish post about fiscal policy in the  Trump era. It’s not the most entertaining read; perhaps because of the political fraughtness of the moment, Bernanke has reverted a bit to Fedspeak. But there’s some solid insight, a lot of it pretty much in line with what I have been saying.

Notably, Bernanke, like yours truly, argues that the fiscal-stimulus case for deficit spending has gotten much weaker, but there’s still a case for borrowing to build infrastructure:

When I was Fed chair, I argued on a number of occasions against fiscal austerity (tax increases, spending cuts). The economy at the time was suffering from high unemployment, and with monetary policy operating close to its limits, I pushed (unsuccessfully) for fiscal policies to increase aggregate demand and job creation. Today, with the economy approaching full employment, the need for demand-side stimulus, while perhaps not entirely gone, is surely much less than it was three or four years ago. There is still a case for fiscal policy action today, but to increase output without unduly increasing inflation the focus should be on improving productivity and aggregate supply—for example, through improved public infrastructure that makes our economy more efficient or tax reforms that promote private capital investment.

But he gently expresses doubt that this kind of thing is actually going to happen:

In particular, will Republicans be willing to support big increases in spending, including infrastructure spending? Alternatively, if Congress opts to reduce the deficit impact of an infrastructure program by financing it through tax credits and public-private partnerships, as candidate Trump proposed, the program might turn out to be relatively small.

Let me be less gentle: there will be no significant public investment program, for two reasons.

First, Congressional Republicans have no interest in such a program. They’re hell-bent on depriving millions of health care and cutting taxes at the top; they aren’t even talking about public investment, and would probably drag their feet even if Trump came forward with a detailed plan and made it a priority.

But this then raises the obvious question: who really believes that this crew is going to come up with a serious plan? Trump has no policy shop, nor does he show any intention of creating one; he’s too busy tweeting about perceived insults from celebrities, and he’s creating a cabinet of people who know nothing about their responsibilities. Any substantive policy actions will be devised and turned into legislation by Congressional Republicans who, again, have zero interest in a public investment program.

So investors betting on a big infrastructure push are almost surely deluding themselves. We may see some conspicuous privatizations, especially if they come with naming opportunities: maybe putting in new light fixtures will let him rename Hoover Dam as Trump Dam? But little or no real investment is coming.

 

Illusioni di infrastrutture

Ben Bernanke ha un post piuttosto lunghetto sulla politica della finanza pubblica nell’epoca di Caligola Trump. Non è la lettura più divertente: forse a causa delle insidie della politica del momento, Bernanke è un po’ tornato al linguaggio stile Fed. Ma c’è qualche intuizione solida, e molte di esse abbastanza in linea con quello che vengo dicendo.

In particolare, Bernanke, come il sottoscritto, sostiene che l’argomento dello stimolo con la finanza pubblica è diventato molto più debole, ma c’è ancora un motivo per indebitarsi nella costruzione di infrastrutture:

Quando ero Presidente della Fed, in un certo numero di occasioni mi pronunciai contro l’austerità nella finanza pubblica (aumenti delle tasse, tagli delle spese). A quel tempo l’economia stava soffrendo di elevata disoccupazione e, con la politica monetaria che operava vicina ai suoi limiti, io spinsi (infruttuosamente) per politiche della finanza pubblica che aumentassero la domanda aggregata e la creazione di posti di lavoro. Oggi, con l’economia che si avvicina alla piena occupazione, il bisogno di uno stimolo da lato della domanda, se forse non è interamente superato, è certamente molti inferiore di tre o quattro anni fa. Oggi c’è ancora un motivo per una iniziativa di politica della finanza pubblica, ma per aumentare la produzione senza aumentare significativamente l’inflazione ci si dovrebbe concentrare sul miglioramento della produttività e dell’offerta aggregata – ad esempio, attraverso migliori infrastrutture pubbliche che rendano più efficiente la nostra economia, o riforme fiscali che promuovano l’investimento del capitale privato.”

Ma egli, in modo cortese, esprime il dubbio che cose del genere stiano effettivamente per accadere:

“In particolare, i repubblicani saranno disponibili a grandi incrementi di spesa, incluse le spese per infrastrutture? In alternativa, se il Congresso scegliesse di ridurre l’impatto sul deficit di un programma infrastrutturale finanziandolo attraverso crediti di imposta e collaborazioni tra il pubblico e il privato, come ha proposto Trump da candidato, il programma potrebbe rivelarsi relativamente modesto.”

Fatemi essere meno cortese: non ci sarà alcun significativo programma pubblico di investimenti, per due ragioni.

La prima: i repubblicani nel Congresso non hanno alcun interesse per un programma del genere. Essi sono caparbiamente determinati nel privare milioni di persone della assistenza sanitaria e nel tagliare le tasse sui più ricchi; non stanno neppure ragionando di investimenti pubblici, e probabilmente non sarebbero entusiasti neppure se Trump si facesse avanti con un programma dettagliato e ne facesse una priorità.

Ma questo inoltre solleva una ovvia domanda: chi crede davvero che una squadra di questo genere sia intenzionata a venirsene fuori con un programma serio? Trump non possiede alcun laboratorio programmatico, né mostra alcuna intenzione di crearsene uno: è troppo occupato a twittare sui presunti insulti da parte di celebrità, e si sta costruendo un gabinetto di individui che non sanno niente delle loro responsabilità. Ogni iniziativa politica di sostanza sarà concepita e trasformata in legge dai repubblicani del Congresso i quali, lo ripeto, non hanno alcun interesse in un programma di investimenti pubblici.

Dunque, gli investitori che scommettono su una forte spinta infrastrutturale quasi certamente si stanno illudendo. Forse assisteremo a qualche cospicua privatizzazione, in specie se esse si annunciano con qualche opportunità di titolazione: forse realizzare un nuovo impianto di illuminazione permetterebbe di rinominare la Diga Hoover [1] con la Diga Trump? Ma, quanto a investimenti, ne arriveranno pochi o punti.         

 

 

[1] La diga di Hoover (in inglese Hoover Dam, anche nota come Boulder Dam) è una diga di tipo arco-gravità in calcestruzzo armato realizzata nel 1935 e situata nel Black Canyon lungo il corso del fiume Colorado, sul confine tra lo Stato dell’Arizona e del Nevada.

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Il trauma della normalità (dal blog di Krugman, 7 gennaio 2017)

gennaio 8, 2017

 

The Shock of the Normal

 

 JANUARY 7, 2017 11:13 AM 

 

Some further thoughts on the macro situation: some of us spent years trying to convince others that the post-crisis environment changed the rules, especially for fiscal policy. Now we have a new problem: how to explain that the rules have (somewhat) changed back without leading to a lot of stupid gotchas, “You said that and now you say this”

The thing is, people like me or Simon Wren-Lewis have been consistent all along; and saying that the rules have changed back is just an application of the same basic framework that worked so well after 2008 — basically an updated version of IS-LM.

Again, think of aggregate demand as reflecting the interest rate, other things equal, while monetary policy normally leans against changes in GDP, so that there’s an upward-sloping LM curve — but because it’s really hard to cut rates below zero, that curve is flat at low levels of output. Short-run equilibrium of output and interest rates is where the IS and LM curves cross:

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Now, suppose you’re considering the effects of policies that will, other things equal, raise or lower aggregate demand — that is, shift the IS curve. In normal circumstances, where the IS curve intersects an upward-sloping LM, such shifts have limited effects on output and employment, because they’re offset by changes in interest rates: fiscal expansion leads to crowding out, austerity to crowding in, and multipliers are low.

In the aftermath of the financial crisis, however, we spent an extended period at the ZLB, as shown by the “2010” IS curve. In those conditions, shifts in the IS curve don’t move interest rates, there is no crowding out (actually crowding in because increased sales lead to higher investment), and multipliers are large.

In that kind of world, prudence is folly and virtue is vice. Almost anything that leads to higher spending is a good thing; we were in coalmines and aliens territory.

Even at the time, however, I tried to explain that this wouldn’t always be the case. From the linked post:

Oh, and let’s always remember that Keynesians like me don’t believe that thing like the paradox of thrift and the paradox of flexibility are the way the economy normally works. They’re very much exceptional, applying only when interest rates are up against the zero lower bound. Unfortunately, that happens to be the world we’re currently living in.

So are we still there? No. Wages are finally rising, quit rates are back to pre-crisis levels, so we seem to be fairly close to full employment, and the Fed is raising rates. So it now looks like the “2017” IS curve in the figure. We’re just barely over the border into normality, which is why I think the Fed should hold and we could still use some fiscal stimulus for insurance, and very low rates still make the case for lots of infrastructure spending. But it’s not the same as it was.

Or actually it’s not the same in the U.S.. Europe is still fairly deep in the liquidity trap.

The point here is that argument by gotcha is even worse now than usual. If you see progressive economists saying different things about Trump deficits than they said about Obama deficits, it’s because the situation has changed, and the very same models that called for fiscal stimulus when Republicans pretended to be fiscally responsible say that deficits are no longer good now that they’re showing what they always were.

 

Il trauma della normalità [1]

Qualche altro pensiero sulla situazione macroeconomica: alcuni di noi hanno passato anni a cercar di convincere gli altri che nell’ambiente successivo alla crisi le regole erano cambiate, in particolare quelle della politica della finanza pubblica. Ora abbiamo un problema nuovo: come spiegare che le regole sono in parte nuovamente cambiate, senza che questo comporti che un sacco di persone pensino di averti preso in castagna, “Prima la pensavi in un modo e ora in un altro”.

Il punto è che persone come me o come Simon Wren-Lewis sono state coerenti dall’inizio; e dire che le cose sono di nuovo cambiate è solo l’applicazione dello stesso modello di base che ha funzionato così bene dopo il 2008 – fondamentalmente una versione aggiornata del IS-LM [2].

Di nuovo, si pensi alla domanda aggregata come un riflesso, a parità delle altre condizioni, del tasso di interesse, mentre la politica monetaria normalmente si appoggia ai cambiamenti del PIL, cosicché c’è una curva LM (della liquidità e della moneta) che inclina verso l’alto – ma poiché è davvero difficile tagliare i tassi al di sotto dello zero, quella curva, a livelli bassi di produzione, è piatta. Nel breve periodo l’equilibrio di produzione e di tassi di interesse è dove le curve IS (degli investimenti e dell’occupazione) e LM si incrociano:

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Ora, pensate di valutare gli effetti di politiche che, a parità delle altre condizioni, eleveranno o abbasseranno la curva della domanda – ovvero, spostate la curva IS [3]. In circostanze normali, all’intersezione della curva IS con LM che tende verso l’alto, tali spostamenti hanno effetti limitati sulla produzione e sull’occupazione: l’espansione della finanza pubblica comporta uno ‘spiazzamento’ (dell’investimento privato), mentre l’austerità comporta l’accalcarsi di entrambi, e i moltiplicatori sono bassi.

All’indomani della crisi finanziaria, tuttavia, abbiamo avuto un periodo prolungato di tassi di interesse al livello inferiore dello zero, come mostrato dalla curva IS nella versione del 2010. In quelle condizioni, gli spostamenti della curva IS non muovono i tassi di interesse, non c’è alcuno spiazzamento (dell’investimento privato) (in realtà c’è una maggiore concentrazione, perché le vendite accresciute portano a investimenti più elevati), e i moltiplicatori sono ampi.

In un mondo di quel genere, la prudenza è follia e la virtù è il vizio. Quasi tutto quello che porta ad una spesa maggiore è una cosa buona; siamo nel territorio delle miniere di carbone e degli alieni [4].

Persino in quel periodo, tuttavia, io cercai di spiegare che la situazione non sarebbe stata sempre questa. Dal post che ho richiamato in precedenza:

“Infine, ricordate sempre che i keynesiani come me non credono che cose come il paradosso del risparmio e il paradosso della flessibilità siano il modo nel quale un’economia funziona normalmente. Esse sono situazioni del tutto eccezionali, si applicano soltanto quando i tassi di interesse sono al livello inferiore dello zero. Sfortunatamente, accade che sia quello il mondo nel quale stiamo vivendo attualmente.”

Dunque, siamo ancora a quel punto? No. I salari finalmente stanno salendo, i tassi delle dimissioni volontarie dai posti di lavoro sono tornati ai livelli precedenti alla crisi [5], cosicché sembra che siamo abbastanza vicini alla piena occupazione, e la Fed sta alzando i tassi. Sembra dunque che adesso siamo in una condizione della curva IS come quella mostrata nella figura nella versione “2017”. Siamo appena oltre il limite della normalità, che è la ragione per la quale io penso che la Fed dovrebbe attendere e che dovremmo ancora utilizzare lo stimolo della spesa pubblica per sicurezza, e che tassi di interesse molto bassi ancora giustifichino una forte spesa pubblica nelle infrastrutture. Ma non è la stessa situazione che c’era in precedenza.

Per la verità, non è la stessa negli Stati Uniti. L’Europa è ancora abbastanza profondamente in una trappola di liquidità.

In questo caso, il punto è che l’argomento di coloro che pensano di trovarvi in contraddizione con voi stessi è persino peggiore del solito. Se voi osservate economisti progressisti che sui deficit di Trump dicono cose diverse di quelle che dicevano sui deficit di Obama, questo dipende dal fatto che la situazione è cambiata, e proprio gli stessi modelli che richiedevano lo stimolo della finanza pubblica quando i repubblicani facevano finta di essere responsabili dicono che i deficit non sono più positivi, pur oggi che stanno confermando quello che sono sempre stati.

 

 

[1] In questo caso Krugman non ha inserito il suo normale avvertimento per un post “per esperti”. Ma in effetti si tratta di un post complesso, che – spero senza fare sbagli – ho cercato di rendere più comprensibile con qualche nota e con riferimenti a post e note precedenti.

[2] Per una comprensione del modello, si vedano i due post qua pubblicati il 14 marzo 2014, che comprende anche la traduzione del post del 9 ottobre 2011 (“IS-LMentary”, ovvero “Lo IS-LM spiegato in modo semplice).

[3] Si può intendere per “spostare la curva IS” un intervento di stimolazione della spesa pubblica, che in pratica trasferisce la curva IS più verso destra, ovvero verso una produzione e occupazione maggiore.

[4]  La connessione è con un post del 20 agosto 2013 e scopro che purtroppo non è qua tradotto. Il “territorio delle miniere di carbone” era comunque un riferimento ad un noto passo di Keynes, nel quale egli spiegava che nelle circostanze eccezionali di una trappola di liquidità sarebbe stato positivo anche nascondere dei soldi in miniere di carbone e fare in modo che la gente li trovasse e utilizzasse. In pratica, una versione del successivo quasi-paradosso del ‘lancio dei soldi dall’elicottero’. Gli ‘alieni’ erano una ulteriore esemplificazione di un paradosso del genere coniata da Krugman, ovvero l’invenzione di una guerra stellare che avrebbe costretto a spendere soldi per nulla.

[5] Il “quit rate” è il tasso che mostra la propensione volontaria degli americani a lasciare il loro posto di lavoro per cercarne altri. Dunque paradossalmente è un indicatore non di debolezza, ma di forza dell’economia, che non va ovviamente confuso con il tasso delle dimissioni non volontarie, o dei licenziamenti. Indica una condizione di maggiore sicurezza ed ottimismo dei lavoratori e, non a caso, quel tasso crollò dopo la crisi nell’anno 2009.

 

 

 

 

 

Macroipocrisia (dal blog di Krugman, 6 gennaio 2017)

gennaio 8, 2017

 

JAN 6 3:23 PM

 

Macrohypocrisy

 

Paul Waldman has a righteous rant on Congressional Republicans, who posed as the hawkiest of deficit hawks as long as a Democrat was in the White House, but are now fine with huge debt increases under Trump. But really, is anyone except the fiscal scolds surprised? The fraudulence and flim-flam of GOP deficit poseurs was obvious all along.

What is true is that the GOP flip-flop – flim-flam-flop? – is especially noteworthy because of the macroeconomic timing. Deficits were the ultimate evil when the economy was depressed, monetary policy was stymied by the zero lower bound, and we really needed fiscal expansion. Now deficits are fine at precisely the moment when the economy seems to be fairly close to full employment, the Fed is starting to hike rates, and the case for fiscal expansion, while not completely absent, is fairly subtle, resting mainly on the precautionary motive.

But will Republicans pay a price for their hypocrisy? Probably not: my guess is that professional centrists will move the center, as they always do, to declare both parties equally at fault, while the news media will continue to canonize Paul Ryan, who looks Very Serious as he instantly abandons all his supposed principles.

And meanwhile I and other Keynesians are getting mail accusing us of being the hypocrites: “You were for deficits when Obama was in, now they’re bad!”

But as I just said, the situation has changed.

Nobody knows precisely how close we are to full employment; we have very little reason to trust estimates of the NAIRU, if such a thing even exists at low inflation rates. However, some unambiguous indicators of labor market tightness clearly show an economy looking much more like its pre-crisis self than it did a few years ago. As the figure shows, wages are finally rising at a reasonable clip, and quit rates are more or less normal, suggesting that jobs are relatively easy to find.

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I’d be a lot more comfortable about the state of affairs if we had more-or-less full employment along with an interest rate well clear of the ZLB, so that the Fed had evident room to cut in the next recession; the fact that we don’t is why I still think modest fiscal stimulus is appropriate, and so is monetary forbearance until inflation is higher. But it’s nothing like the situation in 2010.

When the macroeconomic situation changes, I change my policy recommendations. What do you do?

 

Macroipocrisia

Paul Waldmann pubblica una legittima invettiva contro i repubblicani del Congresso, che si erano atteggiati come i massimi falchi dei deficit finché c’era un democratico alla Casa Bianca, ma adesso sono d’accordo con ampi incrementi del deficit sotto Trump. Ma davvero, c’è qualcuno, eccetto le Cassandre del deficit, che si sorprende? L’inganno delle fandonie sul deficit del Partito Repubblicano è stato sempre evidente.

Quello che è vero è che il dietro front del Partito repubblicano – un dietro front della fandonia [1]? – è particolarmente notevole a causa della tempistica macroeconomica. I deficit erano l’ultimo dei danni quando l’economia era depressa, la politica monetaria intralciata dal limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse) e avevamo davvero bisogno di una espansione della finanza pubblica. Adesso i deficit vanno bene proprio nel momento nel quale l’economia sembra abbastanza vicina alla piena occupazione, e l’argomento per una espansione della spesa pubblica, sebbene non completamente peregrino, è abbastanza sottile, fondandosi principalmente su una motivazione di tipo precauzionale.

Ma i repubblicani pagheranno un prezzo per la loro ipocrisia? Probabilmente no: la mia impressione è che i centristi di professione si sposteranno verso il centro, come fanno sempre, per dichiarare che la colpa è di entrambi i partiti, mentre i media dell’informazione continueranno a canonizzare Paul Ryan, che appare Molto Serio nel momento in cui abbandono all’istante i suoi presunti principi.

E nel frattempo, io come altri Keynesiani stiamo ricevendo mail che ci accusano di essere degli ipocriti: “Eravate per il deficit quando Obama era in carica, ora sono negativi!”

Ma come ho appena detto, la situazione è cambiata.

Nessuno sa con precisione quanto si sia effettivamente vicini alla piena occupazione; abbiamo davvero poca ragione di fidarci delle stime del NAIRU [2], se una cosa del genere persino esista a bassi tassi di inflazione. Tuttavia, alcuni indicatori non ambigui sulla compattezza del mercato del lavoro mostrano un’economia che assomiglia molto di più alla sua condizione pre-crisi di quello che non pareva pochi anni fa. Come mostra il diagramma, i salari stanno crescendo finalmente ad una velocità ragionevole, e i tassi delle dimissioni volontarie dal lavoro sono più o meno normali, il che indica che i posti di lavoro sono relativamente facili da trovare.

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Sarei molto più a mio agio sulla condizione dell’economia se avessimo più o meno una piena occupazione assieme ad un tasso di interesse ben distante dal limite inferiore dello zero, in modo tale che la Fed avesse spazio per fare tagli in una prossima recessione; il fatto che non l’abbiamo spiega perché penso ancora che un modesto stimolo di spesa pubblica sia appropriato, e lo stesso vale per una pazienza con lo strumento monetario sinché l’inflazione non sia più alta. Ma la situazione è molto diversa dal 2010.

Quando la situazione macroeconomica cambia, io cambio le mie raccomandazioni sulla politica. Voi che fate?

 

 

[1] Intraducibile gioco di parole tra le espressioni inglesi “flim-flam” (“fandonia”) e “flip-flop” (“dietro-front”).

[2]  A proposito del significato dell’acronimo NAIRU (che sta per “Non-accelerating inflation rate of unemployment” e vuol dire: ‘Tasso di disoccupazione al quale non si ha accelerazione dell’inflazione’) si veda alle Note sulla Traduzione, la voce Curva di Phillips, cenni di storia, deflazione, NAIRU e attualità”.

 

 

 

 

 

Tariffe e bilancia commerciale (per esperti) (aggiornato) (dal blog di Krugman, 27 dicembre 2016)

dicembre 30, 2016

 

Tariffs and the Trade Balance (Wonkish) (Updated)

 DECEMBER 27, 2016 11:08 AM 

Before the election, I wrote that I intended to spend the time after in an orgy of serious policy analysis – because I thought we were going to have a president serious about policy. Sad! And in some ways it’s hard to stay motivated about economic analysis when we’re in fact going to have a government that is completely uninterested in analysis, evidence, or truth of any kind.

Still, I’m going to be doing some policy analysis anyway. Partly it’s personal therapy, a temporary break from the political nightmare and a return to the pursuits of my younger years. But it’s also relevant: power may have no interest in reality, but the rest of us still have an interest in knowing how things will work.

So today’s Chautauqua is about how protectionism, Trump style, will affect the trade deficit.

Actually, start with proposals for something like a U.S. VAT, which would include taxes on imports and rebates on exports. There is widespread confusion about what a VAT does to trade. No, it isn’t like a combination of an import tariff and an export subsidy; it’s like a sales tax, and to a first approximation it doesn’t affect trade at all.

To see why, think about competition between domestically-produced and foreign-produced goods in two markets: at home and abroad. How does the VAT or VAT-like tax affect competition in each market?

Not at all. In the foreign market, domestic firms pay no tax on their sales, because the VAT is rebated; neither do foreign firms. In the domestic market, foreign firms pay the VAT-rate tariff, and domestic firms pay the VAT. So the playing field is level in the domestic markets as well.

In short, a VAT isn’t a protectionist policy; it shouldn’t even lead to a change in the exchange rate.

What about straight tariffs? Here things get a bit more complicated.

The starting point for a simple analysis of trade balances is the accounting identity,

Current account + Capital account = 0

where the current account is the trade balance broadly defined to include services and income from investments. The standard story then runs as follows: the capital account is determined by international differences in savings and investment opportunities, with capital inflows to countries that offer good returns. The real exchange rate then adjusts to ensure that the trade balance offsets these desired capital flows.

In this simple story, a tariff shouldn’t lead to a lower trade deficit, as long as capital still wants to come here; it will just lead to a stronger dollar, making U.S. products less competitive. Imports will still be lower, but so will exports: you end up with the same trade balance, but with less trade.

But this story is a bit too simple, because reduced openness to trade should also inhibit capital flows.

To see why, first consider a reductio ad absurdum. Imagine that we discover a civilization on Alpha Centauri, too far away for any trade in physical goods or meaningful services. Would terrestrial investors nonetheless want to buy Centauri assets? No – even if they earned a return, how would they bring it back to Earth?

Clearly, then, capital flows do depend on the potential for trade in goods and services. But how does this work when we’re talking about restricted openness, not complete autarky?

Think of it this way: when investors put funds into a country, they do so in the expectation that somebody will eventually extract real goods and services from that country and send them abroad. Put another way, trade deficits are always a temporary phenomenon, to be followed eventually by surpluses, and vice versa.

Consider the case of Japan, which used to run large trade surpluses. It still runs a surplus on current account, thanks to income on its overseas investments, but these days it runs a significant deficit on goods trade (shown in the figure as a percentage of GDP).

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But how does a country make its eventual transition from trade deficit to trade surplus? Other things equal, via a depreciation in its real exchange rate. And this eventual depreciation reduces the return to foreign investors who buy domestic assets.

The question then becomes, how big a depreciation is necessary? And the answer to that question depends on how open the economy is. If the trade balance needs to increase by, say, 5 percent of GDP, this will take a much bigger depreciation if initial exports are only 5 percent of GDP than if they start at 40 percent of GDP.

So protectionism should inhibit capital flows. It reduces trade flows; this means that larger real exchange rate movements are necessary to accommodate swings in the capital account; and these exchange rate movements themselves reduce the return to international investment.

By the way, this argument applies a fortiori to temporary trade policies. A Trump tariff that people expect to see rescinded by a future sane president would drive the dollar up temporarily, but the prospect of future depreciation would inhibit investments in the U.S..

Now, all of this is a subtler channel than the crude notion that foreigners are taking advantage by selling more to us than they buy, and tariffs will fix that. Dollar appreciation would undermine some of the effects of unilateral tariffs, and definitely hurt exports. But a more protectionist world would in general have lower capital flows as well as less trade; and the U.S., as a recipient of capital inflows, would therefore end up with a lower trade deficit.

An update (which nobody will read, but what the heck): I knew that something like my figure was out there in the literature; I tracked it down to Dornbusch 1975. Rudi’s version was more elaborate (with the axes reversed :

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What I did can be interpreted as the special case with a linear PPF. And if you have no idea what I’m talking about, congratulations.

 

Tariffe e bilancia commerciale (per esperti) (aggiornato)

Prima delle elezioni, scrissi che dopo di esse avevo voglia di spendere il tempo in un’orgia di serie analisi strategiche [1] – perché pensavo che fossimo destinati ad avere un presidente serio sulle strategie di governo. È deprimente! E in vari sensi è difficile restare motivati sull’analisi economica quando nei fatti andiamo verso un Governo che è completamente non interessato alle analisi, alle prove, o a qualsiasi genere di verità.

Eppure, mi accingo a fare qualche analisi di carattere programmatico. In parte si tratta di una terapia personale, una interruzione momentanea dall’incubo della politica e un ritorno alle occupazioni dei miei anni più giovani. Ma è anche rilevante: il potere può non avere alcun interesse alla realtà, ma tutti noi altri abbiamo ancora un interesse nel conoscere come le cose andranno.

Dunque, l’educazione per gli adulti [2] di oggi riguarda come il protezionismo, nella forma di Trump, influenzerà il deficit commerciale.

Partiamo concretamente con le proposte di qualcosa di simile ad una Imposta sul Valore Aggiunto statunitense, che includerebbe le tasse sulle importazioni e gli sconti fiscali sulle esportazioni. C’è una confusione generale su ciò che l’IVA provoca al commercio. Non si tratta di una combinazione di una tariffa all’importazione e di un sussidio all’esportazione; ¸è qualcosa di simile ad una tassa sulle vendite, e ad una prima approssimazione non influenza per nulla il commercio.

Per capire perché, si pensi alla competizione tra beni prodotti all’interno e da stranieri su due mercati: il mercato interno e quello estero. In che modo l’IVA o una tassa come l’IVA influenza la competizione in ciascun mercato?

In nessun modo. Nel mercato estero, le imprese nazionali non pagano alcuna tassa sulle loro vendite, perché l’IVA viene scontata; neppure pagano le imprese straniere. Nel mercato interno, le imprese straniere pagano la tariffa dell’aliquota IVA, e le imprese nazionali pagano l’IVA. Dunque la competizione è alla pari anche nei mercati interni.

In breve, l’IVA non è una politica protezionistica; essa non dovrebbe neppure portare a modifiche nel tasso di cambio.

Che dire di tariffe dirette? Qua le cose sono un po’ più complicate.

Il punto di partenza per una analisi semplice degli equilibri commerciali è l’identità contabile:

Conto corrente + Conto capitale = 0

dove il conto corrente è la bilancia commerciale in senso ampio, così definita per includere i servizi e il reddito dagli investimenti. La spiegazione normale poi prosegue nel modo seguente: il conto capitale è determinato dalle differenze internazionali nei risparmi e nelle opportunità di investimento, con flussi di capitali verso i paesi che offrono buoni rendimenti. Il tasso reale di cambio poi opera le correzioni per assicurare cha la bilancia commerciale compensi questi flussi attesi dei capitali.

In questa spiegazione semplice, una tariffa non dovrebbe portare ad un deficit commerciale più basso, finché il capitale ha ancora intenzione di arrivare qua da noi; essa porterà soltanto ad un dollaro più forte, rendendo i prodotti statunitensi meno competitivi. Le importazioni saranno ancora più basse, ma altrettanto le esportazioni: si finirebbe con la stessa bilancia commerciale, ma con minore commercio.

Ma questo racconto è troppo semplice, perché una ridotta apertura al commercio dovrebbe anche inibire i flussi dei capitali.

Per comprendere come, si consideri anzitutto una reductio ad absurdum. Si immagini che si scopra una civiltà su Alpha Centauri, troppo lontana per un qualsiasi commercio in prodotti materiali o in servizi significativi. Gli imprenditori terrestri nondimeno vorrebbero acquistare asset su Centauri? No – anche se essi avessero un rendimento, come mai potrebbero riportarlo sulla Terra?

Chiaramente, dunque, i flussi dei capitali dipendono davvero dal potenziale per il commercio in beni e servizi. Ma come funziona tutto questo quando stiamo parlando di una apertura ristretta, non di una completa autarchia?

Si pensi in questo modo: quando gli investitori mettono finanziamenti in un paese, lo fanno nell’aspettativa che qualcuno alla fine estrarrà reali beni e servizi da quel paese per spedirli all’estero. Dicendolo in altro modo, i deficit commerciali sono sempre un fenomeno temporaneo, che alla fine viene seguito da surplus, o vice versa.

Si consideri il caso del Giappone, che era solito amministrare ampi surplus commerciali. Esso gestisce ancora un surplus sul conto corrente, grazie al reddito dei suoi investimenti all’estero, ma di questi tempi esso ha un deficit significativo sul commercio dei beni (mostrato nella tabella come percentuale del PIL).

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Ma un paese come realizza la sua finale transizione dal deficit commerciale al surplus commerciale? A parità delle altre condizioni, attraverso una svalutazione nel suo tasso di cambio reale. E questa finale svalutazione riduce i rendimenti per gli investitori stranieri che acquistano asset domestici.

La domanda, dunque, diventa: quanto è necessario che una svalutazione sia grande? E la risposta a tale domanda dipende da quanto un’economia è aperta. Se la bilancia commerciale ha bisogno, diciamo, di crescere del 5 per cento del PIL, questo comporterà una svalutazione molto più grande se le esportazioni iniziali sono soltanto il 5 per cento del PIL, anziché partire dal 40 per cento del PIL.

Dunque, il protezionismo dovrebbe inibire i flussi dei capitali. Esso riduce i flussi commerciali: questo comporta che sono necessari movimenti più ampi del tasso di cambio reale per contenere le oscillazioni nel conto capitale; questi stessi movimenti del tasso di cambio riducono i rendimenti dell’investimento internazionale.

Per inciso, questo argomento si applica per maggior ragione per politiche commerciali temporanee. Una tariffa di Trump che la gente si aspetta di veder rescissa di un futuro Presidente sano di mente porterà temporaneamente il dollaro in alto, ma la prospettiva di una futura svalutazione inibirà gli investimenti negli Stati Uniti.

Ora, tutto questo è una modalità più sottile che non il rozzo concetto secondo il quale gli stranieri stanno avvantaggiandosi vendendoci di più di quello che comprano, e che le tariffe lo correggeranno. La rivalutazione del dollaro metterebbe a repentaglio alcuni degli effetti delle tariffe unilaterali, e certamente colpirebbe le esportazioni. Ma un mondo più protezionista avrebbe in generale flussi più bassi di capitali come minori commerci; e gli Stati Uniti, in quanto ricevitori dei flussi dei capitali, di conseguenza si ritroverebbero con un deficit commerciale più basso.

Un aggiornamento (che nessuno leggerà, ma che diavolo …): sapevo che qualcosa di simile alla mia figura era in circolazione in letteratura; l’ho rintracciata in Dornbusch 1975. La versione di Rudi era più elaborata (con gli assi invertiti):

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Quello che ho fatto io [3] può essere interpretato come un caso speciale di un limite lineare della possibilità di produzione. Se non avete idea di quello di cui sto parlando, buon per voi!

 

 

 

[1] Il termine “policy” non è così ovvio come sembra, né spesso i dizionari aiutano. Cambridge Dictionary offre una spiegazione utile quando lo definisce come “un complesso di idee o un programma su ciò che si deve fare, che è stato concordato in modo ufficiale da un gruppo di persone, una organizzazione di imprese, un Governo o un Partito politico”. Dunque si tratta di politica, ma non della politica che attiene ai rapporti tra gruppi e partiti, alle strategie di potere individuali o collettive in senso stretto; piuttosto della politica strettamente connessa con le cose da fare e con la linea politica-programmatica. “Politics”, invece, significa ‘politica’ (sostantivo, giacché “politic” come aggettivo significa soprattutto “diplomatico”, o anche “equilibrato, saggio”), ma soprattutto sul versante dei comportamenti dei protagonisti, o più in generale dei convincimenti, del ‘credo politico’ dei vari soggetti. Dunque: linea politica o strategia politica sono soluzioni giuste, purché correlate con i programmi, con l’analisi delle situazioni reali e con le relative proposte. Per questo, ad esempio, tulle le politiche settoriali (quella sanitaria, quella fiscale, quella della finanza pubblica o monetaria, quella energetica, etc.) si esprimono con il termine “policy” (health policy, tax policy, fiscal policy o monetary policy, energy policy).

In ultima analisi, in italiano non esistono due versioni del termine “politica” che separino così chiaramente i due campi. Si deve risolvere il problema connettendo nel modo migliore “policy” ai programmi e “politics” ai ‘rapporti politici’.

È anche interessante notare come l’espressione “policymaker” si porti dietro una problematica simile. Non sarebbe corretto e sarebbe in ogni caso generico tradurlo con “uomo/operatore politico”, perché non si riferisce a chiunque operi sul teatro della politica, ma soprattutto a chi opera sul terreno delle gestioni concrete, dei programmi. È dunque un termine spesso inidoneo a definire un generico diffusore di idee e di comportamenti politici. Al contrario, spesso nel linguaggio economico allude alle autorità, soprattutto alle autorità monetarie.

[2] Chautauqua era in nome di un movimento di educazione degli adulti, molto popolare negli Stati Unti sulla fine del diciannovesimo secolo e gli inizi del ventesimo. Il termine derivava dal Lago Chautauqua, nello Stato di New York, dove si tenne una prima assemblea del movimento. Le assemblee si diffusero in tutta l’America rurale, sino alla metà degli anni ’20. Il movimento diffondeva spettacoli e cultura nell’intera comunità, con presentatori, insegnanti, musicisti, intrattenitori, predicatori e specialisti di varie discipline. Il Presidente Theodore Roosevelt lo definì la “cosa più americana in America”. (informazione da Wikipedia)

[3] Suppongo che si riferisca alla sua tabella presentata nel post precedente (“Analitica dei deficit commerciali e dell’occupazione manifatturiera” del 26 dicembre). In effetti, questo post è una versione ampliata, complicata e corretta degli stessi temi del post precedente.

 

 

 

 

 

 

 

Analitica dei deficit commerciali e dell’occupazione manifatturiera (per molto esperti) (dal blog di Krugman, 26 dicembre 2016)

dicembre 30, 2016

 

DEC 26 12:26 PM 

Analytics of Trade Deficits and Manufacturing Employment (Very Wonkish)

 

Serious critiques of one’s work can be thought-provoking, even when they mostly miss the point. So it is with this recent critique of my trade-and-jobs analysis by Tim Worstall. Worstall seems strangely unable to grasp that what EPI, Dean Baker, and yours truly are doing isn’t an analysis of the effects of trade deficits on overall employment, and even suggests that we are engaged in some kind of fallacy when asserting that trade deficits reduce manufacturing jobs. Hello — we’re talking about the sectoral mix of employment, about having fewer manufacturing and more service jobs.

Still, the critique inspired me to get a bit more formal about the analytics, and there is a small clarification I think I should make.

So here’s how I think about it (which is actually a fairly standard trade model approach): approximate the economy as consisting of two sectors, traded and nontraded, with traded goods being basically manufacturing. Assume full employment for the sake of argument; then production is always on the production possibility frontier, which is the downward-sloping line in the figure.

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With balanced trade, production = consumption (plus investment, but lump them together); that’s point A. When the economy runs a trade deficit, however financed, consumption lies outside the PPF, at a point like B; this point normally involves moving out an expansion path along which consumption of both nontraded and traded goods rises. However, the increase in nontraded consumption must be met out of domestic production, which means that traded production falls.

So a trade deficit in manufacturing does correspond to a fall in manufacturing production.

Now, one slight twist is that because a trade deficit also corresponds to a rise in overall spending, part of that trade deficit reflects increased consumption of manufactures rather than reduced production; you can see this in the figure, where the fall in traded production is smaller than the deficit. Quantitatively, however, this effect should be fairly small, since value-added in manufacturing is less than 12 percent of GDP.

Bottom line: yes, trade deficits reduce manufacturing production and jobs. They played a significant although far from dominant role in manufacturing job losses after 2000.

 

Analitica dei deficit commerciali e dell’occupazione manifatturiera (per molto esperti)

Le critiche serie di un lavoro possono stimolare il pensiero, anche quando in buona parte ad esse sfugge la sostanza. È così nel caso della critica da parte di Tim Worstall [1] della mia recente analisi su commercio e i posti di lavoro. Stranamente Worstall sembra sia incapace di afferrare che l’analisi che l’Economic Policy Institute, Dean Baker e il sottoscritto stanno facendo non è un’analisi degli effetti dei deficit commerciali sull’occupazione complessiva, ed arriva a suggerire che saremmo caduti in una specie di equivoco asserendo che i deficit commerciali riducono i posti di lavoro manifatturieri. Tanti saluti – noi stiamo parlando del mix settoriale dell’occupazione, dell’avere minori posti di lavoro manifatturieri e maggiori posti di lavoro nei servizi.

Eppure, la critica mi ha sollecitato a raggiungere una analitica un po’ più formale, e c’è una piccola chiarificazione che penso dovrei avanzare.

Ecco dunque come io ragiono su questo tema (che effettivamente è un approccio abbastanza comune al modello del commercio): ci si riferisce in generale all’economia come consistente in due settori, quello che è oggetto di commerci (internazionali) e quello che non lo è, con i prodotti destinati al commercio che sono fondamentalmente manifatturieri. Per ipotesi si assumono condizioni di piena occupazione; inoltre la produzione è sempre entro il limite della possibilità di produzione [2], il che è rappresentato dalla linea che nella figura inclina verso il basso.

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Questo è il punto A, nel caso di un commercio in equilibrio, di una produzione eguale ai consumi (più gli investimenti, ma teniamoli assieme). Quando l’economia gestisce un deficit commerciale, pur tuttavia finanziato, i consumi si collocano fuori del limite della possibilità di produzione, nella figura rappresentato col punto B; questo punto normalmente comporta lo spostarsi del percorso di espansione, lungo il quale cresce il consumo sia dei beni commerciati che di quelli non commerciati. Tuttavia l’incremento dei consumi non commerciati può collocarsi fuori della produzione interna, il che comporta che la produzione commerciata diminuisce.

Dunque, un deficit commerciale nel settore manifatturiero corrisponde davvero ad una caduta della produzione manifatturiera.

Ora, una leggera distorsione si determina perché il deficit commerciale corrisponde anche ad una crescita della spesa complessiva, parte di quel deficit commerciale riflette un incremento di consumi delle manifatture anziché una produzione ridotta: lo potete vedere nella figura, dove la caduta nella produzione dei beni per il commercio è più piccola del deficit [3].  Quantitativamente, tuttavia, questo effetto dovrebbe essere abbastanza modesto, dal momento che il valore aggiunto nel settore manifatturiero è inferiore al 12 per cento del PIL.

Morale della favola: è vero, i deficit commerciali riducono la produzione manifatturiera e i posti di lavoro (in quel settore). Essi giocano un ruolo significativo, sebbene non dominante, nella perdita dei posti di lavoro manifatturieri dopo il 2000.

 

 

[1] Tim Worstall è un giornalista americano che ha scritto un breve post su Forbes, avanzando critiche sul breve studio di Krugman, qua tradotto con il titolo: “Commercio ed occupazione manifatturiera: nessuna reale divergenza”, 4 dicembre 2016.

[2] Per “production-possibility frontier” si dovrebbe intendere un grafico che mostra le differenti quantità di due beni che un’economia potrebbe efficientemente produrre con limitate risorse produttive.

Successivamente è indicato nel testo inglese con l’acronimo PPF.

[3] Nella figura, l’entità della riduzione della produzione di beni per il commercio è indicata dalla parentesi graffa in basso, che come si vede è inferiore all’entità del deficit commerciale indicato dalla parentesi graffa in corrispondenza del punto B.

 

 

 

 

Lo shock cinese e quello di Trump (25 dicembre 2016)

dicembre 29, 2016

 

DEC 25 11:39 AM

 

The China Shock and the Trump Shock

 

Yes, it’s Christmas Day. Bah Humbug. Also, the family won’t get here for a few hours, and I wanted to put something out as background for tomorrow’s column.

So, I’m thinking about the Trump trade war, which is looking increasingly likely — especially because U.S. trade law gives the White House remarkable leeway to go protectionist without legislative action. That wasn’t the law’s intent; but do you think this guy will care?

What happens if the protectionist-in-chief goes ahead and does it, as I suspect he will?

Claims that there would be huge net job losses are extremely dubious. But what would happen would be a global trade war, which would disrupt the existing economic structure, which is built on elaborate international supply chains.

In the long run, a new structure with shorter chains would be built. But in the meantime, some industries, some factories, would end up becoming sudden losers — in the US as well as in developing countries.

The lesson I took from the widely cited Autor, Dorn, and Hanson paper on the China shock was that Ricardo and Heckscher-Ohlin were less relevant to the political economy of trade than the sheer pace of change, which disrupted local manufacturing concentrations and the communities they supported. The point is that a protectionist turn, reversing the trade growth that has already happened, would be the same kind of shock given where we are now. It’s like the old joke about the motorist who runs over a pedestrian, then tries to undo the damage by backing up — and runs over the victim a second time.

That is, I’d argue, the way to think about the coming Trump shock. You can’t really turn the clock back a quarter-century; but even trying can produce exactly the kind of rapid, disruptive shifts in production that fed blue-collar anger going into this election.

 

Lo shock cinese e quello di Trump

 

Sì, oggi è Natale. Bah, fandonie [1]. Tra l’altro, la famiglia non arriverà prima di qualche ora, e io volevo buttar giù qualcosa come sfondo all’articolo di domani.

Dunque, sto ragionando della guerra commerciale di Trump – che appare sempre più probabile – in particolare considerando che la legge commerciale degli Stati Uniti dà alla Casa Bianca una libertà rilevante di iniziativa per passare al protezionismo senza iniziativa legislativa. Non era questo l’intento della legge; ma pensate che questo individuo si impressionerà?

Cosa accade se il ‘protezionista in capo’ va avanti e lo mette in atto, come sospetto che farà?

Gli argomenti secondo i quali ci sarebbero ampie perdite nette di posti di lavoro sono estremamente dubbi. Ma quello che accadrebbe sarebbe una guerra commerciale globale che disarticolerebbe l’esistente struttura economica, che è costruita su elaborate catene internazionali dell’offerta [2].

Nel lungo periodo, sarebbe creata una nuova struttura con catene più piccole. Ma nello stesso tempo, alcune industrie, alcuni stabilimenti finirebbero per divenire all’improvviso i perdenti – negli Stati Uniti come nei paesi in via di sviluppo.

La lezione che ho tratto dall’ampiamente citato saggio di Autor, Dorn e Hanson sullo shock cinese è stata che Ricardo e Heckscher-Ohlin sono stati meno rilevanti per l’economia politica del commercio che il mero ritmo del cambiamento, che ha disarticolato le concentrazioni manifatturiere locali e le comunità che le sostenevano. Il punto è che una svolta protezionista, rovesciando la crescita commerciale che è già avvenuta, sarebbe un colpo della stessa natura, dato il punto in cui siamo adesso. Sarebbe come la vecchia barzelletta dell’automobilista che schiaccia un pedone, e poi cerca di cancellare il danno tornando indietro – e schiacciando la vittima una seconda volta.

Direi che è quello il modo nel quale riflettere sullo shock di Trump in arrivo. In realtà non si può riportare indietro l’orologio di un quarto di secolo; ma anche (solo) provandoci si può produrre esattamente lo stesso genere di rapidi, sconvolgenti spostamenti che ha alimentato la rabbia dei colletti blu che sé è riversata in queste elezioni.

 

 

[1] “Bah, humbug” è l’espressione di Scrooge nel Christmas Carol di Dickens (dunque, sarebbe preferibile scriverlo e tradurlo tra virgolette, giacché è più probabile che sia una citazione dal personaggio dickensiano, che non un diretto giudizio di Krugman sulle festività natalizie.  Anche se mi pare di rammentare un analogo “Bah Humbug” in un post krugmaniano di un Natale passato …).

Si può tradurre con “scempiaggini, fanfaluche, fandonie”, in genere indica una forma di disprezzo per le consuetudini, in specie per quelle che inclinano al consumismo, lo stato d’animo dell’avaro Scrooge all’epoca delle sue festività natalizie, all’inizio del racconto e prima della sua ‘redenzione’.

[2] Vale a dire, con una divisione del lavoro per le molteplici componenti dei prodotti finali, che operano in vari paesi e comportano una complessa struttura di assemblaggi parziali e finali dei prodotti. Il sistema complessivo di produzione ed assemblaggio di tali componenti è quello che si definisce “catena dell’offerta”.

 

 

 

 

Non date la colpa alla macroeconomia (per esperti e trascurabile) (24 dicembre 2016)

dicembre 29, 2016

 

DEC 24 1:51 PM

 

Don’t Blame Macroeconomics (Wonkish And Petty)

Arguing about the state of economics seems like a distinctly secondary concern right now, especially arguing with people I agree with on most things. But Robert Skidelsky’s latest gets one big thing very wrong, and I think it matters for how we approach the general mess we’re in.

Skidelsky argues, quite correctly in my view, that economists have become far too inward-looking; they study models, and forget (or never knew) that these are only sketch maps of the territory, and that you always have to consider the possibility that the map is all wrong — which means that you need to supplement technical training with history, psychology, and just plain looking out there at the real world.

But his prime examples of economics malfeasance are, well, terrible:

Policymakers don’t know what to do. They press the usual (and unusual) levers and nothing happens. Quantitative easing was supposed to bring inflation “back to target.” It didn’t. Fiscal contraction was supposed to restore confidence. It didn’t.

“Supposed to” according to whom? Not basic macroeconomics!

Look, we had a more or less standard model of macroeconomics when interest rates are near zero — IS-LM in some form. This model said and says that (a) monetary policy is ineffective under these conditions (b) fiscal multipliers are positive and large — in particular, fiscal contraction is strongly contractionary. And these predictions have been borne out! Huge monetary expansion didn’t raise inflation; extreme austerity was strongly correlated with severe economic downturns.

In other words, policy had exactly the effects it was “supposed to.”

Now, policymakers chose not to believe this. They chose to believe that monetary policy could do the job absent fiscal support, because for several reasons they refused to use fiscal policy to promote jobs; they chose to believe in the confidence fairy to justify attacks on the welfare state, because that’s what they wanted to do. And yes, some economists gave them cover.

But that’s a very different story from the claim that economics failed to offer useful guidance. On the contrary, it offered extremely useful guidance, which policymakers, for political reasons, chose to ignore.

 

Non date la colpa alla macroeconomia (per esperti e trascurabile)

Discutere sullo stato dell’economia sembra una preoccupazione nettamente secondaria in questo momento, specie se si discuto con persone con le quali concordo sulla maggioranza dei temi. Ma l’ultimo articolo di Robert Skidelsky tocca una grande questione in modo davvero sbagliato, e penso che essa sia importante per come affrontiamo il gran disordine nel quale ci troviamo.

Skidelsky sostiene, abbastanza correttamente secondo me, che gli economisti sono diventati sin troppo introversi; studiano modelli e dimenticano (o non hanno mai saputo) che questi sono soltanto schizzi di una mappa sul territorio, e che si deve sempre considerare che la mappa sia interamente sbagliata – il che significa che c’è bisogno di ulteriore esercizio tecnico con la storia, la psicologia, e di dare semplicemente un’occhiata all’esterno, al mondo vero.

Ma i suoi primi esempi delle malefatte dell’economia sono davvero terribili:

La autorità non sanno cosa fare. Premono le solite leve (anche quelle insolite) e non succede niente. Si pensava che la facilitazione quantitativa riportasse l’inflazione “all’obbiettivo”. Non l’ha fatto. La restrizione della finanza pubblica si pensava ripristinasse la fiducia. Non è successo.”

“Si pensava” da parte di chi? Non dei fondamenti della macroeconomia!

Si badi, abbiamo un modello più o meno convenzionale di macroeconomia, quando i tassi di interesse sono vicini allo zero – in qualche forma, il modello IS-LM. Questo modello afferma e ripete che: a) sotto quelle condizioni, la politica monetaria è inefficace; b) i moltiplicatori della finanza pubblica sono positivi e ampi – in particolare, la restrizione della finanza pubblica ha affetti di forte contrazione. E queste previsioni sono state confermate! Una ampia espansione monetaria non ha elevato l’inflazione; una pesante austerità ha avuto una forte correlazione con gravi declini dell’economia.

In altre parole, la politica ha avuto esattamente gli effetti che si presumeva avesse.

Ora, le autorità politiche hanno scelto di non crederci. Hanno scelto di credere che la politica monetaria avrebbe svolto le sue funzioni senza il sostegno della finanza pubblica, perché per svariate ragioni hanno rifiutato di usare la politica della finanza pubblica per promuovere lavoro; hanno scelto di credere nella fata della fiducia per giustificare gli attacchi allo Stato assistenziale, perché era quello che volevano fare. Ed è vero che alcuni economisti gli hanno dato una copertura.

Ma si tratta di un racconto molto diverso dalla pretesa che l’economia non abbia saputo offrire una guida utile. Al contrario, essa ha offerto una guida molto utile, che le autorità, per ragioni politiche, hanno scelto di ignorare.   

Il populismo della ‘reality TV’ (dal blog di Krugman, 19 dicembre 2016)

dicembre 21, 2016

 

DEC 19 10:37 AM

Reality TV Populism

 

This Washington Post article on Poland — where a right-wing, anti-intellectual, nativist party now rules, and has garnered a lot of public support — is chilling for those of us who worry that Trumpism may really be the end of the road for US democracy. The supporters of Law and Justice clearly looked a lot like Trump’s white working class enthusiasts; so are we headed down the same path?

Well, there’s an important difference — a bit of American exceptionalism, if you like. Europe’s populist parties are actually populist; they pursue policies that really do help workers, as long as those workers are the right color and ethnicity. As someone put it, they’re selling a herrenvolk welfare state. Law and Justice has raised minimum wages and reduced the retirement age; France’s National Front advocates the same things.

Trump, however, is different. He said lots of things on the campaign trail, but his personnel choices indicate that in practice he’s going to be a standard hard-line economic-right Republican. His Congressional allies are revving up to dismantle Obamacare, privatize Medicare, and raise the retirement age. His pick for Labor Secretary is a fast-food tycoon who loathes minimum wage hikes. And his pick for top economic advisor is the king of trickle-down.

So in what sense is Trump a populist? Basically, he plays one on TV — he claims to stand for the common man, disparages elites, trashes political correctness; but it’s all for show. When it comes to substance, he’s pro-elite all the way.

It’s infuriating and dismaying that he managed to get away with this in the election. But that was all big talk. What happens when reality begins to hit? Repealing Obamacare will inflict huge harm on precisely the people who were most enthusiastic Trump supporters — people who somehow believed that their benefits would be left intact. What happens when they realize their mistake?

I wish I were confident in a coming moment of truth. I’m not. Given history, what we can count on is a massive effort to spin the coming working-class devastation as somehow being the fault of liberals, and for all I know it might work. (Think of how Britain’s Tories managed to shift blame for austerity onto Labour’s mythical fiscal irresponsibility.) But there is certainly an opportunity for Democrats coming.

And the indicated political strategy is clear: make Trump and company own all the hardship they’re about to inflict. No cooperation in devising an Obamacare replacement; no votes for Medicare privatization and increasing the retirement age. No bipartisan cover for the end of the TV illusion and the coming of plain old, ugly reality.

 

Il populismo della ‘reality TV’

Questo articolo (in connessione) del Washington Post sulla Polonia – dove adesso governa un partito di destra, ostile agli intellettuali, nativista, che ha attirato un a gran quantità di consensi nell’opinione pubblica – fa venire i brividi a quanti tra di noi si preoccupano che il trumpismo possa davvero essere la fine del percorso democratico degli Stati Uniti. I sostenitori di Legge e Giustizia chiaramente appaiono molto simili ai lavoratori bianchi entusiasti di Trump; siamo dunque indirizzati sulla stessa strada?

Ebbene, c’è una importante differenza – se volete, un aspetto dell’eccezionalismo americano. I partiti populisti dell’Europa sono effettivamente populisti; perseguono politiche realmente favorevoli ai lavoratori, finché quei lavoratori hanno il colore e l’etnia giusta. Come qualcuno dice, sostengono uno Stato assistenziale da razza superiore. Legge e Giustizia ha elevato i minimi salariali ed ha ridotto l’età pensionabile; il Fronte Nazionale Francese sostiene le stesse cose.

Trump, tuttavia, è diverso. Ha detto un sacco di cose nel percorso della campagna elettorale, ma le sue scelte sui collaboratori indicano che in pratica si sta indirizzando sulla linea dura della destra economica repubblicana. I suoi seguaci nel Congresso stanno accelerando per smantellare la riforma sanitaria di Obama, per privatizzare Medicare e per elevare l’età pensionabile. La sua scelta come Segretario al Lavoro è un magnate del fast-food che è indisponibile ad elevare i minimi salariali. E la sua scelta a capo dei consiglieri economici è il re del “trickle-down” [1].

In che senso, dunque, Trump è un populista? Fondamentalmente, lo recita nelle televisioni – sostiene di stare dalla parte della gente comune, scredita le classi dirigenti, fa a pezzi la correttezza politica; ma è tutto spettacolo. Quando si va alla sostanza, è a favore delle élites in tutti i modi.

Con rabbia e con sbigottimento ha cercato di farla franca con tutto questo durante le elezioni. Ma quelli erano discorsi. Che accade quando si comincia a toccare la realtà? Abrogare la legge sull’assistenza di Obama provocherà un gran danno precisamente a coloro che erano i più entusiasti sostenitori di Trump – persone che in qualche modo credevano che i loro benefici sarebbero stati lasciati intatti. Cosa accadrà quando comprenderanno il loro errore?

Vorrei essere fiducioso in un prossimo momento della verità. Non lo sono. Considerati i precedenti, quello su cui possiamo far conto è un massiccio sforzo per interpretare la prossima devastazione della classe lavoratrice, in qualche modo, come responsabilità dei progressisti, e per quello che ne so potrebbe funzionare (si pensi a come i Tories in Inghilterra hanno cercato di spostare la colpa per l’austerità nella mitica irresponsabilità finanziaria del Labour). Ma certamente è in arrivo una opportunità per i democratici.

E la strategia politica raccomandata è chiara: lasciare a Trump e compagnia tutta la difficoltà dei danni che stanno per provocare. Nessuna collaborazione nel concepire una sostituzione alla legge di Obama sulla sanità; nessun voto per la privatizzazione di Medicare e per l’innalzamento dell’età pensionabile. Nessuna copertura bipartisan per la fine dell’illusione televisiva e per l’arrivo della semplice, antica, minacciosa realtà.

 

[1] Ovvero Larry Kudlow, uno dei più accaniti teorizzatori di una politica economica fatta di regali fiscali ai più ricchi, benefici che, secondo quella teoria di epoca reaganiana, dovrebbero poi diffondersi ‘per caduta’ alle classi medie ed ai più disagiati (“trickle down” significa “gocciolare verso il basso”).

 

 

 

 

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